Altri fiori, altri partigiani

Redazione Malamente


Ieri (07 maggio) a Kiev, in una località che è stata tenuta segreta per motivi di sicurezza, si è svolta la commemorazione di tre volontari internazionalisti caduti in combattimento a Bakhmut il 19 aprile, quasi impercettibili tra le centinaia di vite che vengono falciate ogni giorno dalla guerra sul lato ucraino e russo.

Questi tre uomini hanno però un significato particolare perché raccontano una storia minoritaria ma per noi molto importante all’interno della tragedia in corso. Dmitriy «Leshy» Petrov, Finbar «Chia» Cafferkey e Cooper «Harris» Andrews erano tutti e tre internazionalisti e attivisti antifascisti nei loro paesi. La piccola celebrazione in forma privata ha coinvolto decine di attivisti ucraini e di altre nazionalità, insieme ad alcuni familiari giunti dall’estero per l’occasione.

A Kiev dall’inizio della guerra esiste infatti una piccola ma resiliente rete di volontari/e, attivisti/e, militanti che nonostante e contro le difficoltà della guerra lottano per l’emancipazione sociale, sostengono lotte sindacali, forme di mutuo appoggio, forniscono sostegno materiale ed emotivo alle vittime della guerra e mantengono viva una elaborazione politica critica verso la società ucraina mentre al tempo stesso partecipano alla sua difesa. La cerimonia è stato un momento di emozione intensa, in cui sono emerse le biografie di questi uomini che nel momento della morte hanno mostrato controluce le aspirazioni, le passioni, le difficoltà di milioni di esseri umani che lottano per la liberazione in questo mondo in fiamme.

La propaganda russa anche in Italia sta tentando in questi giorni, inutilmente, di infangare il loro nome e la loro traiettoria di lotta con fantasiose ricostruzioni che raccontano una inesistente collaborazione o subordinazione alle forze neonaziste ucraine. Chi conosce la storia, l’etica e la pratica di questi compagni caduti o chi si sia preso il disturbo di passare anche solo qualche giorno in Ucraina nell’ultimo anno e mezzo capisce che quelle che circolano sui canali filorussi sono solo manipolazioni e infamie.

Tuttavia è importante fermarsi a raccontare e approfondire la storia e il profilo di questi attivisti perché essi mostrano una ricchezza umana, un coraggio e una capacità di visione del futuro che dobbiamo difendere e rafforzare nella nostra pratica quotidiana. Nelle loro biografie, infatti, la guerra non appare come un valore in sé o come qualcosa da celebrare, ma come un elemento tragico e inevitabile nei conflitti per l’emancipazione delle classi subalterne. C’è un filo rosso che unisce le lotte nelle metropoli degli Stati Uniti e della Russia, nelle campagne dell’Irlanda e del Rojava, con quello che sta succedendo oggi sul fronte est dell’Ucraina.

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Il rapporto completo dell’intelligence francese che elogia Soulèvements de la Terre

Da lundi.am

Il 26 marzo scorso nella località rurale di Sainte-Soline si è svolta una grande azione di protesta del movimento Soulèvement de la Terre contro un progetto di costruzione di un mega-bacino artificiale e di privatizzazione delle acque agricole.

La violenza della repressione ha sconvolto la Francia, già attraversata da manifestazioni molto radicali. Perché lo Stato ha difeso un buco coperto di plastica lanciando più di 5.000 granate (potenti più di una bomba carta) ferendo centinaia di persone di cui due gravemente?

Perché, nonostante questo, le proteste continuano e il sostegno popolare a pratiche radicali di sabotaggio ecologista sta crescendo?

I nostri amici di Lundimatin hanno pubblicato otto pagine di una relazione dei SRCT, l’equivalente della nostra Digos, che spiegano perché lo Stato teme Soulèvement de la Terre: perché funziona!

Spesso le parole dei nostri nemici sono in grado di descrivere meglio di tanta retorica “dei compagni” lo stato di salute di un movimento sociale, nella misura in cui esso è in grado di svolgere la sua necessaria e per noi benefica funzione di minacciare l’ordine costituito.

Con questo testo vogliamo aprire una sezione di approfondimento su quello che sta succedendo in Francia e sulle possibilità di relazione e di apprendimento – quanto mai necessario – per le lotte territoriali in Italia.

Stando alle dichiarazioni del ministro dell’Interno Gérald Darmanin, lo scioglimento di Soulèvements de la Terre sarebbe giustificato dagli «eventi inqualificabili» che si sono verificati a Sainte-Soline e «dall’estrema violenza di gruppuscoli che sono nel mirino dei servizi di intelligence da molti anni».[1] Tuttavia, un rapporto del Service central du renseignement territorial in riferimento a Soulèvements de la Terre getta una luce completamente diversa su questo annuncio. Leggendo infatti questa nota confidenziale sorprendentemente elogiativa si capisce che al di là del pretesto della violenza, se il ministro cerca di sciogliere il movimento, è perché questo ha successo!

In che senso ha successo? Il nocciolo della questione è questo: attraverso una serie di analisi elogiative che fanno riferimento alla capacità di federarsi, di uscire dal letargo politico e di avere un impatto reale sui progetti distruttivi per l’ambiente, ci viene spiegato in otto pagine che il problema fondamentale con questo movimento è che invece di fare la sua bella contestazione entro i limiti stabiliti riesce ad incidere in campo politico. Ciò che il governo indica, facendo seguire a questa nota di intelligence un tentativo di scioglimento, è che per lui, d’ora in poi, qualsiasi opposizione efficace che intralci le sue politiche – e quelle delle lobby finanziarie e industriali che lo sostengono – deve scomparire. Sciogliere tutta l’opposizione, anche se ciò significa farlo in un bagno di sangue prima di raggiungere i meandri dei tribunali.

Al di là di questa trasparente visione delle motivazioni del governo, il compitino scritto da un sociologo di polizia sfidato dalla vivacità del suo soggetto risulta tuttavia falsato dalla manifesta incapacità di percepire il movimento per quello che realmente è. Invariabilmente, tutto ciò che è effervescenza, rete, coalizione viene ridotto – per meglio incriminarlo in seguito – alla supervisione di un gruppo dirigente. Soprattutto, è necessario dare l’impressione che le persone e i gruppi che agiscono siano guidati solo da motivazioni fredde e strumentali e che vogliano opportunisticamente dirottare la causa ecologista e contadina verso una ricerca puramente astratta di motivi di scontro e violenza. Ma come stupirsi che dei funzionari, che scrivono dalle loro scrivanie al servizio di un governo che si ostina a distruggere terre coltivabili, foreste, fattorie, fiumi ecc., non riescano a capire e ad afferrare quel che viene difeso e costruito, i legami, la solidarietà e le gioie che ne derivano? Non sorprende nemmeno che gli autori del rapporto riducano tutto il fermento politico locale e decentralizzato, a cui Soulèvements de la Terre fa da eco e da catalizzatore, al rigido assetto verticistico che è il solo che conoscono.

Al di là della povertà delle loro analisi, è chiaro che se negli ultimi due anni folle crescenti non si sono accontentate di marciare ma hanno cercato gesti diretti per bloccare cantieri, per impedire il saccheggio dell’acqua o dei terreni, è perché si avverte un’urgenza vitale di agire. Tentativo di dissoluzione o meno, repressione brutale o meno, questo senso di urgenza non potrà che aumentare finché i decisori politici continueranno a promuovere infrastrutture che incarnano una violenza ecologica e sociale che molte persone hanno ormai scelto di affrontare.

Il 30 marzo, il quotidiano “Le Monde” ha pubblicato un articolo intitolato Nous sommes les Soulèvements de la Terre in cui decine di attori/trici, artisti/e, parlamentari e scrittori/trici hanno rivendicato di far parte del movimento. Attualmente conta più di 20.000 firme.

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ChatGPT e il futuro che verrà. L’Intelligenza artificiale e la catastrofe esistenziale

Liberamente tratto da “Superintelligenza” di Nick Bostrom

ChatGPT è in pieno sviluppo. Dove arriverà? Molti scienziati stanno già mettendo in guardia sui possibili imprevedibili sviluppi dell’Intelligenza artificiale. Un’intelligenza che può crescere in maniera esponenziale, al di fuori dei limiti di un cervello biologico.

Senza dover diventare specialisti delle nuove frontiere della ricerca tecnologica, sapere in che direzione stanno andando le sue strade ci permette di comprendere le logiche che la sottendono e intravedere gli sviluppi futuri, motivando la nostra critica che, prima di essere tecnica, è sociale e politica.

Per capire cos’è l’Intelligenza artificiale – che non è solo ChatGPT, ma ben di più – pubblichiamo degli estratti dal libro “Superintelligenza” di Nick Bostrom (Bollati Boringhieri, 2018; ed. originale: 2014). L’autore non è certo un rivoluzionario luddista, il contrario. È un filosofo e scienziato di origine svedese, che è stato a lungo uno dei principali sostenitori del potenziamento umano, fondatore della World Transhumanist Association, direttore del Future of Humanity Institute. Insomma, tutto meno che un nostro compagno di strada. Bostrom però, con la sua profonda e non acritica conoscenza dell’argomento, riesce a descrivere in maniera chiara e divulgativa tematiche di grande complessità e a mettere in guardia sulle nubi minacciose che si addensano all’orizzonte.

Il pericolo che il genere umano corre con lo sviluppo artificiale delle superintelligenze è di portata esistenziale, perché in mano ad apprendisti stregoni incapaci di fermare gli spiriti che stanno evocando.

L’articolo è lungo, mettetevi comodi.

Le vie per arrivare alla superintelligenza

Per il momento le macchine sono di gran lunga inferiori agli esseri umani quanto a intelligenza generale, tuttavia un giorno saranno superintelligenti, cioè dotate di un intelletto che supererà di molto le prestazioni degli esseri umani, in tutti i campi. Come arriveremo a questa situazione futura? Iniziamo esplorando le diverse strade che possono portare l’umanità allo sviluppo di una superintelligenza: l’Intelligenza artificiale è solo una tra queste.

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Ritorno in paradiso

Dalla rivista ecologista “Do or Die” [da Rivista Malamente #27, dic. 2022. Scarica il PDF]

Cosa accadrebbe se un giorno venissero abbandonate le metropoli? Se quegli spazi coperti di asfalto e cemento, brulicanti di umani e merci, alimentati da combustibili ed elettricità, soffocati dalle loro scorie, fossero di punto in bianco liberati dalla virulenza dei loro abitanti? Questo articolo – tratto dalla rivista ecologista “Do or Die” (n. 10, luglio 2003), tradotto in opuscolo da Istrixistrix e qui riproposto con una nuova revisione – traccia con una qualche attendibilità scientifica le tappe e i passaggi che segnerebbero nei decenni e secoli successivi all’abbandono la riconquista del territorio da parte delle forze naturali. In fondo, nella vita del pianeta, la nostra specie è solo di passaggio. Quello che ha edificato cadrà e, prima o poi, perfino le macerie saranno spazzate via.

«L’inferno è una città molto simile a Londra» scrisse Shelley due secoli fa. Ma non è sempre stato così. Prova a immaginare un periodo dieci volte più lontano nel passato dell’epoca di Shelley, quando il panorama in Parlament Square era molto diverso. Là dove ti trovi adesso, un grazioso ruscello scorre giù dalle colline di Hampstead. Proprio di fronte ci sono le sponde piene di canneti dei meandri del Tamigi. Sulla destra, dove verrà eretta l’Abbazia di Westminster, c’è Thorney Island [Isola Spinosa], chiamata così per l’abbondanza di rovi selvatici. Dietro c’è la quiete dei campi contornati da salici. Ancora un migliaio di anni fa, quando Edoardo il Confessore la stava prendendo in considerazione come sito per la sua grande abbazia, Thorney Island era un posto tranquillo e rustico. «Un luogo delizioso, circondato da terre fertili e campi verdi», scrisse un monaco nella sua biografia di Edoardo.
È possibile far tornare indietro l’orologio, e che Londra sia di nuovo un paradiso silvestre? Se hai mai nutrito il desiderio di vedere il traffico svanire, gli edifici crollare e le colline e le valli di Londra di nuovo piene di fiori, di alberi e del canto degli uccelli, non sei solo. Verso la fine dell’Ottocento il naturalista Richard Jefferies era così disgustato dalla sporcizia della capitale da scrivere After London, romanzo in cui i londinesi si estinguono in modo misericordioso e la città ritorna rapidamente a essere una palude.
Ma cosa accadrebbe realmente se Londra tornasse alla natura? Supponiamo che questo fine settimana i londinesi fuggano in seguito a un incidente nucleare tipo Chernobyl. O che le notizie della sera annuncino che è stato rilasciato un virus geneticamente modificato, come nel film 28 Days Later. Oppure, che improvvisamente i londinesi si sentano così male a causa della vita in città da seguire il consiglio di Shelley e fuggire «verso i boschi selvaggi e le colline erbose». Quanto impiegherà Londra abbandonata per tornare a essere un paradiso rurale? In che modo la natura prenderà il controllo?

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Ridateci la forca!

Redazione, Rivista Malamente n. 28 (marzo 2023)

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Rivista Malamente 28 – Edizioni Malamente


Giudici della giustizia italiana levatevi la maschera e ridateci la forca!

Almeno la morte libera: si sale sul palco, si getta un grido alla folla e tutto finisce…

Meglio la morte, meglio la forca, la ghigliottina, la fucilazione!

Ridateci la forca! Almeno quella uccideva; era come l’attimo fuggente!

L’ergastolo è la tortura senza fine, è la disperazione eterna.

Carlo Molaschi, “Pagine libertarie”, 15 nov. 1921


«Ridateci la forca!», urlava cent’an­ni fa l’anarchico Carlo Molaschi ai giudici italiani che avevano appe­na rimesso in libertà un attentatore al re – Antonio D’Alba – dopo che nove anni di isolamento nel carcere di Santo Stefano gli avevano fatto per­dere la ragione.

Mentre scriviamo queste righe non sappiamo come andrà a finire lo scio­pero della fame di Alfredo Cospito, che ad oggi ha superato i cento gior­ni facendogli perdere più di quaran­ta chili di peso. Cospito è accusato di una “strage” che non ha provoca­to neanche un ferito – un ordigno fuori da una caserma dei carabinieri – qualificata come “strage contro la sicurezza dello Stato” (neanche piaz­za Fontana, la stazione di Bologna e Capaci sono state definite in questi termini). Per questo pende su di lui l’ergastolo ostativo, cioè senza possi­bilità di accedere ad alcun beneficio, rinchiuso in regime di 41-bis.

Non è un “errore giudiziario”: Cospito è un anarchico, un fiero nemico dello Stato, uno a cui prudono le mani e che ha già rivendicato un fatto come aver sparato alle gambe – all’indoma­ni del disastro di Fukushima – a un manager di Ansaldo nucleare. Gesto per il quale ha già quasi finito di scon­tare dieci anni di carcere. Il suo scio­pero della fame non è una scelta di­sperata, ma è parte di un percorso consapevole e di grande dignità. Su di lui si sta consumando la vendetta del potere, a futuro monito per chiun­que osi ancora pensare e praticare, nelle molte e diverse forme possibili, l’idea di rivoluzione sociale.

Il regime carcerario 41-bis vuol dire sbattere una persona in cella e “but­tare via la chiave”, come qualche for­caiolo ogni tanto invoca contro il mostro di turno. Vuol dire rimane­re chiuso ventidue ore al giorno in una cella singola la cui finestra dà sui muri della prigione, dividere due ore con al massimo altre quattro persone scelte dalla direzione, avere diritto a un solo colloquio al mese senza con­tatti fisici e con vetro divisorio a tut­ta altezza, niente giornali, controllo e censura della corrispondenza in en­trata e in uscita, limitatissimi i pacchi dall’esterno così come i libri che si possono tenere in cella (massimo cin­que). È un lento annientamento fisi­co e psicologico, al quale sono con­dannati in Italia circa 700 detenuti. Come molti strumenti eccezionali, nati per far fronte a una “emergenza”, anche il 41-bis è stato poi reso ordi­naria amministrazione, normalizzato e accettato nel silenzio generale.

Oggi non si usano più le tenaglie ar­roventate, ma lo Stato tortura lenta­mente con un metodo vessatorio che ha poco a che vedere con la presun­ta finalità di interrompere le comuni­cazioni tra “dentro” e “fuori”. Il lun­go sciopero della fame di Cospito ha sollevato il velo su questa vera e propria tortura democratica che si consuma giorno dopo giorno nelle nostre carceri. Il movimento di soli­darietà che si sta facendo sentire nelle piazze non chiede pietà per Cospito (né lui la vorrebbe) e neanche che lo Stato di diritto mostri la sua solidità permettendosi di umanizzare i regi­mi speciali di detenzione (questo la­sciamolo dire ai “sinceri democrati­ci”); chiede invece che la tortura cessi in maniera definitiva per tutti e tut­te e che, in prospettiva, si incominci a discutere della necessità di liberarsi dal carcere in ogni sua forma, per una società che non ne abbia più bisogno.

In questo numero della rivista par­liamo anche di altri argomenti che ci stanno a cuore (modelli di vita alter­nativi al sistema, nuove generazioni in lotta, recupero abitativo delle aree interne, utopia, storie sovversive, cri­tica al mondo neotecnologico ecc.). Lo facciamo come sempre con arti­coli, interviste, traduzioni.

Non parliamo invece (ancora) di un’altra questione emersa in questi mesi e che ci riserviamo di approfon­dire: la costruzione a Pesaro di un la­boratorio biotecnologico a livello 3 di bio-sicurezza, gestito dall’Istituto zo­oprofilattico sperimentale dell’Um­bria e delle Marche. Si tratta di un laboratorio con annesso stabulario in cui verranno condotte su anima­li – come si legge nero su bianco nei documenti approvati dal Comune – «sperimentazioni e manipolazioni, in vivo e in vitro, di agenti virali peri­colosi per la salute animale e dell’uo­mo». Sebbene siano previste elevate misure «di bio-contenimento e bio-sicurezza nei confronti di agenti in­fettivi», si sa che la prudenza non è mai troppa e che il rischio di inci­dente irreversibile (che sia per “erro­re umano” o per altre cause) è dietro l’angolo. La ricerca biotecnologica sta trasformando il mondo intero in un laboratorio e tutti noi in cavie, a van­taggio del profitto e del controllo sul vivente da parte di pochi, ci vorrebbe far vivere in un’epoca di emergenza permanente abituandoci a un mon­do in cui non esiste confine tra ap­plicazioni civili e militari degli agenti patogeni, tra il loro studio per difen­dersi da minacce esterne e la loro pro­duzione come minaccia in quanto tale.

Ancora una volta, saremo tra quelli e quelle che resistono.

Scripta Manent. L’esperienza del carcere in regime di Alta Sorveglianza nel racconto di due anarchici.

Su Rivista Malamente, a fine 2019 (n.15), abbiamo pubblicato una intervista Danilo e Valentina, due compagni anarchici che hanno vissuto un lungo periodo di detenzione preventiva, in regime di Alta Sorveglianza, nell’ambito del processo Scripta Manent (assolti in primo grado e in appello). Il processo, per il quale Alfredo Cospito rischia ora l’ergastolo ostativo in regime di 41bis, fa riferimento a una serie di attacchi firmati da diverse sigle collegate alla Federazione Anarchica Informale. Ci siamo fatti raccontare alcune impressioni sulla loro esperienza di carcerazione, anche perché spesso chi è “fuori” non si rende conto fino in fondo cosa voglia dire stare “dentro”, soprattutto in sezioni ad Alta Sorveglianza come quelle dove il potere rinchiude gli anarchici e le anarchiche.

QUI IL PDF

Qui e seguenti: sculture di Isabel Miramontes

Voi siete stati reclusi in sezioni AS2, cioè sezioni ad alta sorveglianza destinate unicamente agli arrestati per terrorismo ed eversione dell’ordine democratico. Una distinzione che viene storicamente fatta nelle carceri è quella tra detenuti “comuni” e detenuti “politici”: quanto è profonda questa separazione e come l’avete vissuta nella vostra esperienza?

Danilo: La differenziazione nasce proprio con l’intento di non creare un contatto tra detenuti cosiddetti “comuni” e prigionieri politici della guerra sociale, della lotta di classe.

Io posso fare un ragionamento anche in rapporto alla precedente espe­rienza carceraria che abbiamo avuto, nel 2005. Allora non esistevano le sezioni AS2 ma c’erano le EIV (elevato indice di vigilanza), che in teoria comportavano lo stare separati dai “comuni”, ma in Italia le sezioni EIV erano solo un paio quindi si finiva solitamente in una sezione AS; all’epoca l’alta sorveglianza era unica, non differenziata come adesso in AS1 (per gli appartenenti alla criminalità organizzata declassificati dal 41 bis), AS2 (per i “politici”) e AS3 (per le organizzazioni criminali comuni legate allo spaccio). Questo significa che essendo sottoposti a regime a elevato indice di vigilanza, ma all’interno di una sezione AS, si finiva insieme a prigionieri legati alle associazioni a delinquere organizzate, a spacciatori internaziona­li, etc., non era proprio un rapporto col grosso dei prigionieri “comuni”, ma c’era comunque un minimo di interazione con altri detenuti che non fossero politici. Ora non è più così, nelle sezioni AS2 ci si ritrova in un numero esiguo, in cinque, sei, sette compagni per sezione, senza nessun contatto con i “comuni” e con tutta una serie di restrizioni pratiche. La sezione AS2 è organizzata e gestita proprio per questa tipologia di prigio­nieri, per anarchici e comunisti.

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Dobbiamo continuare la ricerca scientifica?

Di Alexander Grothendieck, da Rivista Malamente, n. 15, set. 2019 (QUI IL PDF)

Alexander Grothendieck è riconosciuto come uno dei più grandi e brillanti matematici del Novecento. Nel pieno della sua carriera ha però aperto gli occhi sul mondo della ricerca scientifica, sulle sue implicazioni, sui legami con il mondo militare e si è interrogato su quale ruolo sociale avessero lui stesso e i suoi colleghi. Il loro lavoro migliorava la condizione umana o, piuttosto, serviva a sostenere il sistema di dominio esistente? Nel settembre 1970, a quarantadue anni, Grothendieckabbandona il suo posto presso l’Institut des hautes études scientifiques (IHES), all’epoca centro nevralgico per la matematica e la fisica teorica e, allo stesso tempo, fonda il gruppo ecologista radicale Survivre et Vivre.

Alexander Grothendieck, 1965 circa

NOTA BIOGRAFICA

Alexander Grothendieck nasce a Berlino nel 1928 da Alexander “Sascha” Schapiro, ebreo russo rivoluzionario espulso dal suo paese e Hanka Grothendieck. I genitori, che si erano conosciuti negli ambienti del movimento anarchico tedesco, nel 1936 vanno a sostenere la rivoluzione sociale e combattere la guerra civile spagnola per poi stabilirsi in Francia, dove li raggiunge Alexander rimasto nel frattempo affidato a una famiglia di Amburgo.

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Vecchi strumenti per nuove agricolture. Che farsene delle conoscenze contadine?

Da Rivista Malamente n. 17, mar. 2020 (QUI IL PDF)

Di Marc Badal

Marc Badal Pijoan (Barcelona, 1976) è un attivista e ricercatore nell’ambito della cultura rurale e della critica all’industrializzazione delle campagne; ha partecipato a diversi progetti e sperimentazioni agroecologiche e montane. Nello scritto che presentiamo descrive le ragioni ma anche le difficoltà in cui incorrono i tentativi di riprendere il testimone perduto dell’agricoltura tradizionale. Un’eredità che andrebbe recuperata e applicata, integrandola però a nuove conoscenze e sperimentazioni, strappando i saperi contadini, proprio nel momento della loro agonia, ai tentativi di fossilizzazione folcloristica e accademica. Non si tratta di “tornare indietro” a un’improbabile età dell’oro contadina, ma di sgomberare il campo da tecniche distruttive e guardare avanti, al di là di un’agricoltura industrializzata che, per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni, altro non è che il trasporto nei campi di mezzi, metodi e mentalità da guerra. Questo testo è stato pubblicato su “Resquicios: revista de crítica social” (n. 6, aprile 2009) e ha avuto una prima traduzione italiana a cura di ACRATI (Bologna); lo presentiamo in una versione rivista, di molto ridotta e priva di note.

Illustrazioni di Rob Barnes

Il miraggio dell’agricoltura industriale si è dissolto. La generazione che da giovane era stata trascinata dalla corrente modernizzatrice invecchia, sapendo che l’esca del produttivismo l’ha portata in una strada senza uscita. Il degrado delle basi ecologiche che sostengono le attività agricole ha superato in molti luoghi la soglia della reversibilità. L’esaurimento e l’inquinamento delle acque, la perdita di terreni fertili, la scomparsa della biodiversità, il consumo sfrenato di combustibile fossile e la produzione enorme di rifiuti sono processi ampiamente conosciuti.

Mentre continuano a non risolversi molti i limiti delle esperienze che, già negli anni Settanta, credevano di trovare nell’ambiente rurale il luogo adatto in cui proiettare le proprie fantasie rivoluzionarie, il corso accelerato degli eventi ci colloca in un nuovo scenario. Senza abbandonare la sua condizione di fonte energetica e di materia prima per l’industria, di deposito di rifiuti o di luogo di passaggio a disposizione delle necessità espansionistiche della macchia urbana, per l’immaginario collettivo di questa società tanto civica quanto sostenibile, il cosiddetto spazio rurale ha smesso di essere quel pernicioso incolto culturale impregnato di autoritarismo, tradizionalismo, conservatorismo e ignoranza. Al contrario, ora tutto ciò che suona tipico, rustico o naturale gode del potere seduttivo dell’esotismo avidamente rincorso e consumato da una cittadinanza appesantita da «innovazioni caotiche e straripanti» (O. Gross). Ma l’immagine idilliaca messa a disposizione dei visitatori della domenica e degli agrituristi ha poco a che vedere con la realtà di un mondo rurale pienamente integrato alla cultura e al ritmo della vita che ben conoscono ma ai quali tentano, invano, di girare le spalle nella loro breve fuga vacanziera.

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L’Atelier Paysan. Il low-tech per l’autonomia tecnologica contadina

Intervista di François Jarrige a Fabrice Clerc

da Rivista Malamente #27, dic. 2022 (QUI IL PDF)

Tra le numerose iniziative che fioriscono oggi attorno al low-tech (“tecnologia a bassa intensità”), la cooperativa Atelier Paysan rappresenta un’esperienza particolarmente ricca e interessante. Mentre l’agricoltura industriale ha bisogno di grandi macchinari tecnologici per sostenere il suo modello di sviluppo (fatto di monocolture, veleni e distruzione dell’ambiente), i progetti e le realizzazioni dell’Atelier Paysan uniscono una logica di mutuo appoggio alla riflessione critica sulle tecniche e sul lavoro contadino, nel quadro di un ambizioso progetto politico il cui fine ultimo è riportare l’agricoltura a una dimensione ecologica e umana. La tecnologia necessaria alla produzione di attrezzature e macchinari, efficienti ma low-tech, viene considerata un bene comune, alla portata del saper fare contadino e delle sue reti sociali, per sollevare chi lavora sulla terra dalle fatiche quotidiane senza però pregiudicarne l’autonomia. L’intervista di François Jarrige a Fabrice Clerc, cofondatore dell’Atelier Paysan (che però da qualche anno è uscito dal direttivo dell’Associazione), è stata pubblicata sulla rivista “La Pensée écologique” (n. 5, 2020): ne diamo qui una traduzione in versione ridotta. Tutti i progetti tecnici dell’Atelier Paysan sono disponibili sul sito www.latelierpaysan.org: vi invitiamo a farne buon uso!

Ci racconti le origini dell’Atelier Paysan e quali sono state le ragioni che vi hanno spinto a creare questa cooperativa di auto-costruzione di attrezzi agricoli?

Quando sono arrivato a Grenoble, nel 2007, ero un ingegnere agricolo e lavoravo nel supporto all’insediamento degli agricoltori per l’associazione ADABio, che si occupava di sviluppo dell’agricoltura biologica e delle relative tecniche. Dall’incontro con Joseph Templier, orticoltore, ha preso via il tutto. Joseph gestiva con altri associati una fattoria biologica esemplare, con un sistema di produzione molto efficace ed efficiente, ed è anche un formidabile tuttofare contadino, che grazie a sperimentazioni collettive alle quali ha partecipato è riuscito a disegnare e costruire numerosi attrezzi adattati alle sue esigenze.

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Il regime carcerario 41-bis: tortura di Stato

L’anarchico Alfredo Cospito è da due mesi in sciopero della fame contro il regime di detenzione speciale 41-bis a cui è sottoposto. Anche altri/e anarchici/e detenuti stanno protestando con la stessa determinazione.

Il regime 41-bis è annientamento psicologico, è tortura di Stato e deve immediatamente cessare, per Alfredo e per tutti/e i detenuti che vi sono sottoposti/e, ad oggi oltre 700 (numero in costante incremento, anno dopo anno).

Qui di seguito un breve approfondimento sulle origini del 41-bis e su cosa prevede concretamente

Da dove arriva l’art. 41-bis?

Art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354; modificata dalla legge 23 dicembre 2002, n. 279).

Introdotto dalla Legge Gozzini di riforma penitenziaria (663/1986), si componeva inizialmente di un solo comma che consentiva di sospendere le regole ordinarie di trattamento dei detenuti per fronteggiare situazioni di emergenza e ripristinare l’ordine e la sicurezza all’interno delle carceri.

Ha il suo antecedente nell’art. 90, applicato tra 1977 e 1985, prima nelle cosiddette “carceri speciali” poi anche altrove, in un periodo di forti movimenti sociali e di rivolte nelle carceri.

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