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Prison – Dopo la mia esperienza

di Muhammad Ali Raza

Pubblichiamo il testo dell’intervento di Muhammad Ali Raza al presidio “Verità a giustizia per Matteo Concetti”, Ancona, 13 gennaio 2024.

Salve, sono Muhammad Ali Raza un ex detenuto di Montacuto e Barcaglione, i due carceri di Ancona. È la prima volta che mi presento così, direttamente. Di solito non lo faccio perché in questa società se lo dici è come se precludi la possibilità di conoscere la persona che sono veramente; io non sono una decisione presa in cinque minuti un pomeriggio di sette anni fa, preso dall’ingenuità, io non sono la cupidigia di arraffare qualcosa da uno scaffale dodici anni fa, io sono un uomo che conosce il valore del lavoro e della fatica, della fugacità e della preziosità della vita e che non può trovare un bene più grande se non lasciare il mondo un posto migliore rispetto a come l’ha trovato, in onore a chi ha fatto lo stesso prima di lui.

Penso che per portare un cambiamento al sistema della detenzione carceraria e di qualsiasi altro sistema di “simil-detenzione”, come i CPR, sia necessaria una coscienza diffusa da parte della società tutta. Non siamo reietti, non siamo spazzatura da rinchiudere in quattro mura come fossimo errori da dimenticare, siamo esseri umani come voi tutti, non può essere una scelta sbagliata a definirci per il resto della vita. Non siamo dei trofei da portare in gloria, come fecero con me alcuni agenti dei carabinieri che mi arrestarono, non siamo un articolo di cronaca da incorniciare di falsità diffamatorie per ottenere delle views.

Non dico che certe cose non accadano, ma ciò di cui vi parlo l’ho vissuto sulla mia pelle.

Non penso sia una responsabilità solo dello stato risolvere la questione sulla detenzione e le condizioni dei detenuti, è una questione che riguarda tutti.

Ahimè, grazie al carcere, mi sono posto alcune domande, prima fra tutte: “Come possono degli uomini miei pari trattarmi in questo modo?”

Il carcere non è un posto in cui vorreste finire. Possono capitare notti in cui non dormi perché hai paura che il compagno di cella con cui hai avuto dei diverbi ti venga ad assaltare se ti addormenti, e nessuno ti difenderà se accade. È l’ultima trincea della società contro le sue debolezze, quella che hanno abbandonato tutti, dopo di questa c’è soltanto una terra desolata di pregiudizi e tabù.

Riguardo al caso di Matteo Concetti. Immagino come si deve essere sentito, nella cella in cui si è trovato in isolamento, solo durante le ore d’aria a passeggiare in una specie di corridoio (20 m x 5 m) di cemento grigio scoperchiato. E se non aveva il piacere della lettura o del movimento, lo immagino solo con le sue paranoie. Mi dispiace che nessuno sia riuscito a comprenderlo, ma non mi sorprende.

Lì sono abituati così. Il carcere non è una cosa facile nemmeno per le guardie, molte volte non possono far niente se i detenuti non ricevono da mesi la risposta del magistrato di sorveglianza, o un colloquio con l’educatore, che può favorire l’accesso a percorsi di rieducazione, quindi a misure alternative alla pena. A volte è capitato che alcuni detenuti si autolesionino per ricevere attenzione, per avere un colloquio con “chi conta”, il direttore del carcere, l’ispettore o il comandante. So di un ragazzo che si svuotò la bomboletta di gas addosso e si diede fuoco, so di chi si è tagliato. Ho sentito di chi ha provato a impiccarsi, ma per fortuna è stato salvato da alcuni suoi compagni detenuti, perché non era in isolamento come Matteo Concetti.

Alcune guardie purtroppo sono indurite e abituate a trattare certi individui come cani che abbaiano e che non puoi che ignorare. Ho vissuto sulla mia pelle il menefreghismo di una guardia che passando davanti alla mia cella, mentre un coinquilino mi minacciava con un “coltellino” di plastica alla gola, chiuse il blindo (il portone o blocco di ghisa davanti le sbarre di ogni cella) come se niente fosse, come se non fosse affar suo. E di chi dovrebbe essere? Chi altro dovrebbe continuare a garantire il mio diritto alla vita?

Si ha spesso paura di lasciarci le penne là dentro, se non per mano propria, per mano di un altro detenuto che in qualche modo abbiamo fatto arrabbiare.

Sicuramente vi è una carenza di personale, di guardie, di educatori e magistrati. Ma secondo me non ha senso aumentare il numero di guardie se là dentro entra una polizia penitenziaria qualunque, senza che sia formata ed educata. Educata al rispetto della dignità umana, all’uguaglianza.

Così devono avere la stessa occasione i detenuti, che è importante che capiscano perché si trovano là dentro, che non è per svilire la propria persona, non è perché qualcuno è così arrabbiato con loro, ma perché dovrebbero capire che lo stato e le comunità di persone fanno ciò per garantire i propri diritti; è importante che capiscono prima di tutto loro stessi se si “meritano” o meno di stare là dentro, a discapito delle interpretazioni dei giudici. Che capiscano quali sono i loro diritti, e cosa vuol dire dignità umana propria e degli altri, e il dovere perciò di rispettarla a vicenda.

Là dentro non si sta bene, si è abbandonati a se stessi e so cosa pensa la gente: “I criminali se lo meritano”. Ma non è così. Quale giovamento portate alla società volendo un male che va oltre il necessario per quella persona, come si spezza questo circolo vizioso? Le persone detenute si meritano di capire lo sbaglio che hanno fatto, non di ricevere altro male.

Sì, giusto, il nostro sistema è basato sulla retribuzione. A un male o delitto commesso verso la società o un individuo va contrapposta una pena proporzionata per evitare che ci siano ulteriori delitti, e non si crei un precedente che faccia credere che se ne possano permettere altri. Ma perché tutto ciò deve essere visto come se ci deve essere qualcuno che deve pagare e non piuttosto semplicemente un bene comune e un’umanità da preservare?

Il sistema penale, in virtù della cosiddetta “rieducazione” dice che vede con favore chi si prodiga per comprendere il proprio sbaglio, chi lo capisce, chi dimostra di aver compreso quali sono i veri mezzi del sostentamento possibili in una società civile, ma non crea le condizioni affinché ciò sia possibile. Sono pochi, se non assenti, i percorsi di reinserimento o formazione.

Chi finisce in carcere, spesso, non ha conosciuto altro modo di vivere se non quello che lo ha portato là dentro, chi dovrebbe prendersi la responsabilità di permettere che si sperimenti in modi diversi, in attività e professioni nuove se non il sistema penale?

Avere cura di chi è detenuto, che sia finito dentro per sua sfortuna o malizia è importante. I detenuti vanno trattati come persone, come dei pari e non come cose o animali da ignorare finché non smettono di latrare.

Aiutare loro vuol dire anche essere coscienti delle debolezze umane, non nasconderle né ignorarle, ma affrontarle.

Citando Dostoevskij (credo): “Il carcere è lo specchio della società”.

Ridiamo valore alla dignità umana.

Grazie

Muhammad Ali Raza 13/01/2024

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