Voja de fadigà salteme addosso
Di Vittorio
Così fa un detto dialettale marchigiano ancora in voga e finisce con il sincero endecasillabo “fadiga te padròn che io nun posso”.
Non è una novità che l’offerta di lavoro nelle Marche sia in calo dal 2008 ad oggi mentre la disoccupazione per la fascia di età tra i 15 e i 29 anni è cresciuta dal 9,9% del 2008 al 25,2% del 2016. Basta farsi un giro nella miriade di zone artigianali e industriali della regione o domandare nel primo bar: la distruzione di posti di lavoro ha avuto un impatto notevole sulla situazione sociale ed economica di chi oggi è considerato giovane fino ai 35 anni.
L’isola felice descritta nella favola della “Terza Italia” e del distretto industriale marchigiano diffuso non esiste più. Chi ha tempo di leggere i dati può accorgersene facilmente e la sequenza sismica iniziata ad agosto 2016 ha reso fragilissimo il tessuto industriale e produttivo già provato da pesanti ristrutturazioni delle province di Ascoli Piceno, Macerata e in parte della provincia di Fermo. Certo qualcuno potrebbe obiettare che i macchinoni in giro si vedono ancora e i negozi di lusso continuano a restare aperti. La ricchezza infatti c’è ancora, ma è distribuita sempre peggio e sempre più lontano dai giovani, sono loro infatti i più a rischio povertà anche secondo l’ISTAT. Anche nelle Marche, di fronte al fallimento delle promesse e dei progetti della classe imprenditoriale e dirigente locale si preferisce, come ovunque in Italia, spostare la responsabilità su chi è arrivato dopo. E quindi ecco che da qualche anno è iniziata ad apparire sui giornali e nel lessico dei politici la contabilità dei cosiddetti NEET: l’acronimo anglosassone che etichetta i giovani che non lavorano, non studiano e non frequentano corsi di formazione.
Nelle Marche le statistiche ufficiali ne contano 41.800, ovvero il 19,8% dei giovani nella fascia di età tra 15 e 29 anni. Noi non vogliamo prendere per buone le etichette negative e deprimenti della statistica ufficiale. Ci piacerebbe pensare che migliaia di quelli censiti in questa categoria abbiano scelto di non lavorare per fare qualcosa di meglio ma tuttavia è plausibile pensare che un giovane su cinque sia gravemente a rischio povertà e sempre secondo le statistiche ufficiali almeno altri due abbiano sicuramente un contratto di lavoro molto precario. Alcune interviste raccolte nell’arco di diversi mesi nel 2016 durante la prima fase di Garanzia Giovani mi hanno dato uno spaccato in presa diretta di quello che sta succedendo per i lavoratori e le lavoratrici più giovani. Le prime esperienze lavorative spesso producono una profonda delusione ma servono anche a stimolare un senso critico:
«In cucina ho lavorato al Girasole, qui a Marotta, dove ho lavorato per due mesi che dopo sono andato via… e sempre con la scuola… solo che il professore mi ha detto tu vieni a lavorare con me e dopo un mesetto ti do qualcosa. È passato un mesetto e non mi ha dato niente… e [ha detto] guarda è meglio che lavori gratis e in inverno vieni a lavorare con me. Non mi è piaciuto quello. Io mi sono fatto un culo grosso così per tutto un mese e tu mi dici questo? Quello non mi è piaciuto per niente, dopo che mi ha fatto così io non sono andato mai più a lavorare.»
A.F., uomo, 20 anni, Mondolfo.
Tanti giovani anche di fronte alla mancanza di opportunità non smettono comunque di rimanere attivi, perché il lavoro e in generale l’essere attivi e produttivi rimane un tassello fondamentale della cultura e dell’identità marchigiana:
«Poi ho continuato a cercare fino al 2013, diciamo che sono stato due anni dal 2011 al 2013 sempre a cercare ma non ho trovato nulla… solo a casa diciamo facevo le scale del palazzo, ogni tanto aiutavo mia nonna, facevo queste cose… facevo le scale nel senso che pulivo le scale poi mi davano qualcosa così, ma giusto per fare qualcosa, perché io volevo fare ma non trovavo nulla allora almeno… siccome vivo in un palazzo con sei famiglie, allora le altre famiglie invece di pagare un’altra persona o una ditta io mi sono proposto e lo faccio tutt’ora questa cosa e la faccio da quando ho finito la scuola perché proprio me la sento io, senza far niente non ci riuscivo…»
V.C., uomo, 26 anni, Corridonia.
Fino qui nulla di nuovo, ma vorrei riflettere criticamente sull’idea che il dramma provocato dalla disoccupazione giovanile non consista nell’evidente stato di subordinazione in cui essa mantiene i giovani della regione ma nel fatto che quasi nessuno sia spinto a interrogarsi sul senso e sul futuro del lavoro in quanto tale.
Garanzia giovani: il circo dei tirocini
Intanto dopo l’ondata di rivolte giovanili del 2011, che alle latitudini più diverse aveva portato in piazza migliaia di giovani combattivi dalle più diverse regioni d’Europa e del Mediterraneo, negli ambienti istituzionali e della gestione economica della crisi finanziaria si è fatto strada il timore dei “rischi per la coesione sociale” portati dall’aumento vertiginoso della disoccupazione. Soprattutto in risposta a queste inquietudini nel 2013 la UE ha tirato fuori dal cappello il progetto Garanzia Giovani, che ha iniziato a veicolare verso le regioni maggiormente colpite dalla disoccupazione giovanile un nuovo flusso di risorse economiche condizionate a specifici interventi di politiche attive del lavoro, cioè a un nuovo progetto di disciplina sociale per i giovani lavoratori e studenti del continente.
Garanzia Giovani è arrivata nel 2014 nelle Marche e ha messo subito a ballare tutta la rete regionale delle cosiddette politiche attive per il lavoro. Le risorse in arrivo dall’Europa hanno ringalluzzito tutto l’esercito di imprenditori che ruotano attorno al business delle “risorse umane”. Si sono moltiplicate le Associazioni Temporanee di Impresa che associano agenzie interinali molto note come Manpower e Obiettivo Lavoro o altri centri di formazione meno famosi come lo IAL del sindacato CISL e tante altre imprese di servizi più piccole che sono nate come funghi durante la crisi economica del 2008 e dopo il 2014 in corrispondenza con l’arrivo dei nuovi fondi europei. In queste aziende della formazione e della gestione del “capitale umano” centinaia di persone, spesso precarie e sfruttate anch’esse, lavorano per far girare la macchina della formazione e dell’orientamento professionali.
I risultati dal punto di vista della trasformazione delle condizioni dei giovani? Praticamente nulli. Ci dicono le statistiche ufficiali che una buona metà trova un lavoro a tempo determinato dopo sei mesi di tirocinio svolti con un compenso di 500 euro mensili. Poi, come accade per percentuali altrettanto maiuscole, lo perderà e comunque non riuscirà a cambiare la propria condizione individuale di sfruttamento e incertezza. Insomma trova lavoro chi lo avrebbe trovato anche senza regalare soldi pubblici alle aziende e intanto il valore del lavoro dei giovani continua a diminuire. Anche i servizi per l’impiego pubblici spesso non brillano per efficienza e serietà e i risultati non tardano ad arrivare:
«Io sono iscritto da quando avevo 16 anni ma non mi ha mai trovato un lavoro, un corso formativo interessante, non è servito a nulla se non per rinnovare ogni sei mesi la disoccupazione che poi non serve a nulla… l’anzianità di disoccupazione non serve a nulla in un territorio come Fabriano perché quando io ero interessato a seguire un corso di formazione ero immediatamente surclassato da un cassaintegrato che aveva la priorità su di me… quindi il centro per l’impiego non mi è servito a nulla.»
G.T., uomo, 29 anni, Fabriano.
Anche nelle Marche per tutti gli anni 2000, ben prima della grande ubriacatura renziana, l’entusiasmo per le “politiche attive” aveva prodotto distorsioni evidenti come l’uso massiccio dei voucher da parte delle amministrazioni comunali per stipendiare forme di lavoro assistenziale o clientelare rivolto ai disoccupati cronici e alle categorie più deboli.
A partire dal 2014 il progetto Garanzia Giovani ha portato con sé il classico corollario di distorsioni e disagi all’italiana: pagamenti in ritardo per mesi, contratti di lavoro stagionale o temporaneo sostituiti dai tirocini pagati con i soldi pubblici, progetti di auto-imprenditorialità fallimentari. Specialmente nel settore turistico e della ristorazione è emerso chiaramente il rischio concreto di vedere sostituiti dei pessimi lavori pagati male con dei pessimi interventi di politiche attive, pagati ancora peggio o addirittura non pagati come nel caso dell’alternanza scuola lavoro.
Da questo punto di vista anche chi ha le idee chiare su queste contraddizioni non vede nell’immediato una possibilità politica di attivazione:
«Se una azienda si mette a disposizione di un progetto del genere ci deve essere una minima apertura verso il fatto che questa persona possa rientrare dentro l’azienda o che ci siano dei margini di continuità perché altrimenti questo diventa uno strumento che le aziende sfruttano per avere una persona in più. A me mi è andata benissimo perché in tutto questo ho fatto un progetto che mi piaceva però immagino che ci siano persone che hanno lavorato “a uffa” senza guadagnarci una “cippa”. Per cui un minimo di garanzia ci dovrebbe essere in questo per cui l’azienda che si mette in discussione su un progetto del genere ha dei benefici ma ha anche degli impegni verso la persona che sta lì e che lavora sei mesi anche se è giovane. A me hanno detto: “una volta i tirocini non erano pagati, ringrazia che adesso lavori e ti pagano”. Ma non è che se una volta si facevano le cose male, adesso dobbiamo accontentarci no? Che ragionamento è?»
E.B., donna, 26 anni, Senigallia.
A partire dalla grande vetrina di Expo 2015, l’idea che il lavoro dei giovani possa essere svolto gratis e l’estensione anche ai trentenni di questa aberrante idea di “esperienza” provoca anche in provincia situazioni paradossali:
«Mi sono trovata bene perché la mia titolare era concreta, giovane, comprensiva, mi ha aiutato tanto e poi addirittura dopo quattro mesi che ero lì e non avevamo ricevuto lo stipendio dalla Regione lei mi ha dato qualcosa, si è sentita in dovere di anticiparmi qualcosa. Per il resto a livello lavorativo lavoravo 5 ore al giorno [il minimo previsto] e quando la mia titolare è andata a chiedere informazioni per il mio contratto ci ha fatto un po’ strano che al centro per l’impiego le hanno detto: “come solo per 5 ore? Ne può fare di più…” [infatti] c’è un massimo di 8 ore. E lei ha risposto che per 500 euro non se la sente di far lavorare più di 5 ore. Quindi anche al centro per l’impiego lo sfruttamento è una cosa normale… [L’unico contatto con il centro per l’impiego si è ridotto all’attivazione del contratto]. Poi quando si è trattato di reclamare i soldi che non arrivavano loro non sapevano mai niente, però visto che era una situazione comune non abbiamo insistito tanto, poi la titolare mi aveva già anticipato qualcosa.»
A.S., donna, 30 anni, Ancona.
Garanzia Giovani, malgrado le buone intenzioni dichiarate della Regione Marche, ha quindi inserito nuove risorse nella dinamica distorta dei tirocini che spesso coprono forme di sfruttamento:
«Quando mi hanno chiamata c’era già una parrucchiera che mi richiedeva, si chiama M. di San Benedetto. Cercava qualcuno che avesse un minimo di esperienza. Quest’esperienza non mi è piaciuta più che altro perché ci marciano tutti, ci marciano, non t’insegnano nulla, ti mettono lì come sciampista, non mi hanno fatto alcun tipo di formazione. Io dopo quattro mesi, senti a me, già mi date poco, insegnate non m’insegnate niente, io me ne sono andata! Era una ditta piccola, un negozietto con due soci, mi avevano preso solo per alleggerire il loro lavoro.»
M.R., donna, 20 anni, Macerata.
Mentre dal lato dei giovani professionisti e free-lance la consapevolezza dei propri diritti è molto bassa e la solidarietà è inesistente come testimonia questa donna:
«Quello che mi frega è che per quanto stai male economicamente, i pagamenti a singhiozzo, fai quello che ti piace, sei in un ambiente giovanile, con gente inserita in vari discorsi… Però vedo altre imprese che devono mandare i dipendenti in ferie perché sennò li devono pagare alla fine, quando mi vedo io che devo star qui 10 o 11 ore per una “micragna” e devo pagarmi io le tasse ed è tutta una rimessa e dico perché io devo fare così e gli altri hanno tutto questo gran tappetto davanti e non fanno niente soprattutto i dipendenti pubblici?»
V.T., donna, 28 anni, Camerano.
Cosa succede poi quando dopo sei mesi a 500 euro si torna alla vita di disoccupati? La delusione è forte e non tutti riescono a essere abbastanza resilienti:
«Io più che altro sono stato scoraggiato, avevo molto puntato sull’esperienza di sei mesi perché loro avevano detto che c’erano possibilità di assumere e allora io ho cercato di dare il massimo per essere assunto. È stata un po’ una delusione lì, dopo mi sono un po’ abbattuto e c’è stato un po’ sto calo che sono stato un anno senza fare niente e dopo mi sono ripreso perché comunque sia devi riuscire anche un po’ a riprenderti, è anche una fortuna. Ci sono tante persone che conosco che magari cadono anche in depressione, può sfociare in una cosa abbastanza seria.»
G.R., uomo, 25 anni, Civitanova.
Scuola/lavoro alternate: sfruttamento fisso
Spesso si sente dire dagli esperti in materia che molti dei problemi a trovare lavoro dei giovani dipendono dallo scarso collegamento tra scuola e lavoro. Certo spesso la scuola è un mondo a sé, chiusa in logiche auto-referenziali ma che dire dell’invecchiamento della popolazione? Del nepotismo e della corruzione, dei vecchi aggrappati alle poltrone e ai posti di potere, del paternalismo e del mammismo all’italiana? Quanto pesano sulle possibilità di costruirsi una vita autonoma e libera?
A partire dal 2015 l’alternanza scuola lavoro obbligatoria è stata imposta dall’alto, come tutta la riforma della scuola della legge 107/2015 e coerente con le sue origini altolocate ha portato con sé la puzza di privilegio e sfruttamento. Se infatti da un lato gli studenti e le studentesse si dichiarano per la maggior parte contenti/e di svolgere un periodo fuori da scuola, se si analizza bene cosa succede troviamo che non c’è in atto nessun sistema per promuovere la mobilità sociale: i più attrezzati svolgono le settimane di alternanza presso amici di famiglia o imprese amiche, mentre ai più sfigati non resta che attingere all’offerta istituzionale.
E qui la situazione delle Marche è comunque allarmante poiché anche in questa regione è arrivata l’attivazione di partenariati con pescecani industriali come Mc Donald’s, Autogrill e perfino con l’Anonima Petroli Italia proprietaria della mefitica raffineria di Falconara Marittima. Un passaggio del protocollo di intesa firmato tra il ministero della pubblica istruzione e l’API è particolarmente surreale quando nell’art. 1 dichiarano “che intendono promuovere la collaborazione, il raccordo e il confronto tra il sistema educativo di istruzione e formazione, il sistema universitario e il mondo del lavoro e dell’industria […] al fine di diffondere conoscenze e competenze relative ai temi dell’energia, della tutela dell’ambiente e del futuro della mobilità attraverso il contatto diretto con gli operatori del settore”.
Peccato che lo stabilimento API di Falconara sia dal 2011 nella posizione 274 dei 622 impianti più inquinanti per l’aria in Europa secondo l’Agenzia europea per l’ambiente. Non certo un esempio di ecologia e tecnologia del futuro. Per non parlare della terribile eredità di tumori e inquinamento marino che da anni vengono denunciati dai comitati di cittadini del piccolo centro costiero. La raffineria e i suoi padroni piuttosto che ricevere ancora soldi e lavoro gratuito dallo Stato dovrebbero iniziare a riparare i danni al territorio che hanno sfruttato, ma questa è un’altra storia. Sono più di ventimila ogni anno i ragazzi e ragazze nelle Marche che dovranno obbligatoriamente entrare in percorsi di alternanza scuola lavoro. Si tratta di un immenso cantiere pedagogico purtroppo fino a oggi contraddistinto dalla più totale mancanza di senso critico rispetto allo sfruttamento nel mercato del lavoro e dall’assenza di una visione del lavoro come attività umana cooperativa e collettiva ben diversa dall’idea di una merce da svendere in competizione con il proprio compagno di banco. Il concetto di occupabilità promosso dal ministro Poletti altro non è che un invito stucchevole a obbedire alle leggi ingiuste del mercato.
Le risposte
È da molto tempo che provo a cercare le tracce di una risposta conflittuale al continuo deterioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei giovani ma purtroppo ho trovato molte risposte individuali, molta consapevolezza delle contraddizioni della situazione ma poca sensibilità rispetto all’esistenza di una condizione comune, di classe e generazionale.
Garanzia Giovani e in generale la retorica delle “politiche attive per il lavoro” (che non c’è) nelle Marche non hanno incontrato fino ad ora una opposizione e una criticità organizzate. Anzi, fino a febbraio 2017, ben 36.600 giovani si erano iscritti al programma, circa 17.000 erano entrati attivamente in contatto con gli uffici e poco più di 8.000 avevano ricevuto un qualche tipo di offerta di attività formativa o di tirocinio. Il disagio per l’ingiustizia dei ritardi nei pagamenti delle indennità per i tirocini si è sfogato soprattutto sulla rete web senza però dare luogo a scelte rivendicative forti o momenti di solidarietà concreta. La scelta dei sindacati confederali è stata quella di partecipare alla gestione dei fondi per la formazione nel caso di CISL e UIL o di restarne fuori come nel caso della CGIL senza però svolgere un ruolo attivo di contrasto, bensì con deboli tentativi di organizzare le rivendicazioni dei borsisti e con una posizione critica che non ha inciso sui problemi di fondo. Alcuni aspetti dei tirocini sono stati riformati: dal 2017 le aziende che vogliono assumere un tirocinante devono contribuire con 200 euro all’importo dell’assegno e così forse qualche sciacallo in meno si avvicinerà a questa mangiatoia, ma per i giovani la musica non cambia.
Nel campo dell’alternanza scuola lavoro i pochi studenti che non hanno rinunciato al senso critico hanno provato a organizzarsi, ma la risposta delle migliaia di studenti marchigiani per il momento non è sembrata corrispondere all’urgenza dei problemi. Nella provincia di Pesaro e Urbino il collettivo Studenti Attivi ha fatto una partenza in salita. Un corteo a Pesaro nell’ottobre 2016, poi un altro a fine marzo 2017, la risposta in termini di numeri è stata molto debole anche perché la polizia politica ha il vizio di telefonare preventivamente ai rappresentanti degli studenti per dissuaderli dallo scendere in strada. In parallelo alcuni studenti e studentesse del collettivo hanno avviato un monitoraggio delle esperienze di alternanza, un racconto corale nel tentativo di arginare l’indifferenza e l’individualismo che spesso circondano le difficoltà dei più giovani nell’esperienza scolastica e lavorativa.
Cosa succederà in futuro? È necessario ancora molto lavoro di ascolto, di collegamento e di educazione di base per riportare tra i più giovani la consapevolezza delle contraddizioni e dei conflitti che si nascondono dietro il mantra delle lamentele istituzionali per la disoccupazione. Di chi è la colpa dei nostri problemi? Qual è la soluzione che possiamo trovare insieme? Non sono domande stupide, ma l’inizio di un necessario processo di organizzazione e di lotta per liberarsi dal posto di lavoro come forma di oppressione sociale e per riscoprire il valore del lavoro libero, della cooperazione e del mutualismo come forme di uscita dalla cappa di pesantezza e obbedienza imposta da dieci anni di prediche sulla crisi.