La morte della falegnameria nell’epoca della produzione industriale
Di Bertrand Louart, falegname-ebanista
Anche partendo da uno specifico aspetto si può comprendere la portata complessiva dell’attacco alle condizioni di vita condotto dalla società industriale, che con il suo sviluppo tecnologico ha in realtà causato il regresso e la perdita di abilità e saperi millenari. L’umanità “civilizzata” appare oggi sempre meno capace di gestire autonomamente le proprie necessità e sempre più dipendente dalla produzione industriale, che la circonda di merci a rapido deperimento, inquinanti e prodotte in condizioni di lavoro a cui le antiche botteghe artigiane non hanno nulla da invidiare. Accettando di delegare senza riserve al sistema industriale il compito di approvvigionarli di tutto ciò di cui – spesso apparentemente – necessitano, individui e collettività del mondo contemporaneo hanno smarrito la possibilità di intervenire in prima persona sugli oggetti del vivere quotidiano e sarebbe ora di chiedersi che cosa ogni pur piccolo progresso tecnologico abbia fatto perdere in termini di autonomia, creatività, soddisfazione ed equilibrio sociale.
Nello specifico, boschi, alberi e legna hanno da sempre accompagnato lo sviluppo umano fino alle trasformazioni introdotte dalla meccanizzazione industriale, nella cui logica un materiale “vivo”, com’è appunto il legno, non è che di ostacolo all’efficienza economica. Nelle Marche conosciamo bene il settore. Il distretto del mobile di Pesaro, sviluppatosi dal boom del dopoguerra, raccoglie tante piccole aziende e alcune grandi realtà che sfornano a ciclo continuo surrogati di mobili per case neomoderne. Gli operai sono addetti alla movimentazione e al controllo macchine, mentre i falegnami, con la propria abilità e il proprio orgoglio, sono diventati una specie rara che produce pezzi su misura per l’alta fascia di mercato, oppure si limita a piccoli ritocchi, a produrre accessori o, al massimo, a coprire fasi marginali del ciclo produttivo.
Con piena consapevolezza che l’opposizione alla tecnologia industriale non deve guardare a un nostalgico ritorno al passato, né limitarsi a una sua gestione più “sostenibile”, ma tendere alla riappropriazione del pieno controllo sulle nostre vite e al superamento radicale delle condizioni esistenti di sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente, pubblichiamo in prima traduzione italiana una serie di estratti dal testo di Bertrand Louart, “La menuiserie et l’ébénisterie à l’époque de la production industrielle”, uscito in «Notes & morceaux choisis. Bulletin critique des sciences, des technologies et de la société industrielle», n. 6, ottobre 2004[1]. L’auspicio è che, a partire dalla ricerca di condizioni di autonomia e libertà in ogni aspetto della vita quotidiana, si riescano a sperimentare e trovare le strade giuste per elaborare altri rapporti sociali, alternativi e conflittuali rispetto al totalitarismo del modo di vita industriale.
Fino alla metà del XIX secolo tutte le opere di falegnameria ed ebanisteria sono state realizzate a mano da cima a fondo, cioè mettendo in opera la forza muscolare degli uomini, la loro abilità manuale e la loro pazienza – si potrebbe anche dire la loro abnegazione. Non è facile oggi nei paesi industrializzati – dove le macchine sono onnipresenti e “facilitano la vita” al punto talvolta di svuotarla del suo sale – immaginarsi la notevole quantità di lavoro che necessitava la più modesta opera di falegnameria in un tempo in cui bisognava fare tutto, ma assolutamente tutto, con utensili manuali.
Senza parlare dell’abbattimento degli alberi né del taglio dei tronchi, il taglio delle tavole, la piallatura e il dimensionamento dei pezzi, gli assemblaggi, le modanature, la levigatura e altre finiture, l’insieme di queste operazioni richiedeva un lavoro paziente e lungo, un’abilità manuale sviluppata a forza di ripetere gli stessi gesti. Così, gli apprendisti delle botteghe di falegnameria ed ebanisteria, insieme alla manutenzione e all’affilatura degli attrezzi, durante gli anni imparavano a piallare correttamente dei pezzi di legno e, in base alla loro abilità, erano promossi a delle mansioni sempre più elaborate. Oggi, con una piallatrice combinata un apprendista prepara un pezzo di legno in pochi minuti e la sua messa al lavoro necessita di un apprendistato di appena qualche giorno.
Senza negare i notevoli contributi di una certa meccanizzazione – i macchinari permettono agli artigiani di liberarsi dai compiti in cui si tratta di dare al materiale le sue caratteristiche fisiche e tecniche (dimensioni, stato di superficie dei pezzi, etc.) – sono queste condizioni che hanno generato le belle opere (e anche i begli utensili) che possiamo ancora vedere.
Il legno è un materiale vivente e questa particolare qualità entra in risonanza con la nostra sensibilità: ecco cosa rende questo mestiere ancora così attraente e piacevole, malgrado quello che gli è accaduto. In effetti si è soliti opporre il lavoro manuale (sporco e penoso, delle fabbriche) al lavoro intellettuale (pulito e gratificante, degli uffici), ma questa separazione non è assolutamente “naturale”, è piuttosto il prodotto di una divisione sociale generale del lavoro che implica da un lato dei dirigenti e dall’altro degli esecutori. Un mestiere come la falegnameria – e ancor di più l’ebanisteria – mostra che, nella sua dimensione artigianale, il lavoro vivente necessita al contrario della combinazione di un insieme vario di competenze e qualità.
C’è evidentemente tutta la parte economica e tecnica in cui si dispiega l’aspetto razionale e “scientifico” dell’attività: costruzione, disegno tecnico, valutazione delle quantità, uso dei macchinari, etc. Ma questo aspetto non è in realtà assolutamente separabile da quello, molto più soggettivo e delicato, della concezione generale e della realizzazione dell’opera. È infatti proprio l’aspetto sensibile che dirige l’esecuzione dell’opera, mentre il lato razionale non serve che a organizzarla e a fare in modo che il lavoro sia condotto a buon fine. In effetti solo l’esperienza del lavoro e dell’utilizzo dei differenti tipi di legno può permettere di concepire l’opera utilizzandone al meglio sia le proprietà meccaniche che estetiche.
In particolare nell’ebanisteria, dove la costruzione è più elaborata, è importante sapere quali tipi di legno sono duri o fragili, se “lavorano” molto e come, qual è la loro durezza, etc.; in breve, tutto un insieme di dati fisici che, combinati, permetteranno di assicurare la robustezza e la durata dell’opera. È altrettanto importante conoscere che tipo di taglio farà apparire una certa venatura, se valorizzerà la specchiatura o al contrario dissimulerà i nodi. A partire dalla progettazione, bisogna pensare al tipo di finitura da effettuare in funzione delle specie di legno impiegate; visto che, seguendo la tessitura del legno, la finitura non ha necessariamente lo stesso aspetto. Dalle prime fasi dell’esecuzione – la scelta delle lastre segate ancora grezze, il disegno e il taglio dei pezzi in queste lastre – è necessario pensare all’aspetto finale dell’opera poiché sono le parti visibili che andranno a determinare il suo aspetto generale. Così come non ci sono due alberi identici, c’è anche un numero considerevole di sottigliezze che talvolta si scoprono durante l’avanzamento della lavorazione…
Il lavoro artigianale fa dunque appello sia all’intelligenza pratica che all’abilità manuale, nella misura in cui si adopera alla progettazione e all’esecuzione di un’opera nella sua totalità e si inserisce nelle relazioni sociali che questa implica. Purtroppo, il sentimento dell’indipendenza – essere il proprio maestro – e di nobiltà del lavoro artigianale – fare belle cose con le proprie mani – tendono a scomparire dal momento che numerosi falegnami da una parte lavorano in fabbrica, come salariati, dall’altra sono considerati come “artigiani” dagli uffici fiscali, quando in realtà fanno essenzialmente dell’Ikea su misura. In entrambi i casi, si realizza una sorta d’inversione della direzione del mestiere: è l’aspetto economico e tecnico che determina le opere e non più la sensibilità umana né le caratteristiche vive del legno.
In confronto a ciò che si faceva circa cinquant’anni fa, la falegnameria ha subito delle profonde trasformazioni con l’invenzione di nuovi materiali, di macchine leggere facili da mettere in opera e di procedimenti tecnici combinati gli uni agli altri. Lungi dall’arricchire il mestiere, dal variare il lavoro e dal rinnovare le forme – senza parlare d’inventare uno stile – questi prodotti non hanno fatto che impoverirli tutti insieme. La falegnameria è l’esempio tipo di una “modernizzazione” del mestiere che non è venuta direttamente da parte delle macchine utilizzate nell’esecuzione delle opere. Agli inizi degli anni Trenta, tutti i perfezionamenti auspicabili erano già più o meno realizzati grazie alle macchine-utensili, e l’automazione della produzione non era allora tecnicamente realizzabile – andremo a vedere perché. L’industrializzazione è arrivata sul versante del “materiale legnoso”, come si dice oggi.
La grande invenzione sono i pannelli in legno cosiddetto “ristrutturato”; una bella inversione pubblicitaria del linguaggio, visto che si tratta precisamente di materiali che non hanno più la struttura del legno, o che non hanno proprio, per quanto riguarda i più recenti, più nessuna struttura. Ne esiste una grande varietà, tanto per composizione che per qualità, mi limiterò dunque a citare i più conosciuti, come il compensato-melaminico (a quest’ultimo, meglio conosciuto con il nome commerciale di Formica, dobbiamo i magnifici mobili degli anni Cinquanta e Sessanta ed è l’antenato del melaminico attuale) e ultimamente l’M.D.F. (Medium Density Fiberboard, pannello di fibre di media densità, chiamato anche “medio”), che sono fatti di segatura e polvere di legno legate con della colla. Con la ferramenta che è loro associata e i macchinari elettrici, costituiscono un insieme tecnologico che si sostituisce in gran parte, se non nella totalità, al saper fare dell’artigiano e in questo modo annientano – nel senso letterale del termine: riducono a niente – il mestiere.
Il problema che comporta l’industrializzazione di un mestiere come la falegnameria è che il suo materiale di base non è assolutamente adeguato, non tanto a un trattamento meccanico, bensì a una catena più o meno automatizzata di trattamenti meccanici. Perché il legno è un materiale vivente. Anche se tagliato, segato ed essiccato, cioè quando non presenta più alcuna attività biologica, resta un materiale vivente le cui qualità specifiche – esattamente quelle per le quali è impiegato – sono fuori dalla portata delle macchine.
I nodi, le fibre, i disegni delle venature, la tessitura; la varietà di tipologie e la diversità delle loro proprietà; le deformazioni e dilatazioni che fanno dire che il legno lavora; le composizioni, la costruzione e le finiture che valorizzano o al contrario dissimulano i suoi “difetti” (termine usato qui nel senso generale di mancanza di uniformità del materiale); tutto questo è troppo complicato. In qualunque pezzo di legno c’è ancora troppa vita, troppi parametri incerti per le macchine. Peggio ancora: l’uso che per millenni si è fatto del legno è spesso estetico, serve ad abbellire e arricchire il quadro della vita umana. In altre parole, solo la sensibilità umana può affrontare la sua complessità e coordinare le diverse qualità e proprietà specifiche del legno per farne veramente un’opera. In breve, la messa in opera del legno implica una gran parte di lavoro vivente.
Ma l’industria e l’economia mercantile si preoccupano innanzitutto di produzione e di vendita; queste preoccupazioni implicano di ricondurre tutte le operazioni a delle procedure standardizzate che permettono delle lavorazioni meccaniche; razionalizzazione indispensabile a una produzione in serie che può assicurare, essa sola, un buon “rendimento degli investimenti”. Per il commercio e l’industria, il legno è il nodo del problema. Bisogna dunque conservare del legno le caratteristiche fisiche e tecniche che gli ingegneri possono quantificare, conoscere scientificamente e manipolare grazie alle macchine, sopprimendo il legno stesso. Se è troppo complesso, dopo la riduzione del problema che esso pone, tramite la decomposizione della sua struttura in elementi semplici e uniformi, non ne resteranno che trucioli, segatura o polvere.
Infatti, nella ristretta visione dell’industria, la segatura è infinitamente più gestibile del legno. In primo luogo, cresce più velocemente. Così, dal 1946, la creazione del Fondo Forestale Nazionale (FFN) è accompagnata da disposizioni volte ad aumentare la disponibilità di legno di conifere tramite ambiziosi imboschimenti e rimboschimenti, anche di specie scomparse dopo l’ultima glaciazione. Questa proliferazione di conifere nei boschi – nei paesi tropicali l’eucalipto gioca lo stesso ruolo – rappresenta una regressione dal punto di vista biologico: la monocoltura di conifere comporta una perdita di biodiversità, l’acidificazione dei suoli e altre modificazioni idrologiche dovute al minor radicamento degli alberi.
Poi, contrariamente al legno massello, la segatura è omogenea: mischiata a delle colle, pressata a caldo, forma delle piastre di grandi dimensioni, regolari nella composizione, uniformi nello spessore, stabili e indeformabili; ed ecco il pannello di trucioli o di fibre. Incollando su ciascuna faccia un foglio di Formica, di melaminico o adesso un semplice foglio di carta cerata sulla quale sarà stata stampata una foto di “decorazione legno” – preferibilmente di quelle latifoglie che appunto scompaiono dai nostri boschi o di quelle preziose specie che stanno diventando rare – si avranno tutti i vantaggi del legno senza nessuno degli inconvenienti: vale a dire una povera cosa, un surrogato, uno spettacolo.
L’idea di partenza era dunque molto semplice in apparenza: utilizzare gli scarti di segheria o di piallatura mescolati a della colla per ricostruire un materiale simile al legno e che pertanto potrebbe essere direttamente sagomato piuttosto che modellato. Ma nella realtà la messa in pratica di questa idea si è rivelata molto complicata. La principale difficoltà risiede nell’incollaggio dei trucioli: è necessario che la colla ricopra di una fine pellicola la superficie dei trucioli e niente più, in modo che durante la messa sotto pressione, le connessioni tra i trucioli assicurino la coesione del pannello nel suo insieme. Non basta dunque, come con del cemento o del gesso (dove i legami tra gli elementi si fanno su scala molecolare, per cristallizzazione di certi componenti), prendere un secchio di colla e mescolarlo a cinque secchi di segatura, stendere il tutto sotto una pressa e attendere che la colla secchi per ottenere un composto la cui solidità e resistenza siano vagamente paragonabili a quelle del legno.
Ciò precisato, si capisce che la fabbricazione di pannelli di trucioli implica un insieme di compiti sottili e delicati che non sono assolutamente alla portata della pazienza e dell’abilità di un essere umano, anche se eccezionalmente dotato. Solo una macchina può realizzare tali risultati, solo delle colle ottenute dalla chimica di sintesi possono avere le proprietà richieste. E, dunque, è attorno a questi problemi che si costruisce la strumentazione estremamente complessa che va a mettere in pratica quella che inizialmente era un’idea molto semplice. Perché si potrebbe credere che niente assomigli di più a un mucchio di segatura che un altro mucchio di segatura. Ma in realtà, per questi macchinari più sensibili e delicati di qualunque essere umano, non è così: perché ciascun truciolo sia correttamente incollato, bisogna che abbiano tutti la stessa dimensione, perché è solamente così che si può calcolare con precisione e iniettare nel soffiatore che realizzerà l’incollaggio l’adeguata quantità di colla. In altre parole, la stessa segatura è ancora troppo irregolare: ci vuole del cippato calibrato. È dunque a partire da qui che tutto un insieme di problemi tecnici si pongono e si incatenano gli uni di seguito agli altri, giustificando dei trattamenti e dei dispositivi particolari.
Il risultato sono delle gigantesche macchine-impianti nelle quali, ad ogni stadio della produzione, c’è una regolazione estremamente precisa della temperatura, della pressione, della densità e dell’umidità dei trucioli o delle polveri in sospensione nell’aria; della dimensione delle goccioline d’aerosol, della viscosità e della diffusione delle resine e altre sostanze chimiche che daranno al pannello le sue proprietà finali; una valutazione dell’usura del materiale in funzione dei prodotti che manipola la macchina. Tutto è verificato e analizzato di continuo da centinaia di sensori; registrato, calcolato, previsto dai computer che pilotano il processo in tempo reale. Gli ingegneri hanno attentamente determinato le “condizioni limite”, cioè gli eventi che possono causare l’ostruzione dei condotti, l’intasamento dei meccanismi, l’incendio o l’esplosione dei composti; hanno risolto tutti i problemi legati alla diffusione del vapore, alla polimerizzazione delle resine e all’interazione tra gli aspetti meccanici e termodinamici dei procedimenti. Niente, assolutamente niente può essere lasciato al caso, e ancora meno all’iniziativa umana, in un tale automatismo.
Il lettore vorrà scusarmi di questa, molto succinta, spiegazione della fabbricazione dei pannelli, ma mi sembrava indispensabile per fare ben comprendere a cosa ci riferiamo di preciso con questi materiali. E non ho citato qui che l’essenziale di questo procedimento […]. Vengono i brividi nel vedere a qual punto gli ingegneri hanno sviluppato dei tesori d’ingegnosità per distruggere il legno. Perché, non c’è da avere alcun dubbio a riguardo, è proprio per questo che sono state impiegate tanta scienza, intelligenza e inventività: a rendere morta, con l’aiuto di un procedimento industriale e di un’organizzazione economica, qualcosa di vivente e che in quanto tale partecipava alla vita quotidiana e alla vita sociale.
L’intero procedimento di produzione dei pannelli è stato concepito razionalmente e dall’inizio alla fine da ingegneri sulla base delle loro conoscenze scientifiche e delle loro analisi delle proprietà e del comportamento dei materiali. Nessun lavoro vivente ha il suo posto in questo procedimento e ciò non è dovuto alla presenza di macchine, ma è inerente alla natura della produzione stessa che non può essere effettuata se non da tali macchine. In effetti, fintanto che l’automatizzazione necessaria per effettuare questo lavoro non esisteva, ricostruire del legno a partire dalla segatura era semplicemente assurdo dal solo punto di vista tecnico ed economico: sarebbe stato molto più complicato e costoso per un risultato che sarebbe stato più mediocre dei procedimenti conosciuti fino allora, cioè i pannelli di legno in compensato o in lamellare incollato. Si sarebbe dovuto, per fare concorrenza a questi prodotti ricostituiti, raggiungere subito una perfezione tecnica che nessun procedimento integrante lavoro vivente avrebbe potuto realizzare.
Siamo dunque di fronte a un sistema tecnico radicalmente diverso da quello che si è sviluppato sulla base empirica e tradizionale dei mestieri o di quello che si fonda sulla conoscenza e la padronanza scientifica della materia, permettendo così di realizzare parzialmente l’industrializzazione delle pratiche e la meccanizzazione dei procedimenti derivanti dai mestieri. Non ci si accontenta più di utilizzare al meglio le proprietà conosciute della materia mediando con i suoi “difetti” o i suoi “inconvenienti” – che nell’ideazione dell’opera segnano l’alleanza tra l’uomo e la natura –, ma si creano appositamente dei materiali specifici aventi proprietà meccaniche e fisiche determinate, precise e senza ambiguità. È un rovesciamento completo di prospettiva nell’ordine della produzione: le capacità d’indagine della scienza, alleate alla potenza dell’industria, cercano di sottomettere totalmente la natura e gli uomini per creare un mondo manipolabile tecnicamente.
Si rimprovera alla nostra epoca di essere povera di grandi realizzazioni artistiche, ma il fatto è che non le si vede: le cattedrali dei nostri tempi, le realizzazioni in cui gli uomini hanno messo tutto il loro cuore, sono queste fabbriche automatiche (poco importa che producano dei pannelli, dei computer o delle automobili) che divorano la sostanza del mondo e la riducono in polvere agglomerata, in oggetti inutili e anche nocivi, effimeri perché destinati a trasformarsi rapidamente in rifiuti e in fin dei conti ingombranti – essi invadono la vita, li si incontra ovunque e la loro circolazione paralizza tutti, annienta le condizioni della nostra autonomia e della nostra libertà.
Questa distruzione dell’attività vivente è appena cominciata…
È evidente che i pannelli in legno ristrutturato non sono pannelli in legno massello e il cambiamento delle pratiche legate alla loro realizzazione su larga scala è radicale. Con l’eliminazione degli assemblaggi e della preparazione dei pezzi di legno è tutto il mestiere che viene sconvolto. Non si possono realizzare assemblaggi di compensato o di M.D.F., la cui resistenza meccanica è troppo debole per questo, e così l’allestimento dei pezzi è ridotto al semplice taglio dei pannelli. La realizzazione delle “opere” risulta fortemente semplificata: non sono più oggetto di una costruzione – assemblaggio di diversi parti progettate per costituire un insieme coerente – ma più semplicemente di un montaggio – legame di diversi elementi di superficie con l’aiuto di tutto un sistema di giunzioni metalliche o plastiche. L’utilizzo dei pannelli impone un tipo di costruzione e una forma specifica: il suo principio generale è la scatoletta.
Mentre la falegnameria e l’ebanisteria tradizionali consideravano una sorta di punto d’onore limitare l’utilizzo di metallo nelle opere (anche perché è stato a lungo molto costoso), riservandolo a quella ferramenta indispensabile alle parti mobili o meccaniche (porte, battenti, etc.) o alla decorazione (bronzi, intarsi), la concezione del mobilio industriale è al contrario interamente fondata sull’uso intensivo di tutta una serie di chiusure e ferramenta appositamente studiate per sopperire all’impossibilità di realizzare degli assemblaggi tra i materiali ristrutturati. Inoltre si fa un grande uso della chimica di sintesi: i solventi, le resine, le colle, le vernici, i melaminici, etc. permettono di ottenere rapidamente degli stati di superficie e di effettuare delle finiture tecnicamente impeccabili, riducendole spesso e volentieri alla posa di una decorazione.
La perfezione tecnica dei materiali così realizzati è tale che ogni intervento umano presenta il rischio di alterarla, che si tratti della produzione stessa o, più ancora, della manutenzione, del trasporto o del montaggio. Tutta l’abilità del lavoratore durante le differenti operazioni sta allora nel proteggere e valorizzare questa perfezione tecnica che non ammette alcuna fantasia né iniziative estemporanee: in realtà questa perfezione astratta e fredda annienta il lavoro vivente, lo riduce a un puro e semplice bricolage, qualcosa in effetti di piuttosto vergognoso, che soprattutto non deve apparire nel prodotto finito. Ma l’automatizzazione e l’integrazione tecnologica non sono ancora arrivate al punto di poter fare a meno del lavoro umano, in particolare per il montaggio e la posa in opera. Malgrado i progressi nelle costruzioni ci sono dei muri che persistono a non essere dritti e ad angolo retto e c’è dunque ancora bisogno d’effettuare qualche ultimo ritocco e aggiustamento. Questi lavoretti dell’ultimo minuto, destinati a rimediare agli inevitabili errori, saranno sempre necessari; ma in tutto ciò si vede a che punto la perfezione tecnica consacri finalmente la svalutazione completa del lavoro umano, l’obsolescenza dell’uomo di fronte alla macchina e di fronte ai suoi prodotti, i materiali ristrutturati.
In effetti, attraverso questo insieme di procedimenti, gli ingegneri e gli uffici studi hanno standardizzato e razionalizzato tutto quello che era precedentemente competenza dell’intelligenza pratica dell’operaio, che si sviluppava al contatto con un materiale vivente e con le varie circostanze della sua messa in opera. Le operazioni di preparazione del legno, in cui l’operaio poteva dispiegare la sua abilità ed eventualmente apportare il suo tocco personale, sono ridotte a nulla, a favore di un montaggio di elementi prefabbricati, di giunzione tra prodotti quasi finiti. La forma del lavoro è fissata, nel senso quasi fotografico del termine, attraverso questi procedimenti, materiali e macchine e questo lavoro si ritrova così completamente dequalificato e svuotato di ogni contenuto: tutta l’ingegnosità è così cristallizzata nella neo-materia prodotta, l’attività dell’uomo non consiste in altro che nel combinare logicamente questi elementi secondo le necessità del momento. Il risultato è certamente perfetto da un punto di vista tecnico, ma senza interesse dal punto di vista umano, tanto per quello che riguarda l’esecuzione che per l’opera stessa.
In breve, la falegnameria d’arredo è oggi veramente ridotta a non essere altro che delle sequenze di banali operazioni materiali, consacrando così la divisione radicale tra lavoro manuale e intellettuale.
Tutto dimostra che è impossibile avere allo stesso tempo una produzione di massa, a maggior ragione automatizzata, e dei prodotti di qualità. Più precisamente, la produzione industriale può realizzare dei prodotti perfetti dal punto di vista tecnico che le è specifico, ma senza valore e senza anima dal punto di vista umano. La ricerca di “qualità” di cui le nuove tecniche di management non smettono di parlare (circoli di qualità, controllo di qualità, norme ISO, etc.) non è nient’altro che questa perfezione tecnica i cui parametri sono rigorosamente quantificati e controllati in tutti gli stadi della produzione: si tratta di una razionalizzazione tecnica della produzione che non ha niente a che vedere con un miglioramento dei prodotti di tipo culturale o sociale.
Al contrario, questa produzione funzionale, abbondante e a buon mercato non può che corrompere tutto il resto. Non si ricorderà mai abbastanza che una tale produzione si fonda sullo sfruttamento a grande scala e sullo spreco gigantesco di risorse vitali e viventi provenienti da tutto il pianeta. A questo punto, è l’insieme dei valori umani che fondano una società a ritrovarsi a poco a poco distrutto dall’eccesso tecnologico che rende possibile ed effettivo un tale disprezzo della vita, diventando la base materiale, e di conseguenza il principio unificatore, di questa organizzazione sociale (secondo il principio “un crimine commesso in comune fonda una comunità”). È per prima cosa l’attività umana vivente nel suo insieme, le arti e i mestieri, che sono distrutti tramite i condizionamenti economici e tecnici indotti al ribasso, come abbiamo visto. In seguito, nella misura in cui non è un settore isolato della produzione ad essere in tal modo industrializzato ma l’insieme delle attività produttive, il gusto e il giudizio sono progressivamente alterati in tutti i membri della società.
L’estetica industriale, fredda e funzionale, geometrica e spogliata di ogni ornamento diventa la norma; avendo invaso tutto lo spazio sociale, si finisce per trovarla “bella” per mancanza di punti di paragone, ma anche e soprattutto per delle ragioni ideologiche, perché essa è il simbolo della “Modernità” e del “Progresso” che niente può fermare, come si sa, e al quale bisogna dunque sottomettersi (Ikea è stata storicamente all’avanguardia di questa tendenza dell’arredamento). Ora che ha occupato tutto lo spazio sociale, che ciascuno nella sua vita ne dipende, sono rari coloro che osano semplicemente esercitare il proprio giudizio su altro che non siano le qualità economiche e tecniche di quello che la mega-macchina industriale produce per noi (in realtà contro di noi).
Si può dunque constatare che man mano che la produzione industriale si fa carico di nuovi aspetti della vita quotidiana e della vita sociale (dall’alimentazione all’urbanistica) si assiste alla predominanza dei valori d’efficacia tecnico-economica a discapito dei valori umani, estetici, culturali e socio-politici. Imprimendo su questa base materiale i suoi propri valori, l’industrializzazione svaluta ed elimina ogni attività autonoma, estranea al suo sistema di valori. La forza del sistema industriale è oggi tale che se ci sono persone che pretendono di contestare dei prodotti industriali o l’imposizione di falsi bisogni, lo fanno mettendo in risalto l’efficacia ecologica, tecnica o economica delle loro pratiche alternative – di certo importante – e solo in secondo piano i valori di ordine umano, sociale o estetico, ancor più raramente politico. Così concepiscono la soluzione della crisi ecologica essenzialmente nei termini stessi del sistema che ne è all’origine. Vogliono “salvare il pianeta”, sono disposti a farsi carico delle misure tecnico-ecolocratiche che vanno nella direzione di una “migliore gestione” e che in realtà rinforzano il dominio del sistema industriale sulle risorse vitali. È pertanto questa visione amministrativa, questa strumentalizzazione della natura e del comportamento umano per dei fini opposti al rinnovamento e all’arricchimento di queste risorse che è il cuore del problema.
Con i pannelli e gli altri elementi tecnici che contribuiscono alla loro realizzazione, siamo in presenza di un sistema tecnico completamente nuovo, che non ha più niente a che vedere con i mestieri nella loro forma tradizionale e persino nella loro forma industrializzata per come si è sviluppata nel XX secolo. Si può senza dubbio legittimamente qualificare questo sistema come tecnologico: poiché è il prodotto di un’alleanza tra conoscenze tecniche e scientifiche (in greco antico tekhnê e logos) molto elaborate, che hanno permesso attraverso studi e analisi puramente quantitative e astratte la realizzazione di un macchinario che effettua un lavoro, produce dei materiali e dei beni che nessun essere umano potrebbe altrimenti realizzare.
Non è questo il luogo per soffermarsi su un’analisi generale e più approfondita di questo sistema tecnologico, delle sue cause e origini storiche. Ma mi sembrava necessario segnalare questo notevole cambiamento – generalmente inosservato – che inaugura l’era nella quale viviamo ancora. Il suo significato politico e sociale resta ancora largamente incompreso: si tratta soprattutto di una nuova economia politica, in cui la scienza e la tecnologia diventano poco a poco i fattori dominanti di organizzazione e produzione e tendono a subordinare a sé i fattori sociali e politici, mentre il modo di produzione industriale si fa carico di aspetti sempre più numerosi della vita sociale e della vita quotidiana. In questo modo, progressivamente, esso riformula i problemi sociali e politici nei termini e nei valori che gli sono propri, cioè in termini di efficacia tecnica, di flessibilità funzionale e di redditività economica, dando luogo a quella che si può giustamente chiamare società industriale.
“La questione, quindi, non consiste tanto nel vedere se siamo i padroni o gli schiavi delle nostre macchine, ma se le macchine servono ancora il mondo e le sue cose, o se, al contrario, con l’automatismo dei loro processi abbiano cominciato a dominare e anche a distruggere il mondo e le cose”[2]. Allo stesso modo, la complessità tecnica e l’integrazione nelle reti economiche che tutte queste macchine implicano, oltrepassando ogni misura umana, rende impossibile la riappropriazione e il riorientamento della loro produzione verso degli scopi definiti socialmente, contrariamente alle macchine-utensili degli inizi del XX secolo. È nella misura stessa in cui la tecnologia è diventata una forza politica, superando e travolgendo le forze sociali, che un progetto di emancipazione è diventato oggi letteralmente inconcepibile. Da tutti i punti di vista, questa evoluzione storica costituisce un vicolo cieco, ed è, purtroppo, poco probabile che l’umanità possa uscirne fintanto che il dominio tecnologico non si allenterà.
Questa constatazione disillusa non deve però impedire di continuare a fare finché possibile delle belle opere “in vero legno d’albero”. È questa la condizione per mantenere vivo, malgrado tutto, questo mestiere. E come diceva William Morris: “trovate quello che vi piace e praticatelo, non sarete isolati e troverete senza fatica dell’aiuto per realizzare i vostri desideri. Sviluppando i vostri gusti personali svilupperete la vita sociale”[3].
[1] Traduzione di Bertrand Louart, La menuiserie et l’impasse industrielle, «Cadmos», n. 11, aut. 2007, p. 37-53; https://sniadecki.wordpress.com/2012/02/05/louart-menuiserie.
[2] Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 2018, p. 107-108.
[3] William Morris, La société de l’avenir [1887], in L’âge de l’ersatz et autres textes contre la civilisation moderne, EdN, 1996