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Agricoltura 4.0 e nuovi OGM

Intervento del Collettivo Terra e libertà

Già da decenni l’agricoltura industriale e le sue tecnologie stanno spezzando il rapporto di equilibrio tra esseri umani, terra e territori. Evidentemente l’organico e il vivente sono di intralcio alla produzione scientificamente controllata, standardizzata e meccanizzata, gestita da tecnici che monitorano ogni parametro, senza più bisogno di contadini. Il cibo: una merce tra le altre. Un’altra produzione da ottimizzare. Oggi un ulteriore passo in avanti è alle porte: trattori digitali, sensori, droni applicati a un’agricoltura nemica della biodiversità vanno a braccetto con i “nuovi” OGM, che l’Italia e l’Europa stanno imponendo nel più generale silenzio. Quale strada vogliamo prendere? Quella irreversibile dell’agricoltura industriale, biotecnologica e brevettata, o quella che mantiene ancora possibile un’agricoltura collettiva e mutualistica? Su questi temi pubblichiamo la trascrizione di un intervento del Collettivo Terra e libertà di Rovereto a un incontro pubblico tenutosi nel febbraio 2024 a Casa Galeone (Potenza Picena-MC). Terra e libertà è un collettivo di critica teorica e pratica della società capitalistica nell’era della sua svolta tecno-totalitaria: ostinatamente terrestri, umani e libertari, per il recupero di pratiche e saperi a misura di individui e comunità, contro un sistema che inventa di tutto per privarci della nostra autonomia. Il testo è intervallato da alcuni brani dell’Atelier Paysan, cooperativa di auto-costruzione di macchinari agricoli a bassa tecnologia, che opera per la generalizzazione dell’agroecologia contadina anche attraverso la riappropriazione delle conoscenze tecniche e dei saper-fare, controcorrente rispetto alle tecnologie industriali.

Nei mesi di aprile e maggio si è dispiegata la mobilitazione nazionale “Contro i nuovi OGM”, con decine di iniziative locali e una manifestazione unitaria nelle campagne della lomellina, a Mezzana Bigli, nel sito che dovrebbe ospitare il primo campo sperimentale di riso TEA (cioè un riso OGM di nuovo tipo, ingegnerizzato nei laboratori dell’Università di Milano per renderlo resistente a un fungo patogeno). Mentre scriviamo queste righe non sappiamo come sia andata l’iniziativa, certo è che sarà solo l’inizio di una battaglia che siamo tutti/e chiamati a sostenere: la deregolamentazione dei “nuovi” OGM che sta passando in Europa comporterà l’abolizione degli obblighi di valutazione del rischio, di tracciabilità ed etichettatura, e alla fine, se restiamo inerti, ci ritroveremo costretti a cibarci di queste chimere artificiali, così come per i contadini sarà impossibile scegliere di non averli nel proprio campo, per via delle contaminazioni. Si avvicina un cambio radicale per l’agricoltura e per il cibo che mangiamo. Non resta che impugnare la falce, finché siamo in tempo.

Come Collettivo Terra e Libertà abbiamo voluto approfondire il tema dell’agricoltura 4.0. Lo abbiamo fatto pubblicando l’opuscolo Appello ai colibrì, che si compone di due parti: una scritta da noi e una che riporta degli estratti del libro Liberare la terra dalle macchine dell’Atelier Paysan, che non era stato ancora tradotto in italiano e che crediamo proponga degli spunti interessanti. Uno dei punti che ci ha smosso è che questa agricoltura 4.0 ci è sembrata un ennesimo passo in avanti nella direzione di limitare la nostra autonomia, che sia nella produzione di cibo come in qualsiasi ambito della vita.

L’agricoltura industriale che conosciamo almeno fin dagli anni Cinquanta aveva, come dice il termine stesso, una visione industrialistica dell’agricoltura, parliamo cioè di un’agricoltura che non è più intesa come rapporto dell’uomo con la terra, ma diventa una questione di sfruttamento della terra stessa. Viene meno l’equilibrio tra esseri viventi e la terra diventa semplicemente una base in cui si mettono vari tipi di arricchimento chimico per estrarre quello che ci serve e poi, con tutta l’organizzazione del sistema agroindustriale, andare a vendere i prodotti così estratti. Tutto questo – la trasformazione del nostro approccio al cibo, delle modalità con cui lo produciamo, della nostra relazione con la terra – ha effetti sia sulla terra vista come suolo, sia sull’umano, sul sociale.

Il sistema agroindustriale presenta tre componenti: a monte abbiamo le industrie che producono tutto ciò che serve alla coltivazione come sementi, concimi ecc., a valle ci sono gli intermediari come la grande distribuzione, i trasporti (e quindi la logistica, con prodotti che si muovono per migliaia di chilometri), il terzo elemento del complesso è lo Stato, in riferimento alle politiche che sceglie di attuare, alle strade in cui indirizza i finanziamenti e a dove sceglie di investire in ricerca. L’elemento dello Stato è un punto che spesso viene sottovalutato, ma è in realtà una parte essenziale del sistema agroindustriale (sia a livello nazionale che europeo). In tutto ciò, il contadino diventa un fornitore di materie prime, dipendente da quelli che lo precedono e senza più il controllo di quello che succede dopo (come vendere, a che prezzo vendere…): è semplicemente un anello sempre più debole di questa catena.

L’agricoltura industriale si afferma a livello occidentale, ma non solo, con la cosiddetta “Rivoluzione verde”, il cui intento era di aumentare la produzione di alimenti. Aumentando le rese nascondeva però, di fatto, quelli che sono i costi reali. Un dato significativo mette in correlazione l’aumento della resa dei cereali con l’aumento dell’energia necessaria per ottenere quella produzione: dal 1950 al 1985 l’aumento della resa è stato del 250%, al contempo l’energia necessaria per avere quell’aumento è stata del 5000% in più. Questo ci fa capire come l’agricoltura industriale sia direttamente connessa a degli input energetici (come i fertilizzanti).

Un ruolo fondamentale lo ha poi avuto la meccanizzazione, che per gli agricoltori ha comportato un cambio di modello. Da un modello basato sulla policoltura e sull’allevamento (il sistema tradizionale che creava un circuito chiuso, senza rifiuti, in cui le deiezioni animali servivano a concimare e i residui colturali tornavano alla terra), dove la componente agricola comprendeva una moltitudine di specie vegetali, ci si è spostati verso la monocoltura, cioè un’unica varietà coltivata su ampie porzioni di terra. I macchinari infatti, oltre ad avere costi molto elevati, si sono via via specializzati per una determinata coltura, obbligando quindi a coltivare una sola cosa, finendo per produrre una semplificazione dell’ambiente agricolo che ha portato a eliminare la biodiversità. L’integrazione tra agricoltura e industria è inoltre diventata nel corso degli ultimi cento anni una delle cause del cambiamento climatico: la produzione di pesticidi, ma soprattutto di concimi, necessita di grandi quantità di idrocarburi, perché l’azoto che in questo tipo di agricoltura è considerato elemento fondamentale per aumentare le rese viene direttamente dal sistema industriale, prodotto utilizzando grandi quantità di petrolio o gas naturale.

L’agricoltura 4.0 prosegue il percorso intrapreso dall’agricoltura industriale e lo accelera, aggiungendo dei tasselli in più.

«L’agricoltura 4.0 vuole accompagnare la quarta fase dello sviluppo di Internet, l’Internet delle cose: le macchine e i prodotti dell’industria sono sempre più spesso in grado di comunicare tra loro. In materia agricola, il progetto è quello di installare ovunque dei sensori nelle fattorie, di utilizzare dei software e degli algoritmi d’intelligenza artificiale per automatizzare un insieme di mansioni (nutrire e curare gli animali, per esempio), di ricorrere a dei droni per seminare e polverizzare i prodotti fitosanitari o per valutare le condizioni del suolo e i suoi bisogni di concime, di pilotare dei trattori a distanza con l’aiuto dei satelliti. Tutto ciò è interamente conforme all’attuale orientamento generale del mercato: accelerare lo sviluppo tecnologico, se possibile in nome dell’ecologia».

«La perdita di saper fare provocata dalle tappe precedenti dell’industrializzazione si perfeziona attraverso l’uso “a ogni angolo del campo” di computer e dei loro sistemi esperti: gli allevatori sono incitati a delegare l’integralità delle cure verso il loro bestiame (sempre più numeroso); i coltivatori sono addestrati a non contare più sulle proprie riflessioni, basate sul tatto, sulla vista, sul sentire, affidando a degli automatismi la quasi totalità delle proprie analisi sulle condizioni della terra, del cielo e degli altri elementi che intervengono nelle loro colture. La perdita d’intelligenza sensoriale che ne risulterà meccanicamente compendia la perdita di gusto delle verdure, dei frutti e dei formaggi così prodotti».

Queste tendenze che accentuano le conseguenze dell’agricoltura industriale, aumentano ancora di più la nostra dipendenza. Se un attrezzo lo possiamo costruire in autonomia con chi ha un saper fare adeguato, quando parliamo di trattori digitali sono necessarie tecnologie non disponibili in loco e la nostra dipendenza rispetto a chi le ha in mano è totale. Così come si moltiplica il controllo: se ho uno di questi trattori digitali e vado a lavorare nel campo di un altro, la cosa viene subito registrata, con le relative conseguenze se non l’ho dichiarato. È solo un piccolo esempio, ma serve a dare un’idea della tendenza.

In molti parlano di un futuro agricolo senza contadini, come conseguenza di questo passaggio al 4.0. Come è scritto nel libro dell’Atelier Paysan, e per quelle che sono le posizioni ufficiali almeno a livello francese, l’idea è di dimezzare ancora (dopo che si erano già dimezzati negli ultimi dieci anni), i contadini che lavorano la terra. Semplicemente non serviranno più, ma basteranno delle persone in grado di gestire delle macchine, dei tecnici, dei manager.

Un’altra conseguenza a cui forse non pensiamo abbastanza è che la digitalizzazione – non solo dell’ambito agricolo ma in generale dell’intera società – va ad aumentare drasticamente il nostro bisogno di artefatti elettronici. Non siamo ancora in grado di riciclarli correttamente, anche perché per le aziende non vale la pena farlo, e questo significa legarsi sempre più a quell’estrattivismo che già tiene in piedi i nostri telefoni, computer eccetera. La svolta digitale che ci è venduta come svolta green in realtà accresce di molto il nostro impatto ecologico sulla Terra.

Dovremmo anche renderci conto di quanto il modo di produrre il cibo influenzi i nostri rapporti sociali. La tecnica ci è stata sempre presentata come qualcosa che veniva in supporto all’uomo, ma nella realtà le cose sono invertite: la tecnica diventa quello che dobbiamo seguire, senza domandarci prima di cosa abbiamo effettivamente bisogno e che tipo di impatto ecologico e sociale avrà questa tecnica. Bisognerebbe invece rovesciare i termini della questione e fare prima le scelte politiche su che cibo vogliamo, che mondo vogliamo… e poi, a seconda di quello, scegliere le tecniche di cui abbiamo bisogno. Questo è un po’ il ragionamento che ha portato alla nascita dell’Atelier Paysan.

Se si vogliono portare avanti una riflessione e una lotta contro questa agricoltura 4.0 e per un altro tipo di agricoltura, la questione del cibo è centrale perché riguarda tutti. Le nicchie che a volte ci siamo costruiti, come anni e anni fa il biologico, o la permacultura, o la questione delle mini-autoproduzioni locali sono dinamiche certamente interessanti, ma non possiamo accontentarci dei nostri piccoli esperimenti perché finché non si cambia il complesso della società agroindustriale, le nicchie difficilmente riusciranno ad avere un impatto sufficiente a stravolgere, in modo positivo, l’andamento del nostro rapporto con la terra e con il cibo.

«Vogliamo credere che l’emergere delle tecnologie cosiddette 4.0 (l’“agricoltura connessa”) costituisca una delle soglie che può provocare una reazione conseguente nella società. Sogniamo una risposta a questa offensiva robotica (droni, trattori guidati dai satelliti, algoritmi di comando nei capannoni…) che sia almeno degna di quella che era esplosa, con gran stupore dei tecnocrati, contro gli OGM venticinque anni fa. Fare inchiesta, gettare discredito, sabotare: chi vuole combattere con noi i robot negli anni 2030? Chi vuole denunciare le ricerche condotte nei laboratori dell’INRA (e da una pletora di start-up) e i prototipi che vi sono realizzati, per il loro sicuro impatto sociale ed ecologico? Chi vuole sabotare i grandi ricevimenti del complesso agro-industriale nei quali queste innovazioni sono celebrate e trasfigurate per assicurare la loro adozione da parte dei rappresentanti del settore e altri leader d’opinione?».

Uno dei motivi che ci ha spinto a far uscire l’opuscolo Appello ai colibrì è anche lo sdoganamento dei nuovi OGM a cui stiamo assistendo a livello italiano ed europeo e, quindi, una certa urgenza nel capire di cosa si sta parlando e come si può intervenire. Le biotecnologie applicate al campo agricolo, se è vero che sono in continuità con l’agricoltura industriale rappresentano però un notevole passo in avanti, perché vanno a modificare le basi stesse della vita.

Prima di andare a parlare dei nuovi OGM è utile fare un passo indietro e ripercorrere quelli che sono stati i vecchi OMG, ovvero gli OGM di prima generazione, quelli che attualmente sono ancora i più presenti nelle coltivazioni a livello mondiale, in particolare in aree come Stati Uniti, Canada, Argentina e Brasile. Questi vecchi OGM sono stati spinti a livello internazionale utilizzando una propaganda che è più o meno la stessa utilizzata oggi per i nuovi OGM. A distanza di anni si vedono gli effetti negativi di quella tecnologia, sia a livello ecologico che sociale; questo dovrebbe permetterci di essere più attenti e anche più acuti nella critica dei nuovi OGM.

La propaganda, lanciata soprattutto dalle grandi multinazionali e dai governi statunitensi si basava, al tempo, sul fatto che gli OGM avrebbero risolto il problema della fame nel mondo, puntando anche sulla loro sostenibilità dal punto di vista ambientale. Consideriamo che i vecchi OGM riguardano quasi esclusivamente quattro colture: soia, mais, cotone e colza. Soia e mais OGM vengono coltivati per produrre mangimi per l’allevamento industriale; la colza non si mangia ma viene usata per fare olio; e tantomeno mangiamo il cotone. È evidente che in queste colture non c’era alcun interesse a risolvere il problema della fame nel mondo. E, in ogni caso, mai e poi mai una soluzione tecnica può risolvere problemi che hanno una natura sociale e politica.

Quel che è successo è stata piuttosto una sempre maggiore concentrazione del controllo sulle sementi, fino ad arrivare a solo quattro multinazionali che controllano il 62% delle sementi commercializzate a livello mondiale: Bayer (che ha assorbito Monsanto), ChemChina, Corteva e Basf. Un oligopolio. Il problema della fame nel mondo lo hanno solo aggravato, anche perché tramite le politiche del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale i contadini del Sud del mondo sono stati spinti ad affidarsi a queste tecnologie, avendo in cambio la distruzione dei rapporti sociali di comunità. Basti pensare a quello che è avvenuto in India, dove i contadini si sono ritrovati talmente indebitati nei confronti delle multinazionali da non essere più in grado di portare cibo a casa, determinando un dramma sociale che il libro I semi del suicidio di Vandana Shiva racconta in maniera esemplare.

Per quanto riguarda l’utilizzo degli OGM in nome di un’agricoltura più sostenibile, anche questo si è visto che non è avvenuto; è sufficiente guardare a come le monocolture hanno rotto gli equilibri preesistenti e all’importante aumento nell’utilizzo di quegli input energetici che vengono bonariamente chiamati “prodotti fitosanitari”, cioè i pesticidi.

Possiamo fare alcuni esempi: i vecchi OGM più noti sono il mais BT e la soia Roundup. È interessante vedere cosa hanno modificato in queste varietà, anche per capire le conseguenze sull’ecosistema. La soia Roundup è stata geneticamente modificata con l’inserimento di una componente all’interno del DNA che permetteva alla pianta di essere resistente a un’erbicida (il Roundup, appunto, forse più noto per il suo principio attivo glifosate): questo ha consentito alla multinazionale di vendere l’intero “pacchetto tecnologico”, cioè sia la semente modificata che l’erbicida, così l’agricoltore può seminare questa soia e con l’erbicida eliminare tutta la flora che non gli interessa, ottenendo un raccolto di soia pulito da tutti gli “infestanti”. L’effetto nei campi è stato però che altre varietà di flora spontanea, più tolleranti verso quell’erbicida, sono andate a seme e si sono moltiplicate: nel giro di qualche anno i campi erano di nuovo pieni di flora spontanea. Allora la multinazionale – dato che a ogni problema tecnico la loro soluzione è di dare una risposta tecnica – ha aggiunto un altro gene, resistente a un diverso erbicida, e così sono andati avanti creando una soia resistente a quattro principi attivi differenti. In questo modo ci si è incanalati in un sistema per il quale l’agricoltore è costretto a utilizzare sempre più erbicidi, con grandi problemi ecologici.

La cosa da sottolineare è che questi OGM sembrano una soluzione nell’immediato, ma in realtà nel giro di poco tempo aprono problemi ancora più grandi. Per quanto riguarda il mais BT, è un mais che produce una sostanza tossica per alcuni insetti, ma la sua introduzione ha creato delle super-resistenze al punto che la stessa Monsanto ha dovuto indicare agli agricoltori di seminare fino al 20% della superficie con mais non OGM, per abbassare quella che viene definita “pressione selettiva”.

Adesso l’Italia e l’Europa stanno aprendo alla sperimentazione dei nuovi OGM. In Italia sono chiamati TEA (Tecnologie di evoluzione assistita), un nome ad hoc, inventato dalla Società italiana di genetica agraria; a livello internazionale vengono definiti con altri acronimi come NGT (Nuove tecniche genomiche). Si tratta di tecniche di laboratorio che intervengono direttamente sul materiale genetico delle piante. Il termine utilizzato in Italia è chiaramente ipocrita, scelto per cercare di evitare contestazioni, dato che l’Italia è uno dei paesi dove di fatto era vietata la coltivazione in campo aperto degli OGM e dove sindacati agricoli e ministeri hanno sempre portato avanti il discorso propagandistico del made in Italy, della biodiversità ecc.

Dal punto di vista tecnico cosa cambia tra vecchi e nuovi OGM? I vecchi OGM si basavano su quella che viene definita trans-genesi, cioè il trasferimento di parti del DNA tra specie diverse (come l’esempio fatto prima del mais BT, dove BT sta per Bacillus thuringensis, un batterio da cui viene estratta una componente di DNA e inserita all’interno della pianta del mais). La cis-genesi è invece la tecnica utilizzata per i nuovi OGM, ovvero il trasferimento di componenti del DNA all’interno della stessa specie, oppure il silenziamento genetico di alcuni caratteri che non vanno bene. Sta di fatto che si tratta sempre di una modificazione genetica. Le vecchie tecniche erano più costose, necessitavano di più tempo, di anni di perfezionamento, mentre quelle attuali (parliamo del CRISPR-Cas9) sono molto più economiche, veloci e in grado di produrre una serie di modificazioni prima impensabili.

«Un OGM nascosto o un OGM di ultima generazione è un OGM».

I genetisti dicono che sono tecniche come tante altre e che l’uomo ha sempre selezionato delle varietà… in realtà la situazione è ben diversa, nel senso che le modificazioni genetiche vengono effettuate da parte di tecnici di laboratorio con l’intento, strettamente connesso, di brevettare il vivente. E sono tecniche completamente diverse dalla selezione in campo: tradizionalmente la selezione manteneva la biodiversità e veniva sviluppata nei diversi contesti agricoli in base alle condizioni del suolo, del clima, alle tecniche agricole utilizzate, a ciò che si voleva avere come prodotto (ad esempio per quanto riguarda il grano si poteva puntare a varietà con maggiore contenuto di paglia, per i vari usi di questa), adesso vengono selezionate poche varietà all’interno dei centri di ricerca, in stretta connessione con le multinazionali del settore, e queste varietà sono distribuite uniformemente nei più svariati ambienti agricoli. C’è una correlazione stretta tra l’uniformità genetica delle piante e la loro suscettibilità ai patogeni e ai cambiamenti climatici. Più un campo coltivato presenta biodiversità (anche all’interno della stessa coltura coltivata) e maggiore sarà la capacità complessiva nel tollerare situazioni di stress ambientale. Più omogenea sarà la coltivazione e meno tollererà cambiamenti non previsti dal biotecnologo.

E poi, come già accennato, il fine dichiarato è la corsa al gene brevettato, perché ormai la ricerca si basa sui profitti derivanti dalla vendita di brevetti. La ricerca deve avere uno sbocco direttamente commerciale. Se guardiamo i brevetti rilasciati per questi nuovi OGM a livello europeo, vediamo che finora sono circa 500, di cui 139 rilasciati alle quattro multinazionali di prima e i restanti a grandi centri di ricerca, che sono comunque legati a queste multinazionali. In pratica: il laboratorio produce nuovi OGM, che poi la multinazionale acquista e manda in produzione in grandi quantità nelle sue monocolture.

A livello italiano un emendamento del decreto Siccità, uscito dopo l’emergenza dell’alluvione in Emilia Romagna, ha permesso per la prima volta la sperimentazione in campo aperto dei nuovi OGM. E in Europa ci sono tutta una serie di passaggi che vanno nella direzione di permettere queste coltivazioni. Ma facciamo un passo indietro: in Europa, fino a poco tempo fa, non era completamente vietato coltivare OGM, c’era una direttiva del 2001 in base alla quale ogni OGM doveva essere sottoposto a tre criteri: analisi dei rischi, tracciabilità ed etichettatura. Poi ogni paese aveva la possibilità o meno di vietare la coltivazione degli OGM, e l’Italia aveva fatto una moratoria che ne vietava la coltivazione in campo aperto (anche per il problema di possibili contaminazioni tra varietà modificate e tradizionali). I pochi agricoltori che nonostante la moratoria avevano provato a seminare OGM sono stati per fortuna fermati, grazie alle mobilitazioni più che all’intervento dello Stato.

Fatto sta che se fino a qualche tempo fa, in Europa era più difficile coltivare i vecchi OGM rispetto agli Stati Uniti, ora è in atto un tentativo di dividere i nuovi OGM in due categorie: fino a venti modifiche del DNA non sarebbero più da considerare come OGM e all’industria sementiera basta fare una semplice notifica al ministero; sopra le venti modifiche devono invece sottostare a quello che è previsto al momento per i vecchi OGM. Vien da pensare che dentro il limite delle venti modifiche possano fare sostanzialmente quello che vogliono…

L’Italia con il decreto Siccità ha anticipato questa tendenza allo sdoganamento europeo dei nuovi OGM. Alcuni protagonisti della scena italiana spingono molto affinché la “nostra” agricoltura sia competitiva e, per esserlo, secondo la loro logica, bisogna adottare queste tecniche genetiche. Questi protagonisti sono in particolare i grandi sindacati agricoli, in primis la Coldiretti che ha fatto (anche giustamente) una campagna martellante contro il cibo sintetico, ma al di là degli orientamenti politici ha sempre portato avanti il sostegno all’agricoltura industriale, ha sempre favorito i grandi allevatori, le grandi imprese agricole, ed è adesso interessata a sviluppare i nuovi OGM. Poi c’è la questione della ricerca pubblica: se verso i vecchi OGM la critica poteva esser quasi più semplice perché di fronte avevi le grandi multinazionali che tutti potevano vedere come i “nemici”; adesso dentro questo discorso c’è il CREA (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria), ci sono le Università che vogliono ritagliarsi il loro spazio e che probabilmente raccoglieranno le briciole rispetto alle multinazionali, ma comunque abbiamo una ricerca pubblica che va sempre più verso le biotecnologie, verso l’agricoltura industriale che soppianta qualsiasi tipo di libertà di selezionare le varietà in base alle proprie specifiche esigenze.

Non dimentichiamo che le biotecnologie agricole si stanno affermando anche grazie al contesto di crisi in cui viviamo, con la crisi economica, la guerra e i relativi problemi nei rifornimenti.

Qui parte la nostra critica alle tecnoscienze, di cui gli OGM occupano una parte sempre più rilevante. L’invito è quello di contestare tutti i soggetti promotori (sindacati agricoli, enti di ricerca, università) a livello locale e lanciare dei momenti collettivi di opposizione reale alla loro coltivazione.

Dobbiamo sradicare le tecno-piante prima che i loro programmatori sradichino ogni seme di autonomia.

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