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La fine di un mondo non è la fine di tutto (#8)

La fine di un mondo non è la fine di tutto
Intervista a Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro.
Di Andrea Cavalletti

Il Brasile è la terra del futuro, scriveva nel 1939 Stefan Zweig. Con minore ottimismo, Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro suggeriscono che è piuttosto il futuro della Terra, fatto di inquinamento, di problemi migratori e povertà, ad assomigliare al Brasile. Lei è una filosofa (specialista di Leibniz), lui, teorico del «multinaturalismo» e del «prospettivismo amerindo», è uno degli antropologi oggi più noti e influenti. Entrambi libertari, impegnati sul fronte ambientalista, vivono e insegnano a Rio de Janeiro. Abbiamo avuto la fortuna di incontrarli a Bologna dove hanno presentato il loro Esiste un mondo a venire? Sag­gio sulle paure della fine, recentemente tradotto da Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri per i tipi di Nottetempo. Questo libro tanto apprezzato da Bruno Latour è certo uno dei più intelligenti che siano apparsi negli ultimi tempi. Spaziando dalla fantascienza alla mitologia degli amerindi, dalle nostre visioni apocalittiche (i film di Lars von Trier o Béla Tarr e Ágnes Hranitzky, il romanzo La strada di Cormac McCarthy) ai sogni degli sciamani, dispiegando un apparato teorico che va dal «principio disperazione» di Günther Anders al sociomorfismo universale di Gabriel Tarde, Danowski e Viveiros de Castro affrontano il tema più attuale e impegnativo che vi sia, gettando una luce inedita su ciò che Paul Crutzen ha chiamato Antropocene. Certo, riguardo agli spaventosi mutamenti ambientali prodotti dall’uomo e ormai irreversibili non si fanno illusioni: il nostro è il tempo della fine. Ma la fine di un mondo, del mondo occidentale e capitalista, aggiun­gono, non è la fine di tutto. Lo testimoniano proprio quei popoli amazzonici ai quali tutto è stato sottratto, e che hanno saputo resistere inventando nuovi stili e tecniche raffinate di sopravvivenza. È da un futuro assai prossimo che ci vengono così incontro i «primitivi», mentre il globo reagisce al nostro dominio con la vio­lenza di un gigante impazzito.

Privati del loro mondo e quasi totalmente sterminati dai conquistadores, gli ame­rindi sono riusciti a sopravvivere e – malgrado le continue persecuzioni – a molti­plicarsi. Maestri di diplomazia, sono stati capaci di resistere in condizioni estreme mettendo in atto continue trattative con gli altri esseri, che per loro non sono mai stati «inferiori». Secondo un singolare superamento per eccesso dell’antro­pocentrismo, ogni vivente (appaia ai nostri occhi come uomo o come animale) ha infatti, per gli indios, un’anima umana; più precisamente: ogni essere si vede come un uomo e vede come uomo quello della stessa specie (noi stessi potremmo essere quindi degli animali, e animali certo dobbiamo apparire, per esempio, dal punto di vista dei giaguari, che sono invece uomini l’uno per l’altro). Soprattutto, gli amerindi, che non hanno uno stato e non si riconoscono neanche come un popolo, non concepiscono la politica come un’azione sull’ambiente e quest’ulti­mo come qualcosa con cui la società deve entrare in rapporto in maniera più o meno conflittuale, ma sanno che la vita di ogni singolo è una vera e propria as­sociazione di esseri, e che la politica e la società sono l’ambiente stesso: «pensano che, tra il cielo e la terra, esistano molte più società… di quante ne sognino la nostra antropologia e la nostra filosofia. Ciò che noi chiamiamo ambiente è per loro una società di società, un’arena internazionale, una cosmpoliteia. Non esiste dunque una differenza assoluta di statuto tra società e ambiente, come se la prima fosse il “soggetto” e l’altro l’“oggetto”. Ogni oggetto è sempre un altro soggetto, e sempre più d’uno. L’espressione che si trova comunemente sulla bocca dei giovani militanti di sinistra “tutto è politico” acquista nel caso amerindo una letteralità ra­dicale… che nemmeno il più entusiasta manifestante nelle strade di Copenhagen, Rio o Madrid sarebbe forse preparato ad ammettere».

Così gli indios – suggeriscono Danowki e Viveiros de Castro – possono essere per noi un esempio ispiratore, proprio quando dobbiamo (noi tutti) affrontare una minaccia tanto grave quanto quella della crisi nucleare ma ancora più com­plessa e difficile da definire. Sopravvivere, in queste condizioni, significa resiste­re, abbandonare i nostri abiti nocivi, le nostre attitudini suicide a favore di una forma di vita resistente, e innanzitutto attuare una presa di coscienza: conoscere i fenomeni, temerli, anzi imparare ad averne finalmente tutta la paura che biso­gna averne per averne davvero coscienza. E significa misurare le forze in campo, considerando anche le narrazioni o le prediche spettacolari, i loro effetti e le loro risonanze; tenendo conto, tra le altre cose, dell’ingresso «impattante del Vaticano all’interno del dibattito» o della contemporanea apparizione del Manifesto eco­modernista, «documento capitanato dal Breakthrough Institute e sottoscritto da diverse celebrità pro-capitaliste» ma in effetti non lontano dalla visione altrettan­to apologetica dei leninisti odierni. Oggi alcuni, a sinistra (per es. Nick Srnicek e Alex Williams, autori del Manifesto per una politica accelerazionista, tradotto e diffuso da noi dal sito euronomade), pretendono infatti che per sopravvivere all’Antropocene bisognerebbe «approfittare [sic] di ogni progresso tecnologico e scientifico» del tardo capitalismo, e anzi (anche ricorrendo, contro «l’orizzontalità e l’inclusione di molta sinistra “radicale”», alla «segretezza, alla verticalità e all’e­sclusione») che si dovrebbe «accelerare il processo dell’evoluzione tecnologica» per «liberare le forze produttive latenti» – come se proprio tali «conquiste» non consi­stessero nella riduzione della tecnica a puro apparato di sfruttamento (dell’uomo e insieme della natura), come se l’«evoluzione» fosse un valore indiscutibile, come se «produzione» non significasse distruzione del mondo, e, soprattutto, come se simili argomenti non fossero stati persino ridicolizzati, ormai cinquant’anni fa, proprio dai marxisti più avveduti (come Jean Fallot). Esiste un mondo a venire? dischiude invece una prospettiva del tutto nuova e finalmente rischiaratrice, ci viene insomma davvero in aiuto quando non c’è più tempo e dobbiamo agire.

Gli scienziati ci dicono da tempo che il limite è stato superato. La Terra non si sotto­mette più, anzi si ribella con tutta la sua forza alla follia del nostro dominio. Che cosa possiamo fare, quali scelte ci impone l’Antropocene?

La Terra ha sempre tenuto conto delle azioni umane, ne ha registrato gli effetti, ma non vi si è mai sottomessa, al contrario di quanto hanno creduto i Moderni con la loro ideologia del progresso. Da qualche secolo noi (o meglio: le civiltà che hanno inventato il capitalismo moderno e ne sono a loro volta il prodotto) viviamo come se il mondo, di cui non siamo che una parte, fosse fatto di materia inerte, cioè di risorse infinite da prelevare “gratis”, e di esseri “inferiori” sui quali avremmo ogni diritto, quasi fossero schiavi ridotti al silenzio per servirci. Ogni azione causa però una reazione (che è poi un’azione, dal punto di vista del sog­getto sul quale agiamo). E questa, certo, non è una novità. Del tutto inedita, in­vece, è la scala delle “reazioni”, la cui somma determina il passaggio dall’Olocene all’Antropocene. Siamo così entrati in un mondo del tutto ignoto, non solo alla nostra civiltà ma per certi aspetti all’intera specie homo sapiens. Si tratta di qualco­sa di immane. Si potrebbe anche dire che ci troviamo di fronte a una condizione davvero “sovrannaturale”, ma in un senso nuovo del termine (benché non privo di relazioni con quello antico e religioso).

Dunque, sì, abbiamo superato o stiamo superando quasi tutti i limiti riconosciuti dalle organizzazioni scientifiche internazionali, come quello dell’aumento della temperatura di 1.5°C, a cui richiama l’Accordo di Parigi. Siamo oltre i 350 ppm di CO2 nell’atmosfera, cioè, secondo gli scienziati, in una condizione pericolo­sissima, del tutto incontrollabile (negli ultimi tempi è stata raggiunto il picco di 410 ppm). I ghiacciai dell’Artico sono condannati, e così, verosimilmente, quelli dell’Antartico e della Groenlandia. E ci troviamo nel bel mezzo della sesta grande estinzione di massa nella storia del pianeta.

Che cosa possiamo fare? Intanto, dobbiamo ammettere che nessuno lo sa ve­ramente. Ma in ogni caso dobbiamo agire, in qualsiasi modo, sempre e ancora agire, per rallentare, per fermare la nostra fuga in avanti. E dobbiamo compiere un esercizio mentale, uno sforzo dell’immaginazione, iniziando a in­vertire la freccia del tempo cosiddetto “storico”, che d’altronde non è mai stato un tempo unico per tutta l’umanità e non ha mai marciato in modo rettilineo verso il Regno dei Fini dell’Uomo. In effetti, per quanto riguarda il decorso del tempo “fisico”, cioè la legge dell’entro­pia, sappiamo che il fenomeno della vita è finora riuscito per così dire a ingannarlo, costituendosi come entropia negativa, organizzatrice. Ma pare che “noi”, proprio noi, siamo diventati degli agenti entropici assai efficaci, ossia delle forze dell’anti-vita. E oggi è del tutto chiaro: il nostro “modo di vita” è mortifero.

Malgrado l’evidenza, parliamo però come se tutto fosse a disposizione della nostra volontà sovrana e, paradossalmente, come se non vi fossero altre maniere di vive­re, come se un’uscita dal nostro mondo “moderno” ci gettasse nel puro caos. Ora, dobbiamo sapere che entrambi questi presupposti sono falsi. In primo luogo, infatti, non possiamo fare qualsiasi cosa: vi sono limiti di ogni sorta e ovunque; non possiamo scegliere di conservare ciò che più ci piace e abbandonare il resto. In secondo luogo, la presenza di questi limiti non ci impedisce affatto di vivere, e di vivere in molteplici maniere, in comunione con gli altri viventi.

Allora, iniziando a immaginare la vita sulla Terra (la vita umana ma anche quella extraumana) da qui a, diciamo, cinquant’anni, ci renderemo conto che sarà molto diversa da quella che facciamo oggi, e sarà diversa per tutti noi e comunque, poco importa che l’abbiamo scelto o meno. Dobbiamo iniziare a farci delle domande. Potranno ancora esistere – dobbiamo chiederci – delle autovetture individuali e delle strade che coprono una parte enorme della superficie planetaria? E che ne sarà delle stesse grandi imprese che dominano il mercato? La foresta Amazzonica sarà ancora una foresta o una savana semiarida? I ghiacciai ci saranno ancora? E gli inquinanti negli oceani cosa potranno diventare? Quale sarà la nuova geo-politica mondiale quando le zone desertiche si saranno estese brutalmente? Esisteranno ancora gli stati-nazione? Quanti rifugiati politici e climatici conteremo, e dove saranno? Saremo anche noi, tutti, dei rifugiati? E cosa diventeranno gli indios e le altre collettività extra-moderne? Come saranno distribuite le ultime risorse? E che genere di guerre vi saranno? Ma anche: quali nuove comunità, quali nuovi legami “sovrannaturali” si creeranno? Forse soltanto la fantascienza potrebbe aiutarci a immaginare le possibilità di mondi così diversi e ricchi.

Quello che vogliamo dire, in conclusione, è che l’Antropocene ci imporrà di con­frontarci con molti limiti, sia antichi che nuovi. Ma vogliamo anche suggerire che quando dei mondi finiscono o si chiudono, altri si aprono: ed è in questi ultimi che dobbiamo imparare a “vivere con” – to stay with the trouble, come ha proposto Donna Haraway.

Si direbbe che per voi, come per altri studiosi, l’idea di uno “sviluppo sostenibile” o “durevole” esprima soltanto un pio desiderio, o addirittura una contraddizione in termini.

Sì, è proprio così. A meno che non si ridefinisca lo “sviluppo” nel senso di un cambiamento radicale del modo di vita, o ancor meglio, di uno “sviluppo” delle virtualità umane, o come un repliement che conduca a un “vivere bene” per tutti, compresi i non umani. E poi, soprattutto, l’idea di un “capitalismo duraturo” è ben peggio che un pio desiderio, è un’ipocrisia concettuale.

Voi conoscete e studiate gli indios, e ci fate notare che malgrado le persecuzioni, gli attacchi e le continue distruzioni, sono oggi molto più numerosi di quanto non fossero ai tempi del celebre viaggio di Lévi-Strauss. Che cosa possiamo imparare da loro, a sessant’anni da «Tristi tropici»?

 Da antropologo, Eduardo ha vissuto diversi anni tra gli indigeni amerindi. Questi uomini ci insegnano almeno due cose: in primo luogo, come sopravvivere in un mondo che è stato devastato da una civiltà nemica, convinta di avere il mondo intero (la Terra) ai propri piedi, e dunque un diritto di sovranità su ogni essere vivente – una civiltà che oggi, per ironia della sorte, sta diventando il nemico di se stessa; in secondo luogo, essi ci fanno comprendere concretamente che la terra (e la Terra) non ci appartiene: siamo piuttosto noi ad appartenerle.

Le civiltà amerinde – e quelle altre che non sono ancora spiritualmente sotto­messe al capitalismo (anche se la cosiddetta “sussunzione reale” si rivela un “fatto universale”) – non devono essere considerate in alcun modo un modello. Esse non hanno e non ci offrono delle ricette per il futuro. Costitui­scono invece un esempio, che è qualcosa di molto diverso da un modello. Il modello è co­me l’idea platonica: un ordine normativo che si impone su coloro che non potrebbero che copiarlo, in una maniera co­munque imperfetta. Il modello è un affare da FMI o da Banca mondiale per i paesi “in via di sviluppo”. L’esempio, al con­trario, è qualcosa che ci ispira a fare in modo “diversamente simile” o “similmente diverso”.

Il modello è normativo e verticale, l’esempio orizzontale e rizomatico. Qual è dunque l’esempio che ci offrono gli indios e gli altri popoli tradizionali? Sempli­cemente questo: come vivere, come insistere ad esistere (bisognerebbe scrivere: come resistere) in un mondo che è stato rubato, che è svanito, che è stato distrut­to da una civiltà estranea e incomprensibile. Il paradosso dell’attuale situazione planetaria sta nel fatto che questa civiltà distruttrice, estranea e incomprensibile è la “nostra” stessa civiltà, la pretesa “civiltà globale” – o per dirla tutta, e nei termini di Félix Guattari, il capitalismo mondiale integrato.

Vi avranno però obiettato: il problema è appunto che noi non siamo sullo stesso piano degli amerindi. Noi siamo i colpevoli…

Possiamo iniziare coll’interrogare questo “noi”. Gli statunitensi, i brasiliani, i ci­nesi, sono tutti colpevoli? E anche se lo fossero, avrebbero le stesse colpe degli europei? E che dire delle etnie minoritarie d’Europa? I lapponi sono forse colpe­voli come i francesi? E il contadino alverniate è colpevole come l’azionista Total o Syngenta? Il piccolo proprietario obbligato a piantare degli OGM e a usare i pesticidi tossici ha lo stesso genere di colpa della Monsanto o della Bayer, o dei governi piegati ai diktat di queste corporations sinistre? Gli operai-schiavi che si uccidono nelle fabbriche cinesi di iPhones sono colpevoli come i loro padroni, o come Apple? In ogni caso, se ogni classe, come diceva Hegel, ha i propri traditori, si può anche dire che ogni civiltà ha – deve avere – i suoi. Così gli indios e altri popoli extra-moderni iniziano a trovare alleati anche nei paesi cosiddetti “centra­li”. Basti pensare all’estensione e alla potenza del sostegno di cui hanno goduto il movimento zapatista e i curdi, per rendersi conto che le cose stanno cambiando. Non pochi “colpevoli” sono ormai pronti ad allearsi con gli indios e i loro simili.

 I popoli che non hanno una climatologia e una geofisica sono coscienti dei grandi mutamenti? Li temono? E reagiscono alla paura?

Gli indios, come d’altro canto gli inuit, i piccoli agricoltori del nordest del Bra­sile, o i popoli delle isole dell’Oceania che stanno per essere sommerse, sanno bene che cosa sta accadendo, benché non usino espressioni come “cambiamento climatico”, “riscaldamento globale” ecc. D’altronde citiamo nel nostro capitolo La fine del mondo degli indios questa frase dello sciamano Yanomami Davi Ko­penawa: «I Bianchi non temono, come noi, di essere schiacciati dalla caduta del cielo, ma un giorno avranno paura, forse, quanto noi!». I popoli tradizionali sono insomma molto consapevoli, e hanno molta paura. Il disfacimento o la de-sincro­nizzazione dei ritmi e dei cicli ecologici è ormai la “regola” che mina e sconvolge seriamente le loro pratiche di sussistenza: ad esempio, essi non sanno più quale sia il momento giusto per seminare una certa coltura perché il regime biosemio­tico dell’ambiente è diventato imprevedibile. Quanto al modo in cui reagiscono alla paura, possiamo citare Russell Means, il protagonista della rivolta Sioux di Woundend Knee del 1973: «Gli indiani americani hanno provato a spiegarlo agli europei per secoli. Ma questi sono stati incapaci di ascoltare. L’ordine naturale vincerà, e il suo nemico perirà, come muore il cervo quando offende l’armonia sovrappopolando una regione. Perché accada quel che i bianchi chiamano “una grave catastrofe di proporzioni globali”, è solo questione di tempo. Ma il ruolo dei popoli Indiani, e di tutti gli esseri naturali, è di sopravvivere. La resistenza fa parte della nostra sopravvivenza. Noi non resistiamo per rovesciare un governo o per assumere il potere politico, ma perché resistere allo sterminio, sopravvivere, è naturale. Non vogliamo perciò del potere nelle istituzioni dei bianchi: vogliamo che esse scompaiano».

Negli ultimi tempi si parla molto della paura e dei sentimenti legati al cambia­mento climatico. Alcuni chiamano coloro che sono coscienti della crisi ecologica pessimisti o “catastrofisti”. Altri, e innanzitutto Naomi Klein, spiegano in manie­ra interessante come la paura sia stata trasformata in dottrina di stato, come la Shock and Awe Doctrine paralizzi le popolazioni permettendo ai governi neoliberali di infierire sui più poveri e le classi medie. La nostra posizione è più vicina a quella di filosofi come Günther Anders o Hans Jonas, che credevano nella virtù preventiva della paura. Dobbiamo evi­tare che la paura (come la morte, del resto) venga catturata dalla destra e dalle sue politiche fasciste. Dobbiamo riappropriarci dei sentimenti, per non lasciarli nelle mani di chi sta distruggendo la foresta e gli ecosistemi.

Due anni fa il Papa è intervenuto con l’enciclica «Laudato si’»; poco prima era ap­parso «An Ecomodernist Manifesto». Si tratta di due documenti piuttosto diversi…

Del tutto opposti! Il Manifesto ecomodernista predica “l’avvento di un Antropoce­ne positivo, persino superlativo” per mezzo di soluzioni tecnologiche centralizza­te e pesanti investimenti energetici (fracking idraulico, fissione nucleare, grandi progetti idroelettrici, monoculture transgeniche, geo-ingegneria ambientale ecc.) Afferma che big is beautiful, e che dovremmo produrre ancora di più, innovare, accelerare, e sempre prosperare. Lo dice apertamente, senza dubbi o esitazioni, senza vergogna.

Da un lato, dunque, l’Enciclica propone un “ritorno alla semplicità” contro il consumismo e l’allucinazione della “crescita infinita o illimitata”, fa eco all’allar­me degli scienziati e li prende sul serio ripetendo che in natura tutto ha un valore intrinseco e tutto è collegato; e ci ricorda che dobbiamo porre un freno radica­le a quelle pratiche ecologicamente irresponsabili, che garantiscono dei profitti enormi distruggendo ovunque culture e modi di vita, devastando gli ecosistemi e riempiendo di veleni la “nostra casa comune”. Dall’altro, gli autori del Manifesto se ne escono col curioso concetto di decoupling (il disaccoppianento della crescita dall’impatto ambientale) per cui a un certo punto, a forza di “modernizzare la modernizzazione” (come dice Ulrich Beck) la stessa tecnologia che ci avvelena (l’unica, d’altronde, che riconoscono, cioè quella “di punta”, della Big Science e dei grandi capitali) finirà – non si sa come – per annullare i suoi “effetti collate­rali” e i suoi costi materiali. Sembra così che siano proprio costoro a credere, da buoni cristiani, che dopo l’Apocalisse verrà il Regno.

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