Expo insegna: la devastazione e il saccheggio come modalità di governo
Di Gianluca
Sei mesi di Expo, ormai prossimi alla conclusione, possono darci una chiave di lettura del presente. Questa grande fiera dello sfruttamento e dell’ipocrisia, passerella luccicante del capitale e delle sue pratiche predatorie, ha retto l’urto dello scandalo a seguito delle inchieste per corruzione e malaffare, mentre i movimenti non sono riusciti ad inficiarne la retorica paternalistica e trionfalistica.
Dopo la fiammata del 1° maggio il nulla. Un incendio isolato, ripiegato su se stesso, come un fiore che nasce, cresce ed appassisce in un sol giorno. A seguire il deserto. Disgregazione diffusa e totalizzante per un movimento che arranca dietro a se stesso e ai propri fantasmi. Nel frattempo, dall’altra parte della barricata, il nemico ha sperimentato il nuovo assetto che vuole imprimere al paese. L’esposizione universale va letta non solo come lo specchio di un paese sotto attacco, dunque, ma può diventare la cartina di tornasole per una guerra che è già cominciata e di cui vanno colte le implicazioni e le possibili strategie di contrasto. Niente, o molto poco, resta da difendere: tutto da conquistare, da reinventare. A partire dalle diverse sacche di resistenza anticapitalista che, nonostante tutto, continuano ad avere la forza e la potenzialità per imporre una rottura, una battuta d’arresto. Non è l’unità a tutti i costi ciò che serve ai movimenti, ma un linguaggio in comune ed una definizione chiara di chi è il nemico e degli obiettivi che si pone. L’Expo non è solo la fotografia nitida di ciò che le classi subalterne hanno subito negli ultimi anni, ma principalmente una dichiarazione d’intenti: un futuro negato in un paese totalmente ristrutturato.
La capacità di leggere questa sottile differenza potrebbe essere la condizione per proiettarci in avanti, al di là del grande evento, oltre una sconfitta che rischia di fagocitare anni di esperienze maturate nelle lotte contro le grandi opere. Perché a voler guardare bene la sfida che ci si pone è il sabotaggio di una sola grande opera: un unico, enorme, articolato modello di accumulazione, che allo sfruttamento del lavoro accompagna il saccheggio dei territori, dotandosi di una pratica politica autoritaria che non ammette intralci. Sentiamo infatti ripetere continuamente che il paese sta cambiando e non ci si possono permettere battute d’arresto. Il governo delle grandi intese non si stanca di ripeterci che il mondo ci guarda e non possiamo permetterci brutte figure. Da qui lo scandaloso accordo con i sindacati confederali che hanno accantonato il diritto di sciopero nei sei mesi precedenti l’esposizione e durante l’intera durata della stessa. Medesima retorica, possiamo affermarlo oggi, con cui si annuncia la stretta sugli scioperi perché, dal sito archeologico di Pompei al settore dei trasporti, non si possono creare disagi in un momento così delicato. Bisogna sacrificare, ancora, dignità e vita al supremo interesse della ripresa economica.
Lo si diceva anche per la TAV ed oggi non ci crede più nessuno: non possiamo fermare il progresso per le rivendicazioni di qualche montanaro affezionato alla propria terra e alla propria salute. L’analogia tra il modello TAV e il modello EXPO sta tutta qui: imporre la trasformazione dei territori, sacrificarne gli interessi degli abitanti ed impedirne ogni rivendicazione attraverso la militarizzazione e la santificazione politico-mediatica di grandi opere e grandi eventi. A questo modello dobbiamo guardare come al nuovo modus operandi della classe dirigente, una sorta di colonialismo interno che dopo la mercificazione dei beni comuni mira alla conquista della terra e alla sua svendita agli interessi del grande capitale.
La gentrificazione e lo sventramento dei quartieri popolari ad uso e consumo di residence e centri commerciali, le trivelle lungo tutta la dorsale adriatica, la TAV, il ruolo delle grandi cooperative che in cambio della gestione dei mega appalti ricevono in pasto i diritti dei lavoratori: la grande opera da fermare è tutta in questo modello coperto dalla retorica dell’interesse nazionale al di sopra di tutto e tutti. Sabotare queste sperimentazioni è un compito arduo ma non demandabile, per soddisfare l’aspirazione a stravolgere lo stato di cose presenti.
Torna alla mente, di nuovo, il 1° maggio milanese. E viene da pensare che nell’isolamento e nella dispersione in cui annaspano i movimenti, si ha sempre più bisogno di certe fiammate. Quantomeno per restituire a chi non è più disposto a subire e temporeggiare la consapevolezza che possiamo sabotare prima di tutto questa atmosfera di calma apparente. In fondo agli annunci trionfalistici del nemico, dietro al velo delle sue menzogne, risiede un po’ della nostra verità. Va tutto bene, sentiamo echeggiare ovunque. Sappiamo che non è vero ed è nostro il compito di generalizzare questa consapevolezza. Di fronte a ciò, il grido di rabbia e disperazione del primo maggio, seppure soffocato nella narrazione tossica dei media mainstream e dal retrocedere di pezzi di movimento terrorizzati dalle conseguenze delle proprie aspirazioni rivoluzionarie, è un sussulto di dignità che irrompe in un quotidiano avvilente e ci indica una strada. Non certo l’unica, ma quantomeno un segnale che può essere colto da chi sente l’esigenza di rispedire al mittente la paura e l’incertezza per un futuro insondabile ed un presente negato.