Da Rivista Malamente n. 30, set. 2023 (QUI IL PDF)
Riflessioni a partire dal libro “Il futuro della vita” di J. Doudna e S. Sternberg
Di Luigi
Il genoma di Homo sapiens – cioè il patrimonio genetico che definisce l’essere umano moderno – si è plasmato nel corso di circa 200.000 anni in base alle forze della selezione naturale, unite a mutazioni casuali. Oggi, da una decina d’anni a questa parte, il genere umano ha raggiunto la possibilità di progettare la propria evoluzione, sottraendola alle “leggi di natura”. Il fatto che gli scienziati possano controllare l’evoluzione e scriverla a loro piacimento è un cambiamento assoluto e radicale nella storia della specie umana, ed è impossibile prevedere dove condurrà. Ciò che ha reso possibile questa svolta senza precedenti nella storia della vita sulla Terra è la biotecnologia CRISPR-Cas9; una delle protagoniste di questa scoperta (Nobel per la Chimica nel 2020) è Jennifer Doudna, docente dell’Università di Berkeley, che insieme al ricercatore Samuel Sternberg ha recentemente scritto il libro di divulgazione scientifica Il futuro della vita. Come arriveremo a controllare l’evoluzione (Mondadori, 2022).
Il meccanismo CRISPR-Cas9 (che d’ora in poi, per brevità chiameremo solo CRISPR, pronuncia: crisper) è stato identificato studiando i batteri e il loro sistema di protezione nei confronti dei virus. Proviamo in poche righe a descrivere di cosa si tratta: nel momento in cui un batterio entra in contatto con un virus, sintetizza una replica esatta del DNA virale, originando una molecola di RNA che va ad associarsi alla proteina Cas9. Quando, successivamente, questa coppia si imbatte di nuovo nella stessa tipologia di virus, cioè quando il pezzo di RNA incontra nuovamente una sequenza di DNA che riconosce come complementare, interviene la proteina Cas9 che è in grado di tagliare la sequenza genica, distruggendo il virus nemico.
Il “bello” è che questo meccanismo d’azione è riproducibile in laboratorio e applicabile a tutti gli esseri viventi per scopi ben diversi dall’originale. In estrema sintesi: basta preparare una specifica sequenza di RNA complementare alla sequenza di DNA, nota, che si vuole andare a modificare; inserito il complesso CRISPR nella cellula, l’RNA farà da “guida” per raggiungere il pezzo di DNA bersaglio, portando così la proteina Cas9 nel punto esatto in cui deve intervenire con le sue forbici. A questo punto, sarà possibile eliminare la sequenza di DNA tagliata (e quindi inattivare un gene) oppure sostituirla con un’altra sequenza preparata in laboratorio (cioè sostituire un pezzo di DNA “difettoso” con uno “corretto”). Essendo ormai completamente mappato il genoma umano – cioè la doppia elica formata da circa sei miliardi di basi azotate adenina (A), citosina (C), guanina (G) e timina (T), che formano circa 20.000 geni, che a loro volta compongono le 23 coppie di cromosomi – è possibile intervenire in specifici punti del “codice della vita” per programmare quali caratteristiche e funzionalità dovrà avere un individuo.
Il libro di Jennifer Doudna si compone di due parti: la prima ripercorre la storia scientifica, non solo sua personale, che da un laboratorio all’altro ha portato alla scoperta del CRISPR e ne descrive il funzionamento in termini tutto sommato comprensibili a chi abbia un minimo di dimestichezza con le scienze della vita. La seconda parte racconta invece le innumerevoli applicazioni, presenti e prossime future, di questa biotecnologia.
Le prime applicazioni, quelle che comportano meno scrupoli e remore morali, sono nel campo dell’agro-businness. CRISPR è già utilizzato per produrre, ad esempio, piante alimentari capaci di contrastare gli effetti del cambiamento climatico, quindi di sopravvivere in condizioni di siccità, ma anche per dar loro una maggiore forza di resistenza ai diserbanti, così che l’agrochimica applicata ai campi possa procedere senza effetti collaterali all’eliminazione totale delle erbe infestanti. Le riflessioni di Doudna vanno tutte in questa direzione. L’unica agricoltura presa in considerazione è quella industriale, è la fabbricazione di “cibo” e il suo miglioramento genetico per rendere le monocolture più produttive e redditizie: patate che resistono a prolungati stoccaggi a freddo, verdure che non marciscono nel corso della lunga filiera che attraversa i continenti e così via.
Rispetto alle “vecchie” manipolazioni genetiche, quelle degli OGM che abbiamo conosciuto e combattuto fino a poco tempo fa (il primo OGM è del 1973), il meccanismo CRISPR è estremamente più raffinato, ma allo stesso tempo è anche più semplice, veloce, economico e soprattutto efficace. Per produrre OGM si introducono infatti tratti di geni selezionati di un organismo in un altro, anche non della stessa specie (tecnica del DNA ricombinante), ma non è possibile controllare il punto esatto in cui la sequenza andrà a inserirsi, quindi bisogna provare, riprovare e scartare gli esemplari in cui l’integrazione non è riuscita bene. Un esempio di OGM è il mais MON810 (proprietà Monsanto), un mais ingegnerizzato con sequenze geniche provenienti dal batterio Bacillus thuringiensis che lo fanno diventare resistente a una serie di parassiti.
Le piante alimentari ingegnerizzate con CRISPR hanno inoltre un altro grande vantaggio rispetto agli OGM, quello della loro accettabilità sociale. Se gli OGM sono organismi nel cui genoma sono state integrate sequenze di DNA a loro totalmente estraneo, le modificazioni CRISPR apportano solo dei minimi “ritocchi” ai geni esistenti, senza aggiunta di DNA estraneo, procurando una mutazione come ne avvengono di continuo in natura (con la solo differenza che questa non è affidata al caso, ma razionalmente voluta dalla mano dell’uomo). Anche a livello legislativo, quindi, vari Stati sono in procinto di modificare le loro norme affinché la tecnologia CRISPR non debba subire tutti gli intralci già patiti dagli OGM
C’è già, poi, chi propone di conciliare biotecnologie e agricoltura biologica: dal momento che molte sementi antiche sono state spazzate via dagli ultimi decenni di agricoltura industriale (e nonostante i “custodi dei semi” non è facile procurarsene), si potrebbe utilizzare CRISPR per modificare il DNA di sementi industriali e riportarlo all’antica forma. Ma allora, un seme così ingegnerizzato, che non reca alcuna traccia visibile dell’editing a cui è stato sottoposto e che lo ha reso identico e indistinguibile dall’antico seme di una varietà perduta, è naturale o innaturale? Un bel cortocircuito.
Dopo le piante, il gradino successivo è quello della zootecnia, dove gli esperimenti per “migliorare” gli animali con un colpo di bacchetta magica CRISPR sono già in corso da tempo. Gli esempi sono innumerevoli: bestiame dalla muscolatura raddoppiata rispetto al normale per avere un alto “rendimento” di carne da allevamento intensivo, ma anche «cani ultramuscolosi, temibili compagni di poliziotti e soldati» (p. 145); pecore dal pelo più lungo; mucche senza corna, più facili da gestire quando sono rinchiuse in spazi ristretti; maiali che resistono a tutta una serie di malattie tipiche dell’allevamento intensivo e quindi, modificati geneticamente, non avranno più bisogno delle massicce dosi di antibiotico che vengono loro somministrate attualmente; galline che generano solo femmine consentendo di fermare la strage di pulcini maschi che avviene negli allevamenti di ovaiole. E poi, dove ci porterà la fantasia? «Se la manipolazione genetica è riuscita a togliere le corna alle mucche, perché non utilizzarla per darle ai cavalli?» (p. 175). Appunto, presto arriverà il momento in cui un qualche influencer californiano deciderà di regalare alla figlia un cucciolo di unicorno per il suo compleanno.
D’altra parte sono già stati creati micromaiali che non diventano più grandi di cagnolini, venduti come animali domestici a circa 1.500 dollari l’uno, e a chi trovasse immorale la manipolazione genetica per soddisfare i capricci estetici dell’uomo, Doudna risponde che almeno questi micromaiali sono perfettamente in salute, a differenza delle malattie a cui sono predisposte le razze di cani ottenute da allevamento selettivo… Uno dei prossimi obiettivi è quello di “umanizzare” alcuni geni di maiali per rendere i loro organi trapiantabili senza rigetto, all’occorrenza, nei corpi umani, predisponendo così un serbatoio illimitato di pezzi di ricambio.
In tutto questo circo qual è il punto della questione? Il rifiuto di queste manipolazioni biotecnologiche non può essere solo dettato da una sorta di rispetto per la “sacralità della vita”, per la sua intangibilità perché appannaggio di una sfera superiore a quella umana, ed è anche riduttivo opporsi all’editing genetico perché non garantisce ancora piena sicurezza e perché pensiamo che mangiare mais OGM piuttosto che maiale CRISPR possa nuocere alla salute. Il problema è che la direzione in cui complessivamente stiamo andando, come società, è un vicolo cieco. Prima abbiamo permesso che la tecnologia industriale rendesse il pianeta un posto invivibile (riscaldamento globale, inquinamento, sfruttamento di risorse a danno degli ecosistemi, monocolture, allevamenti intensivi con tutte le problematiche che comportano…) poi, invece di preoccuparci di sanare la situazione prima che sia troppo tardi – sempre che non lo sia già – cercando di recuperare un modo di stare al mondo più rispettoso, equilibrato, sano, cerchiamo di trovare la soluzione adattando gli organismi viventi – piante, animali ed esseri umani – a un mondo avvelenato. Invece di mettere in discussione l’esistenza, ad esempio, degli allevamenti intensivi, si pensa a modificare la genetica degli animali per farli sopravvivere in quelle condizioni. Nuova tecnologia viene messa in campo per tappare i danni prodotti dalla tecnologia precedente, e così via in un ciclo continuo… fino a dove? Fino a quando?
Comunque, anche fermandoci a una critica dettata dalla semplice paura, la stessa Doudna deve riconoscere che, forse, non stiamo prendendo in considerazione tutte le variabili, sottovalutando i meccanismi ancora insondati della vita: «fornendoci un modo per riscrivere le molecole stesse della vita a nostro piacimento, il CRISPR ci conferisce il potere di alterare radicalmente e irreversibilmente la biosfera che abitiamo. E non mi sembra che, finora, si sia discusso a sufficienza delle possibilità, nel bene ma anche nel male, che esso offre. […] È importante non dimenticare che se il CRISPR ha l’enorme e innegabile potenzialità di migliorare il nostro mondo, manipolare le basi genetiche del nostro ecosistema potrebbe avere conseguenze indesiderate» (p. 147).
Di questo passo, dall’editing sugli animali arriviamo dritti dritti all’essere umano. Il primo pensiero va alle possibilità di cura delle malattie provocate da mutazioni genetiche: una questione che non si può liquidare con superficialità, partendo da una posizione di rifiuto della biotecnologia che rischia di essere acritica e ideologica. L’umanità si è sempre confrontata con le malattie e ha sempre cercato metodi di cura e di guarigione. Chi vive sulla propria pelle, o comunque conosce da vicino, le limitazioni, le sofferenze e il dolore della malattia ha tutto il diritto di ricorrere alla più moderna medicina per risollevare la propria situazione o quella dei propri cari, e non possiamo certo noi, dal nostro privilegio o fortuna di essere sani, dare lezioni su quel che è giusto o meno fare.
Di molte malattie sono state identificate con esattezza le cause, che consistono in una manciata di sequenze geniche “difettose”, la cui riparazione tramite CRISPR è ormai alla portata della medicina di laboratorio (nel 2013 si è compiuta la prima guarigione biotecnologica di una malattia genetica in un essere vivente, un topo di laboratorio, e da allora gli esperimenti si sono moltiplicati, anche se la strada dal laboratorio alla clinica non è mai priva di ostacoli). A volte sono errori minimi nel DNA, a prima vista banali, che causano conseguenze drammatiche. Prendiamo ad esempio l’anemia falciforme, malattia del sangue per cui i globuli rossi si presentano a forma di falce e causano una serie di importanti complicazioni che danneggiano l’organismo. La sua causa è una sola “lettera” del DNA (su sei miliardi) che non è al posto giusto: una adenina (A) invece di una timina (T) nel gene che controlla la produzione dell’emoglobina.
È anche vero che tante malattie non hanno cause genetiche chiare, che è ancora difficile editare più geni contemporaneamente e che non è affatto banale portare il complesso CRISPR all’interno delle cellule (la mutazione del DNA che causa la malattia è ovviamente presente in tutte le cellule del corpo, ma è sufficiente trattare quei tessuti in cui si manifestano i sintomi della malattia; ad esempio i polmoni per la fibrosi cistica). Un metodo promettente per trasferire il materiale necessario all’interno delle cellule sembra essere quello di utilizzare come vettore virus umani innocui; un altro metodo è quello ex vivo, cioè trattando le cellule fuori dal corpo, per poi reinserirle, strada tipicamente percorribile per le malattie del sangue.
Posto quindi che le scelte individuali in questioni di salute, di vita e di morte, sono insindacabili, resta il fatto che una somma di casi individuali non fa una società. Se vogliamo ragionare in termini sociali è necessario fare anche altre considerazioni. Intanto non è così scontato che tutti i malati abbiano come primo desiderio quello di guarire dalla malattia. Vivere la propria condizione per anni, per decenni, porta l’individuo a essere la persona – probabilmente splendida – che è, proprio grazie al percorso attraverso la malattia (ovviamente, c’è malattia e malattia…). Inoltre, l’insorgere di molte malattie è direttamente collegato alla vita inquinata dell’epoca contemporanea. Quindi anche qui, come già detto per l’agricoltura industriale e la zootecnia, guardiamo le cose da una prospettiva completamente stravolta se pensiamo che la soluzione stia nel manipolare il genoma piuttosto che nel creare le condizioni ambientali affinché tutti possano vivere una vita mediamente più sana. Infine, soprattutto, non si può accettare una tecnologia attirati dalla soluzione di un problema immediato, senza accettare anche tutto “il suo mondo”. Non possiamo fermarci a guardare la pannocchia di mais, gialla croccante e priva di parassiti, senza pensare che quella pannocchia vuol dire Monsanto, vuol dire brevetti sul vivente, vuol dire monocoltura e agroindustria, sfruttamento e devastazione ambientale dei paesi più poveri. Accettare le biotecnologie vuol dire accettare tutto il modello di sviluppo predatorio del capitalismo e il totalitarismo della tecnoscienza pronta a manipolare ogni aspetto del vivente senza lasciare nulla ai suoi margini.
Le questioni più controverse si aprono poi su un altro versante, quando si passa dalle cellule somatiche (cioè quelle che compongono i vari tessuti e organi del corpo) alle cellule della linea germinale (tipicamente ovociti e spermatozoi). Quest’ultime contengono il flusso di informazioni genetiche che collegano una generazione alla successiva; il loro genoma viene lasciato in eredità alla progenie. Intervenire con CRISPR sulla linea somatica vuol dire intervenire su un singolo individuo, circoscrivendo benefici e possibili danni, ma andare a modificare il DNA delle cellule germinali significa determinare le informazioni genetiche anche delle future generazioni. Si capisce bene la differenza sostanziale che passa tra curare una malattia in una determinata persona ed eliminare la possibilità della malattia in un bambino non ancora nato e in tutte le generazioni future.
Per comprendere come siamo arrivati a questo punto e quali sviluppi ci aspettano bisogna fare un passo indietro, precisamente al 1978, con la nascita di Louise Brown, prima bambina “in provetta”. Da quel momento il successo della fecondazione in vitro ha sdoganato un concetto: la procreazione umana può avvenire in laboratorio, unendo ovuli e spermatozoi su una piastrina di coltura e attendendo lo sviluppo dell’embrione (che andrà poi impiantato in un utero materno, finché non avremo uteri artificiali dove coltivare feti senza più gli impicci della gestazione e del parto). Ma se un bambino diviene un prodotto, come tutti i prodotti dovrà essere quanto più possibile immune da difetti. Già oggi la “diagnosi genetica preimpianto” consente di analizzare il DNA degli embrioni generati e scegliere i migliori (così come con l’amniocentesi e il test del DNA fetale, anche nella riproduzione sessuale, si possono rintracciare tracce di anomalie genetiche). Nelle cliniche della fertilità degli Stati Uniti è ad esempio possibile e legale scegliere il sesso del nascituro. E quale forza avranno dei futuri genitori di fronte al mercato che offrirà test genetici – e relative soluzioni di correzione – per l’eventuale predisposizione a ogni sorta di possibile malattia?
Tutto questo può essere materia di discussione (lungi da me condannare l’amniocentesi) ma la strada tracciata porta fatalmente all’incontro e all’abbraccio – fecondo – con l’editing genetico della linea germinale e allora quel che si apre non è solo uno stadio qualitativamente superiore di intervento sulla riproduzione umana, ma un cambio completo di paradigma. Perché, finora, qualunque tecnica di laboratorio, anche la più spinta, è stata pur sempre limitata dalla casualità (che ognuno chiami in causa chi vuole: la natura, il fato, il divino, lo spirito…) del materiale genetico selezionabile, mentre con CRISPR si elimina proprio quel residuo di casualità, andando a scrivere di sana pianta pezzi di genoma, creando in tal modo il bambino desiderato e ottenendo che le modifiche introdotte siano ereditabili dalle generazioni successive. Modifiche che possono essere “curative”, ma anche “migliorative”, il meccanismo è lo stesso. Non si tratta più di fare una selezione tra una gamma di embrioni per scegliere il migliore, ma di costruirselo su misura. Questo è il nodo fondamentale e, a pensarci bene, è abbastanza sconvolgente.
La questione che si apre con la progettazione del patrimonio genetico degli individui investe il nodo fondamentale dell’autonomia e della libertà personale. Viene infatti a mancare la base indispensabile a questi due termini, ossia l’indisponibilità dell’inizio della vita, che è garanzia di non nascere già determinati per uno scopo, ma di potersi costruire il proprio percorso sfruttando i doni che la natura / il caso / Dio ci ha concesso e di far dipendere le proprie scelte e le proprie azioni da se stessi, non da un preordinato progetto genetico. Hannah Arendt sosteneva che gli uomini posso prendere l’iniziativa, quindi agire liberamente, proprio in relazione al quel cominciamento che è la nascita: «è nella natura del cominciamento che qualcosa di nuovo possa iniziare senza che possiamo prevederlo in base ad accadimenti precedenti» (H. Arendt, Vita activa, Bompiani, 1999, p. 129).
Quel che intravede Doudna è il problema dell’equità sociale, ma non ne fa un ostacolo insormontabile. È vero che a beneficiare dei possibili mutamenti migliorativi saranno inizialmente soprattutto le famiglie ricche, ma con il passare del tempo queste tecnologie diverranno meno costose e saranno accessibili a (quasi) tutti. Per essere all’altezza della sempre più selettiva competizione sociale. Resta il fatto che popolazioni del Sud del mondo, i poveri e i marginali occidentali, insieme a chi sarà così ostinato e irresponsabile da voler mantenere per sé e per i propri figli l’imperfetta umanità della specie, andranno a comporre la nuova classe dei sub-umani, schiavi geneticamente inferiori alla nuova umanità migliorata. In pratica, degli scimpanzé del futuro. Per immaginare un mondo di caste genetiche – perché, come si sa, a volte la realtà può farsi più distopica della fantasia – proviamo a rileggere Il mondo nuovo di Aldous Huxley o a riguardare il film Gattaca di Andrew Niccol.
Per l’autrice, in fin dei conti, tutto si riduce all’utilizzo consapevole della tecnologia CRISPR. Fingendo di ignorare come ogni tecnologia sia il prodotto di uno specifico sistema sociale e di dominio, Doudna fa dell’editing genetico uno strumento neutrale, che se ne sta lì suscettibile di utilizzo “buono” o “cattivo”. Basterebbe quindi convincere gli scienziati che certe cose non si fanno (come se prima o poi non arriverà qualcuno che spingerà quel bottone, anche solo per vedere cosa succede) e convincere l’opinione pubblica che tutto è sotto controllo, anzi va per il meglio, nel migliore dei mondi possibili.
Uno dei problemi sarebbe infatti quello della comunicazione tra scienziati e pubblico. Ma la diffidenza dei cittadini non dipende solo da ignoranza e pregiudizi per cui, come sostiene Doudna, se gli scienziati illuminassero la strada e accompagnassero per mano il pubblico generico, allora i timori e le opposizioni svanirebbero. In realtà, possiamo affermare con tutta tranquillità che ne sappiamo già abbastanza per decidere da che parte stare! Nell’estrema specializzazione dei saperi scientifici non potremmo scendere nei dettagli tecnici padroneggiati da chi passa la vita tra laboratori e riviste accademiche, ma abbiamo una chiara visione delle implicazioni sociali, politiche e umane dell’innovazione e siamo pienamente legittimati a dire la nostra. Perché è sulle nostre vite, sulle vite di tutti noi, che questa avrà il suo impatto, anche se non abbiamo un dottorato di ricerca.
Tornando a Jennifer Doudna, per almeno tre quarti del libro ci fa seguire il suo tormento interiore, la sua apprensione per l’uso che potrà essere fatto da mani improprie della tecnologia da lei sviluppata: «mi chiedevo ansiosamente in privato se potevo evitare la tempesta etica in procinto di scoppiare attorno a una tecnica che avevo contribuito a creare» (p. 234). Timori che si manifestano perfino in un sogno ricorrente con protagonista Hitler il quale, carta e penna in mano, prende appunti con «vivo interesse» su questa «straordinaria tecnologia» eugenetica. Per inciso: l’eugenetica non fu inventata dal nazismo, ma era un movimento diffuso e apprezzato negli Stati Uniti già agli inizi del Novecento.
L’autrice racconta anche il suo affaccendarsi all’interno della comunità scientifica per scongiurare fughe in avanti e si adopera per convocare due conferenze di esperti sul tema. La mente va alle famose conferenze di Asilomar del 1973 e 1975, in cui eminenti scienziati discussero intorno ai problemi etici e biologici del DNA ricombinante. Facile immaginare la conclusione raggiunta (come chiedere all’oste se il vino è buono…): gli esperimenti sugli organismi geneticamente modificati possono proseguire, purché ci siano trasparenza, adeguate garanzie e tutto il corollario di illusionismo per incantare l’opinione pubblica e garantirsi il consenso.
Il primo incontro di questa nuova stagione per la bioetica, nel gennaio 2015, è stato il Forum di Napa Valley. Tutti i presenti hanno sottoscritto un documento che è stato presto pubblicato su “Science”, dal titolo: A prudent path for genomic engineering and germline gene modification (tradotto: Procedere con prudenza nell’ingegneria genomica e nella modificazione genetica della linea germinale). Proprio mentre gli scienziati riuniti da Doudna si perdevano in chiacchiere concludendo la discussione ai tavoli del ristorante francese Angèle sulla riva del fiume Napa, in Cina stavano già superando l’ostacolo: nel laboratorio del prof. Junjiu Huang all’Università Sun Yat-sen di Guangzhou, per la prima volta nella storia, degli scienziati stavano ritoccando consapevolmente il DNA di un potenziale futuro essere umano. Nello specifico, Huang e i suoi avevano provato a modificare il DNA per correggere la mutazione che causa la beta-talassemia, premurandosi di farlo su embrioni “di scarto”, cioè che non avrebbero mai potuto originare una gravidanza. Un test di laboratorio quindi, confinato al laboratorio, ma che ha infranto un tabù, «spalancando una porta – afferma Doudna – che non saremmo mai stati in grado di richiudere» (p. 250). Per la cronaca, appena tre anni dopo, nel 2018, sempre in Cina è stato infranto anche l’ultimo tabù con l’effettiva nascita delle prime due bambine – chiamate Lulu e Nana – con editing genetico prenatale della linea germinale, effettuato nei laboratori della Southern University of Science and Technology di Shenzen (la mutazione è consistita nell’inattivare un gene che rende suscettibili all’infezione da HIV).
Il secondo vertice internazionale sull’editing genetico si è tenuto a dicembre 2015. Ed ecco che arriva il momento catartico. L’illuminazione che sgombra il campo da dubbi e incertezze. Confrontandosi con colleghi e colleghe – mentre giungiamo ai capitoli conclusivi del libro – l’autrice cambia finalmente idea e si convince che, perché no?, non c’è niente di male nell’«intervenire nel viaggio evoluzionistico della nostra specie». Anzi, avendo la possibilità di estirpare dalla faccia della terra una malattia genetica, non sarebbe forse immorale non farlo? Purché sia «abbastanza sicuro», «abbastanza preciso» e «abbastanza affidabile» (p. 260-263).
Ritorna così il discorso di curare le malattie, di alleviare le sofferenze, ora non su un singolo individuo, ma sull’intera specie umana, per sempre. Discussione ancora una volta, ancor di più, non semplice da gestire, per il piano emotivo che si sovrappone a quello razionale. Per l’impossibilità di tracciare una linea di confine tra correggere una variante genetica dannosa e fornire alle prossime generazioni qualche “ritocchino” geneticamente vantaggioso. E pazienza se le conseguenze a medio e lungo termine sono imprevedibili. La strada è aperta e la “comunità scientifica” sembra d’accordo con la Nobel Doudna: «di fatto, stiamo già surclassando il sistema ottuso, cieco e sordo che da millenni plasmava il materiale genetico sul nostro pianeta, per sostituirgli un sistema consapevole, intenzionale, di evoluzione controllata dall’uomo» (p. 284).