Alcune questioni preliminari molto pratiche
Di Jacques Philipponneau
Il 5 giugno 1999, José Bové, René Riesel e Dominique Soullier nel corso di una campagna contro l’ingegneria genetica, sabotavano i lavori sugli Organismi geneticamente modificati (OGM) effettuati al Centro di cooperazione internazionale in ricerca agronomica per lo sviluppo (CIRAD) di Montpellier. L’intera questione del sabotaggio e del successivo processo è stata letta e affrontata da due prospettive contrastanti: mentre da un lato c’è stato chi ne ha fatto un esempio mediatico di battaglia popolare (“cittadinista”) volta a richiedere maggiore trasparenza, partecipazione, tutela statale e, in definitiva, a raggiungere una pacificante cogestione delle nocività presenti e future, dall’altro lato Riesel ha cercato di affermare la lotta contro gli OGM come una tappa nella costruzione di un’opposizione veramente radicale alla società dominante. A partire da questa vicenda, Philipponneau ha proposto alcune questioni preliminari che potessero fornire una base minima di discussione all’interno del Comitato di sostegno a René Riesel. Si tratta, come dice l’autore, di “banalità di base” utili da riaffermare “per non ricadere in quel continuo riproporre questioni che finge di riscoprire eternamente dei fondamenti critici già chiari da lungo tempo”.
Il quadro della situazione contemporanea non pare dei più felici e la riflessione di Philipponneau non fa sconti. Infatti, dopo l’ultimo assalto al cielo del Sessantotto e delle lotte sociali del decennio successivo, sembra che le nuove generazioni manifestino una crescente difficoltà anche solo a immaginare quella che una volta veniva chiamata “rivoluzione sociale”. Per volare più basso, sarebbe già qualcosa avere una visione lucida dei falsi bisogni generati dalla società industriale, più che dalle necessità della vita. E porre in discussione le coordinate di base di questa società, stadio attuale del capitalismo, con tutti i suoi veleni e le sue devastazioni ambientali e sociali, per cominciare a chiedersi, intanto, in quale mondo desideriamo vivere e come sia una vita degna di essere vissuta, fuori dalla scolarizzazione istituzionale, dal lavoro, dall’economia mercantile e dalla politica dei palazzi, sperimentando le vie per metterla in pratica qui e ora. Soprattutto, è necessario mantenere vivi e aggiornati gli strumenti critici che ci potranno far affrontare quelle eventuali crisi rivoluzionarie che speriamo allietino il prossimo futuro, anche se al momento non ci è dato intravedere da quale scintilla potranno originarsi.
D’altra parte, il fatto che la rivoluzione non sia ineluttabile non è un buon motivo per scoraggiarsi: “diciamolo chiaramente – scrivono Bertrand Louart e Fabien Palisse – per noi la rivoluzione potrebbe anche non avere luogo, ed è il fatto stesso di guardare in faccia e prendere freddamente in considerazione questa eventualità che sta alla base della nostra attuale riflessione e della nostra attività. La questione, d’altra parte, non è di sapere se la rivoluzione avrà luogo o no, mentre noi ci siamo ancora o no, ma piuttosto di sapere come, con le nostre modeste forze e nelle circostanze attuali particolarmente sfavorevoli, possiamo operare per fare in modo di mantenere vivi e restituire una certa popolarità ai valori legati al progetto di emancipazione individuale e sociale. Quella che motiva la nostra attività in questo senso, non è dunque la certezza che la rivoluzione arriverà un giorno, quanto la nostra adesione ai valori che fondano il progetto rivoluzionario. E abbiamo la presunzione di credere che possiamo tentare di cominciare a vivere secondo questi valori qui e ora, che è anche il principale mezzo per mantenerli vivi, cioè attraverso la loro sperimentazione pratica, e così trasmetterli, esplicitarli, rinnovarli e assicurare loro una certa diffusione” (Bertrand Louart e Fabien Palisse, À propos de quelques grognements et aboiements…, luglio 2001).
Nel tratteggiare la situazione disastrosa del testo presente, Philipponneau lascia comunque aperti degli spiragli di fiducia. Individualmente e collettivamente non sono ancora del tutto chiuse le possibilità di riprendere in mano il senso del proprio stare al mondo. Certo, se si vuol tentare di annodare i fili di una diversa organizzazione sociale, che rispetti le relazioni tra i viventi e i loro territori e non corra a capofitto verso la catastrofe, sarà indispensabile far propria una critica radicale di questo mondo, senza impantanarsi nelle sabbie mobili di quel cittadinismo interessato a partecipare allo sviluppo più o meno sostenibile alternando conflitto e collaborazione con le istituzioni. Non tutto, quindi, è perduto, sebbene a distanza di quindici anni dalla stesura di questo testo non ci sembra siano stati fatti grossi passi in avanti. Eppure, come ha scritto Riesel, “constatare che la guerra è totale e che le nostre posizioni sono fragili non significa dipingere il quadro a tinte fosche. Non sembra possibile scurirlo più di coloro che non hanno nient’altro da offrirci che la ristrutturazione delle rovine” (René Riesel, “Sulla zattera della Medusa”, Torino, Quattrocentoquindici, 2004, p. 11).
Le note al testo sono nostre.
1) Abbiamo globalmente assistito, da trent’anni a questa parte, a una regressione (qualitativa e quantitativa) della contestazione dei fondamenti di questa società?
2) Lo sviluppo e l’estensione della società di massa non hanno compromesso sempre più le condizioni materiali di elaborazione di una coscienza critica che non fosse rudimentale né spettatrice?
3) Se si pensa che l’esistenza di comunità pre- o anti-capitalistiche (oppure pre- o anti-industriali) sia la condizione sine qua non della costituzione e dello sviluppo durevole di una coscienza critica attiva, ma d’altra parte si constata ogni giorno la loro evanescenza o il loro sradicamento, fare come se questo processo potesse ribaltarsi rapidamente non è forse indicatore di una speranza slegata dalla realtà o di una routine militante; cioè, di una forma o l’altra di pigrizia intellettuale?
4) Possiamo sperare, ammettendo tutto questo, che la degradazione delle condizioni di vita sociale e biologiche a livello planetario e l’incapacità manifesta della società industriale a risolvere i problemi che ha creato possano produrre a breve termine una coscienza critica diffusa che colga un giorno l’occasione di esprimersi tanto improvvisamente quanto radicalmente?
5) Questa ipotesi (che si basa sul precedente del Maggio ’68 francese) che presuppone in proporzioni variabili il mantenimento astorico di una coscienza di classe nelle masse atomizzate, una permanenza della “soggettività radicale” in individui profondamente alienati o una tendenza eterna dell’umanità a ricercare la libertà, non è anch’essa una forma di consolazione senza prospettive?
6) In cosa l’esperienza delle diverse opposizioni agli OGM nel corso di questi quattro ultimi anni fa luce sulle questioni precedenti?[1]
7) In breve, se si condividono più o meno queste domande-constatazioni, cosa pensiamo di poter fare delle nostre idee nel prossimo futuro, diciamo nei prossimi dieci anni?
Nessuna forza sociale significativa, opposta ai valori fondamentali di questa società, si è costituita in nessuna parte del mondo dalla fine degli anni Settanta. Questa assenza impedisce alle minoranze realmente ostili al capitalismo, allo Stato e all’alienazione tecno-industriale, di sperare di intervenire in maniera decisiva sull’andamento del mondo in un prossimo futuro.
È certamente la realtà materiale del sistema di bisogni sviluppati dalla società industriale che modella l’insieme dei rapporti sociali, fino a sradicare la possibilità per la coscienza di rimetterli in discussione. Questo sistema di bisogni è congegnato come l’insieme delle produzioni materiali, organizzative e ideologiche necessarie alla riproduzione della società. Non tutte queste dipendono dalle strette necessità della redditività capitalistica ma sono molto più, fondamentalmente, una visione del mondo che si realizza utilizzando i molteplici mezzi di una mega-macchina sociale equipaggiata dalla tecnoscienza: economici, mediatici, amministrativi, militari, polizieschi, etc.
Nel sistema di necessità artificiali in cui viviamo e di sovrasocializzazione[2] che è ad esso legata, le nozioni di libertà individuale e di autonomia collettiva sulle quali si fondavano i progetti di emancipazione sociale sono progressivamente svuotate del loro contenuto e presto diventeranno impensabili. È per questa impossibilità crescente, piuttosto che per la semplice coercizione, che questa società diventa totalitaria.
Ma il risultato a cui tende questa società totale (poiché mondiale e unificata) è che non esista più niente al di fuori di essa. Né realtà, né critica, né parametri di confronto e presto nemmeno più ricordi.
Questo programma di sradicamento dovrebbe designare, a contrario, quello di coloro che coerentemente si oppongono a tale sistema.
Dal momento in cui questa società non conosce più una seria opposizione è entrata in una crisi da cui non uscirà più: la degradazione della natura (in tutte le accezioni del termine, fino all’integrità psico-fisiologica dell’uomo) e la disintegrazione sociale costituiscono, che lo si voglia o meno, la questione universale del nostro tempo.
Se non si sono mai visti movimenti sociali lottare contro delle astrazioni teoriche quanto, piuttosto, contro le condizioni concrete dell’alienazione della loro epoca, è altrettanto vero che non s’è mai vista una significativa trasformazione sociale senza che prima la battaglia delle idee non sia stata persa dai sostenitori della vecchia società. E quindi risulta inconcepibile un mero auto-collasso ideologico del sistema che accompagni quello della sua realtà materiale. Poiché l’abbruttimento individuale e collettivo non ha alcun limite conosciuto e non ci sarà salvezza assicurata dall’apocalisse.
L’esito di una simile battaglia di idee implica che dei valori positivi si siano affermati e che siano stati messi in pratica su larga scala contro i valori precedenti. Ma dobbiamo riconoscere che è in maniera frammentaria e occasionale che quei valori sui quali possiamo fare leva vengono affermati o praticati. Come, ad esempio, quello che consideriamo come il successo, malgrado tutte le sue insufficienze, della lotta contro gli OGM: l’aver messo sulla pubblica piazza questioni come il senso della completa rottura con la natura causata dal progresso tecnico o il ruolo dell’ideologia scientifica nel processo d’asservimento alla società totale.
Ma se anche questi valori non vincessero mai, abbiamo il dovere di assicurare la loro persistenza per il nostro tempo sulla terra, perché è così che amiamo vivere, nonché di trasmetterli ai posteri, come altri lo hanno fatto prima di noi.
Il compito classico di distruggere l’ideologia dominante, i suoi valori e il suo sistema di giustificazione, se è oggi d’attualità, è reso ben più difficile dalla scomparsa dei contesti in cui una coscienza critica attiva poteva trovare le sue condizioni materiali di esistenza.
La gran parte della popolazione dei paesi industrializzati è atomizzata e rimbambita da mezzo secolo di incessanti trasformazioni tecnologiche. Non riesce a reagire alla degradazione reale delle sue condizioni di vita se non domandando allo Stato maggiore protezione, come fanno in maniera apparentemente contraddittoria ma fondamentalmente identica il cittadinismo[3] e l’innegabile deriva verso regimi securitari.
A questa richiesta “politica” soddisfatta dalla cooptazione del cittadisimo, inteso quale coscienza morale volontariamente impotente, e dalla messa in opera pragmatica di un controllo sociale che si sogna assoluto, corrisponde una fuga nel consumo di protesi tecniche o chimiche, palliativi per la scomparsa di ogni vita sociale autonoma e per il crollo della personalità che l’accompagna.
Questo gregge cieco[4] costituisce inoltre la massa di manovra ideale di tutte le manipolazioni che saranno rese necessarie dalle brutali disfunzioni del sistema: crisi economiche o finanziarie, catastrofi industriali, anarchia geopolitica, barbarie sociale generalizzata.
Se è vero che ogni rivoluzione richiede che dal basso la grande maggioranza rifiuti di continuare come prima, spinta dalle necessità della sopravvivenza e dal dinamismo del proprio progetto sociale, mentre in alto non si possa più governare come prima perché i valori del dominio sono moribondi, dobbiamo riconoscere che nessuna di queste condizioni è presente. In altre parole, siamo solamente all’inizio di questa spirale regressiva.
La colonizzazione operata dalla società industriale sulla vita quotidiana non è una figura retorica ma una realtà travolgente ed è proprio perché si è totalmente realizzata che adesso merita pienamente il suo nome. Ed è proprio l’incarcerazione nei rapporti sociali necessari a questo sistema di bisogni che produce, attraverso il sentimento d’impotenza e la totale dipendenza che questa comporta, la passività pratica e intellettuale dei nostri contemporanei.
Se si accettano questi bisogni e la loro soddisfazione, non si ha alcuna ragione di ricusare questa società, che ne è la forma appropriata così come la loro matrice. Tutt’al più si può domandare allo Stato o alle istanze sovrastatali una produzione più responsabile e una redistribuzione più equa. Per chi si considera per sempre legato a un tale mondo, senza speranza di uscirne, è tutto assolutamente legittimo. Ecco la fonte di tutte le forme di cittadinismo, che rende vane le recriminazioni contro questo moderantismo[5] e inadeguate le accuse di recupero da parte del sistema.
Chi guarda queste realtà con sguardo freddo non può che rabbrividire di fronte alla fragilità della causa della libertà e convincersi che è innanzitutto in lui stesso, nella sua vita individuale e in una realizzazione collettiva, qui e ora, che può fondarla.
Voler uscire dagli attuali rapporti sociali senza demolire questo sistema di bisogni non ha alcun senso, né teoricamente né praticamente. Vale a dire che un’opposizione efficace a questa società non avrà concretezza che quando un numero sufficiente di persone avranno rotto, nella misura del possibile, intellettualmente e materialmente con i suoi valori e le sue false necessità: la questione sociale non è mai stata altra cosa che quella del senso della vita.
È sulla critica di questa vita mutilata che può farsi la distinzione tra coloro che accettano i suoi valori fondamentali (mercificazione, tecnificazione, meccanizzazione, isolamento tecnico, gusto del simulacro, fuga nella rappresentazione, etc.) e coloro che li respingono. Dalla formazione o meno di questa linea di demarcazione dipenderà la nascita di un nuovo progetto di emancipazione oppure l’immersione in una barbarie inedita.
Tuttavia, l’ideologia del progresso tecnico, la mercificazione di ogni rapporto sociale, l’industrializzazione della totalità dell’esistenza cominciano ad essere rimesse in discussione, dopo un lungo occultamento, anche al di fuori del ristretto ambito sopravvissuto dai movimenti radicali degli anni Sessanta e Settanta. Non sorprende che in un primo tempo questa critica sia parziale, riformista, piena di illusioni, tutto dipende da cosa diventerà nei prossimi anni. Ed è qui, naturalmente, che il lavoro critico propriamente teorico conserva tutto il suo classico ruolo di motore, stimolo e denuncia della pseudo-critica.
D’altra parte, se parlare di un progetto di emancipazione sociale ha ancora un senso, vuol dire che la necessità di tirarsi fuori dall’insieme crescente di costrizioni tecniche e sociali prodotte dalla società industriale, non si riduce a un seducente progetto intellettuale ma può diventare un bisogno sociale di massa.
Sappiamo almeno che lo è in senso negativo. Sotto una forma ormai patologica, il bisogno non reprimibile di fuggire dalla materialità della vita quotidiana attraverso le realtà virtuali, le droghe e i disturbi psicologici relega la ricerca compulsiva del divertimento e il turismo di massa al rango di inoffensive nevrosi della nascente società dello spettacolo.
È questa specie di scommessa che siamo costretti a fare che ci tiene lontani da ogni forma di gauchismo rifatto, che recita incessantemente le stesse verità morte, poiché inutilizzabili, sul capitalismo, la globalizzazione, l’egemonia americana o il pericolo fascista. Realtà o fantasmi che restano in ogni modo fuori dalla portata della magia della parola e della vuota indignazione.
Al contrario, se la lotta di questi ultimi anni contro l’ingegneria genetica ha avuto una tale risonanza, è stata una tale boccata d’aria fresca, è perché si è manifestata laddove non la si attendeva, su un terreno molto concreto, con un obiettivo realistico. Perché è stata innescata da dei protagonisti più o meno oscuri ma che nel corso di questi anni di riflusso avevano saputo costruire basi solide per la loro autonomia materiale e intellettuale. E perché, infine, malgrado la confusione seminata in maniera più o meno interessata da un cittadinismo che si andava ancora definendo, sono due concezioni della vita, in tutti i sensi, che hanno conosciuto lì il loro primo scontro. È in queste schermaglie che le idee diventano pratiche, si affinano e si diffondono.
La società industriale compiuta appare tutto tranne che stabile, costretta dalle sue necessità interne a sconvolgere senza sosta le condizioni di vita, non può che aprire in maniera imprevedibile delle occasioni di conflitto, dovute a esiti fuori controllo o a minacce tangibili su quello che resta di stabile in un mondo divenuto ostile.
Si può dire che è sul cambiamento che si indirizza il potenziale conflitto sociale della nostra epoca, ma è innanzitutto insorgendo contro tutti i cambiamenti imposti dalla società attuale, portatori di degrado e riduzione della condizione umana, che si può prendere coscienza dei bisogni essenziali per una vita degna di questo nome.
In certe circostanze estreme, il progetto di reinventare la vita si semplifica considerevolmente. In Cabilia o in Argentina[6], per cause molto diverse, intere popolazioni sono state costrette a riprendere in mano le condizioni della loro esistenza, la prima delle quali è il dialogo sociale senza mediazioni e la capacità di ritrovare forme di organizzazione non gerarchiche. Quello che diventeranno simili tentativi getterà luce su una questione fondamentale della nostra epoca: la capacità dell’umanità, plasmata all’incoscienza storica e all’irresponsabilità sociale, di riprendere in mano il proprio destino.
Simili problemi, su questa scala, non sembrano doversi porre in un prossimo futuro nelle necropoli dell’alienazione che sono diventati i paesi industriali europei. La combinazione di una piramide demografica che propende decisamente verso il silenzio dei cimiteri, come dimostrazione genetica dell’assenza di futuro, l’effetto della divisione mondiale del lavoro che allontana dagli occhi il suo lato concreto, sporco e conflittuale, la fabbrica, e la disintegrazione sociale delle vecchie classi pericolose, tutto fa pensare che i prossimi importanti conflitti non si svolgeranno qui. A meno che non si condividano i pronostici di umoristi radicali secondo i quali l’alienazione assoluta provoca immancabilmente una rivolta assoluta e che attendono dunque la realizzazione dell’arte e della filosofia nelle piazze delle periferie, da loro non frequentate.
La resistenza in queste condizioni deve prepararsi a durare e poiché ha poco da aspettarsi da questa società, essa deve tendere a conservare laddove possibile e a ricreare laddove non ci sono più le condizioni di una secessione attiva.
Quali saranno le sue forme è troppo presto per dirlo visto che malgrado qualche tentativo si tratta, per ora, più di una necessità, sebbene abbastanza condivisa, che di una realtà. Si può solamente dire quali non saranno: militanti o comunitarie sul modello degli anni Settanta. Se si possono trovare nel passato delle forme di resistenza offensiva più realistiche è piuttosto verso i circoli di pensiero del XVIII e XIX secolo, le associazioni di mutuo soccorso, le riappropriazioni individuali o collettive di saperi dimenticati o di forme di collettività più organiche, agricole o artigianali, che bisogna guardare.
Ad ogni modo, se questa tendenza si conferma, è soprattutto il lato sperimentale più che i riferimenti storici, la necessità più che l’astrazione di un progetto epocale a lungo termine, che saranno i motori della fondazione durevole di un arcipelago di oasi nella società in decadenza.
Il lato felicemente imprevedibile della storia dirà allora se tutto questo sarà servito solamente a preservare delle forme residuali di umanità o se si sarà trattato di uno dei trampolini provvisori necessari a una ripresa del processo di umanizzazione interrotto brevemente dall’industrializzazione del mondo.
Jacques Philipponneau, membro della rivista «Encyclopédie des Nuisances». Maggio 2002.
[1] Sul sabotaggio al CIRAD e, più in generale, sulla lotta all’agricoltura transgenica e le sue opposizioni si veda René Riesel, Sulla zattera della Medusa. Il conflitto sugli OGM in Francia, [Torino], Quattrocentoquindici, 2004.
[2] Sovrasocializzazione: “Gli psicologi usano il termine socializzazione per designare il processo con il quale i bambini sono addestrati a pensare e agire come la società richiede. Si dice che una persona sia ben socializzata se crede e obbedisce al codice morale della sua società e se vi si inserisce bene come parte funzionante di essa. […] Alcune persone sono così altamente socializzate che il tentativo di pensare, sentire e agire moralmente impone loro un pesante aggravio. Per evitare sensazioni di colpa devono continuamente illudersi sulle proprie motivazioni e trovare spiegazioni morali per sentimenti e azioni che in realtà non hanno una origine morale. Noi usiamo il termine sovrasocializzato per descrivere tali persone”. Théodore Kaczinsky, Il manifesto di Unabomber. La società industriale e il suo futuro, Roma, Stampa alternativa, 1997, p. 17 [punti 24 e 25].
[3] Cittadinismo: Il termine cittadinismo, di derivazione francese, “indica un movimento composto da un vasto e multiforme arcipelago di associazioni, sindacati, collettivi, organi di stampa e correnti politiche, il cui scopo è battersi per il ripristino della «democrazia tradita». Il fatto che il nostro pianeta si trovi allo stremo, dal punto di vista sociale, politico, economico ed ecologico, oggi non è un mistero per nessuno. La causa di questa situazione viene fatta risalire dai cittadinisti al mancato rispetto della «volontà popolare» la quale – una volta caduta nelle mani di politici assetati solo di potere in combutta con affaristi avidi solo di profitto – si ritroverebbe disattesa, manipolata, rinnegata. Nemici di quei politici e di quegli affaristi (più che del sistema sociale di cui costoro sono espressione), i cittadinisti sono persuasi che la democrazia – nella sua forma più genuina, più rustica – sia effettivamente il migliore dei mondi possibili e che sia possibile migliorare e moralizzare il capitalismo e lo Stato, opponendosi con efficacia alle loro più palesi nocività ed abusi. A due condizioni però: che questa democrazia si esprima attraverso una rinata politica che abbia come modello più l’Atene di Pericle che la Firenze di Machiavelli, ovvero con una maggiore partecipazione diretta dei cittadini, i quali non solo devono eleggere i loro rappresentanti ma devono altresì agire costantemente per fare pressione su di essi affinché applichino davvero ciò per cui sono stati eletti. Questa pressione può venire esercitata nelle maniere più disparate, senza escludere quegli atti di «disobbedienza civica» che tanto fiele fanno sbavare ai reazionari più beceri e tanta ammirazione suscitano all’interno del movimento. […] Sentendosi trascurati, i cittadinisti si vedono costretti a scendere in piazza per difendere i propri «diritti». Le loro lotte hanno sempre obiettivi precisi, si limitano a dire un secco NO a un determinato progetto statale che mette in pericolo la propria salute, senza minimamente voler mettere in discussione l’organizzazione sociale che l’ha prodotto. Le istanze radicali, le tensioni sovversive, non li riguardano minimamente.”. Individui o cittadini?, «Machete», n. 1, gen. 2008, p. 6.
[4] Nel testo originale: troupeau aveugle, dal titolo del libro di fantascienza di John Brunner, Le troupeau aveugle (1972), tradotto in italiano: Il gregge alza la testa (Milano, Nord, 1975).
[5] Moderantismo: posizione dei moderati, termine introdotto durante la Rivoluzione francese.
[6] Sull’insurrezione in Cabilia (regione dell’Algeria) del 2001-2002 si vedano: Groupe Communiste Internationaliste, Ulach smah! Nessun perdono! Notizie dall’insubordinazione algerina, Porfido, Torino, 2002 e Jaime Semprun, Apologia per l’insurrezione algerina, Alcuni amici italiani degli Aarch, Bologna, 2002. Sulle rivolte nell’Argentina travolta dalla crisi economica si veda: Raccolta di materiale sull’Argentina: dicembre 2001-gennaio 2002, [S.l., s.n., 2002].
Le maschere in foto sono realizzate da Fa Maschere
www.facebook.com/famaschere
Serie fotografica di Laura Rapone