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Spunti di riflessione per una decrescita digitale

Da Rivista Malamente n. 30, set. 2023 (QUI IL PDF)

Di Nicolas Alep

Di formazione informatico, ma in rottura con il suo mondo di provenienza, Nicolas Alep si dedica ora, in particolare, alla critica dell’industrializzazione in agricoltura, tema su cui ha contribuito all’opera collettiva “Reprendre la terre aux machines”, pubblicata dall’Atelier Paysan per le edizioni Seuil nel 2021. Il seguente articolo è stato pubblicato in via preliminare sulla rivista “L’Inventaire” (n. 12, autunno 2022) e, in versione definitiva, come introduzione alla seconda edizione di “Contro il digitale alternativo” (La lenteur, 2023), libro scritto insieme a Julia Laïnae e in via di pubblicazione in traduzione italiana per le nostre Edizioni Malamente.

Mentre la corsa alla digitalizzazione di ogni ambito sociale si rivela essere una fonte infinita di nocività, diversi attori ci propinano l’idea che «un altro digitale è possibile»: più umano, più ecologico, più trasparente, più cooperativo. Le grandi aziende tecnologiche sono avvertire: gli alternativi del digitale desiderano convertire quella megamacchina per profitti che è Internet in uno strumento conviviale al servizio della democrazia e del benessere di tutti/e. Julia Laïnae e Nicolas Alep, nel loro pungente saggio, ne hanno per tutti: burocrati verdi, gruppi di lavoro per una transizione digitale “sostenibile”, cyberminimalisti per la riduzione del danno, supporter del software libero, degli open data e della tecnologia civica. Riaffermano una posizione che appare sempre più insostenibile per molti dei nostri contemporanei: difendere la vita sulla Terra e la libertà umana comporta necessariamente la de-informatizzazione del mondo.

Contro il digitale alternativo, scritto con Julia Laïnae, è un piccolo e corrosivo saggio in cui abbiamo esposto i motivi di fondo che ci separano da quanti sostengono la possibilità di una gestione positiva del digitale.[1] Spesso con buone intenzioni, queste correnti difendono una visione per cui “un altro digitale è possibile”: libero, aperto, cittadino, alternativo… visione alla quale noi contrapponiamo la necessità di una “inversione di tendenza tecnologica”. La critica principale che abbiamo ricevuto è che il libro non apre prospettive di azione, non è un programma politico e ancor meno una guida per “vivere meglio con la tecnologia digitale”. Per molti lettori questo è ovviamente frustrante. Ma allo stato attuale, e per diverse ragioni, non sarebbe onesto pretendere di poter scrivere un manuale d’uso per una vera uscita dal digitale.

Innanzitutto, siamo fin troppo consapevoli dell’innocuità delle nostre critiche. Due attivisti che armeggiano nel tempo libero con un testo politico, che sarà letto solo da “persone che leggono libri”, non hanno il potere di cambiare nulla con la forza delle loro ingiunzioni. Non sarà certo sotto la guida di Laïnae e Alep che verrà condotta la grande offensiva neoluddista per abbattere il “mondo senza contatto”. E c’è da scommettere che se Mark Zuckerberg sapesse leggere, Contro il digitale alternativo non lo convincerebbe a chiudere Facebook e a riconvertirsi verso una professione socialmente utile. In ogni caso, proprio come nessuno chiede la nostra benedizione prima di bruciare un’antenna 5G, boicottare la didattica a distanza o rifiutare la biometria, speriamo che questo dibattito possa continuare anche senza di noi. Noi abbiamo messo sul tavolo alcuni elementi di riflessione, ma quando torniamo a casa dobbiamo, come tutti, fare i conti con le nostre contraddizioni: essere critici nei confronti delle tecnologie, ma vivere in una società tecnologica.

Un elemento centrale della nostra riflessione sta nel guardare al digitale nel suo aspetto sistemico e non come somma di pratiche individuali. Per molti versi, il digitale è diventato il sistema nervoso del capitalismo globalizzato e il nuovo idolo da venerare per gli zeloti della religione del Progresso. È in esso che i guru della crescita, che siano neoclassici o tardivi keynesiani, ripongono le loro speranze per un nuovo ciclo di espansione. Il rifiuto individuale dell’informatica, anche su vasta scala, non minerebbe in alcun modo il suo regno. In sintesi, la nostra modesta ambizione è stata di aprire il dibattito mandando all’aria alcuni dei luoghi comuni che lo limitano. Volevamo allontanarci da una visione semplicemente moralistica e individualizzante, per cui i problemi causati dalle tecnologie digitali deriverebbero dalle cattive intenzioni dei loro progettisti, dei loro utilizzatori o dallaconcentrazione di capitale che le genera. Dalla “banalità del male” di Hannah Arendt al “sistema tecnico” di Jacques Ellul, non mancano gli esempi per dimostrare come un dipendente zelante, che fa il suo lavoro con cura e dedizione, possa produrre gli effetti più abominevoli. Uno sviluppatore di software libero, con le migliori intenzioni, non fa eccezione.

Tuttavia, se da un lato sarebbe disonesto voler produrre un manuale per un’uscita dal digitale, dall’altro è possibile individuare alcune forme di pensiero e alcune linee d’azione che ci permettano, almeno, di ipotizzare tale uscita. Tanto per cominciare, dobbiamo poterla immaginare. I vari confronti e dibattiti generati dall’uscita del libro lo hanno dimostrato: per molti, la de-escalation del digitale è impensabile. Riprendiamo la formula di Serge Latouche e decolonizziamo il nostro immaginario, ponendoci questa domanda: perché siamo capaci di contemplare un’uscita dal capitalismo, sebbene nessuno di noi abbia mai conosciuto il “mondo di prima”, ma non di immaginare una vita senza Internet sul telefonino, tecnologia adottata meno di dieci anni fa? Quale repressione collettiva fa sembrare un attivista anticapitalista più misurato e pragmatico di un tecnocritico che rifiuta il 5G? Jacques Ellul è stato illuminante su questo tema: «Non è la tecnologia che ci rende schiavi, ma il sacro trasferito sulla tecnologia».[2] Non preoccupatevi, si sta davvero bene quando si prova a mettere in discussione le tecnologie e il loro posto storico-sociale, quando si osa bestemmiare e dissacrare la tecnologia. Ci si arrabbia con qualche amico marxista, si impara a difendersi dalle accuse di voler “tornare all’età della pietra”, ma il cambiamento è piuttosto piacevole.

Mettere in discussione la tecnologia non significa necessariamente doversi estraniare totalmente da essa, vivere come eremiti o scrivere Contro il digitale alternativo su fogli di pergamena. Certo, diventiamo più critici nella nostra quotidianità, il nostro uso del digitale diventa più ponderato, ma ogni singolo rifiuto ci pone un po’ più ai margini della società e la domanda diventa ben presto: «Che grado di marginalità sono disposto ad assumermi?». Ora, io voglio vivere nella società e, a meno che non la cambi, mi trovo condannato ad adottare le tecnologie, magari con dieci anni di ritardo, ma finisco comunque per adottarle una volta che si è stabilito il loro status di monopolio radicale.[3]

Quando pensiamo alla tecnologia, alla sua logica e ai suoi effetti, alla sua non neutralità,[4] al suo auto-accrescimento, alla sua autonomia, capiamo bene come faccia parte di una continuità storica. L’informatica è uscita dai laboratori di ricerca da più di cinquant’anni e dispiega i suoi effetti sulla società, assolutamente ovunque. Naturalmente questa affermazione merita delle sfumature: non tutti i settori sono stati informatizzati allo stesso tempo, né con la stessa intensità e anche i livelli di accettazione, sfiducia, compromesso o rifiuto sono molto diversi. Ma ormai niente e nessuno le sfugge. Non siamo di fronte a un grande piano segreto, architettato dai cibernetici degli anni Cinquanta, ma agli effetti del sistema, in linea con quelli osservati fin dall’inizio della (prima!) rivoluzione industriale. Collocare le tecnologie digitali nella loro traiettoria storica significa quindi comprendere la progressione della loro diffusione, che ci viene sempre presentata come inevitabile. Ciò è ben lontano dalla retorica della “rottura” e dell’“innovazione”, che presenta l’evoluzione delle tecnologie come l’avvento di sempre nuovi paradigmi, trascurando l’infrastruttura tecnica preesistente da cui derivano e a cui si vanno ad aggiungere.

Bisogna anche smettere di osservare il mondo digitale in modo troppo settoriale; è infatti presente ovunque, al punto che diventa complicato darne una panoramica completa. Non esiste un lavoro “da informatico”, perché questo termine generico copre un gran numero di realtà, molto diverse tra loro, in un campo in cui la divisione e l’iperspecializzazione del lavoro stanno raggiungendo nuove vette. Le critiche più virulente che ci sono state rivolte provengono da programmatori che, malgrado le loro smentite, sembrano incapaci di abbracciare una visione più ampia di quella delle loro linee di codice e persistono in un approccio tecnicista, oscurando qualsiasi dimensione materiale o politica.

Il problema non era politico, ma tecnico. Poiché esistevano delle soluzioni, non c’era un vero problema.[5]

Dalle miniere di Coltan in Congo alle fabbriche di semiconduttori in Asia, dai laboratori di ricerca universitari a quelli del complesso militare-industriale statunitense, dalle navi per la posa dei cavi alle propaggini degli operatori di telecomunicazione europei, dagli ex contabili convertiti in operatori ERP [software di gestione integrata delle aziende] ai “lavoratori del click” delle varie piattaforme digitali, l’argomento è troppo vasto per essere riassunto solo in una questione di virtù individuale. In un’epoca in cui la tecnologia digitale sta diventando il fronte più caldo negli scontri geopolitici, in cui presto non sarà più possibile osservare le stelle[6] e in cui le risposte tecnologiche alla pandemia Covid-19 stanno portando a una pandemia di depressione, ostinarsi ad analizzare la situazione con un’ottica ristretta e cercare di dare un’impronta verde alle proprie pratiche professionali, senza mettere in discussione nulla di strutturale, senza darsi i mezzi per scegliere in maniera collettiva e informata, è ingenuità o pura malafede.

Infine, dobbiamo diffidare degli approcci verticali e autoritari promossi da “esperti” benintenzionati, come quelli della società di consulenza per greenwashing preferita dall’industria nucleare: lo Shift Project che, sulla base di una diagnosi basata esclusivamente sulle emissioni di gas serra e ignorando apertamente tutti gli altri problemi (inquinamento, disponibilità di risorse, impatto sociale ecc.), promette di perpetuare l’attuale modello mortale, ma con meno carbonio.[7] La decarbonizzazione del trasporto aereo con l’utilizzo di più tecnologia e di agrocarburanti viene fatta passare per auspicabile.

Sul fronte digitale siamo ormai abituati a veder mettere in fila una serie di ossimori sostenibili. Per «attivare una politica digitale sostenibile», è necessario «sviluppare e lanciare una strategia informatica sostenibile», «impegnarsi con clienti, fornitori, partner e istituzioni verso soluzioni e servizi sostenibili», «costruire un sistema informativo sostenibile», «sviluppare una cultura digitale sostenibile» e «governare la transizione verso un sistema informativo sostenibile». Per non parlare della «misurazione dell’impatto ambientale del sistema informativo end-to-end». Con criteri basati esclusivamente sulla CO2, l’illusione di un digitale “sostenibile” diventa possibile. Se si tratta solo di limitare le emissioni, allora i data center situati oltre il circolo polare artico, i server sottomarini o immersi in liquido refrigerante diventano innovazioni auspicabili.[8]

Lo Shift Project propone un modello di società in cui la decrescita digitale sarebbe raggiunta da governi illuminati dai rapporti degli esperti. Una sorta di progetto “alla cinese”, in cui uno Stato forte si occuperebbe di razionalizzare l’uso del digitale affidandosi a una tecnocrazia affamata di cifre. In altri termini: la perpetuazione del modello attuale, correggendo alcuni dei suoi difetti con metodi autoritari. Tuttavia, non mancano di certo gli argomenti per illustrare l’incompatibilità ontologica tra decrescita e società digitale.

In Contro il digitale alternativo non parliamo di “decrescita”, ma di “de-escalation tecnologica”, mutuando dal campo lessicale dei conflitti armati piuttosto che da quello dell’economia. Per molti versi, il mondo digitale può essere visto come il campo di battaglia della guerra condotta dalla tecnocrazia contro il pianeta, le popolazioni e la democrazia. Tuttavia, i due concetti possono essere facilmente accostati, a condizione di definire la decrescita, secondo le parole di chi l’ha pensata, come un mot-obus [parola-bomba, che rappresenta un concetto soggetto a polemica] inscritto nella critica dello sviluppo.

Non dobbiamo avere paura di ribadire che la decrescita non è la decrescita di tutto o per tutti. Si applica ai “sovrasviluppati”, agli “ex-crescenti”, alle società e alle classi sociali la cui obesità e bulimia sono le conseguenze della predazione di ricchezze dai più deboli, così come un processo di autodistruzione. La questione della condivisione, e quindi della democrazia, precede quella economica.[9]

La tecnologia digitale, sulla scia della meccanizzazione e dell’automazione, ha portato negli ultimi cinquant’anni a massicce mutazioni nel sistema produttivo. Nei paesi sviluppati, dopo l’eliminazione di gran parte dei contadini nelle prime ondate di sconvolgimenti tecnoscientifici, seguiti dagli operai a causa dell’automazione, quindi dagli impiegati grazie all’informatizzazione, questa volta ci viene promessa lo smantellamento delle professioni intellettuali e la loro sostituzione con algoritmi e intelligenza artificiale. La democrazia, che già versa in cattive acque, potrebbe non sopravvivere a tutto questo. È il regno di esperti, degli ingegneri e degli scienziati che si annuncia come ineluttabile. «Il progresso non può essere fermato», e intanto ci confina sempre più nel ruolo di oggetti, negando il nostro status di soggetti. Siamo ridotti a essere l’iterazione di un database per gli Stati, un profilo di consumatori per i GAFAM[10] e i servi della macchina per i nostri datori di lavoro.

In queste condizioni, una diminuzione della presa tecnologica appare impossibile allo stato attuale. Riportare le persone sul posto di lavoro – gli sportellisti negli uffici pubblici, gli artigiani al posto delle fabbriche automatizzate, gli agricoltori al posto dei trattori guidati dal GPS e gli insegnanti nelle aule – non sarà facile. Si cita spesso l’esempio del Bhutan e del suo indicatore di Felicità interna lorda, ma la “bhutanizzazione” di un paese sviluppato, per quanto auspicabile, è impensabile senza cambiare le regole del gioco. Abbattere unilateralmente la tecnologia digitale, in un contesto di libero scambio generalizzato e di governance sovranazionale, incanalata in molteplici trattati internazionali, potrebbe solo portare alla rovina. I guadagni nella produttività sono stati tali che tornare indietro senza sottrarsi alla competizione globale sarebbe sinonimo di una recessione subita piuttosto che di una decrescita scelta. La decrescita digitale è quindi auspicabile solo in un contesto di decrescita tout court, in cui la trasformazione sociale è totale e non riguarda solo l’aspetto informatico.

Bisogna anche considerare che, se tanti ambiti della nostra società possono essere informatizzati, è perché una serie di meccanismi hanno preparato il terreno. A monte dell’algoritmo, c’è l’organizzazione scientifica del lavoro. Quando un lavoro viene cancellato e sostituito da un programma, è perché era già stato degradato, standardizzato e razionalizzato. L’operaio costretto a fare sempre lo stesso gesto può ben essere rimpiazzato da una macchina. Lo stesso vale per l’impiegato che non fa che ripetere sempre le stesse operazioni: una volta raggiunta questa situazione, è facile la sua sostituzione con un algoritmo. Se è possibile sostituire i giornalisti con l’intelligenza artificiale,[11] non è solo per l’evoluzione tecnologica, ma anche perché le attuali basi della professione – riscrittura di servizi pre-impostati da parte delle agenzie di stampa, ossessione per il flusso e l’immediatezza – l’hanno degradata al punto da creare le condizioni per la sua automazione. La de-escalation digitale non consiste semplicemente nell’eliminare il computer, ma nell’organizzare diversamente l’intera società in modo da poterne fare a meno.

Perché si verifichi un tale cambiamento di paradigma, una biforcazione sociale e culturale di tale portata, è indispensabile la concomitanza di tre fattori:

I movimenti sociali di successo degli ultimi due secoli dimostrano che una trasformazione sociale può risultare solo dalla combinazione di tre fattori: il rapporto di forza, la presenza di alternative e l’educazione popolare. […] Questi tre elementi, che raramente sono portati avanti congiuntamente dagli stessi attori, sono talvolta considerati contraddittori. Eppure, proprio tutte e tre le cose sono indispensabili e vanno perseguite insieme, anche se questo significa che ognuno accetti di non poter fare tutto sempre e contemporaneamente.[12]

Nel campo digitale, i rapporti di forza sono stati tracciati dai movimenti anti-Linky e anti-5G.[13] Bisogna opporsi a ogni nuovo “passaggio di soglia” nelle infrastrutture di telecomunicazione, passaggio che condiziona la diffusione di ulteriore sovrabbondanza di tecnologie, e farne una grande lotta popolare contro la digitalizzazione del mondo. Dobbiamo dispiegare i nostri sforzi ovunque, in opposizione alla digitalizzazione delle scuole, contro la massificazione del telelavoro, per la salvaguardia degli sportelli nelle amministrazioni; contro la smart city e l’agricoltura connessa; contro il GAFAM e contro il tecno-Stato. Ma anche affrontare e smascherare i think tank e i profeti verde pallido, nonché la ricerca pubblica e il suo ruolo determinante nella continuazione del modello attuale.

Costruire alternative non significa sostituire l’esistente con il suo equivalente “libero”, Zoom con BigBlueButton, Twitter con Mastodon e Schneider Electric con Arduino. Significa ricreare tutti quei mestieri che la digitalizzazione ha distrutto. Non è semplice, per molti di noi, dedicarsi all’agro-ecologia o avviare una produzione su scala artigianale, perché i saperi e i saper-fare sono spesso scomparsi e le condizioni economiche e burocratiche condannano i promotori a mercati di nicchia o alla “riserva indiana”. Una società in decrescita digitale richiede tornitori, fresatori, fabbri, falegnami, agricoltori, insegnanti… Degli umani piuttosto che delle macchine, dei cervelli piuttosto che dei server!

Il terzo pilastro indispensabile è l’educazione popolare. Naturalmente, non si tratta di mettersi a insegnare alla gente cosa dovrebbe fare, ma di aprire spazi di educazione reciproca tra pari, ovunque e in ogni momento. Riportare la democrazia al posto della tecnocrazia. Discutere e ridiscutere ogni scelta tecnica, fare della tecnologia un soggetto politico e non lasciare che il capitale, la ragion di Stato e gli interessi particolari confischino la possibilità stessa del dibattito. Dobbiamo ricostruire la società e riprenderci la nostra autonomia. Non l’autonomia individuale come la concepisce il liberalismo, ma l’idea di elaborare insieme le regole della vita comune e decidere collettivamente sulla nostra autolimitazione.[14]


[1] Una versione preliminare del presente testo posto a Prefazione della seconda edizione – testo che non coinvolge Julia, “disconnessa” al momento della sua redazione – è stata pubblicata sulla rivista “L’Inventaire”, n. 12, aut. 2022.

[2] Jacques Ellul, Les nouveaux possédés, Parigi, Mille et une nuits, 2003, p. 316, [1973].

[3] Concetto sviluppato da Ivan Illich in Nemesi medica: l’espropriazione della salute, Milano, Mondadori, 2004, [1976]: «I monopoli comuni si accaparrano il mercato; i monopoli radicali rendono la gente incapace di fare da sé. Il monopolio commerciale limita il flusso di merci; il monopolio sociale, più insidioso, paralizza la produzione dei valori d’uso non commerciali. I monopoli radicali usurpano ancora di più la libertà e l’indipendenza: rimodellando l’ambiente e “appropriandosi” di quelle sue caratteristiche generali che avevano fin lì permesso alla gente di cavarsela da sola, obbligano un’intera società a sostituire i valori d’uso con delle merci», p. 50.

[4] Cfr. Adrián Almazan Gómez, La non-neutralité de la technologie. Une ontologie sociohistorique du phénomène technique, “Écologie et politique”, n. 61, 2020.

[5] L’Atelier Paysan, Reprendre la terre aux machines, Parigi, Seuil, 2021, p. 142.

[6] Cfr. Samantha Lawler, Les satellites Starlink nous empêcheront bientôt d’observer les étoiles, “The Conversation”, 18 nov. 2020, <theconversation.com>.

[7] Tutte le informazioni provengono dal sito web <theshiftproject.org>.

[8] Cfr. rispettivamente: Virginie Garin, L’Arctique va accueillir le plus grand data center au monde, “RTL”, 31 ago. 2017, <rtl.fr>; Progetto Natick sviluppato da Microsoft e Naval Group, <natick.research.microsoft.com>; Manon Touchard, Pour mieux refroidir ses serveurs, Microsoft les plonge dans un liquide bouillant, “L’Usine digitale”, 8 apr. 2021, <usine-digitale.fr>.

[9] Paul Ariès, La décroissance, un mot-obus, “La Décroissance”, n. 26, apr. 2005.

[10] GAFAM: acronimo che indica le principali aziende dell’information technology: Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft. [NdT]

[11] Maxime Claudel, Microsoft remplace les journalistes qui éditent ses portails d’info par des algorithmes, “Numerama”, 1 giu. 2020, <numerama.com>.

[12] L’Atelier Paysan, Reprendre la terre aux machines, cit.

[13] C’è voluta una pandemia e una nuova ondata di tecnologie da contestare per mettervi fine.

[14] Si veda a questo proposito la definizione e spiegazione di Cornelius Castoriadis in Socialisme et sociétè autonome, [1979], ora in Écrits politiques (1945-1997). Quelle démocratie?, Parigi, Éditions du Sandre, 2018, v. 2.

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