Post-terremoto: percorsi di autocostruzione con le balle di paglia
Di Luigi
La ricostruzione delle zone terremotate, a distanza di un anno dal sisma e nonostante le molte e ripetute promesse delle istituzioni, appare ancora un lontano miraggio. Almeno fino a novembre nelle zone rosse, ovvero i centri storici e gli agglomerati rurali più danneggiati, non si potrà spostare nemmeno una pietra (ordinanza del Commissario straordinario alla ricostruzione, n. 25 del 23 maggio). Le SAE (soluzioni abitative di emergenza), cioè le tanto attese “casette”, arrivano con il contagocce, gli sfollati hanno fatto posto ai turisti estivi negli alberghi della costa e ognuno continua ad arrangiarsi come può per mantenere dignità e vivere sociale. C’è chi parla, a ragione, di “strategia dell’abbandono” per questo tratto di montagna appenninica. Noi abbiamo provato a esplorare l’intrigante anche se non facile strada dell’autocostruzione con balle di paglia, in compagnia dell’architetta ascolana Sara Campanelli la cui intervista trovate nella seconda parte dell’articolo.
Per un abitare non convenzionale
Le sequenze sismiche che nella seconda parte del 2016 hanno colpito le zone appenniniche del centro Italia, oltre alla tragedia dei morti e feriti, hanno distrutto o seriamente lesionato moltissime abitazioni, ponendo i residenti di fronte all’urgenza di trovare un nuovo tetto. Nell’immediato dell’emergenza si dorme in tenda, in roulotte, da amici e parenti lontani, poi si contano i giorni, le settimane e i mesi parcheggiati in qualche alberghetto sulla costa, con la lontana speranza che prima o poi si aprano i cantieri per la ricostruzione. Intanto i più fortunati ricevono un container di latta, torrido in estate e gelido in inverno, che trasforma ogni goccia di pioggia in martellate assordanti, oppure casette temporanee prodotte da qualche ditta aggiudicatrice di qualche appalto al ribasso, che arrivano, come abbiamo visto ad Amatrice, già gonfie di umidità e di mille altri difetti. Oltre a essere impersonali e tristi come la burocrazia che le ha prodotte. Per non parlare del famigerato “modello” dell’Aquila con le sue costosissime C.A.S.E. piazzate nel mezzo del nulla, prive di qualunque identità e i cui abitanti sono e rimangono, per sempre, ospiti.
Anche se ad ogni disastro tutti si affrettano a dire il contrario, sappiamo per esperienza che la ricostruzione calata dall’alto affoga nella lentezza esasperante della burocrazia ed è terreno fertile per speculatori senza scrupoli. Ci chiediamo allora se siano pensabili percorsi immediati di autocostruzione dopo l’emergenza terremoto, nell’attesa che sia possibile ristrutturare le precedenti case o in alternativa ad esse. Senza, con questo, volerla fare troppo semplice: l’autocostruzione di un edificio presuppone, al di là dei vari permessi per poterlo fare in maniera legale, una discreta capacità e tanta buona volontà, disponibilità di un terreno e di sufficiente denaro, l’esistenza di un tessuto sociale di aiuto e supporto nell’impresa. Tanto fattori che rendono quest’ipotesi non facilmente percorribile e nemmeno si può pretendere che in determinate situazioni sia la più adatta.
Ai profani può sembrare un azzardo, ma in realtà perfino chi non ha mai giocato con i Lego potrebbe diventare costruttore della propria casa, avviando un percorso che coinvolge e mette in relazione un gruppo di persone, dalla progettazione alla realizzazione. L’autocostruzione non è infatti un atto solitario. Così come non dovrebbe esserlo il successivo abitare. Non si tratta, quindi, solo di mettere in piedi un luogo abitabile ma anche di cominciare a ritessere quei legami sociali che il sisma, e ancor prima lo spopolamento delle zone rurali e montane, hanno messo a dura prova. Come scrive Andrea Staid nel suo ultimo libro Abitare illegale, “costruire recuperando le architetture vernacolari, la memoria popolare e la saggezza di costruire creando ambienti di vita sani e confortevoli, risparmiando energia, producendo un’impronta ecologica minima, crea occasioni di nuova coesione sociale, proprio per questo è ostacolata dai poteri forti che, lasciando fare, perderebbero il grande business che arriva dopo ogni emergenza”[1].
Il percorso di autocostruzione delle abitazioni può diventare un buon viatico per mettere in piedi un tessuto sociale il cui obiettivo a lungo termine non sia solo la trasformazione della vita quotidiana in piccole comunità marginali, ma l’apertura di percorsi alternativi e conflittuali all’organizzazione sociale determinata dall’industria e dalle metropoli. D’altra parte, mantenendo i piedi per terra, le relazioni sociali sono processi che si costruiscono sul lungo periodo e non è ragionevole pianificare artificialmente relazioni di comunità che possano durare nel tempo. Né si può confidare sul fatto che l’unione delle forze per risolvere l’urgenza della questione abitativa determini di per sé la condivisione di valori di autogestione e solidarietà.
In ogni caso, il problema principale è che la maggior parte di noi non detiene più quel saper fare necessario che si tramandava di generazione in generazione, prima che la mercificazione di ogni dettaglio della vita lo facesse cadere nell’oblio. Non siamo più capaci di realizzare un tavolo o un cesto di vimini, figuriamoci di costruire una casa! Scrive, ancora, Staid: “gli esseri umani hanno quasi sempre costruito la propria abitazione con l’aiuto di qualche familiare o amico e questa pratica funzionava. Sono state le società industriali a cambiare questa dinamica, a togliere con leggi e cavilli burocratici la possibilità di costruirsi la propria casa: stiamo parlando di una storia recente, degli ultimi due secoli, fino ad allora durante quasi tutta la storia dell’umanità la costruzione delle abitazioni è stata un’attività informale e su piccola scala”[2].
La sfida è allora quella di cercare di riprendere in mano, individualmente e collettivamente, uno dei tanti saperi che la società industriale ha fatto dimenticare. Anche se, finché le tecniche di costruzione non torneranno a essere un patrimonio collettivo comune, è necessario che il gruppo di autocostruttori sia coordinato da esperti, cioè da coloro che hanno esperienza, che hanno già provato e sperimentato, che siano professionisti del settore o semplicemente persone capaci. Per mantenersi all’interno di quanto prescritto dalla legge è inoltre indispensabile la presentazione di un progetto firmato da un professionista abilitato e l’espletamento delle pratiche burocratiche al fine di ottenere il “permesso di costruire”. Come base di questo percorso, se si vuole costruire “in regola”, mantenere rapporti pacifici con l’ufficio tecnico comunale è senza dubbio consigliabile.
Sappiamo che qualche resistente dell’entroterra, con l’aiuto di solidali e al di fuori della burocrazia dei regolamenti edilizi, si è già costruito case più o meno provvisorie in legno, a fianco dell’abitazione lesionata. Quello su cui vorremmo porre l’attenzione in questa sede è però un materiale da costruzione antico e allo stesso tempo innovativo: le balle di paglia. La casa in paglia non è la casa del porcellino sfigato ma un edificio solido e durevole, oltre che economico, ecologico, confortevole e antisismico.
L’edilizia in terra cruda impastata con un trito di paglia ha radici antiche, anche nei nostri territori, benché si trattasse di un’architettura povera, spesso strutturalmente precaria, che ha lasciato traccia in molti toponimi come Pagliare, Casette, Cascine, Casalina, Casine, o con radice Capann-. Ancora nel 1934, l’Indagine sulle case rurali in Italia segnalava nelle Marche, in particolare nel maceratese e nell’ascolano, 1.401 abitazioni costruite in terra e paglia con la tecnica detta a maltone[3]. Un contadino di Sant’Elpidio a Mare ricorda così la costruzione collettiva delle abitazioni che coinvolgeva famiglia e vicinato: “quando si costruiva una casa di terra era una festa per noi bambini, perché si riuniva tutto il vicinato e le donne si tiravano su le sottane per pistare la terra che doveva diventare morbida come la massa del pane”[4]. Sono le case dei braccianti giornalieri, dei poveri, di chi si arrangia a sopravvivere nell’economia contadina, che nel dopoguerra, con l’esodo dalle campagne, vengono abbandonate alla rovina. In quelle superstiti l’anima in terra viene il più possibile occultata, quasi si trattasse di un marchio di misera e infamia, e chi continuava ad abitarle nei decenni successivi svelava con un misto di reticenza e pudore cosa si nascondeva sotto l’intonaco[5]. Oggi la paglia è un materiale edile di tutta dignità, con cui si realizzano case perfino più belle e accoglienti di quelle convenzionali.
Dopo i terremoti dell’Aquila nel 2009 e dell’Emilia nel 2012 ci sono stati diversi esempi di ricostruzione autogestita, anche in paglia, talvolta osteggiati dalle autorità locali e nazionali. Un caso abbastanza noto è quello del villaggio di Pescomaggiore, un piccolo borgo di origini altomedioevali alle porte del Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, a una decina di chilometri dall’Aquila, dove il sisma ha danneggiato o distrutto buona parte delle abitazioni. Qui il Comitato per la rinascita di Pescomaggiore, in realtà nato già due anni prima del terremoto per contrastare il progressivo abbandono del paese, ha deciso di realizzare un villaggio autocostruito e autofinanziato su terreni concessi in comodato da alcuni compaesani a poche centinaia di metri dal paese. Con le balle di paglia e l’aiuto di centinaia di volontari, tra 2009 e 2013 sono state realizzate alcune unità abitative a minimo impatto ambientale, che hanno rimesso in moto un tessuto solidale oltre a essere costate al metro quadro circa un quinto rispetto agli alienanti appartamenti del progetto C.A.S.E. Una volta superata l’emergenza abitativa il nucleo di nuove case potrebbe conoscere una nuova destinazione sociale e turistica[6]. Un altro esempio finito all’attenzione delle cronache, questa volta nel modenese, è la casa in canapa, legno e calce di Mina Bardiani, costruita nel terreno antistante la vecchia abitazione inagibile[7].
Costruire edifici con balle di paglia
Le case di paglia nascono in Nebraska nella seconda metà dell’Ottocento, con l’arrivo dei pionieri in zone povere di pietre e legname da costruzione e la contestuale nascita delle macchine imballatrici. La tecnica cade successivamente in disuso, a vantaggio del cemento e dei materiali prodotti industrialmente, fino alla sua riscoperta a partire dagli anni Settanta del secolo scorso e al nuovo impulso datole negli anni Novanta da Barbara Jones, che ha saputo adattarla alle esigenze climatiche britanniche. La prima costruzione documentata, in Nebraska, risale al 1886, seguita in rapida successione da altre ancora oggi in buono stato di conservazione; in Gran Bretagna la prima casa è del 1994, in Italia del 2004, a Pramaggiore in provincia di Venezia.
La paglia è un sottoprodotto della coltivazione dei cereali, si tratta in sostanza dello stelo della pianta morta, da non confondere con il fieno che è invece erba verde essiccata. È un materiale flessibile che va trattato con tecniche proprie per sfruttarne al meglio le caratteristiche naturali e originali, piuttosto che sforzarsi di impiegare le balle semplicemente come fossero mattoni extra-large. Le modalità di realizzazione di una casa in paglia sono due (ma vi possono essere anche approcci ibridi): la tecnica detta “Nebraska” o autoportante, in cui le balle sorreggono il peso del tetto, oppure l’utilizzo del legno per la struttura portante e delle balle per il riempimento delle pareti.
Al momento, in Italia non è possibile costruire edifici con muri in paglia autoportanti, ma la normativa tecnica è in fase di aggiornamento e le NTC 2017 (Norme tecniche per le costruzioni), in uscita entro fine anno, potrebbero intervenire e modificare questo aspetto. Resta fondamentale, in ogni caso, progettare un buon tetto e delle buone fondamenta, ossia un buon cappello e buoni stivali per la casa. Le fondamenta non devono necessariamente prevedere una gettata di calcestruzzo, anzi, ci sono diversi metodi che presentano vantaggi in termini di resistenza all’umidità, economicità, facilità di costruzione, bellezza e impatto ambientale, perfino copertoni d’automobile riempiti di ghiaia – tecnicamente potremmo chiamarli “giunti elastomerici” – possono essere una valida soluzione. Per quanto riguarda l’intonaco è importante l’utilizzo di un materiale traspirante, come la calce o la terra cruda.
Nonostante la paglia sia un materiale facilmente infiammabile, le case in paglia sono perfettamente resistenti al fuoco. Questo perché le balle, oltre a essere racchiuse all’interno dell’intonaco, essendo molto compresse non consentono l’alimentarsi di eventuali fiamme. È lo stesso discorso che si può fare per la carta: se è facile bruciare un foglio è invece molto difficile dar fuoco a un elenco telefonico. In ogni caso, bisogna prestare attenzione in cantiere alla paglia sciolta che inevitabilmente si deposita durante la costruzione. Maggior pericolo proviene invece da acqua e umidità, causa di muffe e funghi: inutile dire che le balle vanno mantenute asciutte prima, durante e dopo la costruzione, in particolare sui lati superiore e inferiore. Anche la resistenza ai terremoti è un punto a vantaggio delle case in legno e paglia, che si comportano molto meglio di altri edifici in mattoni e cemento. Sono infatti più leggere e flessibili, per questo sviluppano minore accelerazione durante una scossa e assorbono le ondulazioni senza produrre rotture strutturali. La paglia è inoltre un ottimo isolante sia acustico che termico, mantiene cioè il calore in inverno e il fresco in estate permettendo di conseguenza un notevole risparmio sui costi di riscaldamento e climatizzazione, risparmio che arriva anche all’ordine del 75% all’anno rispetto alle comuni abitazioni moderne[8].
Il risparmio energetico è sul lungo termine una delle principali voci di economia, mentre per i costi di realizzazione si ha ovviamente una grande differenza tra l’autocostruzione e la costruzione affidata a un’impresa specializzata del settore. La paglia è infatti un materiale di per sé molto economico, una balla costa intorno agli 1-2 euro e per una casa di 150 mq ne occorrono circa 400, ma la manodopera incide molto. Tutto dipende dalle proprie capacità, da quanto tempo e determinazione si hanno e dalle braccia di parenti e amici che arrivano in aiuto. Aiuto che può essere ricambiato, andando così a costruire un circuito solidale. Un’altra valida via per il risparmio è l’organizzazione di corsi di formazione in cantiere, non mancheranno i volontari che arrivano per imparare la tecnica e, intanto, danno una mano alla costruzione. Ci sono poi i costi legati agli altri materiali e all’attrezzatura e, infine, va tenuto presente il coinvolgimento, di solito ben remunerato, di una serie di progettisti, certificatori, collaudatori e anche professionisti vari per tutto quanto non si è grado di gestire in autonomia (impianti elettrici e idraulici, infissi etc.). Ipotizzando una stima realistica dei costi, con l’autocostruzione e il contenimento al massimo delle spese si può arrivare a dover sborsare sugli 800 euro al mq.
Intervista a Sara Campanelli di Ascoli Piceno, socia di ARIA Familiare (Associazione rete italiana autocostruzione), architetta specializzata in architettura naturale dello studio arch.Officina e dello spin-off dell’Università di Camerino EcCo Italy.
Cos’è e di cosa si occupa l’associazione ARIA Familiare?
ARIA è un’associazione nazionale che promuove l’autocostruzione e l’autorecupero abitativi, prediligendo l’uso di materiali naturali, locali e sostenibili. In particolare, l’intento di ARIA è di trovare una via legale e percorribile da tutti per l’autocostruzione ed è quanto è riuscita a fare finora in Toscana, con una delibera inserita nel regolamento edilizio regionale. L’autocostruzione implica infatti una relazione collaborativa tra un insieme di persone che aiutano gli autocostruttori proprietari, siano familiari, amici, volontari o corsisti che vengono a imparare la tecnica. Ma la presenza di questi soggetti è un grosso problema dal punto di vista del rispetto di quell’infinità di regole che riguardano la sicurezza nel cantiere.
Anche se a livello burocratico ci sono ancora cose da affinare, nel 2015 la Regione Toscana ha emanato le “Linee di indirizzo per la sicurezza nei cantieri di autocostruzione e di autorecupero” che sono un buon traguardo raggiunto da ARIA e, soprattutto, un ottimo punto di partenza perché ora chiunque voglia intraprendere questa strada verso l’autocostruzione può farlo in maniera tutto sommato tranquilla. Grazie a quella determina (la 251 del 2015), le aziende sanitarie di riferimento della regione hanno ora idea di che cosa significhi lavorare in autocostruzione e quindi è tutto più semplice. Nelle altre regioni invece l’autocostruzione non è contemplata, a meno che non ci sia un progettista particolarmente convinto e preparato che riesca a trovare dall’altra parte un ufficio tecnico comunale in grado di capire queste cose e, appunto, un’Asur che non vada a bloccare il cantiere.
Qui in provincia di Ascoli Piceno, a Grottammare, ad aprile dell’anno scorso abbiamo realizzato in legno e balle di paglia un ampliamento di 40 mq di una casa. Abbiamo organizzato un corso e la gran parte della struttura è stata tirata su in cinque giorni con il lavoro di dieci corsisti. Per prima cosa ho però dovuto spiegare all’ingegnere quello che avevamo in mente, anche perché è difficile trovare tecnici che siano già preparati su questo tipo di architettura autocostruita. Noi siamo stati fortunati perché l’ingegnere, oltre a fare il calcolo della struttura portante, è andato all’Asur riuscendo a far loro capire come, con un piano di sicurezza adeguato, il lavoro sarebbe stato fattibile. Alla fine ce l’abbiamo fatta a fare tutto in regola, ma non è stato semplice, tanto che a un certo punto sul cantiere è arrivata la macchina dell’Asur e… panico: sono scappati tutti! [ride]
In realtà, la Regione Marche indice ormai da diversi anni un bando di concorso che destina dei fondi all’autocostruzione. Ma si tratta di un approccio molto limitato perché passa attraverso la cooperative, quindi più soggetti, più famiglie che volessero partecipare al bando e autocostruire una o più abitazioni devono riunirsi in cooperativa, con tutte le complicazioni che questo comporta. ARIA Familiare vuole invece che sia data la possibilità anche al singolo individuo di autocostruire, o autorecuperare, in maniera più snella.
Il progetto di Grottammare non era però affiliato ad ARIA, anche perché è nato in poche settimane, i proprietari volevano andare molto spediti e quindi non c’è stato il tempo per aprire l’associazione di riferimento sul cantiere. ARIA è infatti un’associazione nazionale che sta iniziando a configurarsi a livello locale tramite associazioni federate che gestiscono i cantieri in autocostruzione. Così è ad esempio per ARIA Familiare Rimini che ha seguito i lavori, grandi e importanti, di due abitazioni.
ARIA può essere un riferimento per il mutuo appoggio tra chi ha intenzione di autocostruire la propria casa? Penso a un circuito di solidarietà in cui si va come volontari ad aiutare nella costruzione di case di altri e poi, a loro volta, altri volontari daranno una mano nell’autocostruzione della propria casa.
ARIA dovrebbe fare proprio questo, sia a livello nazionale che a livello locale. Creare dei circuiti di muto appoggio e solidarietà è quello che tutti noi auspichiamo. Nel riminese questo meccanismo si è innescato: i cantieri di Susanna e Giampietro a San Lorenzo in Correggiano e di Alice e Sauro a Viserba sono partiti quasi contestualmente e c’è stato uno scambio attivo tra i due. Noi che eravamo volontari abbiamo dato una mano da uno, poi fatto il corso dall’altro e magari la sera ci si incontrava e si cercava di cenare e stare insieme. Si è creato a livello umano un bel circuito.
Inoltre c’è da dire che questi cantieri possono offrire delle buone opportunità. A Grottammare hanno partecipato ai lavori persone che non conoscevo, tra cui due giovani architetti, un ingegnere, studenti, due disoccupati. Uno di questi disoccupati è stato poi qualche mese anche nel cantiere di Rimini e ora sta portando avanti una sua attività. Più in generale, si stimola il recupero di tutta quella fascia di artigiani, di persone che sanno lavorare il legno o altri materiali, che il mercato dell’edilizia convenzionale mette spesso da parte, ma le cui abilità sono invece di fondamentale importanza.
Dopo l’esperienza di Grottammare com’è continuato nelle Marche il percorso di ARIA, anche in relazione al terremoto e alle possibilità, se ce ne sono, di una ricostruzione autogestita?
Dopo il cantiere di Grottammare, sulla scia di quanto fatto in Toscana da ARIA Familiare, noi progettisti marchigiani abbiamo cercato di spingere in quella stessa direzione, coinvolgendo il presidente dell’ordine degli architetti di Ascoli, Valeriano Vallesi, che è sensibile a queste tematiche, e trovando una sponda istituzionale in Anna Casini, che è un’architetta ascolana ed è anche vicepresidente della Regione Marche. Da parte della Regione c’era un certo interesse, anche perché loro avevano già quel bando per l’autocostruzione in cooperativa, di cui ti ho detto, che però andava sempre deserto. Abbiamo organizzato una bella conferenza ad Ancona, dove abbiamo affrontato tutte le tematiche connesse all’autocostruzione, alla fine io ero molto fiduciosa e speravamo davvero di riuscire a far inserire anche da noi una delibera sul modello di quella toscana. Era il 16 giugno 2016, il 24 agosto c’è stata la prima forte scossa di terremoto, che ha interrotto tutto.
Io sento di avere in mano un minimo sapere sui materiali naturali in edilizia, una prospettiva di costruzione e ricostruzione diversa da quella tradizionale, diversa dalle solite casette appaltate che arrivano e non arrivano, con i loro giri di soldi, e allora mi sono chiesta che cosa potessi fare io, da ascolana e soprattutto da tecnico progettista, per questa situazione. Come posso mettere a servizio quelle quattro competenze che ho? Il giorno dopo il terremoto, il 25 agosto, ero per qualche motivo nella zona di Amatrice, in quei posti inavvicinabili, dove ho conosciuto una ragazza che ha un fratello che fa l’allevatore lì. Ho pensato che avrei potuto fare il progetto di una stalla, i fondi non erano un problema perché tantissime persone erano pronte a fare una donazione. Avrei potuto trovare dei volontari per realizzarla, cioè i giocatori di rugby della squadra ascolana che già avevano scavato giorno e notte ad Arquata del Tronto, e avrei coinvolto anche degli artigiani, tra i tanti che conosciamo con lo spin-off universitario (di cui poi ti parlerò), che si occupano di materiali per edilizia non convenzionale. Avevo parlato con Laura Comella, presidente di ARIA Familiare, e avevamo il loro appoggio; c’era già anche un nome per il progetto, un gioco di parole simpatico sui verbi allevare e alleviare: “Noi alleviamo pecore e paure”. Insomma potevo fare tanto, ma poi nella realtà non si riesce a fare niente perché a livello burocratico, di leggi, di permessi, abbiamo le mani legate.
Qualche settimana dopo mi ha contattato una famiglia di Amatrice che aveva perso la casa, aveva perso tutto, ma si era già autorganizzata per costruire una piccola casetta sul terreno di una vicina che glielo avrebbe dato gratuitamente. Il terreno non era edificabile, ma pensavano che in quel particolare contesto di emergenza se uno si poteva autofinanziare una piccola struttura anziché stare nelle tende o nelle roulotte non avrebbe incontrato troppi ostacoli. Da noi volevano capire la differenza tra le casette in legno tradizionali e quelle in paglia, per poter decidere cosa costruire. Sono quindi andata ad Amatrice, insieme alla mia collega Isabella Cocci e al presidente dell’ordine Valeriano Vallesi e abbiamo spiegato i vantaggi di queste tipologie abitative. Siamo anche rimasti a pranzo, accampati nella cucina: la cosa che mi ha fatto più riflettere sono stati i loro sguardi persi. Purtroppo anche quel progetto non è andato avanti perché il Comune non ha rilasciato i permessi.
Va detto che questi ostacoli posti da parte delle amministrazioni sono, almeno in parte comprensibili, perché si tratta di zone di Appennino spesso protette e sottoposte a vincoli e anche, soprattutto, perché c’è il timore di una ricostruzione affrettata, come già successo in passato, con strutture fatte senza criterio che magari alla prossima scossa vanno giù. Parlare di “autocostruzione” nel post-sisma, qui da noi, è veramente difficile, perché per autocostruzione la mentalità comune si immagina quelle superfetazioni fatte nel dopoguerra, ampliamenti vari, ammassi di metri cubi che hanno poi subito vari condoni e sono diventati volumetrie che purtroppo vediamo oggi in giro. Posso anche capire questa diffidenza, ma comunque rimane per me molto doloroso dal punto di vista umano. Gli sguardi di quelle persone di Amatrice mi hanno fatto capire che l’autocostruzione, per l’esperienza che ho io dei cantieri vissuti, sarebbe un buon metodo per ridare loro la speranza di una comunità che si è persa con il terremoto. Perché il vicino di casa è morto, l’altro è andato a finire nell’albergo a San Benedetto e tu stai in questa situazione di vuoto: l’autocostruzione è perfetta a livello umano, perché non basta dare una casetta o un container a queste persone, ma ci si deve preoccupare dal punto di vista psicologico, di sensazioni, di comunità da ritessere.
In seguito è nato un coordinamento costituito da otto ordini degli architetti, paesaggisti, pianificatori e conservatori delle province di Ascoli e limitrofe, che coprono tutto il territorio del cratere, chiamato “Fermi restando in epicentro”. In quei giorni ci siamo molto confrontati, c’erano sempre mille telefonate. Una delle proposte venne da Valeriano, che propose di farci assegnare dei container dalla Protezione civile per utilizzarli come presidio sul territorio, in modo che le persone sarebbero potute venire da noi a chiedere qualunque informazione per capire come muoversi nella burocrazia, come ripartire, come cominciare a ricostruire. Ma allora, ho pensato, invece di farci dare un container perché non realizziamo noi stessi un piccolo modulo in paglia insieme ai residenti del posto? Bastava trovare un comune che ci offriva uno spazio. Passata l’emergenza la casetta sarebbe rimasta all’amministrazione, che ne avrebbe potuto fare una sede per le associazioni, un presidio turistico o quello che volevano. L’idea è stata accolta con favore dal coordinamento. Ma anche su questo ci hanno tagliato le gambe. Anche perché, c’è da dire, le scosse ci sono state per molti mesi a seguire e ogni nuova scossa rimetteva tutto da capo. E poi noi non siamo lo studio Boeri che può contare su sponsor importanti, viene qui, costruisce il Polo Food e trova la strada spianata per fare tutto. Certo, noi non ci siamo scordati la proposta fatta, ma a parte che ogni tanto si ripete una scossa, l’ultima l’abbiamo sentita pochi giorni fa, dobbiamo trovare un’amministrazione comunale consapevole e studiare proprio a livello di piani regolatori in che punto sia possibile posizionare la struttura.
Al momento, che tu sappia, ci sono cantieri per case in balle di paglia, in autocostruzione o meno, aperti nella zona del sisma?
Dopo il terremoto sono venuti fuori diversi contatti, abbiamo tenuto anche varie conferenze in cui ci invitavano a parlare di questa tipologia costruttiva. Una signora di Roccafluvione, con casa inagibile, diceva che avendone la possibilità avrebbe voluto ricostruire con questa tecnologia, poi ha però avuto altre problematiche. Lo stesso una famiglia tra Camerino e San Severino ci ha contattato e vorrebbe iniziare i lavori, vedremo nei prossimi mesi quello che riusciremo a fare, cercando anche di ammortizzare le spese con l’autocostruzione. Il problema è che di solito l’autocostruzione funziona in questo modo: il padrone di casa ospita a dormire i volontari, si preoccupa dei pasti ecc., ma come puoi capire in una condizione post-sisma, dove gli stessi residenti hanno perso tutto, ospitare altre persone è complicato. Come si fa, banalmente, a preparare da mangiare se non c’è una cucina agibile…?
Chi ha una casa da ricostruire, penso più che altro a case singole fuori dai centri storici, perché immagino che nei centri storici ci siano tutti altri vincoli e problemi, è consigliabile che pensi a paglia e legno, piuttosto che a mattoni e cemento?
“Noi non vogliamo più vedere pietre”: questo ho sentito dire da loro. Una casa come quella crollata non la vogliono più. Spesso si tratta di case in pietra, magari già carenti nelle fondazioni, sulle quali sono stati fatti successivamente lavori che ne hanno appesantito la struttura. Oggi penso sia auspicabile avere una casa fatta con struttura portante in legno, quindi con una risposta alle scosse molto migliore della pietra o del cemento armato, coibentata con un materiale come la paglia dalle ottime capacità di isolamento. Così si ha una casa molto più leggera ed elastica che anche se torna chissà quale terremoto rimane in piedi, oltre ad avere vantaggi in termini economici, soprattutto per la grande efficienza termica che presentano queste costruzioni.
Per i centri storici effettivamente la situazione è diversa. Non so come si metteranno le cose, se si vorrà ricostruire tutto “com’era e dov’era”, ma c’è tanta gente che si oppone a questa idea. Quello che noi proporremo saranno comunque le metodologie di autocostruzione e l’utilizzo di materiali naturali, non penso solo alla paglia ma anche, ad esempio, a mattoni fatti in calce e canapa o in argilla cruda, che però vanno intonacati e si perde la pietra faccia a vista com’era prima. Al momento, comunque, cosa si andrà a fare ancora non è chiaro a nessuno.
Prima hai accennato allo spin-off dell’Università di Camerino (cioè, in poche parole, una società che si appoggia a un’università e ne utilizza economicamente i risultati della ricerca), puoi raccontare come nasce e cosa si prefigge di fare?
Devo partire da una decina di anni fa, quando sui banchi dell’università io e Isabella abbiamo incominciato a studiare queste tecniche di costruzione e allora non c’erano così tante persone interessate a questo mondo. Ricordo quando andammo dalla professoressa e dal fisico tecnico, con i quali adesso condividiamo lo spin-off, e proponemmo di studiare la paglia come materiale da costruzione: “e che famo la capanna dello zio Tom?” fu la prima risposta! Da lì però è nato tutto il discorso, fino ad oggi. Nel frattempo, per la tesi di laurea sono stata in Sud America a studiare le case fatte in terra cruda con la tecnica del pisé, poi, uscita dall’Università, ho avuto la fortuna di vincere una borsa di studio che mi ha portato a Vienna per un po’ di tempo. Lì ho lavorato in uno studio con alcuni dei pionieri della passive house del Nord Europa. Ho imparato tante cose dal punto di vista dell’efficientamento energetico, ma il punto debole è che per quelle soluzioni ci vogliono un sacco di soldi e grazie… se ho tutti quei soldi è facile fare la casa passiva, più interessante è invece riuscire a mantenere quei livelli ma con attenzione ai costi, alla portata di budget limitati.
Nel 2013 sono rientrata in Italia e da allora lavoriamo allo spin-off, anche se si è ufficialmente costituito quest’anno con il nome EcCOItaly. Quello che vogliamo generare è una rete di piccole imprese che lavorano nel campo dei materiali edili naturali (paglia, legno, canapa, sughero, calce ecc.), anche per riattivare il concetto dell’artigianato, creare quindi una sorta di database di aziende selezionate con l’obiettivo di superare quell’edilizia convenzionale che ha devastato le nostre coste e le nostre colline. Dentro lo spin-off faremo anche formazione, faremo ricerca sui materiali, abbiamo un fisico tecnico che studia il mondo dell’edilizia visto dall’estrazione dei materiali fino al loro smaltimento ultimo, stiamo anche cercando di capire come collaborare con l’associazione ARIA Familiare. Insomma, ci sono tante cose in ballo. L’idea di fondo è stimolare una condizione diversa dell’abitare.
Note
[1]Andrea Staid, Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini in Occidente, [Milano], Milieu, 2017, p. 152.
[2]Ivi, p. 22.
[3]Istituto centrale di statistica del Regno d’Italia, Indagine sulle case rurali in Italia, Roma, Istituto poligrafico, 1934. Cfr. Case di terra e paglia delle Marche, testi [di] Ercole Sori, ricerche fotografiche [di] Aldo Forlani, Ascoli Piceno, D’Auria, 1999.
[4]Augusta Palombarini, Le case di terra, in Sergio Anselmi, Gianni Volpe, L’architettura popolare in Italia. Marche, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 180.
[5]Cfr. Ivi, p. 171-190.
[6]Pescomaggiore EVA (Eco villaggio autocostruito), <http://www.pescomaggiore.org/progetto-eva>.
[7]Cfr. <http://www.equilibrium-bioedilizia.it/en/node/698>.
[8]Cfr. Barbara Jones, Costruire con le balle di paglia: manuale pratico per la progettazione e la costruzione, Firenze, Terra Nuova, 2011, p. 20.
Bibliografia
Sergio Anselmi, Gianni Volpe, L’architettura popolare in Italia. Marche, Roma-Bari, Laterza, 1987
Case di terra e paglia delle Marche, testi [di] Ercole Sori, ricerche fotografiche [di] Aldo Forlani, Ascoli Piceno, D’Auria, 1999.
Barbara Jones, Costruire con le balle di paglia: manuale pratico per la progettazione e la costruzione, Firenze, Terra Nuova, 2011.
Athena Swentzell Steen [et al.], Le case in paglia: come costruire edifici, uffici, capanne o cottage sostenibili, economici, efficienti e sicuri utilizzando le balle di paglia, Bologna, Arianna, 2013.
Andrea Staid, Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini in Occidente, [Milano], Milieu, 2017.