“Essendo poi anche cosa purtroppo molto contagiosa una ribellione”.
Fano, 1917: non vogliamo partire!
Di Luigi
Sotto l’acqua che cadeva a rovescio
grandinavano le palle nemiche;
su quei monti, colline e gran valli
si moriva dicendo così:
O Gorizia, tu sei maledetta
per ogni cuore che sente coscienza;
dolorosa ci fu la partenza
e il ritorno per molti non fu.
Anonimo, “O Gorizia, tu sei maledetta”
Soldato Angeli Enrico da S. Angelo in Vado, soldato Arcangeli Guerino da Auditore, soldato Amadei Domenico da Auditore… e così via. L’elenco dei “gloriosi caduti” del 94° reggimento durante il primo conflitto mondiale conta oltre un migliaio di nomi: 1.565 uomini di truppa e 54 ufficiali, per la precisione, oltre a 1.887 soldati e 67 graduati feriti. Tra il 1915 e il 1918 circa 6 milioni di uomini vengono arruolati nell’esercito regio, 600 mila di questi non tornano a casa, altri 500 mila ci tornano feriti nel corpo, tutti i sopravvissuti portano segni nell’animo. Dalle Marche partono in 174.197. Ne muoiono undici su cento, come se d’improvviso un rastrellamento con conseguente decimazione avesse travolto le città e soprattutto le campagne marchigiane, portandosi via ventenni e trentenni. A conti fatti, la guerra entra direttamente nelle case di otto famiglie marchigiane su dieci, per strappare e condurre al fronte o nei servizi connessi almeno un loro membro.
Tra i soldati del 94° fanteria che non ci hanno rimesso le penne, c’è chi si gode le 2 patacche d’oro, 151 d’argento e 219 di bronzo al valor militare. Ma né in questo elenco né in quello dei caduti troviamo i nomi di Enrico Cabiati, nato a Vignole Monferrato il 15 ottobre 1894, Sante Cicognani, nato a Faenza il 1 novembre 1878 e Giovanni Casadei, nato a Ravenna il 15 agosto 1878. Loro la guerra non l’hanno fatta. Privati di fucile e divisa, condannati per rivolta, invece che al fronte stavano dietro le sbarre a scontare lunghe pene detentive “perché le sera del 21 aprile 1917, essendo il drappello di cui facevano parte schierato in armi nel cortile della caserma del 94° fanteria in Fano, in procinto d’andare a raggiungere i corpi mobilitati in zona di guerra, si rifiutavano, insieme con altri militari rimasti sconosciuti, di partire, gridavano ad alta voce «abbasso la guerra, vogliamo la pace, non vogliamo partire» ed insistevano in tale rifiuto, malgrado gli ufficiali presenti avessero ordinato più volte di fare silenzio”. Il primo, Cabiati, era accusato anche di rifiuto di obbedienza, “perché giunto il drappello alla stazione ferroviaria avendo gli ufficiali presenti ordinato a tutti di fare silenzio, gridava ancora una volta «abbasso la guerra, vogliamo la pace» ed a richiesta del capitano Coppolino Francesco rispondeva dando false generalità”. Gli altri due, Cicognani e Casadei, anche di insubordinazione con vie di fatto verso superiore ufficiale, “perché nelle medesime circostanze di cui sopra il Cicognani vibrava un colpo di baionetta al maggiore Giannini Ismaele, senza però raggiungerlo, essendo l’altro riuscito a scansarsi. Il Casadei inveiva con il proprio fucile contro l’aspirante ufficiale Vigliardi Carlo per costringerlo a rilasciare il Barbieri, che veniva da lui condotto alla prigione”[1].
La guerra era una sventura presentata come sacro dovere. In tanti non si potevano rassegnare al triste destino di mettere in gioco le proprie vite per la grandezza di qualcosa che quelli con i gradi sulla divisa chiamavano “Patria”. I nostri tre erano infatti in buona compagnia, a giudicare dalle 870 mila denunce depositate nel ’15-’18: 470 mila per diserzione (di cui 370 mila riguardavano italiani già emigrati all’estero) e 400 mila per reati commessi “sotto le armi”.
Le forme del rifiuto potevano essere diverse, sia a carattere di insubordinazione individuale che di rivolta collettiva. A partire dalla renitenza alla leva, una pratica ben conosciuta, soprattutto nel mondo contadino, fin dai tempi del dominio napoleonico che aveva introdotto la coscrizione obbligatoria, ma di non facile attuazione perché la fuga all’estero con lo scoppio della guerra era di fatto impraticabile e nemmeno era semplice darsi alla macchia per lunghi periodi. Le Marche presentano un quadro a due tinte, con le province settentrionali che registrano un tasso di renitenza tra il 5 e l’11% e quelle meridionali tra l’11 e il 17%. Una volta arruolati c’era invece la possibilità di disertare, con o senza “passaggio al nemico”. Anche questa era una scelta difficile, non solo perché se riacciuffati c’era il plotone d’esecuzione, ma anche per le ritorsioni economiche e sociali nei confronti della famiglia. In realtà, a ben guardare, nella maggior parte dei casi non si trattava di gesti di aperto rifiuto della guerra, ma di episodi di breve durata che si concludevano con il rientro spontaneo nei ranghi, dettati dal desiderio di soccorrere la famiglia nel lavoro dei campi, dalla protesta per una licenza negata o, se concessa, dalla volontà di trattenersi qualche giorno in più con i propri cari. Un’ulteriore via di fuga era l’autolesionismo, cioè la pratica di infliggersi mutilazioni, che per sottrarsi ai sospetti dei maledetti medici militari, più attenti a smascherare quei poveri disgraziati che a curare i feriti, veniva messa in atto in maniera sempre più estrema e dalle gravissime conseguenze. Infine, si aveva l’estremo rifugio della vera o simulata “pazzia”: la guerra è piena di soldai sbroccati, ammutoliti, allucinati, smemorati.
Oltre agli atti individuali, non mancavano i gesti di rivolta collettiva, giudicati un fenomeno contagioso e quindi estremamente pericoloso, da condannare severamente anche qualora si tratti, in fin dei conti, solo di aver gridato insieme il proprio “abbasso la guerra”. Frase terribile nella quale, annotano i giudici in un processo simile a quello fanese, “i peggiori soldati compendiano tutta la loro avversità alla disciplina e all’alto dovere che stanno compiendo”[2]. Secondo il codice penale militare, art. 114, “sono considerati rei di rivolta i militari che, in numero di quattro o più, rifiuteranno, essendo sotto le armi, di obbedire alla prima intimazione dei loro superiori, ovvero prenderanno le armi senza essere autorizzati ed agiranno contro gli ordini dei loro capi. Gli agenti principali saranno puniti con la pena di morte e i loro complici andranno soggetti alla pena della reclusione militare da tre a dieci anni”.
La storia di Cabiati, Cicognani e Casadei ha inizio la sera del 21 aprile 1917, ore 19.00 circa, nel cortile della caserma Francesco Palazzi di Fano. Un gruppo di 410 militari schierati in armi stava attendendo le ultime disposizioni per la partenza verso la zona di guerra Vertoiba-Merna, a est di Gorizia, poco sotto l’Isonzo, dove avrebbe partecipato a una delle tante avanzate per la conquista di un fazzoletto di terra. Le loro mostrine sono quelle del 94° reggimento della brigata “Messina”. Come scriverà qualche settimana più tardi il generale Cadorna, tutto fiero, nel «Bollettino di guerra»: “nella zona ad oriente di Gorizia, la Brigata Messina (93° e 94° reggimento), conquistava l’altura di quota 174 a Nord di Tivoli, poderosamente rafforzata e accanitamente difesa dal nemico, ributtandone poi gli insistenti controattacchi”[3].
Sulla ricostruzione dei fatti avvenuti alla caserma e alla stazione ferroviaria di Fano prendiamo per buona l’unica fonte disponibile, cioè la sentenza del tribunale militare il cui dispositivo abbiamo già citato, D’altra parte immaginiamo che i giudici non abbiano perso troppo tempo a raccogliere incartamenti o ascoltare testimoni, né che i difensori, militari anch’essi, abbiano fatto altro rispetto a quanto facevano abitualmente in questi casi: rimettersi alla clemenza della corte. I giudici non hanno ombra di dubbio che quella sera si sia consumata una vera e propria rivolta, una rivolta perfetta: “infatti 410 militari protestarono con clamorose grida di non voler partire urlando ed imprecando cose insensate e indegne. Erano tutti sotto le armi. Non obbedirono alla intimazione di smettere, di star calmi. Elementi questi tutti chiari, incontrovertibili, integratori del gravissimo reato. E di più v’era stato anche il concerto. Prova non dubbia, il sentore avutone dalla P.S., che, contro il solito in occasione di partenze, aveva offerto i suoi servigi al comandante del deposito. Prova, ancora, la presenza di donne e bambini venuti a dare un addio ai partenti; presenza che avrà certo costituito la determinante occasionale. Rivolta pertanto perfetta in tutti i suoi estremi”.
Da queste righe emergono due elementi particolarmente interessanti. Il sentore di una certa premeditazione della protesta da parte dei soldati e la presenza di civili radunatisi per un saluto ai partenti. Donne e bambini di certo non erano andati a sventolare bandierine tricolori né a intonare inni patriottici. Nel 1917 l’insofferenza popolare nei confronti della guerra, non contenuta dalla rassegnazione, si andava traducendo in sempre più frequenti episodi di ribellione. Le manifestazioni di protesta sociale si estendevano di pari passo al crescente logoramento provocato da una guerra di cui non si vedeva la fine, originando una serie di agitazioni, tumulti ed episodi di lotta culminati nell’insurrezione di popolo, scaturita dalla mancanza di pane e farina, che sconvolse Torino nell’agosto 1917. Alle difficoltà oggettive delle condizioni di vita e di lavoro si sommava la netta sensazione di stare subendo un’ingiustizia, visto che chi sopportava i disagi e pagava i costi umani della guerra “patriottica” erano, come sempre ed esclusivamente, le classi popolari.
Anche nelle Marche si segnalano in quell’anno numerosi episodi di ribellione. Non nella forma dei classici scioperi a guida sindacale, ma come agitazioni spontanee che spesso hanno per protagoniste le donne. Il saluto ai contingenti di richiamati nel giorno della partenza verso il fronte era una delle occasioni per scendere in piazza, così come il pubblico rifiuto, come gesto di protesta antibellica, del sussidio economico spettante alle famiglie dei mobilitati; episodi di questo genere si verificano nell’urbinate e nell’anconetano, a S. Agata Feltria, Urbania, Ostra e a Montecarotto dove sono ben quattrocento le donne che rifiutano il vile denaro ribadendo il proprio unico desiderio: il ritorno a casa dei congiunti. Circa cinquecento filandaie unite a cento contadine manifestano a maggio a Osimo e ancora decine di donne si danno appuntamento a luglio a Sassocorvaro per reclamare la pace e il ritorno di mariti, figli e fratelli; sempre a luglio le setaiole di Jesi si scontrano al mercato con i commercianti “speculatori”; qualche mese più tardi a Cerreto d’Esi centocinquanta donne e ragazzi tentano di impedire la partenza di un camion carico di grano requisito ai contadini[4].
Notizie di tutto ciò, comprese quella sulla rivolta fanese, difficilmente sfiorano le colonne dei giornali locali, impegnate a cercare di sollevare il morale patriottico del fronte interno. A leggere le cronache, sui campi di battaglia le cose sembrano andare per il meglio e in città la raccolta dell’oro per la patria procede a gonfie vele: “si nota con compiacenza – scrive senza ritegno alcuno il quotidiano marchigiano «L’Ordine» – che nelle offerte hanno larghissima parte le classi meno agiate, le quali si privano senza rimpianto di oggetti cari”[5]. Mentre in Austria e Germania la gente starebbe morendo d’inedia – si legge ancora sui giornali locali – da noi il Commissario generale dei consumi emana il divieto di vendita e somministrazione delle fave fresche, così da accumulare come brave formiche scorte di prodotto secco, e sarebbe tutto perfetto se quei furbastri dei contadini, da colpire con fermezza, non sbocconcellassero impunemente la fava fresca nel campo.
Tornando ai fatti dei nostri eroi, l’11 settembre 1917 Calbiati, Cicognani e Casadei compaiono in tribunale. Dopo la breve ricostruzione dei fatti arriva la conclusione lapalissiana: se tutti tumultuavano, “essendo poi anche cosa purtroppo molto contagiosa una ribellione”, questi tre non possono escludersi dai tutti. Con un altro ragionamento giuridicamente alquanto bizzarro la corte riconosce negli imputati i principali istigatori della rivolta: se il Cabiati protestava e gridava una volta giunto alla stazione, vuol dire che il suo spirito era sovraeccitato e quindi “non può esserci dubbio” che anche precedentemente, nel cortile della caserma, fosse uno dei più esagitati. Discorso simile per gli altri due.
La condanna è alla pena di morte, ma grazie al riconoscimento delle attenuanti generiche si traduce in ventidue anni di carcere per Enrico Calbiati, venti per Sante Cicognani e venticinque per Giovanni Casadei. Andò loro bene, in due sensi. Da una parte, una pena inferiore ai sette anni sarebbe stata sospesa sino alla cessazione della guerra e pertanto si sarebbero ritrovati comunque al fronte; dall’altra, la pena di morte non era un’ipotesi così infondata, visto che i tribunali militari ne emisero in quegli anni oltre 4 mila (senza contare le fucilazioni sommarie al fronte e le pallottole nella schiena ricevute da chi non voleva saperne dell’Avanti Savoia!).
A guerra finita, con i regi decreti di amnistia e condono del settembre 1919 i tre ex-soldati saranno amnistiati per il rifiuto d’obbedienza e l’insubordinazione, mentre per il reato di rivolta la loro pena sarà ridotta della metà e commutata in condizionale. Lieto fine: escono dal carcere e tornano alle loro case.
Bibliografia
Memorie storiche del 94. Fanteria, Roma, Stabilimento poligrafico per l’amministrazione della guerra, 1922.
Ministero della guerra, Stato maggiore centrale, Ufficio storico, Brigate di fanteria: riassunti storici dei corpi e comandi nella guerra 1915-1918, v. 4, Roma, Libreria dello Stato, 1926.
Enzo Forcella, Alberto Monticone, Plotone di esecuzione: i processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza, 1968 [la sentenza della rivolta di Fano, con titolo Molla, molla…, a p. 162-165].
94° Reggimento fanteria, “impetuosa messanensis legio”, 1884-1945, [a cura del Comitato ex combattenti 94° Rgt. Ftr.], Fano, 1970.
Giovanna Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta: mentalità e comportamenti popolari nella grande guerra, Roma, Bulzoni, 1999.
Bruna Bianchi, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano (1915-1918), Roma, Bulzoni, 2001.
Luca Gorgolini, Emozioni di guerra. Le Marche di fronte ai grandi conflitti del Novecento, Roma, Carocci, 2008.
Marco Rossi, Gli ammutinati delle trincee: dalla guerra di Libia al Primo conflitto mondiale, 1911-1918, Pisa, BFS, 2014.
[1] Archivio centrale dello Stato (ACS), Tribunale supremo, Tribunali di guerra e territoriali, b. 138, f. 246/II, sent. 521
[2] Enzo Forcella, Alberto Monticone, Plotone di esecuzione: i processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza, 1968, p. 69.
[3] Brigata Messina in Ministero della guerra, Stato maggiore centrale, Ufficio storico, Brigate di fanteria: riassunti storici dei corpi e comandi nella guerra 1915-1918, v. 4, Roma, Libreria dello Stato, 1926, p. 217-240. <http://www.cimeetrincee.it/messina.pdf>. Il «Bollettino di guerra» citato è del 16 maggio 1917.
[4] Su questi episodi si veda Luca Gorgolini, Emozioni di guerra. Le Marche di fronte ai grandi conflitti del Novecento, Roma, Carocci, 2008, p. 74-78.
[5] La raccolta dell’oro, «L’Ordine», 21 aprile 1917.