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Una storia, mille storie

Da Rivista Malamente n. 30, set. 2023 (QUI IL PDF)

Di Nicoletta Grammatico

Questo racconto è stato ricostruito sulla base delle interviste concessemi da Scilla e Anna, che ringrazio moltissimo. La testimonianza in prima persona è funzionale a restituire una storia intima, che da personale si fa collettiva, per trasportare lettori e lettrici nel vivo di una narrazione vissuta sulla propria pelle e sui propri corpi da molte donne. Dai racconti raccolti emerge come, nello specifico della regione Marche ma non solo, sebbene l’interruzione volontaria di gravidanza sia sulla carta un diritto, nella realtà viene sempre più spesso ostacolata e negata. Oggi abortire nelle Marche è diventato molto complicato: con il personale medico obiettore che invade i reparti ospedalieri e la promozione di associazioni pro-vita, la legge 194 ha subito un duro colpo e con essa anche la libertà di scelta individuale. Queste storie ne sono una testimonianza diretta.

¶ Non ho mai pensato di voler diventare mamma. No, non l’ho mai voluto. Nemmeno da piccola quando le altre bambine del quartiere giocavano a mamma e figli. Non volevo essere mamma nemmeno per gioco. Così fu per me facile decidere di abortire quando scoprii di essere incinta, meno facile fu invece trovare chi mi facesse abortire. Tante volte mi sono chiesta dove finisca la linea dell’aspettativa sociale e inizi quella della volontà soggettiva, dell’autodeterminazione. Nelle varie storie di aborto che ho ascoltato, e nella mia esperienza, la percezione che ne ricavavo era che la prima trainasse inesorabile la seconda, la scelta non era assecondata se contrastava il modello sociale imposto. A chiunque mi domandi: «ma non hai avuto paura?», rispondo sempre allo stesso modo: «ho veramente avuto paura, paura di non riuscire ad abortire».

Ho da poco finito di leggere uno dei capolavori di Annie Ernaux, L’evento, volevo forse trovarci qualcosa che mi appartenesse. La storia di una studentessa francese ventitreenne costretta a interrompere una gravidanza per vie clandestine, a causa dell’illegalità della pratica abortiva nel 1963, mi trasportava in qualche modo direttamente nella mia quotidianità, nella mia realtà che, esattamente sessant’anni dopo, non aveva di certo perso la sua ferocia. Eppure le lotte femministe degli anni Settanta avrebbero dovuto insegnarci qualcosa, sarebbero potute veramente essere un punto di partenza per ripensare i rapporti sociali, per educare alla sessualità e alla salute riproduttiva, per affermare l’autodeterminazione di ogni soggettività, e invece siamo di nuovo precipitati nel girone infernale: oggi l’aborto in Italia è possibile, ma allora perché è così difficile accedervi? Oggi l’aborto in Italia è legale, ma allora perché si continua a ricorrere a pratiche clandestine? Oggi l’aborto in Italia è normalizzato, ma allora perché si stigmatizza chiunque voglia ricorre a questa pratica? Credo stia proprio qui il paradosso di una legge giusta: l’illusione che le cose cambino ha poco a che vedere con il vero cambiamento. In questo senso, abortire è stato per me un vero e proprio atto rivoluzionario.

¶ Ho scoperto di essere incinta durante il caldo torrido di un pomeriggio di giugno. Avevo già fatto il test di gravidanza almeno tre volte prima di prenderne coscienza. Dovevo abortire. Da quando ho desiderato di abortire ho trascurato la mia solita quotidianità, credevo che non sarei riuscita nemmeno a uscire fuori di casa se prima non avessi tolto quella cosa da dentro me. Ho da poco riletto il diario in cui scrivevo, nella data del 13 giugno compare: «qualcosa non va. Rivoglio la mia vita». Non so se effettivamente ci fu una vita prima di abortire e una dopo, quello che so è che quest’esperienza mi ha completamente cambiata. È orribile ritrovarsi a dover lottare contro la convinzione che qualcun altro possa sapere cosa sia meglio per te, e io mi sono sentita esattamente così: ingabbiata. Non importava cosa pensassi, non importava cosa volessi, non importava cosa sentissi: ero sola e impotente. Così la mia scelta di abortire è stata un modo per riappropriami di me stessa, per scegliermi. Vivere questa esperienza mi ha permessa di conoscermi profondamente: non ero chi la società si aspettava che fossi, non ero come la società si aspettava che fossi; io ero io, una ragazza di ventuno anni rimasta incinta al suo terzo rapporto sessuale: non una mamma, né una puttana, né una santa. Inizialmente mi detestai, mi addossavo la colpa per quello che stava succedendomi. A un tratto, anche il ricordo di quel piacere sessuale si trasformò in qualcosa di disgustoso. Avevo la repulsione verso me stessa e per quello che avevo appena realizzato, quella notte mi addormentai chiedendomi cosa avessi combinato.

L’idea di parlarne con la mia famiglia mi terrorizzava. Sentivo già il peso degli occhi di mia mamma mentre mi imputavano come in processo, pronti a sentenziare sulla condotta delle mie azioni e a concludere con un «adesso sono cazzi tuoi». Mio padre avrebbe reagito in modocompletamente diverso: zitto e imperturbabile non mi avrebbe detto nulla e, probabilmente, avrebbe smesso per sempre di parlarmi. Ero in un limbo infernale: sentivo un implacabile bisogno di andare da mia madre a dirle tutto, poiché mi ero convinta che non avrei potuto affrontare tutto quello da sola, e, d’altra parte, avevo un’enorme paura di non essere compresa. Ma presto la paura prese il sopravvento e quello che inizialmente era un timore legato solo alla mia famiglia, in poco divenne timore di parlare a chiunque di quello che stavo vivendo. Sentivo in cuor mio che non appena avessi pronunciato la parola «incinta» e «aborto» la gente si sarebbe stizzita e avrebbe iniziato a commentare. Tutto ciò che non volevo vivere era il disagio nello sguardo delle persone che mi guardavano. Non volevo sentirmi giudicata da occhi ipocriti o bigotti: il solo pensiero mi ripugnava talmente tanto che il ricordo di quella notte in cui rimasi incinta riacquistava la sua tinta di piacere. L’indomani mattina decisi di recarmi al consultorio più vicino, quello di Macerata. Era un giovedì mattina di giugno, presi un autobus e arrivai davanti all’ingresso della struttura. Non appena entrata notai una signora sui sessanta dall’altra parte di una scrivania, l’aria stanca e avvilita sembrava l’unica espressione possibile in quel posto.

«Come posso aiutarla?»

«Salve, stavo cercando delle informazioni riguardo un’interruzione volontaria di gravidanza».

La signora si abbassò leggermente, prese un plico di opuscoli e me li porse: «qui può trovare tutto quello di cui ha bisogno». Scorsi rapidamente i titoli in grassetto dei vari opuscoli, tra tutti uno solo parlava della pillola abortiva Ru486, mentre gli altri recitavano per lo più: «la vita è un dono, non sprecarlo». Involontariamente mi venne da sorridere (come si suol dire, per non piangere): abortire sarebbe stato più difficile del previsto. Chiesi nuovamente delle altre informazioni, specificando di non voler alcun opuscolo di associazioni cristiane pro-vita. Quello di cui avevo bisogno era solamente una persona che mi facesse abortire. Visibilmente infastidita, l’anziana signora sui sessanta, con una catenina di Padre Pio al collo, si tolse gli occhiali per poi ammonire: «avrebbe dovuto pensarci prima, non crede?». I suoi occhi mi guardavano come se avesse davanti il peggiore degli assassini, io ricambiai lo sguardo prima di mandarla affanculo. Uscita dal consultorio, decisi di recarmi direttamente in ospedale. Qui ricevetti un ostruzionismo mostruoso: dopo un imbarazzante interrogatorio durato una quindicina di minuti, l’operatore mi defilò con un semplice «provi a consultare un ginecologo privato». Mi spiegò che senza un contatto diretto sarebbe stato difficile trovare un medico disposto a farmi abortire, poiché la maggioranza dei ginecologi di quella struttura ospedaliera sono obiettori. Un altro buco nell’acqua. Io non conoscevo nessuno e di certo non avevo abbastanza soldi per permettermi una visita presso un ginecologo privato. Sconfortata e scoraggiata lasciai l’ospedale di Macerata con un groviglio allo stomaco che non mi fece chiudere occhio quella notte.

Cercavo il più possibile di incastrare gli impegni della mia quotidianità con la ricerca disperata di qualcuno che mi facesse abortire e, d’altronde, non avrei potuto fare diversamente, poiché nessuno sapeva ciò che stavo passando e non avrei nemmeno voluto che si venisse a sapere. A volte era veramente difficilmente far finta di niente, l’unico pensiero che mi balenava per la mente era quello di abortire e, fin quando non ci fossi riuscita, non sarebbe andato via. Avevo scoperto di essere incinta alla quinta settimana, ciò significava che per abortire nelle Marche avevo solo due settimane a disposizione. Dopo la visita a vuoto a Macerata, il cronometro segnava una settimana e mezzo. Trascorso il fine settimana tentati con Civitanova Marche. Mi spiegarono che in quella struttura era possibile abortire, ma che la loro politica interna prevedeva l’uso del trattamento chirurgico piuttosto che la pillola abortiva. Mi gelai, finora non avevo preso proprio in considerazione l’idea di un chirurgico e la cosa mi faceva non poca paura. Ebbi la sensazione che quella mossa fosse stata fatta per farmi desistere dalla mia scelta di abortire. Probabilmente, fossi stata sullo scadere imminente delle sette settimane, avrei accettato anche quella condizione. Avrei fatto di tutto pur di abortire. Ma avevo ancora una settimana di tempo e almeno altri due ospedali in cui poter andar a chiedere informazioni. Seppure l’idea mi terrorizzava, non la scartai. Con un senso di nausea fortissimo, lasciai l’ospedale di Civitanova Marche sperando con tutto il cuore di non doverci ritornare.

Più cercavo di uscire fuori da questa situazione, più mi sentivo paralizzata. Più cercavo di trovare una soluzione, più questa si allontanava. Ero spaventata, indifesa, vulnerabile, disperata. Sarei riuscita ad abortire? E se non facessi in tempo e dovessi tenere il bambino? Per tutto quel tempo non mi ero mai vista come una futura mamma, non lo desideravo, tutto ciò che volevo era ritornare alla mia vita prima. Il terzo viaggio verso l’ospedale di Fermo è stato il più scoraggiante. Al solo sentire la parola «pillola abortiva» l’operatore all’ingresso di ginecologia si stizzì.

«No, no, no. Qui non facciamo l’Ru, nemmeno il chirurgico. Il personale ginecologico è tutto obiettore. Vada da un’altra parte». Ero arrivata al limite, un’altra risposta negativa. Un’altra porta chiusa. Un’atra possibilità sfumata. Cosa avrei fatto? Dove sarei andata? Non avevo soldi, non avevo una macchina e, a breve, non avrei avuto nemmeno più tempo. Dalla parte opposta dell’ingresso una donna che aspettava in sala d’attesa mi venne incontro. Il suo sguardo rassicurante era il primo, da quando avevo scoperto di essere incinta, che non mi dava la sensazione di essere giudicata.

«Se speri che qui qualcuno ti faccia l’Ru sei nel posto sbagliato. A Fermo è impossibile abortire». Mi stavo innervosendo ancora di più.

«Però, hai già provato ad Ascoli?»

«Ascoli? Non ancora, troppo lontano, troppi chilometri».

«Lo so, ma probabilmente è l’unica soluzione che ti resta».

Non so come ma avrei trovato dei soldi per l’autobus e sarei andata ad Ascoli. Avrei fatto di tutto pur di abortire. Prima di andare via, ancora una volta, delusa e incazzata, le domandai perché fosse così difficile abortire nelle Marche. Mi guardò sorridendo, come se le avessi fatto una domanda banale dalla risposta evidente.

«Per farla breve, io credo che ciò che abbiamo vissuto negli ultimi anni con la destra è stato una negazione frontale di tutta una serie di diritti, peraltro altra faccia della medaglia di una negazione sostanziale operata dalle amministrazioni precedenti. Privatizzare esponenzialmente la sanità, appaltare il nostro diritto alla salute e le professionalità che si occupano di garantire le prestazioni mediche, la continuità assistenziale, ecc., sono tutti elementi profondamente incisivi. Tanto più se poi all’interno delle stesse strutture ospedaliere ci ritroviamo con i movimenti pro-vita che sostituiscono i professionisti della salute: dove sta qui la nostra libertà di scelta? Un secondo fattore rilevante è il fatto che spesso i medici obiettori non ti danno informazioni. Sapevi ad esempio che qualsiasi medico, non per forza ginecologo, può rilasciarti il certificato per procedere con l’Ru? Ed anche tra il personale medico in realtà questa conoscenza è poco diffusa. Molti non vogliono certo, ma molti non sanno proprio di poterlo fare. Di conseguenza le persone che intendono ricorrere all’interruzione di gravidanza non sanno a chi rivolgersi. Il certificato è il primo passo da compiere perché, soprattutto se con urgenza, obbliga l’ospedale a rispettare le tempistiche con la modalità meno invasiva di interruzione di gravidanza».

«Aspetta – la interrompo – questo significa che qualsiasi medico, anche il mio medico di base, potrebbe prescrivermi il certificato?»

«Potrebbe, certo».

Speranzosa, ringraziai quella gentile signora e andai verso la fermata dell’autobus. Pensai che avrei potuto contattare il mio medico, d’altronde non avrebbe potuto dire nulla alla mia famiglia per via del segreto professionale. Lo chiamai al suo numero personale e chiesi informazioni su un’interruzione di gravidanza. Mi disse che lui non mi avrebbe rilasciato il certificato ma che avrei potuto contattare un ginecologo privato, di cui mi avrebbe passato il contatto. Inutile a dirsi, non potevo permettermelo.

Erano rimasti solo tre giorni allo scadere delle sette settimane, l’ansia e la paura mi svuotavano dentro. Dovevo assolutamente trovare qualcuno che potesse almeno farmi quel maledetto certificato. E lo dovevo trovare ora. Con soli cinque euro in tasca decisi di non acquistare il biglietto dell’autobus, salii e sperai di non incrociare alcun controllore. Destinazione: Ascoli. Arrivata all’ospedale di Ascoli, corsi immediatamente in ginecologia. La ragazza dietro la scrivania mi disse che quel giorno tutto il personale ginecologico era obiettore e che dunque non avrei potuto procedere. Vedeva la mia faccia spaventata, preoccupata, senza che le dicessi nulla mi tranquillizzò dicendomi: «domani c’è sicuramente un medico non obiettore, se vuoi ritornare farò in modo che ti visiti». Ormai non sapevo neanche più se credere a quelle parole, erano state due settimane infernali, catapultata da una parte all’altra senza che nessuno mi desse informazioni, mi sentivo stanca, delusa, incazzata: i segreti alla mia famiglia e ai miei amici, la solitudine, la poca empatia, la mancanza di sonno la notte, non trovare un medico non obiettore, l’ostruzionismo, il chirurgico, l’obiezione al 100% e… forse una speranza. Il giorno dopo ritornai ad Ascoli. Ripresi l’autobus del giorno precedente, anche questa volta non feci il biglietto e arrivai nuovamente davanti all’ospedale. Una volta entrata non notai la ragazza della reception del giorno prima, pensai fosse un brutto segno. Domandai se fosse possibile procedere con un’interruzione di gravidanza, avevo solo due giorni per abortire. Compilai un modulo e aspettai. Dopo quasi due ore una dottoressa dall’altra parte del corridoio urlava, con il viso rivolto verso me: «sei tu per l’interruzione di gravidanza?». La mia faccia diventò paonazza, imbarazzata mi avvicinai alla porta del suo studio. Entrata, la dottoressa non mi fece molte domande e io ne fui sollevata. Lesse la scheda medica che avevo compilato e proseguii con le analisi e l’ecografia. Una volta svolti i dovuti controlli, l’unica domanda che mi pose fu: «sei pronta?». Non le risposi nemmeno, annuii solamente. Ero pronta. Quella mattina, dopo due settimane frustranti e più di centocinquanta chilometri percorsi, riuscii a prendere la prima dose di Ru. Quella fu la mattina in cui abortii.

¶ Questa non è la mia storia, ma è la storia di tantissime persone che ancora oggi non riescono ad accedere alla pratica dell’aborto. Esattamente come nelle lotte femministe degli anni Settanta, anche oggi l’attivismo e la militanza possono portare a un cambiamento radicale di questo stato di cose. Come la pratica abortiva transfemminista operata da Non Una Di Meno, grazie alla quale è possibile ricevere direttamente il certificato con urgenza così da potersi recare in ospedale e procedere con la pratica meno invasiva di interruzione di gravidanza. Queste sono storie reali, storie di oggi. Eppure, anche questo è sintomatico di uno Stato assente e cieco ai bisogni dei suoi abitanti: creare una rete informale che permetta alle persone di abortire non dovrebbe esistere in un paese in cui il diritto alla salute deve, o per lo meno dovrebbe, essere garantito a tutti i suoi cittadini. Ma se il cambiamento proviene sempre dal basso, anche in questo caso porteremo avanti un bell’esempio di come, solo volendo, le cose possano andare diversamente. E non solo, la possibilità di un accesso garantito, sicuro e gratuito all’aborto permette una trasformazione anche, e soprattutto, a livello di mentalità sociale. Solo così si arriverà ad allontanarsi il più possibile da certi stigmi e stereotipi, svincolando la narrazione sull’aborto dal suo alone negativo ed educando alla sessualità, alla riproduzione e all’autodeterminazione di ogni soggettività. Parlare in termini positivi di aborto è non solo possibile ma quantomai necessario.

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