Recensione: La donna più pericolosa d’America: il femminismo anarchico nella vita e nel pensiero di Emma Goldman, Pamela Galassi, Ragusa, La Fiaccola, 2014.
Pamela galassi, La donna più pericolosa d’America. La Fiaccola
Emma Goldman, militante e pensatrice anarchica di origini russe, vissuta tra la seconda metà del XIX secolo e la prima del XX, affrontò nel corso della sua esistenza tematiche legate alla questione femminile e all’emancipazione della donna. Pamela Galassi, nel suo saggio La donna più pericolosa d’America, ne tratteggia abilmente la figura e il pensiero, ripercorrendo gli episodi maggiormente salienti della sua vita e i cardini del suo pensiero.
Dopo una breve introduzione di Luigi Balsamini, nella quale sono evidenziati la precocità del pensiero goldmaniano e l’inscindibile legame tra l’essere donna e l’essere anarchica che caratterizzò l’elaborazione dell’attivista russa, Galassi apre il suo scritto con una parte biografica. Di famiglia ebraica e con un’infanzia caratterizzata dalla presenza di un padre fortemente autoritario, Emma decide a soli 17 anni di emigrare negli Stati Uniti. Dopo un primo e fallimentare matrimonio con un altro immigrato, come lei di origini russe, si avvicina alla politica seguendo le vicende di coloro che passeranno alla storia come i martiri di Chicago, e l’autrice riporta con efficacia la testimonianza di questa presa di coscienza: “Il colossale crimine dello Stato dell’Illinois, il sangue di cui la stampa era assetata […] l’intero affare brutale fece di me una coscienziosa Anarchica”.
In questo momento, possiamo dire, inizia il viaggio di Emma Goldman attraverso la storia, viaggio che la portò alla fondazione di una rivista («Mother Earth»), alla partecipazione attiva alla lotta anarchica e operaia, a tenere comizi sia nelle pubbliche piazze (fino al punto di essere espulsa dagli Stati Uniti d’America) che come delegata a congressi internazionali, ad essere testimone della Guerra civile spagnola e ad allacciare contatti con il collettivo Mujeres Libres. Soprattutto però, cardine del suo pensiero politico, fu la questione femminile, il problema della condizione di inferiorità nella quale si trovavano a vivere le donne del suo tempo. Spaziando dalla questione matrimoniale a quella dell’educazione, da quella della prostituzione a quella della dipendenza economica, si concentrò prevalentemente su quelle che riteneva essere le cause principali di questa inferiorità.
Emma Goldman, Union Square NY, 1916
Dopo un esaustivo capitolo sulla storia del femminismo, sulle sue pioniere e sul suo legame con il movimento anarchico (che sulla questione della donna rivelerà, soprattutto fino alla prima metà del XX secolo, un’arretratezza di fatto ben diversa dalle idee teorizzate), e dopo un importante approfondimento sull’anarcofemminismo spagnolo degli anni ’30, la Galassi passa poi ad introdurre i temi più cari al pensiero di Emma Goldman. Vediamo così sviscerato il problema della prostituzione, che secondo l’anarchica russa era il risultato quasi inevitabile della situazione di sfruttamento e povertà imposti alla donna dalla società capitalistica; prostituzione che vedeva anche nel matrimonio, secondo lei nulla più che un contratto economico che rendeva la donna sottomessa, in tutti gli aspetti della propria vita, alla volontà del marito. L’amore (che in quanto tale può essere solamente libero) è cosa ben diversa dal matrimonio, e nulla ha a che fare con questa istituzione, alla cui imposizione hanno collaborato per secoli sia lo Stato che la Chiesa. Altro tema importante era poi quello della maternità, non adatta a tutte le donne e non da tutte desiderata; maternità che secondo la pensatrice russa non doveva più rappresentare il fine stesso dell’essere donna, ma una scelta consapevole, fonte per questo di gioia e soddisfazioni.
Merito dell’autrice è di aver attualizzato e concretizzato il pensiero goldmaniano, mettendo in evidenza quanto le sue idee fossero moderne e in anticipo rispetto all’epoca che stava vivendo. Molto più che moderno, il suo pensiero può (purtroppo) trovare un’utilità anche ai giorni nostri, facendoci capire quanto ancora la questione femminile necessiti di essere trattata. Proprio intorno a queste riflessioni ruotano le conclusioni di Galassi, che nel suo scrivere è riuscita al tempo stesso sia a produrre una testimonianza storicamente valida (nella quale troviamo anche documenti tradotti in italiano per la prima volta), che a tratteggiare l’immagine di una Emma Goldman umana e a volte, come tutti, contraddittoria, ma sempre consapevole delle proprie debolezze. Una Emma Goldman, insomma, che esce dalle pagine della carta stampata e ti fa venire voglia di invitarla a bere un caffè.
Il capitalismo ha avuto bisogno dell’industria per imporre la propria organizzazione sociale e trova nella tecnologia asservita alle sue logiche di profitto la migliore alleata per perfezionare il proprio dominio: “sebbene la nascita del capitalismo non sia dipesa dallo sviluppo industriale, è evidente che è solo grazie all’industria che questo ha potuto realizzare tutte le aspirazioni che il suo programma di sottomissione economica conteneva” (Los Amigos de Ludd, Utopia e miseria del mondo industriale, bollettino n. 2).
Chiunque serbi ancora un residuo di semplice buon senso non può che constatare quanto la tirannia tecno-industriale stia vincendo la guerra contro l’umanità e, avendo rotto gli equilibri che hanno da sempre regolato l’ordine naturale, stia avvelenando e distruggendo il pianeta e le forme di convivenza possibili. D’altra parte non siamo convinti, come vorrebbe una facile lettura deterministica della storia, che il collasso della civiltà industriale sia imminente e inevitabile. Purtroppo la faccenda potrebbe andare avanti scovando sempre rinnovate stampelle e questa non è affatto una lettura rassicurante: “la peggiore catastrofe sarebbe l’assenza di catastrofe”, diceva qualcuno.
Che la tecnologia industriale non sia affatto neutrale dovrebbe essere ormai assodato. Non è adattabile allo sfruttamento o all’emancipazione a seconda di come la si guardi, ma è figlia di un sistema di dominio ben preciso, e intollerabile. La macchina in astratto esiste infatti solo nella menzogna secondo la quale i congegni riducono e alleggeriscono il lavoro umano, ma nella realtà ci si imbatte in una molto concreta meccanizzazione che è inseparabile dall’uso capitalistico per cui è nata, ovvero il progredire nella sottomissione di chi non ha e nell’innalzamento dei profitti di chi ha. Alla faccia di presunte scienze pure e disinteressate, il fine (che è spesso in prima battuta l’applicazione militare) condiziona la ricerca scientifica indirizzandola su precisi binari a scapito di mille altri possibili percorsi mai battuti. Ed è pertanto difficile, se non come esercizio di fantasia, un riutilizzo positivo di tecnologie pensate e sviluppate nel contesto di dominio del capitale, che in queste condizioni – e solo in queste – mostrano la loro vera utilità ed efficacia.
Steve Cutts – Man
La tecnologia, quindi, non è semplicemente un mezzo escogitato dall’uomo per produrre più agevolmente, ma invadendo la totalità delle sfere della nostra vita materiale, ha rimodellato i rapporti tra gli uomini e con la natura nel segno di un crescente asservimento dei bisogni alle esigenze della produzione, e non viceversa, in un circolo vizioso per cui l’industria crea le necessità umane e poi vi provvede. E, questo, senza conoscere limiti: la sottomissione tecnologica della natura è un processo in perenne espansione, a prescindere dalle nocività che genera e dalle rovine che si lascia alle spalle. Senza contare che, il più delle volte, una nuova tecnologia serve solo a riparare i danni causati da una tecnologia precedente.
L’“obsolescenza programmata” ci offre un comodo punto di vista per riconoscere come la tecnologia sia al servizio del capitale e l’innovazione serva per prima cosa a far lievitare conti in banca e solo come effetto collaterale a migliorare aspetti della quotidianità. Un simpatico esempio tra i tanti è dato dall’introduzione sul mercato delle calze in nylon al posto di quelle in seta negli anni quaranta. La DuPont, accortasi che il nuovo prodotto era troppo resistente alle smagliature e che questo sarebbe stato negativo per i consumi e quindi per i propri profitti, richiese ai ricercatori di progettare una fibra meno durevole. O ancora, tornando alla questione del dove la ricerca scientifica viene indirizzata: è mai possibile che nessuno abbia interesse a risolvere tecnologicamente il problema della distruzione di foreste perché noi occidentali ci si possa pulire il culo con quattro veli? Rispetto al vecchio uso di giornali, acqua o foglie, oggi, in questo campo, possiamo ritenere di avere raggiunto un progresso?
Per non parlare dell’invasione delle materie plastiche, altamente inquinanti e indistruttibili, nella modalità usa e getta di cui l’umanità non sentiva alcun bisogno ma che in poco tempo è diventata la regola e oltre a causare danni ambientali irreparabili ha colonizzato perfino le coscienze. Basta guardarsi intorno per accorgersi di come vivere senza plastica, o meglio sarebbe dire senza rifiuti di plastica, è oggi non solo praticamente impossibile ma anche difficilmente concepibile.
Steve Cutts – Man
Il fatto più grave è che mentre nei millenni di storia umana preindustriale la tecnica è sempre stata legata al saper fare ed era pensabile come conquista comune della collettività, padroneggiabile, ora le abilità sono un qualcosa di obsoleto, superfluo se non controproducente. Il macchinario ha infatti preso il sopravvento su una massa di utilizzatori che da esso dipendono senza comprenderlo né poterne aver alcun controllo: “la tecnologia, come già il mercato, non è un destino dal quale non ci si può affrancare, non è un’entità astratta che regola dall’alto le nostre vite e che al massimo possiamo controllare nei suoi effetti più devastanti, bensì la risultante di una precisa volontà di sopraffazione del capitale che ha costruito sullo spossessamento delle capacità tecniche dell’uomo il suo potere” (Per la critica della tecnologia, Bologna, Acrati, 2004).
Stefano Boni, nel suo bel libro Homo comfort: il superamento tecnologico della fatica e le sue conseguenze (Milano, elèuthera, 2014) confronta la contemporanea ipertecnologia con la tecnica ipotecnologica preindustriale: mentre la seconda richiede soggetti abili ed esperti, passa attraverso un processo di apprendimento, deriva strumenti e materiali dal mondo naturale circostante lasciandosi dietro scarti non tossici e dà forma a prodotti unici e durevoli, la prima prevede un atto umano anonimo e privo di creatività, dipende da fonti energetiche non direttamente controllabili, decontestualizza la produzione dall’ambiente introducendo le nozioni di rifiuto e inquinamento e genera prodotti in serie destinati a un rapido consumo. Ma se l’ipotecnologia prevede un certo grado di umana fatica, l’ipertecnologia promette di alleviare l’esistenza (certo, permangono mansioni faticose non eseguibili dai sistemi artificiali, ma per quelle ci sono i nuovi schiavi). Sudare è oggi antiquato: l’unico modo socialmente accettabile per farlo pare sia tra le mura di una palestra, pagando.
Però, obiettano i difensori dell’“unico mondo possibile”, la speranza di vita nella società ipertecnologica è in aumento. Vero, ma a quale prezzo? L’avvelenamento dei territori e la perdita del saper fare, come già detto, ma anche una progressiva perdita di contatto con la materialità della natura che non risparmia nessuno dei cinque sensi. Quello che i nostri corpi quotidianamente toccano, vedono, gustano, ascoltano e annusano, soprattutto per chi vive in contesto urbano, è in massima parte artificiale, il più possibile schermato dal contatto contaminante con la natura. Il prezzo è il trionfo dell’inorganico sull’organico.
Il macchinario, inoltre, apparecchiando un mondo di tecnocomodità, costruisce il consenso passivo delle masse: chi rifiuta i comodi benefici della tecnologia è fuori dal tempo del progresso, è un barbaro, una minaccia. Così, legandoci ad una dipendenza totale, la tecnologia impone le sue regole e si fa innanzitutto ordine sociale: “non si tratta di trovare una strada per il riorientamento di un determinato sistema tecnico, bensì di smantellare il fondamento ideologico che lega la società all’insieme delle necessità ingenerate dal sistema tecnico sotto la forma concreta che noi oggi subiamo (la forma industriale sviluppata)” (Los Amigos de Ludd, Note preliminari, bollettino n. 1).
In conclusione, non è possibile conciliare libertà e tecnologia, dal momento che in una società tecnologicamente avanzata l’individuo perde il controllo sulle circostanze della propria vita. E le nuove tecnologie, una volta introdotte, determinano con tale prepotenza l’assetto della società che alla fine ci si trova costretti al loro utilizzo. Rompere l’assedio tecnologico vuol dire aver l’audacia di mettere in discussione e provare a reinventare l’intero sistema di produzione e di consumo. Con questo non vogliamo proporre un bucolico ritorno al passato, cosa né possibile né desiderabile, non esaltiamo la zappa e la fatica e non sottovalutiamo le forme del dominio che hanno afflitto l’umanità nelle società preindustriali, così come non idealizziamo i modi della convivenza sociale prima del capitalismo. Se guardiamo al passato è per comprendere attraverso quali percorsi si sia arrivati all’oggi e, una volta appurato che così non va, ragionare sulle soluzioni per uscirne.
Il che non significa chiedersi come potremmo vivere senza questo o quell’apparecchio. La posta in gioco è più alta: non è possibile salvare alcuni aspetti “positivi” della tecnologia e rifiutare il resto, visto che l’intero sistema scientifico-tecnologico dominante è un sistema olistico, non scomponibile nelle sue componenti ma tutt’uno con l’assetto politico ed economico. Allora, l’unica domanda sensata per affrontare il superamento della tecnologia assoggettata al dominio è: “come possiamo sovvertire l’esistente, nonostante i rapporti di forza ci siano avversi?”.
Steve Cutts – Man
Qui di seguito ripubblichiamo una autointervista dei Los Amigos de Ludd, gruppo spagnolo che tra 2001 e 2004 ha pubblicato un interessante «Bollettino d’informazione anti-industriale», uscito in edizione italiana a cura di ACRATI (Aggregazione contro la rovinosa avanzata della tecnologia industriale). Il Bollettino è consultabile presso la Biblioteca Travaglini di Fano.
Critica del nuovo mondo felice che si avvicina Autointervista de Los Amigos de Ludd
Cosa comporta per voi il riferimento a Ludd e ai luddisti?
I luddisti erano lavoratori e lavoratrici inglesi che in un periodo compreso tra il 1811 e il 1813 si resero protagonisti di un movimento insurrezionale e agirono distruggendo i macchinari industriali. Si davano il nome collettivo di Generale Ludd o Re Ludd (o nomi simili). Attualmente, nel mondo anglosassone è comune che chiunque si opponga al progresso tecnologico venga tacciato con disprezzo di luddismo; ciononostante, sono in molti, dagli anni ’80 e ’90, coloro che in America hanno innalzato la bandiera del luddismo (con diverso rigore, naturalmente). Le azioni contro coltivazioni transgeniche in Francia, Belgio e Regno Unito, i sabotaggi contro il treno ad alta velocità in Italia, le occupazioni rurali nello stato spagnolo, i movimenti contadini di resistenza in Brasile e in India, tutto ciò è un ulteriore segno di una ribellione contro un progresso tecnoscientifico che sempre più si svela per quello che è: la strategia pianificata di uno sfruttamento senza fine. Sintetizzando, possiamo affermare che per noi il luddismo rappresenta un esempio di opposizione popolare attiva a una tecnologia che la tirannia industriale del capitalismo vuole imporre.
Tuttavia, mi risulta che il vostro livello operativo non sia molto alto.
Non siamo per l’esattezza un movimento di massa. Per il momento ci limitiamo a stendere un salutare discredito nei confronti della società industriale.
Steve Cutts – Man
Ma in che misura pensate che il luddismo sia trapiantabile nel presente?
I trapianti non sono la nostra passione. La questione è un’altra. Bisogna comprendere che i luddisti reagirono contro un tipo di tecnologia che era la manifestazione evidente della distruzione accelerata delle loro comunità e delle loro forme di vita. I luddisti reagirono non solo contro i danni provocati dalle macchine, ma anche contro il sistema macchinista in sé e il tipo di produzione che implicava. Questo è un punto importante. In qualche modo avvertirono che il male stava tanto nel possesso e nello sfruttamento privato dei macchinari quanto in un tipo di organizzazione meccanizzata della produzione e del lavoro, che ai loro occhi comportava l’irruzione di una nuova vita con leggi antisociali. Detto in altri termini, essi intuirono che la tecnologia industriale poteva corrispondere solo a una determinata forma di sfruttamento della natura umana all’interno del suo habitat di convivenza: la forma capitalista, che ha bisogno di distruggere i legami comunitari, di isolare gli individui e di privarli di ogni mezzo che possa offrire loro una possibilità di autonomia materiale.
Ma non sarà questo un modo troppo benevolo e idealista di giudicare il passato preindustriale e le sue comunità?
È la nostra epoca che necessita di critici più severi. Oggi si tende piuttosto a idealizzare il presente. Noi non sosteniamo un improbabile ritorno al passato. Ciò che intendiamo mettere in evidenza è che la società industriale – con il suo ideale di progresso – ha falsificato tutta la nostra visione del passato. Oggi sappiamo che la creazione su scala universale di un Mercato e di uno Stato – un tempo limitati più o meno all’ambito nazionale, oggi planetario – ha occultato la storia su piccola scala di forme di organizzazione sociale e comunale più eque e razionali e meno nocive per l’ambiente naturale, che convissero con forme di potere o con sistemi religiosi che, sebbene inaccettabili, non opprimevano completamente, o non sempre e non in tutti i luoghi come accade oggi, l’autonomia sociale della comunità. Tutto ciò apparirà come una verità sospetta per le menti progressiste di oggi, che tendono a vedere il passato come un’epoca oscura e superata. Quando in epoche precedenti le popolazioni si ribellavano contro l’iniquità e la giustizia arbitraria dei potenti (nobiltà, ricca borghesia, clero e Corona) sapevano quantomeno che erano i loro mezzi di sostentamento – la terra, il legname, i cereali o i pascoli – che erano in gioco. Non separarono mai i loro ideali sociali – per quanto poveri fossero – dai loro mezzi diretti di sussistenza (che, in quel momento, erano ancora nelle loro mani). E nemmeno dai loro mezzi diretti di autogoverno (l’assemblea o il consiglio): oggi qualunque rivendicazione sociale deve passare attraverso il dominio astratto del mercato, attraverso la burocrazia dello Stato o del riformismo sindacale. Ogni conflitto si gioca intorno a mediocri esigenze che obbediscono alla logica economica dei potenti (che si tratti del potere d’acquisto o dei diritti civili). L’identificazione della ricchezza con il “denaro” è oggi a tal punto banale, e lo è dai tempi di Balzac, che quasi nessuno si chiede se esista una forma di vita che non sia merce acquistabile. Si lavora senza posa per undici mesi per poter vedere o mangiare una trota di fiume, fare il bagno in mare o fuggire dal feroce rumore delle città. Il riposo feriale è la burla sinistra del potere ad uso dei suoi schiavi. Nella società del capitalismo industriale la maggior parte delle lotte si focalizza su contrattazioni che riguardano condizioni di vita già di per sé deteriorate: si chiede una migliore distribuzione del reddito, ma non si mette in discussione ciò che in realtà è possibile ottenere attraverso tale reddito (una sopravvivenza in una periferia urbana? migliori superstrade nelle quali morire più velocemente? più polisportive? maggior consumo di surrogati?); si discute di salario, ma non della natura stessa del lavoro salariato; si chiede una maggiore protezione sociale di fronte al Mercato, ma non si mette in discussione l’esistenza stessa antisociale del Mercato; si cerca rifugio nello Stato e si dimentica che è stato questo che ha reso possibile che il terreno sociale divenisse il campo di battaglia della guerra economica del capitalismo. Intanto, la biosfera si va deteriorando di fronte a un assalto dissipatore sempre più crescente. Lo sfruttamento capitalista non sarebbe mai stato possibile se non si fossero industrializzate le nazioni e le popolazioni. L’opposizione tra la campagna e la città non può essere una scelta da fine settimana: nella distruzione di ogni forma di vita rurale e comunitaria è ben chiara l’origine del dominio totale che oggi subiamo.
Steve Cutts – Man
Se ho compreso bene, voi criticate la società industriale che è nelle mani del potere capitalista, ma accettereste un tipo di società industriale governata dal potere autorganizzato della gente.
Hai capito piuttosto male. Per noi la società industriale, la sua organizzazione del tempo e del lavoro, la sua nocività e l’utilizzazione delle sue tecnologie è consustanziale al modello economico del capitalismo. Le due cose sono inseparabili.
Ma se siete così interessati a criticare la società capitalista non dovreste riprendere l’analisi marxista dell’economia politica e farla finita con queste critiche ad effetto alla tecnologia e al progresso scientifico?
Pensiamo che la maggior parte della scuola marxista abbia subito il fascino della rivoluzione capitalista della produzione, così come del macchinismo e della classe lavoratrice urbana. Qui inizia il problema. Marx salutò la nascita della classe proletaria come un qualcosa di benefico: credette che dal negativo – la miseria totale della classe lavoratrice industriale – sarebbe derivato il positivo – il comunismo. Per questo egli vide la rivoluzione capitalista e l’economia borghese come un momento critico ma necessario, il momento in cui si sarebbe generata quella classe rivoluzionaria che avrebbe conquistato il potere. L’economia borghese avrebbe imposto le condizioni oggettive per questo cambiamento fondamentale: la distruzione di tutti i vecchi legami comunitari e lo spossessamento totale degli individui. La questione, in buona sostanza, era che la classe lavoratrice prendesse le redini del movimento progressivo della Storia e si lasciasse alle spalle il vecchio mondo. Crediamo che questa visione dell’antagonismo sociale sia povera e storicamente ingannevole. Quindi, riteniamo che non ci sia alcun progresso nella Storia, e nemmeno che dal negativo estremo debba scaturire l’estremo positivo. Il processo di degrado sociale a cui la rivoluzione industriale ha dato impulso distrusse, certamente, i legami con un passato pieno di ombre e di luci, ma non fu di grande aiuto perché si forgiasse una classe con una chiara coscienza di emancipazione. Principalmente perché le generazioni nate dalla rottura avevano perduto il contatto con pratiche di socialità diretta, saperi non frammentari, beni comunitari, tecniche di produzione semplici, mutuo appoggio, ecc. Il marxismo più ortodosso accettò per buona la visione progressista della storia, ereditata dal pensiero liberale capitalista. Benedisse la Scienza e la sua applicazione industriale.
Steve Cutts – Man
Considerate anche la Scienza come un alleato oggettivo del potere capitalista?
La mera formulazione di questa domanda contiene già in sé la sua risposta. Nell’Età moderna la Scienza necessita di grandi quantità di mezzi e di un gigantesco campo di sperimentazione per sviluppare le sue indagini; le imprese e lo Stato offrono entrambe le cose: denaro e tutto il corpo sociale sul quale sperimentare con le sue innovative scoperte. In cambio la Scienza deve accettare criteri di produttività elevati, specializzazione, divisione del lavoro e disciplina industriale… ah!, dimenticavamo, anche un rigoroso silenzio complice allorquando qualche esperimento sfugge dalle mani e produce una catastrofe, il che non è infrequente.
Mi sembra che voi giochiate a terrorizzare la gente presentando un’idea della tecnologia e della scienza come prodotti di un incubo totalitario. Forse le vostre osservazioni erano utili per un’epoca – quella più oscura – della civiltà industriale. Ma oggi, non lo potete negare, la moderna tecnologia si pone al servizio delle comodità della gente, non la priva dei suoi modi di vita, ma crea invece le condizioni di un benessere sempre rinnovato.
Forse lei guadagnerà un buon stipendio nel corso della sua vita pubblicando queste sciocchezze. Per quanto ci riguarda, pensiamo sia naturale che la tecnologia di consumo appaia oggi come una compensazione miracolosa in un mondo in cui tutti i veri valori necessari all’umano sono proibiti. Nella società divisa qualunque offerta tecnologica appare come una benedizione: ai moderni schiavi che hanno perduto perfino la capacità di riunirsi, non rimane altro che rafforzare il proprio isolamento con strumenti tecnici sempre più perfezionati. In tal modo, l’imprigionamento appare loro ancora sopportabile.
Esagerate davvero…
La nuova società che vogliono imporre si prepara a sopportare allegramente la sua crescente disumanizzazione. Per quanto riguarda la coscienza, sarà necessario rendersi insensibili al degrado delle relazioni umane – degrado in uno stato già molto avanzato –, perdere ogni prospettiva di autonomia personale e collettiva. Per quanto riguarda invece le conquiste materiali, sarà necessario accettare la possibilità di ricostruire tecnicamente la biosfera – e la sostanza umana – per preparare entrambe a uno sfruttamento economico di dimensioni mai viste. A partire da qui molti sceglieranno la propria modalità di sopravvivenza o di adattamento. Noi, nella misura delle nostre possibilità, cercheremo alleati che non accettino le condizioni di questa resa della coscienza.
Se il potere è una relazione di forze, dove c’è potere c’è anche resistenza
Rob Gonsalves – Big Air
Non si può non riconoscere, a diverse latitudini, l’impetuosa rinascita dell’anarchismo. È questa la constatazione da cui muove Tomás Ibañez nel suo ultimo lavoro edito in Italia, Anarchismo in movimento (Milano, elèuthera, 2014). Il libro, uscito dapprima in spagnolo per le edizioni Virus, è l’ultimo prodotto dell’impegno profuso dall’autore, già professore di psicologia sociale all’Università Autonoma di Barcellona, proprio in direzione di una rinascita e, insieme, di un rinnovamento dell’anarchismo. Degli scritti di Ibañez abbiamo imparato da tempo ad apprezzare il carattere intelligentemente eretico, sin dagli articoli apparsi su «Volontà» negli anni Ottanta e riprodotti anche in francese (ad esempio sull’ottima rivista «Réfractions») e, in alcuni casi, in greco, fino ad arrivare ai contributi più recenti pubblicati dal periodico «Libertaria» e dalla stessa elèuthera (Il libero pensiero. Elogio del relativismo, 2007; con Manuel Castells, Dialogo su anarchia e libertà nell’era digitale, 2014).
Il rinnovamento dell’anarchismo implica il rifiuto categorico di qualsiasi determinismo, la consapevolezza che se la storia andasse inesorabilmente verso un orizzonte libertario, rimarrebbe in realtà ben poco spazio all’idea di libertà. Il campo socio storico, come già messo in evidenza da Castoriadis, non può che essere considerato come aperto e plasmabile da una creatività radicale che nella sua opera ha il merito di destrutturare i tentativi di imbalsamazione dell’anarchismo, operati da alcuni ambiti del movimento, oggi minoritari (i “guardiani del tempio”): la preminenza del culto della memoria porta alla conservazione, alla difesa gelosa del patrimonio, alla sterile ripetizione.
L’anarchia, scrive Ibañez, non è un’entità ontologica, non ha cioè un’esistenza in sé, ma è il prodotto di un insieme di relazioni all’interno di una cultura, di una società e di un’epoca determinate. In questo senso, a differenza di quanto sostiene Hakim Bay per il quale l’anarchismo sarebbe il lato oscuro dell’anarchia (la pervertirebbe negandola nella pratica), l’anarchia è intrinsecamente connessa all’anarchismo e non è quindi data per sempre, ma può variare in consonanza con le eventuali fluttuazioni del movimento anarchico. Così come l’anarchismo è nato entro un contesto di sviluppo capitalistico, l’anarchia vive in un contesto di dominio, come termine antinomico rispetto a esso. Perché essa possa manifestarsi devono esistere dispositivi del dominio e quindi forme di resistenza a esso. In altre parole: si danno le condizioni di possibilità dell’anarchia laddove c’è dominio ed è proprio nelle pratiche della lotta contro il dominio che si forgia continuamente l’anarchismo. Al di fuori di queste ristagna e marcisce. Così la rilevanza e l’attualità dell’anarchismo sono cresciute proporzionalmente alla crescita della pervasività e sofisticazione delle relazioni nella vita quotidiana. L’onnipresenza dell’esercizio del potere intuito da Foucault da una parte e dall’altra la messa a valore di tutte le attività anche fuori dal mondo del lavoro (risparmi, tempo libero, salute, alloggio, educazione, cura ecc.) hanno moltiplicato le occasioni di intervento concreto dell’anarchismo e di nuove soggettività antagoniste e radicali.
Rob Gonsalves – The Sun Sets Sail
Dal maggio ’68 in avanti, e con un rapido impulso agli inizi degli anni Duemila, si è andato affermando un nuovo tipo di anarchismo, che ha debordato i confini del movimento anarchico stesso. Esso si manifesta sia nelle piazze e nelle lotte sia negli ambiti culturali e universitari, come dimostra la creazione di reti, accademiche e non, di riflessione teorica, tra cui l’Anarchist Studies Network (nata nel 2005) e i North American Anarchist Studies (2009), e il continuo susseguirsi di convegni storici, politici, filosofici dedicati al pensiero libertario in diverse parti del mondo.
Così l’anarchismo non è oggi più l’unico depositario dei principi anti-gerarchici, antiautoritari, orizzontali, di diffidenza verso qualunque dispositivo di potere. Questi elementi sono fatti propri da ambienti che non si dichiarano apertamente anarchici e a volte rifiutano di identificarsi con il movimento specifico: è l’anarchismo “diffuso”, non identitario.
L’anarchismo va inteso quindi come movimento verso una società giusta, libera e sostenibile e non come dottrina. Esso è intrinsecamente plurale perché distante dalla ricerca dell’egemonia sulla società nel suo complesso con le implicazioni totalitarie che ciò inevitabilmente comporta. Fermo su due principi base, che sono la giustizia sociale e la libertà tra eguali, non è (più) universalista, ma pluralista e relativista (consapevole e critico del suo eurocentrismo e delle sue radici cristiane); è attento a conservare la fluidità e la flessibilità delle reti evitando la cristallizzazione di forme troppo forti di coordinamento che sono efficaci solo in apparenza e rischiano invece di rendere sterili le lotte; mantiene il concetto di rivoluzione ridefinendolo in un’ottica di rottura radicale sì, ma priva di qualunque prospettiva escatologica.
Il suo obiettivo è la trasformazione del presente, una trasformazione per forza di cose locale e parziale, articolata attorno a obiettivi concreti e specifici. L’anarchismo contemporaneo è, sulla scia degli insegnamenti di Gustav Landauer e, in un’altra epoca, di Colin Ward, costruttivo, foriero cioè di costruzione di alternative ispirate a principi altri da quelli del dominio, che sanno intrecciare vita e politica, laddove modi di vita collettivi sono, anche, modi di lotta, destrutturando finalmente quella falsa dicotomia stabilita da Murray Bookchin a metà degli anni Novanta tra anarchismo sociale (o organizzato) e anarchismo come stile di vita. La capacità costruttiva permette di strappare spazi al sistema e di costruire modi di vita più soddisfacenti di quelli offerti dai miraggi del mercantilismo consumista.
Rob Gonsalves – On the High Seas
Così gran parte del movimento anarchico attuale è nei fatti lontano dal concetto di struttura permanente, stabile, inclusiva e articolata attorno a basi programmatiche, caro a un certo anarchismo organizzato “classico”, che sembra poco adatto alle presenti condizioni sociali. Per Ibañez dare priorità alla costruzione di un’organizzazione anarchica non ha altri risultati se non distogliere da altre attività più direttamente incentrate sulle lotte e alimenta la falsa convinzione che una forte struttura libertaria risolverebbe molte difficoltà. L’anarchismo contemporaneo è sociale non in quanto fedele a un modello di organizzazione classico, ma perché è immerso nei movimenti sociali, che di esso sono, almeno in parte, impregnati. È questa contaminazione, la presenza cioè attiva nei vari momenti – alti e bassi – di mobilitazione, che ne ha permesso la rinascita e il rinnovamento.
Esso, infine, è necessariamente mutevole perché la sua immutabilità entrerebbe in contraddizione con il modo di essere che gli è proprio. La simbiosi tra pensiero e azione, sua caratteristica principe sin dalle teorizzazioni di Proudhon e Bakunin, fa sì che i principi si costituiscano attraverso l’azione, e a loro volta la orientino. Se ciò che muove l’anarchismo sono i concetti di immaginario e di utopia, intesa come incitamento alla lotta e non come progetto di futuro in cerca di realizzazione, esso è in grado di generare nuove idee solo quando mette in atto nuove pratiche.
Dimenticati o meglio sarebbe definirli nascosti, cancellati, rimossi, quegli uomini e quelle donne i cui nomi non trovano posto nei libri di storia, che magari rintracci a fatica o per caso in qualche foto ingiallita, dove stanno sullo sfondo, quasi fuori dall’inquadratura, sempre lontano da quelli che contano, o irrompono loro malgrado in qualche nota di libri che sono scritti per qualche altro motivo.
Uomini e donne che sono sopravvissuti per decenni, praticamente soltanto nel personale ricordo di quelli che un tempo li conobbero e che sono ancora convinti che se questi loro compagni non fossero esistiti, il mondo sarebbe un posto ancora peggiore di quanto già oggi non sia.
Uomini e donne sempre definiti come sognatori, utopisti, moralisti o peggio ancora poeti, o magari addirittura avventurieri.
Uomini e donne che compirono l’imperdonabile errore di dire quello che pensavano e di fare quello che dicevano, e che errore ancor più grande, volevano vivere da liberi qui ed ora, senza aspettare i tempi ragionevoli della storia. E per questo motivo patirono le più cocenti delle delusioni, le sconfitte più devastanti, e a cui, ironia della sorte, soltanto gli archivi delle tante questure che li perseguitarono e mandarono in galera rendono un involontario e postumo omaggio.
In attesa di impedire il comizio di Rubinacci (MSI), Pesaro, 1975 circa
Di loro puoi ritrovare le tracce nelle furibonde battaglie di strada, nelle imprese disperate, in qualche guerriglia ormai dimenticata, in tutti quei tentativi di assalto al cielo che tutto erano fuorché soltanto una frase di poetica bellezza.
Per i tanti storici di professione, le vite di questi uomini furono mosse da incontrollabili furori, dalla ricerca di un assoluto che non è della realtà effettuale. Storie e vite che per quelli che detengono il potere, o che ad esso ambiscono, paiono simili al Mito prima che questo diventasse storia e che ritengono il loro ricordo buono al massimo da tramandare come il folclore di un’epoca ormai passata, quando le parole uguaglianza, giustizia, liberazione, comunismo, contavano per quello che esse volevano veramente dire.
Parole che per i professionisti della politica attengono alla realtà allo stesso modo in cui, in un tempo ormai lontano, le nonne raccontavano ai bambini, seduti davanti al fuoco del camino, le favole che sapevano di magico e di misterioso.
Sono migliaia e migliaia i dimenticati dalla storia, quando essa è scritta, specie in tempi di revisionismo, con le parole di chi ha vinto e detiene il potere.
In attesa di impedire il comizio di Rubinacci (MSI), Pesaro, 1975 circa
Anche perché costoro tra loro si riconoscono e soprattutto si legittimano vicendevolmente, perché hanno un bisogno disperato gli uni degli altri e giustamente non possono accettare che ci siano stati degli uomini e delle donne che non hanno aspettato direttive, analisi politiche o altro, per prendere da sé nelle mani il proprio destino e consapevoli di tale scelta ne hanno pagato e ne pagano le conseguenze fino in fondo.
Il loro esempio può essere contagioso, la loro memoria può essere portatrice di strane pulsioni, di ancora più strani desideri, magari può ancora trovare qualche pazzo che al patrimonio che essi hanno inteso trasmettere si voglia ispirare.
Per questo vogliamo raccontare quegli anni quando ancora la televisione era in bianco e nero. Anni di rivolta, di conflitto di massa diffuso, in cui nel finire, tanti nostri compagni si tagliarono i capelli per scomparire nella clandestinità che li avrebbe portati al lento trituramento delle carceri speciali, e tanti altri ancora sbranati dal “Grande Drago” dell’eroina.
Ultimi patetici colpi di coda di un passato che si ostina a non terminare? Può darsi, a sentire chi dice che la politica è l’arte del possibile e di conseguenza essa non ammette scorciatoie né tantomeno utopie da inseguire, per costoro queste sono cose che attengono ormai all’immaturità dei popoli e dei tempi.
Anche se a ben vedere non si direbbe proprio. Basti pensare come fu salutata la notizia del primo gennaio del ’94, quando centinaia di indios bassi e dal viso del colore della terra avevano occupato San Bartolomeo de Las Casas e tanti altri villaggi dai nomi impronunciabili, persi tra la giungla degli altopiani di uno stato messicano che nessuno aveva sentito nominare…
Sono tempi duri i nostri, anni di guerra umanitaria infinita; dall’Afghanistan all’Irak, dalla ex Jugoslavia al mattatoio ceceno, passando per Gaza rasa al suolo periodicamente, alla guerra per procura dell’Ucraina, al tentativo filoguidato di costruire il Califfato da parte dell’IS. Per finire con l’Africa e le miriadi di conflitti e genocidi che coinvolgono milioni di persone. Tempi di barbarie enunciate senza ritegno alcuno quelli che oggi viviamo, tempi in cui per battere il terrorismo viene sdoganata pure la tortura.
In attesa di impedire il comizio di Rubinacci (MSI), Pesaro, 1975 circa
Eppure, malgrado tutto lo spiegamento mediatico di cui oggi il potere dispone, esso continua ad avere una paura fottuta della memoria che il passato porta con sé.
Altrimenti non si spiegherebbe, ad esempio, perché il movimento del ’77, con tutto il carico d’innovazione, di conflitti e tragedie che portò con sé stravolgendo definitivamente i vecchi stereotipi della politica, un movimento di “brutti, sporchi e cattivi”, sia stato cancellato dal calendario del nostro paese; spesso e soprattutto da quegli stessi che non fanno altro che ricordarci, con la spocchia che sempre li contraddistingue, che loro “hanno fatto il ’68”. Sono talmente tanti quelli che si appuntano sul petto la medaglia di sessantottini, da trasformare gli scontri di Valle Giulia, poco più di una baruffa, in uno scontro campale tra tutta la polizia intergalattica e un corteo di studenti più lungo della muraglia cinese!
Nel rievocare i fatti di un passato che oggi ci appare così gravido d’insegnamenti, c’è sempre il rischio di confondere la memoria storica con il ricordo, la ricerca dell’utopia con il sogno, che altro non rappresenta se non la fuga dalla realtà. Il rifugio ultimo di chi ha ormai rinunciato a vivere nel presente e cercare di cambiarlo, per quanto dura e difficile, questa cosa possa apparire.
Negli ultimi mesi ci è giunta però la notizia che in una sperduta valle, il Rojava, ai confini tra la Siria e la Turchia, un piccolo pugno di donne e di uomini male armati e peggio equipaggiati ha strappato una città, Kobane, dal controllo del potente esercito dell’IS.
Uomini e donne che sembrano provenire dal trapassato remoto della storia. Uomini e donne che in quei luoghi stanno sperimentando una nuova e rivoluzionaria forma di convivenza. Il socialismo!
Le radici di questo processo, nato anch’esso negli anni ’70, in qualche modo ci riguardano.
Così come ci insegna Papillon, quando alla sua veneranda età saltò dalla scogliera per cavalcare la sua ultima “settima onda”, anche noi vogliamo raccontare quegli anni grazie ai ricordi di chi è stato protagonista “fuori squadro” di quel conflitto, e poter gridare un’ultima volta: “Maledetti bastardi, siamo ancora vivi! Siamo ancora qui!”.
Ho aperto gli occhi e ho visto Kobane nel sole
Di Anonimo compagno catapultato in Kurdistan
Kobane, aprile 2015 – Foto di Maria Novella De Luca
Da settembre 2014, quando le immagini delle guerrigliere con il kalashnikov hanno bucato gli schermi tutto il mondo ha scoperto che esisteva Kobane, che i Curdi continuavano ad essere un popolo oppresso e che le loro organizzazioni politiche e militari erano una anomalia non cancellabile dalla storia del Medio Oriente. Dopo tre anni dall’inizio della guerra civile in Siria, la maggior parte dei cittadini occidentali hanno scoperto che in quella tragedia esisteva anche un progetto politico capace di resistere al fondamentalismo e di costruire percorsi politici per superare il capitalismo e l’autoritarismo patriarcale. Molti percorsi di solidarietà con le lotte delle organizzazioni indipendentiste curde presenti in Italia sono di lunga durata, risalgono almeno agli anni ’90, alla stagione di Dino Frisullo e di Ocalan in Italia mentre alcune si radicano in una persistente solidarietà tra organizzazioni marxiste ed internazionaliste ed altre a sentimenti umanitari e universalistici o a progetti di cooperazione. In quest’ultimo anno è nato anche qualcosa di nuovo, sulla spinta della novità della proposta politica e sociale che viene raccontata dal Rojava (Kurdistan siriano) e dal Kurdistan del Nord in territorio turco. Autogestione, partecipazione orizzontale, parità e liberazione per il genere femminile, socialismo ed ecologia: sono concetti e pratiche che hanno conquistato l’attenzione ed il cuore di una larga parte di compagni e compagne di centri sociali autogestiti, collettivi universitari ma anche di associazioni e persone della strada. Nelle Marche negli ultimi due anni l’attenzione per quello che succede in Turchia e Medio Oriente è cresciuta di pari passo con una partecipazione diffusa sui territori, con molte iniziative di informazione, raccolta di fondi ed anche di protesta. Prendere parola sui conflitti scoppiati dopo la stagione delle cosiddette “primavere arabe” non è stato facile, rompere la tenaglia che immobilizza la gente comune tra il fascismo islamista ed il militarismo occidentale richiede di mettersi in viaggio, di usare l’intelligenza ed anche il cuore. Dall’occupazione del Consolato turco di Ancona in occasione della rivolta di Gezi Park nel 2013 fino alla Carovana per il Newroz 2015, sono state decine le iniziative pubbliche che hanno visto una partecipazione crescente ed un rinnovato interesse per le diverse campagne di solidarietà internazionale. La grande visibilità offerta alla storia di Karim, militante del centro sociale Arvultura di Senigallia che ha combattuto con lo YPG in Rojava ha contribuito a rendere visibile un tessuto di relazioni concrete impegnate a sostegno di una lotta di liberazione sociale. Fare una lista di tutte le iniziative sarebbe impossibile, ma vorremmo tornare anche in altre occasioni ad approfondire il tema delle ragioni e delle forme dell’internazionalismo di oggi raccontando altre storie dalle nostre città e paesi. Questa volta pubblichiamo una testimonianza dalla carovana per il Newroz 2015 organizzata da Uiki Onlus Italia a cui hanno partecipato ben cinque persone da diverse esperienze sociali ed associative delle Marche.
Kobane, aprile 2015, combattente YPJ – Foto di Maria Novella De Luca
Non sono un esperto della storia e delle lotte del popolo kurdo, lo dichiaro come premessa, perché una delle ragioni fondamentali del viaggio che ho intrapreso è stata la conoscenza ed il desiderio di condivisione politica e perciò umana.
Certamente sono molti anni che seguo in maniera sporadica le vicende della lotta per l’indipendenza dal popolo kurdo. Nel mio studio pieno di libri e carte ammucchiate a strati tempo fa ho riesumato un volantino della associazione Ya Basta del 1999 “Il cuore d’Europa”. Si racconta dell’assalto alla Turkish Airlines a Roma con l’ariete, dei treni collettivi contro le frontiere, delle manifestazioni per la libertà di Ocalan che sono state le mie prime esperienze politiche fuori dalla sede universitaria di Bologna. Poi tante cose sono cambiate e per anni ho seguito da vicino le lotte rivoluzionarie in Messico, gli Zapatisti, la Comune di Oaxaca, l’Altra Campagna. Le lotte in Medio Oriente erano state per me sempre difficili da decifrare, una esperienza in Tunisia nel 2011 mi aveva aperto gli occhi ma anche sbattuto contro una realtà difficile da attraversare per i tanti ostacoli linguistici e culturali.
Più recentemente attraverso gli articoli dell’ottima rivista Nunatak e grazie alla rete ho conosciuto la nascita dell’esperimento di autogestione ed autonomia locale in senso comunista dei Cantoni Curdi del Rojava, nel nord della Siria. Poi ci sono stati tre elementi che mi hanno convinto a non accontentarmi della simpatia passiva: l’articolo di David Greaber in sostegno alla rivoluzione in Rojava, alcuni articoli che la mettevano in relazione con il Chiapas zapatista e la notizia che il giovane Karim del centro sociale Arvultura di Senigallia, dopo un breve soggiorno nei campi profughi sulla frontiera di Suruc, aveva scelto a gennaio di arruolarsi nelle YPG, le forze armate del PKK in Siria. A novembre in collaborazione con dei compagni anarchici del Piemonte abbiamo contribuito ad organizzare un ciclo di incontri a Rimini, Urbino, Ancona e Chieti che hanno riscosso molto interesse.
Il 17 marzo sono partito senza molta preparazione e con un compagno dell’autonomia diffusa dalla costa Est. Abbiamo aderito alla iniziativa “Carovana per il Newroz 2015” della Rete Kurdistan, promossa da Uiki Onlus, l’ufficio di informazione del Kurdistan in Italia. Il numero dei partecipanti è stato il primo dato notevole, 136 persone da tantissime province e città. Dalle Marche la gradevole sorpresa di altri quattro compagni, dai centri sociali e dal tessuto associativo e sociale che ancora esiste anche nei piccoli centri. Insieme al numero è stata presente una notevole varietà umana e di provenienze geografiche e politiche, che ha fatto sicuramente la ricchezza della delegazione ma ha portato anche a qualche limite organizzativo e di coesione del gruppo come spesso accade in questo tipo di iniziative.
Poiché volevamo raggiungere almeno Kobane per avere un contatto diretto con i compagni e le compagne del Rojava, il compagno ed io ci siamo iscritti nel gruppo di osservatori che è stato basato a Sanliurfa nel sud-est della Turchia a poche decine di km dal confine. Abbiamo scoperto una città molto grande con più di un milione e mezzo di abitanti, ricca di storia stratificata nel suo centro e densamente costruita nei sobborghi pieni di palazzoni, negozi e viali frutto del boom immobiliare. Nel corso delle giornate l’itinerario organizzato ci ha portato a compiere una serie di viste suddivisi in gruppi di 20 persone che si alternavano nei vari giorni a visitare nell’ordine: i campi profughi Ezidi e la municipalità dell’HDP (Partito democratico del popolo) di Viransehir, 60 km ad Est sulla strada per Diyarbakir, l’organizzazione per la difesa dei diritti umani IHD di Urfa, i rappresentanti e militanti di base del partito HDP di Urfa, la municipalità della città di Suruc sulla frontiera con la Siria dove sono situati la maggior parte dei campi rimasti sul lato Turco. In questa città abbiamo visitato il centro culturale Amara, alcuni campi profughi autogestiti dal municipio dell’HDP ed il villaggio di Mesher che è stato per mesi in prima linea nella lotta per la liberazione di Kobane e per l’accoglienza dei profughi.
Posto di blocco turco sul confine di Kobane – Foto di Maria Novella De Luca
Ad Urfa e Viransheir abbiamo partecipato alle festività del Newroz. Questo tipo di celebrazione ha l’aspetto di un grande festival di musica, balli, comizi. Si svolge in grandi spazi pubblici e vede la partecipazione di tutte le classi sociali e le età. Intorno un dispiegamento di polizia in numero moderato vigilava, ha perquisito la gente agli ingressi, qualche compagno italiano sporadicamente è stato fermato senza troppa convinzione, è bastato che ci facessimo sotto in gruppo per dissuadere la polizia da ulteriori azioni. Entrambe le feste, come la maggior parte di quelle che si sono svolte in Kurdistan, sono finite senza scontri, per la prima volta in trent’anni. Nell’aria c’è un tentativo di dialogo politico tra il PKK ed il governo, promosso dalla proposta di Ocalan che dal carcere ha invitato a lasciare la lotta armata in Turchia in cambio di una reale riforma costituzionale democratica. Tanto è bastato per calmare gli animi nelle strade, ma solo per qualche giorno. Alla fine di marzo sono ricominciate le operazioni militari contro il PKK in territorio turco e la repressione contro i movimenti ad Istanbul ed Ankara a suon di arresti e feriti.
L’accoglienza a Suruc non è stata delle migliori. Per giorni i nostri accompagnatori curdi avevano provato a dissuaderci dal raggiungere l’obiettivo di entrare a Kobane per non precisati problemi di sicurezza ed organizzativi. In realtà nel corso delle assemblee che siamo riusciti ad organizzare con la delegazione, non erano emerse motivazioni esplicite per rinunciare se non il rischio di essere bloccati dal potere discrezionale delle autorità militari. Così abbiamo spinto, anche contro il parere delle parti più moderate della delegazione, per inoltrare comunque la richiesta alle autorità di frontiera per l’ingresso di tutti e 60 i membri della delegazione. Era infatti importante secondo noi rendere esplicito il sostegno politico all’esperienza del Rojava, il nostro tributo di rispetto e pietà per i morti nella difesa di Kobane, la nostra solidarietà militante. Purtroppo il 21 marzo è iniziato sotto i peggiori auspici. La sera prima è arrivata la notizia della doppia autobomba contro il Newroz curdo di Hasake, nel cantone di Cizire, Rojava orientale. Mentre il conto dei morti continuava a salire la pioggia cadeva fitta. Siamo arrivati comunque con due furgoni con 40 persone sul confine senza nessun accompagnatore locale. La città appariva tristissima sotto il cielo grigio, grigie le tende dei campi profughi, grigi i palazzi sbrecciati e la strada infangata. I militari di guardia al confine hanno dissuaso l’autista anche solo a sostare, fuori la pioggia cadeva battente. Ha rigirato il furgone e siamo stati costretti a tornare indietro, senza troppo rammarico dei più.
Il giorno dopo siamo tornati a Suruc, abbiamo incontrato il sindaco curdo del municipio che scusandosi per il disagio del blocco del giorno prima ci ha spiegato come anche per i curdi e per altre delegazioni il blocco della frontiera sia un problema grave. Per non parlare dei tanti combattenti e profughi morti bloccati sulla frontiera nei mesi precedenti. Mentre l’esercito turco infatti dava riparo e cure negli ospedali delle città di frontiera ai combattenti di Isis, ha lasciato morire decine di combattenti kurdi dissanguati nelle auto e nelle ambulanze. Quella fase oggi sembra finita, ma non è certo arrivata la pace, anzi lo schieramento militare sul confine è imponente ed il nemico sono come sempre i curdi.
Sotto il sole finalmente caldo, siamo tornati sul confine. A poche centinaia di metri dai reticolati, sotto una capanna di terra cruda ci hanno mostrato un piccolo santuario nascosto con decine di foto di caduti del PKK, del YPG e YPJ, tra cui ho riconosciuto anche la foto di Ashley Johnston, australiano, caduto in combattimento nelle scorse settimane.
Ci fermiamo sulla linea di frontiera, senza un motivo apparente.
Una buca mi sveglia dal torpore del viaggio, apro gli occhi e vedo a poche centinaia di metri Kobane, uno scheletro grigio da cui si alzano sul fare della sera dei fuochi di bivacchi. I militari ci spiano dalle torrette con i binocoli. Sui tetti sventrati e le macerie sventolano le bandiere triangolari delle YPG, la stella rossa per ora ha vinto.
Intorno a noi gli animali pascolano sul prato attorno ai reticolati che dividono l’inferno dal resto del mondo, i bambini giocano e si fanno fotografare, ascoltiamo la testimonianza di un uomo visibilmente emozionato. Dietro le finestre delle giovani ragazze ci guardano nascoste.
Kobane vista dal confine turco – Foto di Maria Novella De Luca
Dopo la liberazione di Kobane, molti profughi hanno iniziato a fare ritorno anche se ci hanno raccontato come dall’altra parte della frontiera la situazione sia tutt’ora precaria e rischiosa. Tra le delegazioni presenti nella carovana, sicuramente la più rilevante è quella della Mezzaluna Rossa Kurdistan, basata a Livorno. I compagni che ne fanno parte sono curdi legati alle organizzazioni comuniste indipendentiste e compagni autonomi e comunisti della Toscana. Il loro obiettivo immediato è assistere il ritorno dei profughi, la ricostruzione del cantone di Kobane ed il sostegno alle altre necessità urgenti nel Rojava. Mi è sembrato che il loro approccio alla cooperazione “dal basso” dei responsabili sia di buona qualità, cosciente dei limiti ma anche delle potenzialità di una iniziativa indipendente dalle grandi ONG.
L’ultima sera, prima di salutarci hanno lanciato alla delegazione la proposta di promuovere per il 25 aprile delle iniziative in sostegno alla lotta per l’autonomia e l’autodeterminazione in Kurdistan.
Il bilancio dell’iniziativa è stato comunque positivo, con qualche criticità sulle modalità dell’organizzazione, viziata da una mancanza di organizzazione e di coordinamento politico che avrebbe potuto essere più inclusivo verso chi non aveva nessuna preparazione né conoscenza specifica del contesto e più decisa nel manifestare un sostegno politico da parte di compagni di base al progetto di autonomia democratica del Rojava. Infatti la mancanza di coordinamento e di coesione tra i vari compagni/e autonomi ed anarchici nella carovana ha lasciato tutto il risalto alle poche figure dai tratti istituzionali e sindacali con cui le autorità curde cercano comunque una interlocuzione privilegiata. Se questo è comprensibile per motivi tattici ed anche di affinità politica da parte dei compagni curdi, non giustifica la mancanza di iniziativa e di proposta politica organizzata di quelle componenti che da anni fanno dell’autonomia politica e dell’autogestione una parte fondante della propria identità e pratica. Infine un ultimo appunto: la nostra delegazione sulla frontiera non è stata in grado di comunicare un messaggio significativo. Troppi compagni/e della delegazione si sono comportati come turisti, fotografando tutto prima ancora di presentarsi e di conoscere dove erano arrivati. Poca o nessuna riflessione è stata fatta sulla nostra presenza. Purtroppo la qualità umana del nostro comportamento, il superamento dei pregiudizi eurocentrici e maschilisti è il primo passo da compiere quando ci si relaziona con dei contesti simili, ma pochi lo fanno. Tuttavia come compagni che vogliono essere anche dei rivoluzionari, siamo consapevoli di avere aperto soltanto una piccola porta, su una realtà molto grande e complessa. Spazio e tempo a chi potrà approfondire nell’immediato futuro un terreno di lotta molto importante.
L’illusione di una scuola montessoriana a Urbino
Di Luigi
Scuola dell’infanzia Villa del popolo, Urbino
La scuola a cui siamo abituati e che probabilmente tutti noi abbiamo frequentato non è esattamente il luogo adatto a svegliare le menti ma, piuttosto, un contesto in cui addestrarle riempiendole di idee e nozioni precostituite. Una scuola che privilegia l’obbedienza alla libertà, funzionale a quello che i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze, si troveranno di fronte quando andranno ad occupare il proprio ruolo in questa società.
Ma c’è anche un’altra idea di educazione, la cui storia viene da lontano e che negli ultimi anni sta riscuotendo un crescente interesse teorico, tradotto in sempre più diffuse sperimentazioni pratiche. L’idea di fondo vede nell’educare il portare alla luce, il facilitare lo sviluppo integrale di tutte le potenzialità dell’individuo: educare ad essere, dunque, in contrapposizione al plasmare per dover essere. In questo senso, c’è stata una vera e propria riscoperta del metodo pedagogico sviluppato da Maria Montessori agli inizi del Novecento, diffuso e apprezzato in migliaia di scuole di tutto il mondo tranne che, guarda caso (fascismo, chiesa e subcultura comunista c’entrano qualcosa…), nel nostro paese.
La competizione elettorale torna periodicamente a scandire i temi ed i tempi del dibattito politico pubblico: il degrado dei faccioni elettorali e delle promesse da marinaio riempiono di nuovo le strade. Le elezioni per il rinnovo del Consiglio Regionale e di molti importanti comuni delle Marche del 31 maggio ci impongono di guardare con attenzione ad un terreno verso il quale nutriamo avversione e sfiducia. Il progetto conservatore della cricca storica del governatore Spacca si scontra con i nuovi delfini della destra renziana, più che “Marche 2020” ci sembra di vedere arrivare una spartizione “50 e 50” del potere regionale. Ancora più a destra avanzano le Lega e Sovranità. La prima sembra crescere nei consensi della fascia più risentita e conservatrice della popolazione, sta creando i suoi piccoli feudi nei centri impoveriti dell’interno della regione. In questa campagna elettorale ha mostrato un attivismo insolito sospinta dalle comparsate di Salvini a sostegno delle pulsioni razziste sul territorio. I secondi sono i fascisti di Casapound sotto altro nome, hanno la loro base di radicamento sociale nella provincia di Ascoli Piceno e tentano di agganciare il treno della Lega per ottenere sostegni istituzionali e risorse strategiche alla loro avanzata nel resto della regione. A sinistra rinasce l’ennesimo tentativo unitario, indebolito dai troppi generali senza esercito e da tante alleanze locali di comodo con il Pd. Forse qualcuno a questo punto si sarà già addormentato sulla pagina, ma è proprio perché vogliamo costruire una alternativa politica radicalmente anticapitalista, ecologista ed egualitaria che non possiamo fare a meno di capire meglio i meccanismi di distribuzione e gestione del potere istituzionale per combatterlo. Troppi uomini e donne oppressi e delusi dalla politica istituzionale si illudono oggi che semplicemente girandosi dall’altra parte le relazioni di potere dettate dalle istituzioni scompaiano, non è così. Laddove si sperimentano alternative al modello economico e politico esistente, se non esistono iniziative politiche autonome capaci di dare corpo a ciò che si evoca, è l’apparato di governo che se ne appropria, come spesso accade nei territori amministrati dal Pd. Le lotte dei lavoratori, in assenza di sindacati conflittuali, restano quasi sempre intrappolate nelle mediazioni sindacali ed istituzionali, espropriate della propria autonomia e svendute ai tavoli della convenienza economica e della pacificazione sociale. Infine durante l’ultimo anno ed anche di recente, le principali manifestazioni pubbliche delle formazioni razziste e neofasciste hanno subito contestazioni anche dure nelle province di Pesaro, Ancona e Macerata e nelle piccole realtà locali si stanno riaccendendo uno spirito antifascista ed una attenzione che troppo spesso si erano addormentate cullandosi nella favola delle Marche come regione rossa e tranquilla. Ma non basta la contestazione a sottrarre alle destre agibilità e consensi né a riportare le lotte per il lavoro sul terreno di una contestazione radicale al modello economico esistente. Occorre ri-costruire le parole e le azioni necessarie a riportare il potere nelle nostre mani, acquistare la fiducia nell’autogestione, nell’autogoverno e nella cooperazione non gerarchica. E aspirare ad estendere queste relazioni a parti sempre più ampie delle nostre vite e dei territori in cui abitiamo. Per questo abbiamo deciso di intervistare Sergio Sinigaglia, anconetano, giornalista ed attivista da lungo tempo nelle lotte sociali, profondo conoscitore della realtà politica marchigiana. Sergio è autore tra gli altri della raccolta di articoli “Altre Marche: la crisi di un modello e le sue alternative” (Ancona, Affinità Elettive, 2012) e del romanzo “Il diario ritrovato” (Ancona, Italic, 2014).
Blu. Street art – Bologna
Perché Spacca vuole candidarsi per la terza volta? Quali interessi convergono sulla nuova lista di Area Popolare che unisce tutto il centro e centro-destra? Quali interessi forti lo sostengono?
malamente vanno le cose, in provincia e nelle metropoli malamente si dice che andranno domani malamente si sparla e malamente si ama malamente ci brucia il cuore per le ingiustizie e la rassegnazione malamente si lotta e si torna spesso conciati malamente ma si continua ad andare avanti malamente vorremmo vedere girare il vento malamente colpire nel segno malamente è un avverbio resistente per chi lo sa apprezzare.
Ancona, 14 novembre 2012
Tutto va malamente, si direbbe in questi tempi, ma a ben guardare non sempre la cose vanno male per noi, a volte una lotta riesce a colpire malamente, ad aprire crepe nei muri e nelle catene che tengono imprigionate le vite e i desideri di chi è oppresso e sfruttato. L’incertezza e la crisi di questi tempi sono anche possibilità che si aprono, vecchie certezze che crollano.
Vogliamo realizzare una rivista che nasce e intende mantenersi trasversale a diverse sensibilità e percorsi politico-culturali. Non sarà, quindi, diretta espressione di nessuna area politica, ma raccoglierà contributi dei vari gruppi, comitati, associazioni e individualità che vivono e operano sul territorio delle Marche, tra l’Appennino e la costa.
«Malamente» terrà insieme l’approfondimento e l’informazione, ma sarà anche uno strumento di comunicazione e di collaborazione. Le uscite periodiche potranno infatti dare continuità agli interventi politici, sociali e culturali espressi sul territorio, aggregando attorno al progetto editoriale diversi soggetti i cui percorsi si sono spesso incrociati rimanendo però a livello di convergenza episodica, anche perché privi di un canale strutturato quale la rivista intende appunto essere.
Le sue pagine, d’altra parte, non temeranno il confronto delle posizioni e il dibattito interno che potrà svilupparsi.
La rivista deve nascere dal basso, da quella buona parte della società che rifiuta il modello di sviluppo vorace, oppressivo e umiliante in cui viviamo, per cercare di aprire in ogni ambito del quotidiano nuovi spazi in cui sperimentare una trasformazione rivoluzionaria della società. Ciò che non vogliamo è replicare l’ennesimo spazio identitario legato ad una sub-cultura rivolta su se stessa. Inoltre, siamo consapevoli che una visione emancipatrice e rivoluzionaria delle lotte sociali non può essere calata dall’alto in basso come criterio di descrizione ideologica della realtà. Lo spirito del camminare domandando zapatista ci spinge a osservare, ascoltare, dialogare con gli individui e le collettività e con le loro contraddizioni. Una prospettiva rivoluzionaria non può vivere nell’isolamento di una minoranza ma deve provare a leggere la realtà con un senso comune maggioritario e plurale. La rivista vuole dunque promuovere fin dalla scelta del linguaggio, della grafica e delle relazioni che può costruire, una lettura delle possibilità di trasformazione a partire dalla “normalità”. Uno stile vivo e interessante, inteso come il colore e il ritmo della comunicazione e del linguaggio, è un veicolo potente di comunicazione e di incontro.
È nostra intenzione partire da una descrizione territoriale dei fatti che vogliamo raccontare, senza ridurci ad essere un raccoglitore sporadico di notizie e comunicati ma diventando uno spazio di approfondimento e discussione. Spesso infatti, chi vive in provincia corre il rischio di non riuscire a cogliere quanto la dimensione locale delle contraddizioni e delle lotte sia immediatamente collegata ad una dimensione più ampia. Assumere come naturali i confini e le gerarchie costruite dagli Stati e dal sistema economico significa accettare il campo di relazioni costruito dal potere. Le lotte, invece, possono e devono costruire le proprie nuove geografie.
Come si è detto, le porte saranno aperte alla collaborazione di molti soggetti che si dovranno relazionare in modalità antiautoritarie e libertarie, mantenendo alcuni punti fermi imprescindibili: anticapitalismo, antirazzismo, antisessismo, antifascismo, rifiuto della politica intesa come gestione del potere e arte di scegliere il male minore. Non ci interessa dare spazio a partiti politici istituzionali, specialisti nella gestione delle nocività e nell’amministrazione del disastro sociale e ambientale, indaffarati in finte riforme affinché nulla cambi.
Il progetto editoriale intende rivolgersi a un pubblico allargato residente nell’area territoriale di riferimento, anche con l’auspicio di trovare nuovi complici lungo la strada. Ma il desiderio è quello di non rimanere chiusi negli stretti limiti del localismo, pertanto saranno sollecitati e accolti contributi provenienti dall’esterno e ospitati articoli che sappiano guardare oltre le problematiche strettamente locali.
Il timone della rivista sarà rivolto a proporre uno sguardo sul presente che abbia a cuore la libertà. Orientato, quindi, alla necessaria critica sociale, dal momento che quello che non manca, anche qui nella periferica provincia, sono le buone ragioni per opporci a un’organizzazione sociale che mostra sempre più, se ancor ce ne fosse bisogno, la propria insensatezza prima ancora che insostenibilità. Sotto traccia, vi è il desiderio di rompere l’accerchiamento del progresso a tutti i costi e della mercificazione dell’esistente, per recuperare le capacità di saper agire nel mondo.
Ai lettori verranno proposti spunti per analizzare e criticare un sistema di potere fondato sulla più sfacciata arroganza del vantaggio dei pochi a spese dei tanti. Le problematiche da affrontare riguarderanno una vasta area di argomenti, come il mondo del lavoro e del precariato, la difesa dell’ambiente, la sanità pubblica, il diritto alla casa, l’antimilitarismo, la pedagogia, la questione femminile, le migrazioni, l’economia solidale, l’autodeterminazione alimentare, il contrasto alle derive securitarie e xenofobe e tanti altri aspetti della realtà sociale contemporanea.
La rivista ospiterà report delle iniziative, corrispondenze e aggiornamenti dalle realtà locali, inchieste, interviste, riflessioni sull’attualità e sulle lotte in corso, articoli di analisi politica e culturale, recensioni, brani del passato che valga la pena rileggere ecc. In particolare, la rivista vuole dare spazio ai soggetti che agiscono sul territorio, per mettere in comune attraverso le sue pagine quegli spunti di critica/alternativa sociale che portano boccate d’aria fresca in un presente che ne ha quantomai bisogno.
Malamente uscirà in formato cartaceo: scelta dettata dalla volontà di riappropriarci di un mezzo di comunicazione stabile e che induce alla lettura piana e riflessiva. Riteniamo infatti che troppo spesso molti contenuti vengano oggi veicolati esclusivamente online e finiscano per perdersi dentro il frettoloso consumo quotidiano della rete, tra un controllo alla casella mail, un commento sul forum e un like sul social network. Nell’ottica della libera circolazione dei saperi, alla rivista cartacea verrà comunque affiancato un sito internet dove scaricarla gratuitamente. Il sito darà la possibilità ai lettori di commentare ogni articolo e conterrà gli aggiornamenti del profilo twitter della rivista: un mezzo, ma non l’unico, con cui intendiamo costruire una rete di relazioni e contatti e attraverso il quale ricevere stimoli e spunti da approfondire numero dopo numero.