La pedagogia del buonsenso alla scuola Serendipità di Osimo
Di Luigi
[si veda anche: “Serendipità: una scuola-comunità dinamica a Osimo” Intervista di Luigi a Emily Mignanelli e Federico Pierlorenzi, in Malamente #15, settembre 2019]
A Osimo, in provincia di Ancona, abbiamo incontrato una bellissima realtà educativa basata su principi libertari, finora unica nelle Marche, avviata con il progetto sperimentale dell’associazione “Lilliput” per la fascia 0-3 e proseguita con l’apertura, tre anni fa, dell’esperienza di educazione libertaria “Serendipità” rivolta alla fascia prescolare e scolare, corrispondente alla scuola dell’infanzia e primaria. Una scuola che parte dai bambini e dalla loro voglia di esplorare il mondo per aiutarli a realizzare se stessi in libertà. È una risposta di buonsenso al sistema educativo e repressivo tradizionale a cui siamo abituati, ma non è una scuola d’élite come a volte lo sono le scuole alternative private, che siano montessoriane, steineriane o libertarie. Abbiamo intervistato Emily, che per prima si è messa in gioco nello sperimentare le possibilità di questo modello educativo, e Veronica che si è unita a lei per aprire “Serendipità”: due giovani donne con le idee chiare e un entusiasmo trascinante. Alla conversazione si è unita anche Federica, mamma di due bambini di 5 e 8 anni che frequentano la scuola. Speriamo che dalla loro esperienza possa diffondersi un sano contagio anche altrove.
Qual è stato il percorso che vi ha portato dal nido Lilliput alla creazione della scuola Serendipità?
Emily: L’associazione Lilliput è stata aperta sette anni fa ed è nata come un nido sperimentale. Io ero personalmente alla ricerca di qualcosa di diverso per mio figlio, come hanno fatto e stanno facendo tanti genitori, non trovandolo me lo sono creato. Contemporaneamente ero iscritta all’Università e ho poi frequentato il corso di specializzazione Montessori. A un certo punto però ho mandato mio figlio a un altro nido, perché sentivo di non essere in grado di fare la mamma-maestra. È infatti difficile riuscire a scindere i due ruoli e questa sovrapposizione mentalmente mi affaticava. Quindi, diventando anche mamma di un bambino che frequentava un nido tradizionale, ho avuto modo di vederne tutte le criticità e le problematicità.
Grazie ad una serie di circostanze fortunate e al sostegno dell’amministrazione comunale e dell’Ambito territoriale si è creata una situazione che ci ha permesso di aprire con una certa semplicità. E così abbiamo iniziato a mettere in pratica quella che potremmo chiamare la “pedagogia del buon senso”, come diceva Zavalloni. Non è che avessimo qualcuno dall’alto che ci dicesse cosa fare o quali teorie seguire. Io ero giovanissima, Veronica stava ancora studiando, quello che mettevo in pratica era in parte ciò che mi ricordavo della mia infanzia, ma soprattutto quello che mi derivava dall’osservazione quotidiana dei bambini. Facevo delle prove e sulla base dello loro risposte modificavo il percorso. Poi il corso montessoriano mi ha dato una grande mano, soprattutto dal punto di vista della strutturazione dell’ambiente, dei materiali, del saper collocare il bambino in determinate fasi della sua psicologia evolutiva e allora ho iniziato a mettere in pratica questa metodologia, anche se non alla lettera ma sempre in maniera critica. Noi non ci chiamiamo “scuola montessoriana”, seppure usiamo tantissimo il metodo Montessori, perché per come è stata connotata socialmente la scuola montessoriana se ti metti addosso quell’etichetta vieni subito visto in una certa maniera, mentre noi non vogliamo essere viste in nessuna maniera.
Tutto questo per quanto riguarda l’esperienza di Lilliput, che è un tassello fondamentale per arrivare alla scuola Serendipità. Lilliput ci ha dato credibilità sul territorio, fiducia in noi stesse e da parte degli altri e ci ha permesso di creare una rete. Nel momento in cui abbiamo deciso di aprire Serendipità è stato semplice trovare le famiglie, perché le avevamo già tutte. Spesso le scuole di questo tipo hanno inizialmente grosse difficoltà nei rapporti e nella distinzione di ruoli tra genitori e insegnanti. Noi questo problema non lo abbiamo avuto perché i genitori già ci riconoscevano un ruolo educativo, si fidavano ciecamente di quello che facevamo con i bambini e quindi non c’è stato bisogno di dover mettere le cose in chiaro da quel punto di vista. Naturalmente non è stato tutto rose e fiori. Abbiamo avuto anche noi le nostre difficoltà, com’è normale che sia, ma non lo vedo in maniera negativa perché le difficoltà ti spingono a cercare le soluzioni e ti aiutano a trovarle. Nel frattempo Veronica, che aveva studiato fuori, era tornata a Osimo. Ci incontravamo spesso per parlare di questi progetti e piano piano siamo riusciti a realizzarli aprendo, tre anni fa, la scuola Serendipità. Veronica ha portato il discorso specifico della teoria libertaria, che io non avevo mai sentito. Io facevo una pratica pedagogica che non sapevo come si chiamasse, al di là delle affinità col metodo montessoriano.
Prima di aprire una scuola dovevamo però testare se noi stesse, come adulte, saremmo state capaci di stare dentro un discorso di educazione libertaria. A parole è infatti tutto molto bello e semplice ma noi volevamo fare un esperimento sulla nostra pelle e non su quella dei bambini, per vedere se eravamo in grado di sostenere questa emotività e questa gestione del gruppo in libertà. Abbiamo deciso di farlo con un centro estivo. Nel centro estivo non ci sono troppe aspettative da parte degli adulti e i bambini sono molto più liberi di essere, insomma ci è sembrata la situazione ideale per poter sperimentare in pratica. I risultati che abbiamo ottenuto sono andati molto al di sopra di quanto ci aspettassimo, almeno in quei termini. Con un gruppo da 1 a 13 anni, abbiamo visto nei bambini una modalità nuova di stare insieme e siamo riuscite a gestire anche le nostre emozioni. Questa esperienza positiva ci ha dato le certezze che ci servivano per partire con la scuola.
Come avete scelto il nome Serendipità?
Emily: Direi che il nome è arrivato naturalmente… come una serendipità! Il significato, se ne vogliamo trovare uno, si riferisce a quello che noi facciamo con i bambini, che è essenzialmente educazione incidentale, in cui tutto avviene, appunto, per serendipità. Incontriamo delle cose senza averle prefigurate e queste diventano il centro dell’interesse e dell’apprendimento dei bambini. Poi c’è anche un’altra spiegazione, che vuol essere un augurio, una speranza: come per noi questa è stata una serendipità, cioè un qualcosa in cui siamo inciampate e che è diventata il nostro percorso principale di vita, così può succedere quando qualcuno incontra una strada a cui non aveva pensato, ma sbattendoci contro l’approfondisce e trova qualcosa di inaspettato che lo fa stare bene e diventa per lui una fonte di felicità.
Come è strutturata attualmente la scuola? Quanti bambini ospitate e di che età?
Emily: Abbiamo 24 bambini di scuola materna ed elementare, con età che al momento vanno dai tre agli otto anni. La scuola è in una casa di campagna che abbiamo preso in affitto nelle immediate vicinanze di Osimo. Al piano terra stanno principalmente i bambini della materna, al piano superiore c’è una stanza per i bambini in età da scuola elementare, oltre all’atelier. Non c’è suddivisione in classi ma quest’anno abbiamo introdotto un momento della giornata in cui i bambini sono separati in due gruppi di età perché anno dopo anno, con i nuovi ingressi, il gap tra il più piccolo e il più grande sta aumentando e dobbiamo quindi tenere conto dei vari bisogni e delle specificità legate alle diverse età. Quindi per le prime due ore della giornata c’è questa separazione, sia per garantire ai più piccoli uno spazio privato, sia perché anche i più grandi iniziano a chiedere dei momenti da trascorrere solo tra loro. Per il resto della giornata è tutto molto fluido. Ci sono bambini di quattro anni che salgono al piano superiore perché vogliono seguire le lezioni, perché magari hanno sviluppato degli interessi personali, mentre bambini più grandi che scendono al piano terra a giocare perché evidentemente è di quello che hanno bisogno.
Il momento della lezione in aula non è però obbligatorio. Nelle prime due ore i bambini delle “elementari” possono o stare nella stanza al piano superiore dove c’è una proposta didattica o stare nell’atelier a pitturare o fare altro, oppure sul divano a leggere o anche andare fuori in giardino. C’è sempre un maestro anche in giardino, che è un’aula a tutti gli effetti dove loro possono andare in qualsiasi momento.
Veronica: Per quanto riguarda gli adulti, l’organico è abbastanza folto. Siamo tre o quattro educatrici fisse, contemporaneamente presenti, poi ci sono dei maestri di materia che vengono solo a fare alcune lezioni particolari di cui noi non abbiamo competenze. Abbiamo cercato di costruire un gruppo esteso su cui sappiamo di poter contare, coinvolgendo persone che condividono le nostre pratiche e che i bambini conoscono. In questo modo riusciamo a garantire sempre le giuste presenze e un adeguato rapporto tra adulti e bambini.
Quali sono i rapporti con i genitori e qual è il loro ruolo all’interno della scuola?
Emily: Una cosa che abbiamo fin da subito deciso era che nel momento in cui avremmo aperto la scuola avrebbero potuto prenderne parte solo i bambini i cui genitori avessero fatto un percorso. Questo sì obbligatorio. Se qualcuno vuole iscrivere i figli a Serendipità non basta che ci dica di apprezzarne il metodo, ma deve partecipare a una serie di incontri, ogni due settimane per sei mesi. Questo periodo lo riteniamo fondamentale, anzi siamo portate a credere che anche per i genitori un percorso formativo di questo tipo non si possa mai dire concluso.
Veronica: In realtà più che formativo si può dire che sia un percorso destrutturante. Cerchiamo di smontare alcune costruzioni mentali, di insinuare dei dubbi verso pratiche date per scontate che di solito il genitore ha vissuto come bambino educato e che tende a rimettere in circolo come adulto educante. Gli incontri sono quindi anche un po’ provocatori. Ad esempio facciamo fare loro tutto un lavoro come la progettazione dell’ambiente, per poi farli rendere conto che non conoscendo i bambini, come possono progettare l’ambiente più adatto a loro?
Federica: Noi genitori volevamo capire subito come avrebbe funzionato la scuola fin nei minimi particolari, volevamo qualcosa di concreto e quindi ci aspettavamo che ci spiegassero tutto nei dettagli. Cosa avrebbero fatto i bambini, come lo avrebbero fatto ecc. Invece loro ci hanno fatto capire che queste cose venivano dopo, mentre per il momento era importante costruire la “cornice di senso”, senza la quale non saremmo andati da nessuna parte.
Veronica: Per noi è impossibile dire a priori cosa faranno i bambini, non conoscendoli nelle loro individualità. Le cose si concretizzano giorno dopo giorno insieme, l’importante è essere d’accordo sui valori fondamentali, sull’atteggiamento, sull’idea di bambino e di infanzia che abbiamo. Quindi è questo che costruiamo con i genitori e in questi sei mesi di incontri testiamo anche la loro costanza e li alleniamo ad una partecipazione importante. Poi, una volta iscritto il bambino, durante tutto l’anno è richiesto un certo impegno da parte delle famiglie; la loro collaborazione è indispensabile per il buon andamento della scuola.
Vorrei farvi la domanda che probabilmente era quella che si facevano e vi facevano i genitori all’inizio del loro percorso di “decostruzione”: c’è una programmazione annuale della scuola? C’è un piano didattico-formativo che va parallelamente ai programmi ministeriali oppure è del tutto svincolato da questi?
Federica: Il programma ministeriale in realtà è molto semplice, almeno fino alla seconda o terza elementare: si tratta di imparare a leggere, scrivere e saper far di conto. Non è molto più articolato e quindi c’è tempo per fare anche tanto altro.
Emily: E anche per gli anni successivi in realtà si parla più che altro di competenze, non di contenuti specifici, per cui ogni insegnante è abbastanza libero nel declinarli. Ma il fatto è che in questo momento i programmi non sono ministeriali, li fanno piuttosto le case editrici. Il programma degli insegnanti ricalca il programma sviluppato nel libro adottato. In realtà l’unica guida che dovrebbero seguire sono le “Indicazioni nazionali per il curricolo”, che è un testo semplicissimo, lo trovate anche online. Quello che invece noi facciamo è far sì che ogni bambino abbia il suo programma personale, che è basato sul prendere al volo l’interesse su cui egli stesso è inciampato e riuscire a rilanciarlo in maniera esperta. In altre parole: loro incontrano delle cose, quelle cose attirano la loro attenzione, il nostro compito è saper cogliere quell’occasione per dare al bambino delle conoscenze maggiori, ma tutto questo parte facendo leva sul suo interesse. La sua motivazione, non un obbligo imposto dall’esterno, è l’unica spinta per un apprendimento duraturo e significativo. Se noi siamo capaci di cogliere quel momento il bambino impara da solo, noi siamo semplicemente dei ponti tra lui e i materiali che gli permettono di raggiungere determinati apprendimenti o nuove competenze.
Notiamo anche una grande differenza tra i bambini che sono usciti da una scuola pubblica e chi nella scuola pubblica non ha mai messo piede. Quest’ultimi arrivano a quattro o cinque anni che scrivono, leggono, vogliono stare seduti, non vogliono più andare nel campo perché tutta quella parte l’hanno già fatta. Mentre i bambini più grandi che escono da una scuola tradizionale hanno bisogno di recuperare tutta una serie di esperienze che non hanno vissuto prima. E infatti in certi momenti della giornata sembrano quasi invertite le età, fino a che arriva un certo punto in cui anche i bambini più grandi – alcuni lo hanno già fatto, altri lo stanno facendo adesso, altri lo faranno – rientrano e dicono “io adesso voglio stare dentro e voglio imparare”.
Dal vostro punto di vista quanta parte e quale valore assegnate all’apprendimento di tipo scolastico all’interno della crescita personale complessiva del bambino?
Veronica: Intanto devo dire che la scuola sta diventando sempre più bella, ci sono tanti materiali nuovi che i bambini apprezzano e soprattutto i più grandi stanno scoprendo il piacere di imparare e di approfondire le loro cose. Gli apprendimenti richiesti, cioè leggere, scrivere e contare vengono inseriti all’interno di miniprogetti. Alla fine dell’anno realizzano un loro progetto conclusivo, che poi riportano sotto forma di libricino fotografico e descrittivo, che può riguardare anche una cosa strana come la casetta sull’albero che ha fatto un bambino o il laghetto che ha fatto un altro. Sono tutti progetti che a prima vista sembra non c’entrino molto con quello che si pensa sia l’apprendimento ma in realtà non è così. Ad esempio per la casetta sull’albero hanno preso le misure, hanno fatto conti, lo hanno descritto in lingua italiana. Il messaggio che cerchiamo di dare è proprio questo: l’apprendimento è importante perché ti permette di compiere dei passi che tu hai deciso di fare, che per te sono importanti.
Inoltre, crediamo molto che legata alla libertà ci sia la responsabilità del proprio percorso. I bambini vengono lasciati liberi di autoformarsi e di determinare il proprio percorso, ben sapendo che ciò comporta una scelta e quindi una responsabilità personale. Chi cresce in questo modo è un bambino che sa scegliere, che sa cosa gli piace e cosa invece no, che ha le competenze per decidere cosa fare e sa dove può migliorare, mentre la scuola di oggi ti lascia in balia degli eventi e spesso chi esce dalle superiori ancora non sa neanche chi è e cosa vuole fare nella vita. Per noi è quindi fondamentale che accanto al saper leggere, scrivere, fare falegnameria e mille altre cose, i bambini sappiano decidere, sappiano regolarsi su se stessi. Lo possiamo intendere come una cura olistica della persona, secondo noi tutto è importante come tasselli della crescita personale.
Federica: Per quanto riguarda l’apprendimento di tipo strettamente scolastico bisogna tenere conto che a Serendipità non si segue il ritmo dell’insegnante o del programma, ma quello del bambino, che può avere bisogno di tempi più lunghi su determinate cose o in determinati momenti della sua crescita. Si possono quindi creare dei divari quando si fanno confronti con l’esterno e questa è una cosa che può mandare in difficoltà i genitori e chi sta vicino al bambino. Ad esempio mio figlio grande, in questo periodo, in un contesto esterno come il catechismo dove si incontra con altri coetanei, non fa a gara per leggere perché sa di farlo in maniera meno sciolta di altri. Lui ha frequentato un anno di scuola tradizionale e quando è capitato di fare un confronto tra le due scuole e io gli ho chiesto quale preferisse mi ha risposto: “non so dirtelo ognuna ha qualcosa, forse ora a Serendipità imparo un po’ di meno e questo mi disturba”. Io: “da chi dipende il fatto che tu possa imparare?”. Lui ha risposto: “da me”. E io: “ok, allora se tu volessi imparare di più a chi ti dovresti rivolgere?”. Lui: “ho capito”. Ha quindi trovato una differenza, ci sono delle cose a Serendipità che lo fanno stare meglio, come giocare, correre, salire sugli alberi, mentre una cosa in questo momento gli sta ponendo una difficoltà. Però la ha bene individuata. Sa cos’è: è che impara meno. Ma ha la consapevolezza che è possibile imparare di più e che non c’è un’impossibilità a soddisfare il suo desiderio, sa che gli strumenti li ha a disposizione e che lui è l’artefice.
Emily: In effetti proprio in quest’ultimo periodo si sta assistendo a una trasformazione nei bambini più grandi. Stanno diventando molto seri, vogliono stare in classe e vogliono studiare. Riescono a stare sui banchi anche quattro o cinque ore ed è una cosa che stupisce se si pensa ai bambini in una scuola pubblica che spesso mal lo sopportano e devono stare fermi per forza. Quando c’è un interesse personale vengono fuori delle capacità di concentrazione altissime.
Una scuola libertaria non vuol dire una scuola priva di regole: come riuscite a “gestire la libertà” dei bambini in un contesto collettivo e le criticità che dal punto di vista della convivenza quotidiana possono sorgere?
Emily: Ci sono delle regole che sono date arbitrariamente da noi. Quando i bambini vengono a tavola chiediamo loro di apparecchiarsi, di preparare la tovaglietta, di lavare le mani, se tutto questo qualcuno non lo fa oppure arriva quando abbiamo finito non mangia. Da questo punto di vista esiste un’asimmetria: siamo tutti sullo stesso piano come dignità, ma non come ruoli. Noi siamo pur sempre gli adulti e loro sono pur sempre i bambini, noi abbiamo delle linee guida che dobbiamo dare, che in realtà sono minime perché non è che ci siano chissà quali regole. E poi il fatto che non possano decidere tutto serve anche a loro, perché nel momento in cui i bambini hanno davanti un mondo, un campo gigante di decisioni, vanno in crisi.
Veronica: Forse se non avessimo avuto anche bambini di scuola materna questo discorso sarebbe stato un po’ diverso. Nel senso che ad esempio l’ora del pasto l’avremmo potuta stabilire in un altro modo, insieme ai bambini più grandi. Ma avendo bambini di soli due o tre anni, dobbiamo tenere conto che per loro è importante avere una routine di base e quella gliela dobbiamo dare.
Emily: Quindi alcune regole, come questa, le abbiamo date noi, altre vengono decise insieme quando sorge la necessità. Quando abbiamo aperto la scuola facevamo un’assemblea tutti i giorni, anche per dare modo ai bambini di entrare dentro questa nuova modalità di gestione della comunità, poi abbiamo iniziato a farla una volta ogni tre giorni, una volta alla settimana e adesso l’assemblea generale si fa saltuariamente. Però tutti i lunedì, che abbiamo scelto come “giornata della natura”, ci si confronta per decidere il posto dove andare. E inoltre tutti i giorni i bambini delle elementari, nelle prime due ore in cui stanno al piano superiore, fanno un piccolo cerchio dove si dicono come stanno e se qualcuno vuole raccontare qualcosa può farlo liberamente. Nei casi in cui dai bambini stessi venga la richiesta di un’assemblea straordinaria dove parlare di determinate questioni, allora tutto si ferma e ci si confronta collettivamente.
Veronica: Se ci sono bambini che vogliono proporre una nuova regola o parlare di un problema si riunisce l’assemblea dove vengono proposte e discusse diverse soluzioni, finché non si trova un accordo tra tutti i partecipanti. Chi non partecipa all’assemblea subisce la decisione: questa cosa per i bambini è molto chiara. Però tutti coloro che vi prendono parte devono essere d’accordo con la soluzione individuata.
Emily: Per quanto riguarda invece eventuali conflittualità che possono sorgere tra bambini, facciamo un grandissimo lavoro di “alfabetizzazione emotiva”. Se c’è un problema cerchiamo di capire cosa sta vivendo il bambino in quel momento e di dare un nome alla sua emozione. Il nostro obiettivo è arrivare a trasmettere ai bambini un lessico emotivo in modo che quando insorgono delle situazioni interiori forti ce le possano comunicare e se le possano comunicare tra loro. La cosa vediamo che funziona.
Veronica: Di certo noi non andiamo a fare i giudici nelle situazioni. Cerchiamo di offrire gli strumenti perché possano risolverle tra loro e accettiamo le soluzioni che propongono. Questa è la cosa forse più difficile in quanto noi adulti abbiamo in testa un senso di giustizia, di equità, per cui ascoltiamo le parti e poi sentenziamo in base a quello che pensiamo. Ma dietro ogni azione di un bambino c’è sempre qualcos’altro, magari un disagio da ascoltare piuttosto che una richiesta non espressa perché mancante appunto di lessico, quindi non si può giudicare una singola azione ma bisogna lavorare sul tutto. E bisogna assolutamente evitare di trasmettere loro l’idea che esista un giustiziere che dice: “tu sei buono, tu sei cattivo”. Il più delle volte i bambini si aiutano nel cercare di risolvere i conflitti da soli senza doverci chiamare e riescono in qualche modo a gestirseli con le loro soluzioni, a volte strampalate, ma che funzionano.
Prima avete accennato all’educazione incidentale, potete fare un esempio pratico di come funzioni, magari raccontando una o più esperienze significative che avete avuto con i bambini della scuola?
Veronica: Uno tra i tanti episodi da raccontare è successo durante il primo anno di apertura della scuola. I bambini erano ancora piccoli, all’epoca il più grande aveva cinque anni. Facevamo delle lunghissime passeggiate nei campi e un giorno abbiamo trovato parecchie ossa di animali che li hanno incuriositi e volevano quindi sapere di quali animali fossero. Noi non sappiamo nulla di anatomia animale ma abbiamo portato i bambini in biblioteca (di solito ci andiamo una volta a settimana) e loro hanno chiesto alla bibliotecaria un libro di anatomia animale. Lei ha risposto che purtroppo non aveva libri di quel tipo per bambini, ma loro hanno insistito dicendo che volevano un libro vero di anatomia animale, non uno per bambini, pur nessuno sapendo leggere. Quindi abbiamo preso un tomone che loro hanno sfogliato per delle ore finché sono riusciti a trovare l’esatto disegno degli ossicini che avevano. Erano ossa di gatto. Vedere dei bambini di scuola materna che passano ore davanti a un grosso libro universitario è una cosa inaspettata. Tutte le cose che nascono dalla passione personale non hanno limiti.
Questo è solo un esempio, un altro può essere quando abbiamo trovato nei campi un proiettile della seconda guerra mondiale, nel nostro blog trovate il racconto di questa scoperta e di quello che ne è seguito.
Emily: Un giorno un bambino, che solitamente non ha grande interesse a stare a lezione, è arrivato a scuola con l’idea di voler studiare i buchi neri. Abbiamo quindi preso un’enciclopedia e ci siamo messi a fare questo studio, poi si sono avvicinati anche tutti gli altri e così abbiamo fatto una ricerca insieme, costruendo un minilibro. Il bambino ha ricopiato i disegni e il giorno dopo ha continuato, ha aperto diverse enciclopedie, ha fatto un super lavoro trovando tutti argomenti che si collegavano tra loro a partire dai buchi neri. Vederlo muoversi quasi come un piccolo scienziato ci ha riempito di gioia. Ha imparato molte cose e le ha riprodotte, cioè le ha trasportate in un lavoro suo e così facendo è riuscito a immagazzinare una serie di informazioni esperte, precise, perché di base c’era il suo interesse. L’importante è che tutto ciò sia nato da lui, da una cosa che ha incontrato nelle sua vita quotidiana e che ha voluto approfondire; se quel giorno avessimo respinto la sua proposta perché “questa cosa non è nel programma e oggi dobbiamo fare quest’altro” avremmo perso quel momento magico.
Veronica: Spesso i bambini ci fanno delle domande a cui noi non sappiamo rispondere e per questo abbiamo tutta una serie di libri, enciclopedie, dizionari che ci permettono insieme di esplorare e approfondire. Capita spesso nella scuola tradizionale che la conoscenza venga identificata con l’insegnante, mentre noi siamo ben felici di dire che una cosa non la conosciamo, ma possiamo far vedere ai bambini come e dove andarla a studiare. Noi diamo gli strumenti e mostriamo come si possono apprendere delle cose. Ad esempio tantissime cose sulla natura, come riconoscere le piante, i fiori, le erbe, noi le abbiamo imparate in questi anni, sollecitate dai bambini; loro ormai in questo sono bravissimi.
Come siete inserite nella realtà locale di Osimo e dintorni? Cioè, in che modo viene vista dall’esterno la vostra scuola, almeno per quello che potete percepirne voi stesse? In provincia di Ancona, penso a Castelfidardo e altri paesi qui vicini, le esperienze di scuole montessoriane sono abbastanza avanzate, quindi immagino ci sia un tessuto sociale ricettivo rispetto alla vostra proposta, o sbaglio?
Emily: Non credere che dove ci siano scuole Montessori ci sia maggiore sensibilità, in realtà molte di queste scuole sono montessoriane di nome ma non di fatto. Le scuole oggi sono diventate come aziende, hanno bisogno di fare numeri e hanno capito che mettendo quell’etichetta gli iscritti aumentano. I dirigenti troppo spesso pensano più a fare i conti della scuola che alla qualità della stessa. Noi di bambini ne abbiamo tanti e abbiamo una lista d’attesa molto lunga, questo è significativo, vuol dire che il nostro lavoro viene apprezzato. Ci sono addirittura famiglie che abitano lontano e si vogliono trasferire qui proprio per iscrivere i loro figli a Serendipità. Penso che con il territorio ci voglia però ancora del tempo per un lavoro di conoscenza reciproca.
La scuola pubblica statale fatta di programmi da seguire, organizzazione gerarchica, nozioni da imparare ecc., secondo voi è riformabile oppure è tutta da buttare e la soluzione va trovata al di fuori di questa?
Emily: Io sono nelle graduatorie per la scuola ma non ho aggiornato la mia posizione con la laurea perché temevo il momento in cui mi avrebbero proposto una cattedra stabile. Mi arrivano proposte di cattedre annuali e comunque rifiutarle è una scelta importante perché sarebbe un lavoro garantito, più tranquillo e meglio pagato, però non mi sentirei a posto con la coscienza. Io non voglio scendere a compromessi soprattutto se si tratta di questioni etiche, morali, e per stare dentro la scuola pubblica dovrei mandare giù dei rospi belli grossi. Accetto invece di fare delle supplenze, quando sono compatibili e non tolgono nulla al mio lavoro a Serendipità.
Se sia possibile trasformare la scuola statale, secondo me in questo momento la risposta è no. Bisogna intanto condurre un lavoro su più fronti. A partire da dentro le scuole per sensibilizzare gli insegnanti. Si possono forse prevenire i danni anche con una sensibilizzazione durante il percorso formativo degli insegnanti, nelle università. E soprattutto dobbiamo dimostrare che un’altra strada è possibile. Se io sette anni fa fossi entrata nella scuola pubblica, nonostante avessi avuto le mie idee mi avrebbero trasformato nel giro di poco tempo, perché non avevo ancora la sicurezza che mi ha dato l’esperienza. Adesso quando entro nelle scuole per fare le supplenze mi rapporto con gli insegnanti in una maniera molto diversa, perché conosco bene quello di cui sto parlando, lo vedo quotidianamente nei bambini e quando loro si sentono parlare con questa sicurezza, quando si fanno loro vedere le cose in un’altra ottica, crollano.
Dovremmo fare in modo che le scuole come Serendipità diventino la norma, diventino la scuola pubblica. Voglio essere fiduciosa ma il processo è lungo, ci vogliono tante scuole che comincino a mettere in pratica determinati principi e ne dimostrino la validità. Io non penso solo ai ventiquattro bambini della mia scuola, a difendere il mio orticello, ma cerco di guardare la questione educativa con un’ottica più ampia e mi auguro che lo faccia qualsiasi persona che fa questo lavoro.
Per concludere devo farvi una domanda classica, che probabilmente vi aspettate. Nelle scuole libertarie non si corre forse il rischio di formare bambini “disadattati” al mondo esterno? Io dico questo con un’accezione positiva, non negativa. Cioè bambini abituati a seguire le proprie inclinazioni, a non sottostare a regole non condivise, insomma abituati alla libertà ma non abituati a questa società così com’è, con la quale dovranno presto fare i conti.
Emily: La risposta altrettanto classica è: non eravamo forse dei disadattati anche noi stando all’interno della scuola pubblica? E comunque non è vero che siano dei disadattati. Anzi, notiamo che i nostri bambini dimostrano delle competenze sociali molto più alte rispetto alla media. Quando d’estate accogliamo altri bambini per i centri estivi li troviamo spesso fragilissimi, sia emotivamente che socialmente, funzionano solo nel momento in cui vengono comandati mentre crollano quando si apre davanti a loro uno spiraglio di libertà. I nostri bambini riescono a gestire la libertà che hanno e sanno bene come comportarsi quando sono in contesti diversi dalla loro scuola.
Veronica: E poi non li possiamo educare alla bruttezza del mondo, dobbiamo educarli alla bellezza. Una volta che la vorranno scegliere, ce la sapranno riportare.
Ho letto con interesse l’intervista in quanto docente e coinvolta in un processo di aziendalizzazione e burocraticizzazione della comunità scolastica che con la legge 107 sembra ormai irreversibile, nonostante lotte, scioperi, leggi di iniziativa popolare e raccolta firme per referendum abrogativi. L’esperienza di una scuola libertaria è comunque una risposta politica concreta e creativa che riporta il bambino ad una centralità pedagogica, restituisce la libertà di insegnamento e rinnova la didattica. Mi sono ripromessa quindi di visitarla alla prima occasione e di confrontarmi con le organizzatrici su alcune questioni che mi sembrano fondamentali e imprescindibili.
Ho conosciuto le esperienze delle comunità libertarie catalane e della scuola libertaria inglese di Summerhill. La scuola libertaria catalana mi ha convinto di più in quanto cerca di intervenire sulla dicotomia tra privato e pubblico e sul modello economico liberista e capitalista che l’alimenta; la seconda, pur utilizzando metodi montessoriani, resta una scuola elitaria e di censo, infatti solo i figli delle famiglie che possono permettersi la retta, possono frequentarla e accederanno ad un percorso libertario che gli garantirà una realizzazione sociale e professionale. La scuola deve essere e rimanere pubblica, aperta a tutti e dare l’opportunità, a tutti, di un percorso formativo, anche a chi non può pagare una retta. La scelta è una scuola non statale, ma di comunità, dove lo sviluppo psico-pedagogico del bambino si intreccia ai bisogni economici, politici e culturali della comunità umana. Una scuola di comunità deve innestarsi sul capovolgimento del modello economico che usa la scuola per formare l’uomo consumatore e produttore. Utopia?