Di Redazione rivista Malamente
“Fase 2. È ora di usare Digital Arianna!”, recita il 18 maggio lo spot dell’applicazione dell’Università di Urbino per il contenimento del contagio da Covid-19.
Digital Arianna, per gli amici DiAry, disponibile da metà aprile negli store Android e iOS, è l’App sviluppata all’interno dell’università urbinate, dalla start-up Digit in un progetto coordinato dalla cattedra di Sistemi di Elaborazione delle Informazioni. Un bel vantaggio essere arrivati prima della tanto annunciata App governativa Immuni, con la quale, assicurano, non c’è concorrenza, ma una prevedibile integrazione.
I due sistemi lavorano su principi diversi: mentre Immuni utilizzerà la tecnologia Bluetooh, DiAry punta sulla geolocalizzazione: “due strategie diverse ma che possono interfacciarsi per diventare complementari” in vista di una finalità comune, ovvero monitorare e tenere traccia degli spostamenti e dei contatti quotidiani di ogni individuo, cosicché in caso di positività al Covid-19 sia possibile risalire ai luoghi e alle persone frequentati durante il periodo di incubazione. In poche parole, Immuni rileva e registra ogni contatto ravvicinato tra cellulari di persone diverse, Diary mantiene memoria dei luoghi in cui ogni giorno sostiamo: il bar, l’ufficio, il negozio, la casa della zia o dell’amante.
Quando una persona risulta positiva, le autorità sanitarie tramite App lanciano un alert che raggiunge i telefoni di chi è entrato in contatto con l’infetto nei giorni e nelle settimane precedenti, in modo da allertarlo e possibilmente metterlo in quarantena.
Tutto molto bello e funzionale, a prima vista.
In realtà, nell’attesa indefinita che questo virus scompaia da solo o che un vaccino lo debelli come un colpo di bacchetta magica (con quale sicurezza e a quale prezzo non è dato sapere), ci si trova totalmente impreparati ad affrontare la situazione e non avendo altre strategie da mettere in campo per proteggere la popolazione, governanti e scienziati giocano la carta techno-friendly dell’App.
Una misura prima di tutto psicologica. Innanzitutto serve a dare l’impressione che chi ci governa stia facendo “qualcosa”, che questo qualcosa si riveli del tutto inutile se non controproducente non importa, purché passi il messaggio che una tecnologia salvifica è al nostro servizio; in secondo luogo, il lancio di queste App va incontro alla spasmodica ricerca di “sicurezza”, inculcata nel profondo di tutti e tutte dal terrore sparso a piene mani in questi mesi (senza voler negare che è bene mantenere un livello di coscienzioso timore della pandemia).
Insomma, non si vede un piano di potenziamento della rete sanitaria territoriale, non ci sono massicci investimenti in tamponi, né un programma di distribuzione capillare di mascherine e guanti (tra l’altro, è troppo chiedere investimenti per utilizzare materiali meno inquinanti di quelli attuali?): si spera che la doppia App da una parte risollevi la reputazione di una politica sanitaria catastrofica, dall’altro porti un po’ di lustro a un’Università di provincia.
Inoltre, non si capisce bene quale distanza e quale durata del contatto con un positivo vengano considerate potenziale pericolo, come sia valutato il contesto ambientale in cui si svolge l’incontro, come sia possibile tenere in considerazione i diversi livelli di protezione individuale adottati e l’eventuale presenza di barriere di vetro o plexiglass. Senza contare il margine di errore dello strumento; sul sito di DiAry si legge testualmente: “commette errori di posizionamento dell’ordine di 5 metri, ma all’interno degli edifici o in strade molto strette è meno accurato”… non sembra proprio una garanzia di affidabilità!
Soprattutto, queste App trasformano la prossimità in allarme, mentre non è affatto scontato che la vicinanza con un malato comporti l’ammalarsi. Sarà solo la diagnosi a dare la necessaria certezza della positività, ma nel frattempo, visto che i test vengono centellinati con esasperante parsimonia, quando lo schermo si colora di rosso per l’arrivo dell’alert, ci si ritrova pieni d’ansia nel limbo e nelle restrizioni del “probabilmente ammalato”. Quello che è davvero probabile, è la valanga di falsi allarmi che travolgerà gli utilizzatori dell’applicazione.
“Se vi siete già posti la questione privacy la risposta è: non preoccupatevi!” [fonte]. Le pubblicità di queste App promettono in tutte le lingue che i dati e le informazioni raccolti saranno nella sola e piena disponibilità dell’utente che li ha prodotti e non verranno diffusi per uso esterno all’App se non in forma volontaria e come dati statistici nel completo anonimato. Vogliamo credere che sia così – anche se gli unici dati realmente a prova di divulgazione sono quelli che non esistono – ma è evidente che non c’è bisogno di essere sotto dittatura perché il sapersi costantemente tracciati finisca per essere una fonte di conformismo e sottomissione (chi si unirà alla protesta di piazza con l’App di tracciamento attiva?).
E poi, una volta ricevuto l’alert da DiAry sul focolaio epidemico trovato in un certo luogo, dove siamo stati un certo giorno, non è forse normale che chiunque cerchi di ricordarsi la circostanza. Chi c’era? Chi era il malato? Forse Tizio… e infatti non lo vedo da tre giorni, deve essere sicuramente lui! Adesso lo scrivo nel gruppo whatsapp… Evidente è il rischio di stigmatizzazione sociale per i positivi, o per chi è identificato, magari erroneamente, come l’untore di turno. Non solo: ci sono situazioni in cui l’anonimizzazione tanto sbandierata dai promotori di queste App è semplicemente falsa, con tanti saluti alla privacy sulle condizioni di salute difesa a spada tratta fino a ieri.
Facciamo qualche esempio con Immuni e il suo sistema Bluetooth:
– Il Sig. Rossi è talmente preso male dalla pandemia che esce solo per andare al piccolo negozio di alimentari del quartiere: se la sua App lo allerta, il malato è senza dubbio il negoziante.
– Il Sig. Bianchi vuole sapere se c’è un ammalato nel suo condominio: prende il suo vecchio smartphone, ci installa l’App e lo infila nella cassetta della posta: se arriva l’alert, qualcuno del palazzo è sicuramente positivo, facile capire chi sia.
– Un’azienda vuole assumere una persona tramite colloquio di lavoro ma si vuole assicurare che non si ammali nel periodo tra il colloquio e la firma del contratto. I tre candidati entrano uno alla volta, l’esaminatore ha sul tavolo tre telefoni con l’App installata e li accende a turno, uno per ogni candidato. Se nelle settimane successive uno dei tre telefoni riceve l’alert si saprà chi è il candidato da non assumere.
– Il sig. Paparazzo vuole avere informazioni sullo stato di salute dell’attore Caio. Si mette d’accordo con un qualunque ragazzo che lavora alla produzione del film di Caio per avvicinare uno smartphone a quello dell’attore. Poi lo smartphone resta sempre nell’ufficio di Paparazzo: se si accende è pronto lo scoop sulla malattia di Caio.
Gli esempi potrebbero continuare a decine. Questi li abbiamo ripresi da www.risques-tracage.fr. In ogni caso, ci rassicurano, l’installazione dell’App non è obbligatoria. Per ora. Ma non è un esercizio di fantascienza pensare che una volta messa in campo potrebbe diventarlo, se non per forza di legge per lo meno subdolamente: averla sul proprio telefonino potrebbe essere la discriminante per accedere a certi luoghi, o per salire su un treno, oppure certi datori di lavoro potrebbero consigliarla così caldamente ai propri dipendenti da non lasciare loro scelta. Chi si rifiutasse di installarla verrebbe automaticamente posto fuori dal consorzio sociale e sospettato delle peggiori cose. L’App diventa in questo modo un certificato di immunità, pur non essendoci nessuna relazione valida e provata tra l’avercela installata sullo smartphone e la propria non contagiosità. Si chiama falsa percezione di sicurezza e il suo risultato è esattamente l’opposto del contenimento del contagio.
Infine, ma non ultimo, la diffusione di queste App e quindi la convivenza con il tracciamento costante dei propri spostamenti – sotto il costante inganno del “tanto non ho niente da nascondere”, anzi “lo fanno per il nostro bene” – apre la strada all’accettazione sociale di altre tecnologie del controllo che fino ad ora erano state malviste dalla maggior parte delle persone dotate di buon senso, come le telecamere capaci di riconoscimento facciale negli spazi pubblici (dando un bel colpo di spugna a tutte le problematiche relative al possibile abuso dei dati biometrici) o l’utilizzo dei droni per la sorveglianza.
C’è anche un altro piccolo dettaglio, talmente ridicolo che ci limitiamo ad accennarlo. A DiAry è legato un sistema di accumulo punti WOM, estrema storpiatura dell’idea di “moneta sociale”, in realtà molto più vicina a una pericolosa gamification (cioè l’introduzione di elementi tipici del gioco, come i punti, i livelli, la classifica, in un contesto sociale non ludico), dove il punteggio è facile che diventi reputazione. In pratica, tanto più tempo l’App è attiva sul proprio telefono, e tanto più tempo il sistema di localizzazione rileva che sei fermo nella tua abitazione, tanti più punti accumuli. Usare l’App e stare a casa sono cioè azioni ritenute socialmente positive che danno diritto a un credito spendibile in esercizi commerciali che, un po’ come per la lotteria della scuola di fine anno, mettono a disposizione beni, servizi e sconti.
Secondo noi, abbiamo bisogno di diagnosi e di cure, di una strategia non demenziale di distanziamento sociale (del tipo fabbriche di mobili aperte e sentieri del bosco vietati) e probabilmente anche di buone tecniche di indagine epidemiologica per circoscrivere l’epidemia, senza confidare nelle dubbie capacità dell’ultimo ritrovato tecnologico. Abbiamo bisogno che le informazioni sulla salute non finiscano in mano ai datori di lavoro, ai vicini, alla polizia. Abbiamo bisogno di responsabilità individuale e di una riflessione collettiva sulla gestione della salute, di prenderci cura gli uni degli altri, di accesso ai servizi di base per tutti/e, di fare rete con la propria comunità, di autonomia nella gestione materiale della propria vita: tutti aspetti che richiedono un cambio di rotta che non va nella direzione di stingersi sempre più in simbiosi con il proprio smartphone, fino al punto che tanto varrà farselo impiantare sottopelle.
Link utili
- Tutto quello che NON c’è da sapere sulla app “Immuni”, di Collettivo Ippolita
- Tracciamento all’italiana, di Le dita nella presa – trasmissione di Radio Onda Rossa
- Guerre di Rete, newsletter cyber di Carola Frediani
dall’estero
Confermo che Urbino è un’università di provincia. Su tutto il resto sono disponibile ad un confronto per valutare gli aspetti che nell’articolo sono presentati come criticità che fanno delle app il problema, anzichè parte della soluzione.
Ovviamente parlo di diAry, che esiste ed è sviluppata dall’Università di Urbino.