Bioculture 2014 (#1)

Bioculture 2014
Di Giacomo Giovannetti

Presentiamo le immagini originali create per il progetto Bioculture 2014 (www.bioculture.it). Ci piacciono i lavori di Giacomo e con piacere li diffondiamo su Malamente, in attesa di approfondire con lui e altri/e artisti/e quello che succede nelle Marche dal punto di vista creativo.

 

Wing house

Wing house
Wing house

 

Ogni progetto di trasformazione dello spazio che ci circonda si pone in preciso rapporto con la cultura contemporanea di cui deve essere espressione, non è solo tecnica, non è solo estetica.
Quando parliamo di casa parliamo di una proiezione di usi e costumi, abitudini e necessità: una gestalt che spesso può narrare chi la abita.
Per questo Aurora è una casa con le ali.

 

Metamarche

Metamarche
Metamarche

 

Più in là delle Marche ti attende il mondo.
Cosa sta succedendo nel mondo? Qualcosa che sta succedendo anche qui.

 

Padroni particolari

Padroni particolari
Padroni particolari

 

Non si può modificare il passato, ma si possono modificare i nostri comportamenti in relazione a fatti accaduti nel passato.
Modificare quest’ultimi significa risemantizzare il senso di ogni fatto accaduto, cogliendone le possibilità e gli sviluppi evolutivi che i fatti ci offrono.

 

Storie di un’altra libertà

Storie di un'altra libertà
Storie di un’altra libertà

 

L’idea che ciò che chiamiamo libertà possa essere un’esperienza emotiva che sopravvive oltre i concetti, le definizioni o i credo religiosi è un’ipotesi che è nata in me dopo aver conosciuto la storia ricordata e legata da e a questa lapide.
Ok, hanno parlato migliaia di filosofi a riguardo del concetto di libertà, ma non tutti conoscevano la storia dei contadini di Ciafone.

 

Visione Sibillina

Visione sibillina
Visione sibillina

 

Attraversati i Sibillini attraversò anche molti piccoli paesi di montagna, l’esercito degli alleati americani alla fine della seconda guerra mondiale, ricco di giovani afroamericani arruolati.
Mia nonna che era una pastorella decise di andare ad osservare i “primi uomini neri” che i suoi occhi avrebbero visto assieme ai suoi piccoli amici, al di là della collina.
“Se volete andare, andate ma è peggio per voi che li sognerete di notte” avevano avvertito i loro genitori, impauriti per il processo non reversibile che avrebbe coinvolto l’immaginario dei loro figli. I bambini andarono e furono felici di aver visto con chiarezza ciò che solo avevano immaginato: gli uomini neri non mettevano paura.

Un posto a sedere su tutte le corriere! (#1)

Un posto a sedere su tutte le corriere!
Di Valerio

Manifestazione studentesca, Fano, 14 novembre 1973
Manifestazione studentesca, Fano, 14 novembre 1973

 

Nel novembre del 1973, dopo l’ennesimo incidente verificatosi a causa del soprannumero di studenti che per andare a scuola prendeva la corriera, il Coordinamento Cittadino Studenti Medi di Fano lanciò la mobilitazione generale. Sciopero ad oltranza in tutte le scuole e blocco totale dei mezzi pubblici che transitavano per il Pincio.

La proposta della mobilitazione passò per pochi voti, gli studenti dei partiti della sinistra istituzionale tentarono in tutti i modi di bloccare la mobilitazione ma, purtroppo per loro, il tempo della mediazione, delle petizioni, degli appelli era abbondantemente scaduto. Era invece giunto il momento della lotta, dell’azione di forza.

Quello che non si sapeva, era come avrebbero reagito gli studenti fuori sede di fronte a tale iniziativa: avrebbero partecipato allo sciopero o si sarebbero recati a scuola? E gli altri studenti, quelli che a scuola ci andavano in bicicletta, avrebbero solidarizzato con i loro compagni seguendoli in una lotta che si preannunciava lunga e dura? Dopo le varie assemblee studentesche, molti dubbi assalirono i giovani compagni della sinistra…

Fortunatamente, a fugare tali e tanti dubbi arrivò il giorno dei blocchi. L’appuntamento per i compagni dei collettivi era fissato per le sei della mattina, si dovevano bloccare le prime corriere che da Fano partivano alla volta di Urbino (ITIS e Scuola d’arte), poi sarebbe toccato ai mezzi che portavano i geometri a Pesaro e le maestre a Fossombrone. Si immaginava che quella mattina sarebbe potuto accadere qualche tafferuglio, ma credevamo che parte degli studenti fuori sede fosse decisa a entrare a scuola e quindi bloccare le corriere sarebbe stato molto difficile e l’azione si sarebbe forse trasformata in un atto puramente dimostrativo, invece…

Mercoledì 14 novembre.
Appena arrivati alla stazione delle corriere ci raggiunsero decine e decine di studenti, le cosiddette “sardine”, quelli che ogni mattina erano obbligati a salire su quei mezzi sgangherati e stracarichi. Nessuno di loro salì sui pullman, anzi tutti parteciparono al blocco, più il tempo passava, più la massa degli studenti aumentava, decine, centinaia, migliaia di studenti bloccarono il Pincio sdraiandosi davanti a quei mezzi antiquati. Oltre alle corriere anche i tram furono bloccati. Verso le dieci di quella mattina un corteo spontaneo si mosse dalla stazione delle corriere per andare a manifestare sotto il deposito di Vitali. Il traffico andò in tilt e la città impazzì. Il pomeriggio i compagni dei collettivi si ritrovarono in assemblea, bisognava scrivere un nuovo manifesto, stampare altri volantini e soprattutto coordinare il blocco del giorno dopo.

Giovedì 15 novembre.
Quel giorno la mobilitazione fu grandiosa: tutte le scuole vuote con gli studenti al Pincio a bloccare le corriere. Non solo, ma anche a Urbino, Pesaro e Fossombrone gli studenti scioperarono e si misero a bloccare il traffico.

Venerdì 16 novembre.
Terzo giorno di mobilitazione generale. La lotta dal Pincio era dilagata in tutta la provincia. La mobilitazione però cominciava a mostrare i volti dei molti nemici, primi fra tutti quelli delle ditte private che lucravano su questa situazione, poi i politici perché la situazione stava sfuggendo loro di mano, infine i presidi che non solo avevano le aule completamente vuote, ma vedevano nascere agguerriti collettivi che ne mettevano in discussione il potere e oltre al posto su cui sedere chiedevano la mensa gratuita per chi era costretto a rimanere il pomeriggio, il rimborso del materiale didattico (libri e quaderni) per chi non poteva permetterselo, criticavano la didattica (cosa studiare, per chi studiare) e infine ritenevano di giudicare l’idoneità dei professori preposti all’insegnamento.

Alle nove circa di quel venerdì mattina, oltre agli studenti e alle corriere comparvero, d’un tratto, le verdi camionette del battaglione Senigallia.

Una, due, tre, quattro… dieci, venti!

I celerini, dopo essere scesi dai mezzi, si schierarono più o meno all’incrocio tra viale Gramsci e via Roma, si avvicinarono agli studenti convinti che con qualche spinta e qualche manganellata avrebbero risolto velocemente la faccenda.

Invece gli studenti resistettero! Si disperdevano durante le cariche ma poi tornavano a contrastare i poliziotti e tenere bloccate le corriere. Quella mattina si sviluppò una tale baraonda che si concluse solo verso mezzogiorno. A quel punto tutte le corriere e i tram bloccati rientrarono vuoti nei rispettivi depositi. Così fece la celere che se ne tornò in caserma.

Con parecchie contusioni e qualche bernoccolo, gli studenti avevano vinto la loro battaglia. Difatti, qualche giorno dopo, arrivarono al Pincio mezzi nuovi fiammanti e tutti gli studenti fuori sede ebbero a disposizione il posto su cui sedere.

Grazie a quella mobilitazione e agli scontri del Pincio si formarono collettivi politici in tutti gli istituti superiori. Contemporaneamente i compagni della Federazione giovanile comunista furono quasi tutti espulsi dal partito. Fu proprio dall’epurazione di quel gruppo che nacque Lotta continua, e fu così che Fano da tranquilla città di provincia si ritrovò in prima linea nel conflitto politico e sociale che, di lì a poco, avrebbe attraversato l’Europa.

La questione abitativa in Italia: i numeri della discriminazione (#1)

La questione abitativa in Italia: i numeri della discriminazione
Di A. Soto

Io voglio: un tetto per ogni famiglia
Bartolomeo Vanzetti

La lotta per la casa, da terreno di resistenza di una minoranza attiva tra i poveri urbani, sta diventando oggi uno degli strumenti principali di opposizione sociale al modello economico e abitativo dominante. Le Marche, lontane dalla emergenza abitativa dei grandi centri metropolitani, vivono comunque da anni l’aumento della tensione e delle disuguaglianze abitative. Ad essere colpite sono le persone più sfruttate e impoverite, italiani e non, giovani e anziani. L’elemento distintivo, però, è quello di una crisi abitativa che colpisce anche nei piccoli centri. In alcuni casi riescono ad attivarsi delle reti anti-sfratto che presidiano le abitazioni per opporsi alla forza pubblica, ma la maggior parte delle esecuzioni avviene nel silenzio. Secondo dati governativi questi sono i comuni a più alta tensione abitativa: Ancona, Fabriano, Senigallia, Ascoli Piceno, Grottammare, Montegranaro, Monteprandone, Monte Urano, Porto Sant’Elpidio, San Benedetto del Tronto, Civitanova Marche, Macerata, Potenza Picena, Recanati, Colbordolo, Fano, Fermignano, Montelabbate, Pesaro, Sant’Angelo in Lizzola, Urbino. Nel 2014 sono state 2.074 le richieste di esecuzione, 1.794 gli sfratti emessi, di cui 1.700 per morosità, e 728 quelli effettivamente eseguiti nello stesso periodo.

L’articolo, che offre un quadro della situazione a livello nazionale, riassume il testo di un intervento tenuto presso uno spazio anarchico di Atene nel dicembre 2014, preparato su richiesta di alcuni gruppi locali. I dati citati sono tratti dall’Ufficio nazionale di statistica del Ministero dell’Interno, da elaborazioni dell’Unione inquilini-Cub e del Sunia-Cgil, di alcuni collettivi e dalla stampa italiana e internazionale.

Amy Casey, Sit Tight
Amy Casey, Sit Tight

 

Undici milioni sono le case sfitte in Europa. Ne basterebbero meno della metà per dare alloggio ai quattro milioni di senza tetto che abitano il continente. In Italia gli appartamenti vuoti sono due milioni e tra questi ci sono anche 40.000 case popolari, ovvero alloggi pubblici che non vengono assegnati.

Mentre milioni di case rimangono vuote, chi perde il lavoro o non riesce a ottenere il permesso di soggiorno (come è noto, dal 2003, con la legge Bossi-Fini, il rinnovo del permesso di soggiorno è legato al possesso di un contratto di lavoro) viene sfrattato e buttato in strada. Dal 2008 (scoppio della crisi) a oggi in Italia c’è stato un aumento dei provvedimenti esecutivi di rilascio di quasi il 50%. Vediamo la progressione: 1 provvedimento esecutivo di rilascio su 539 famiglie nel 2011, 1 su 375 nel 2012, 1 su 353 nel 2013, 1 su 334 nel 2014. Nel 2013 i provvedimenti sono stati 68.000, di cui 30.000 eseguiti con l’intervento dell’ufficiale giudiziario e in alcuni casi della forza pubblica. Nel 2014 oltre 77.000, di cui 36.000 eseguiti (più 13,5% rispetto al 2013).

Qual è la causa degli sfratti? La morosità. Se prima del 2008 essa era la causa del 50% degli sfratti, oggi la cifra raggiunge il 90%. Anche in questo caso l’aumento progressivo negli ultimi anni è evidente, e ancor più accentuat nelle regioni “ricche” (Lombardia su tutte) e nei grandi comuni: dal 2008 al 2012 (in cinque anni quindi) sono stati emessi 290.000 provvedimenti esecutivi di rilascio di cui 240.000 per morosità. Di questi 140.000 sono stati eseguiti. Negli ultimi tre anni (2013-2015) tali provvedimenti sono stati 300.000 di cui 250.000 per morosità.

Chi sono gli sfrattati? Tutti coloro i quali pagano le conseguenze della diminuzione progressiva della retribuzione netta nell’ultimo quindicennio da una parte e dell’aumento del canone d’affitto fino al 130-150% dall’altra. Ovvero, i precari con meno di 35 anni (21%), i migranti (26%), gli anziani (38%). Il 62% per cento delle famiglie sfrattate ha figli, nel 35% dei casi il cosiddetto capofamiglia ha perso il lavoro.

Amy Casey, Extended city
Amy Casey, Extended city

 

Entro tale contesto il decreto Lupi ha rappresentato un ulteriore “salto di qualità”. Il decreto legge n. 47 del 28 marzo 2014 (“Piano casa”) contenente misure urgenti per l’emergenza abitativa, convertito in legge il 20 maggio 2014, stabilisce tra le altre cose che “chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi in relazione all’immobile medesimo e gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge” (art. 5). Ciò costringe migliaia di persone in una condizione di illegalità e marginalità. Senza residenza non è possibile ottenere diritti fondamentali come l’istruzione, l’assistenza sanitaria, l’accesso al welfare, il voto. L’art. 5 è inoltre uno strumento pensato apposta per dare ulteriore legittimità all’azione repressiva del governo. Da maggio in avanti si sono moltiplicati gli sgomberi e la criminalizzazione mediatica ha supportato quella giudiziaria: decine sono i processi contro chi occupa o prova a resistere agli sfratti e si sprecano le misure cautelari, provvedimenti emanati in maniera del tutto arbitraria dalle questure, quali tra gli altri il foglio di via, l’obbligo di dimora o l’avviso orale (per un approfondimento su questi temi consiglio la lettura dell’agile testo Difesa legale. Note per una maggiore consapevolezza a cura dell’Associazione di mutuo soccorso per il diritto di espressione di Bologna e provincia <www.mutuosoccorso.noblogs.org>).

In Italia, va da sé, non esiste nessun investimento pubblico nelle politiche abitative e anzi varie e frequenti sono state negli anni le procedure di alienazione del patrimonio residenziale pubblico (di proprietà dei comuni, degli enti pubblici, degli Iacp), fino ad arrivare all’art. 3 del decreto Lupi che nella sua versione iniziale – poi stralciata in aula – prevedeva senza tanti infingimenti la vendita del patrimonio pubblico (case popolari comprese) per fare cassa.

Ben si comprende perché da parte dei governi e delle amministrazioni locali non c’è nessun entusiasmo all’idea di costruire case popolari. Qui il canone si aggira sui 100 euro. I comuni così preferiscono spingere sulla cosiddetta edilizia convenzionata e agevolata, dove il canone è di 350 euro. Così mentre la costruzione delle poche case popolari è lentissima, gli stabili costruiti dai privati godono di una corsia preferenziale. Inoltre è evidente che limitare il numero di case popolari significa trasformare quelle esistenti in ghetti e permettere ai proprietari di tenere più alti i canoni di affitto. A questo proposito, si pensi agli studenti, tra i più colpiti dal caro affitti. In Italia ci sono 600.000 fuori sede non pendolari che sono costretti a spendere l’80% del proprio budget in affitto. A Milano si pagano fino a 400 euro per un posto letto e 700 euro per una camera singola; a Roma 300 euro per un posto letto e 700 euro per una camera singola. E a queste cifre non ci si può sottrarre: il sistema universitario offre posti letto in strutture organizzate ad appena il 2% degli studenti fuori sede (contro il 10% in Francia e il 20% nei paesi del Nord Europa).

Amy Casey, CityKnotStudy
Amy Casey, CityKnotStudy

 

Per fuggire dal caro affitti servirebbero, evidentemente, le case popolari. Ma queste sono poche e le liste d’attesa per accedervi sempre più lunghe. A Bologna a fine anni Novanta in lista per una casa popolare (allora come oggi poteva essere iscritto solo chi aveva un reddito) c’erano circa 4.000 persone: oggi sono il doppio, e di case ne vengono assegnate 400/500 all’anno. A Milano sono 23.000 in attesa e ne vengono assegnate 700. In tutta Italia ci sono 65.000 persone in attesa di entrare negli alloggi popolari.

Nel nostro paese solo il 6% del patrimonio immobiliare è di edilizia residenziale pubblica, contro il 18% della Francia e il 21% della Germania e le case in affitto costituiscono appena il 25% del patrimonio immobiliare: il resto sono di proprietà. Per decenni i governi hanno spinto per fare della casa di proprietà uno status symbol e migliaia di famiglie pur di comprare si sono indebitate con le banche. Non è un caso che le banche in Italia, nell’ultimo anno, si siano mangiate mille appartamenti: sono pignoramenti per insolvenza che colpiscono chi non riesce a pagare le rate del mutuo “prima casa”.

Questi numeri evidenziano la legittimità, e necessità, del movimento di lotta per la casa. Un movimento autorganizzato e diffuso, con specificità diverse a seconda della situazione locale, capace di ottenere notevoli risultati concreti. Prendiamo le due principali città italiane: a Milano nel 2014 ci sono state 1.000 occupazioni di alloggi popolari vuoti (1.278 tentativi, 732 riusciti), a Roma 5.000 occupazioni nell’ultimo anno (e 300 sgomberi). Questo movimento oggi ha un doppio obbiettivo: risolvere il problema qui e ora attraverso i picchetti antisfratto e la pratica delle occupazioni e aprire un discorso pubblico per l’abolizione del “Piano casa” e per il blocco generalizzato di sfratti e sgomberi. È chiaro a tutti, d’altra parte, che per fare cambiare il vento, e ottenere quindi massicci investimenti in favore dell’edilizia pubblica popolare, c’è bisogno di allargare e radicalizzare il movimento di lotta, così da mettere i governi con le spalle al muro. Un’eventualità, quest’ultima, temuta non poco dalle nostre classi dirigenti, pronte a scatenare polizia e giudici contro chi è colpevole di cercare un tetto sotto cui provare a costruirsi una vita degna.

Amy Casey, Support system
Amy Casey, Support system

Né privata né pubblica: la proprietà collettiva della terra nelle comunanze dell’Appennino marchigiano (#1)

Né privata né pubblica: la proprietà collettiva della terra nelle comunanze dell’appennino marchigiano
Di Luigi

Con questo articolo approfondiamo il tema delle proprietà collettive delle terre, presenti nelle zone montuose alpine e appenniniche con nomi e tradizioni diverse ma caratteristiche simili, conosciute nelle Marche come “comunanze”. L’articolo mette a fuoco il loro significato originario legato a un modello di vita comunitario e ne delinea il percorso storico dai tempi antichi ad oggi, in particolare per quello che hanno rappresentato nella costante lotta contro i poteri dominanti. Nei prossimi numeri ci proponiamo di ritornare sul discorso della proprietà collettiva, sul problema della riappropriazione e dell’accesso alla terra e sulle contraddizioni che nella società attuale pervadono un istituto come quello delle comunanze agrarie, fattosi spesso centro di potere clientelare, ormai ben lontano dall’antico e idealizzato spirito originario.

Cavalli al pascolo sui monti Sibillini
Cavalli al pascolo sui monti Sibillini

Di fronte ai disastri del liberismo da qualche tempo si fa un gran parlare di commons, di beni comuni e del loro governo. Tra questi rientrano quei territori di appartenenza collettiva, inalienabili e indivisibili, gestiti con modalità condivise e solidaristiche, che si presentano come espressione di autogoverno di una comunità. Né privata né pubblica, dunque, ma collettiva: un’altra forma di proprietà le cui origini risalgono a tempi antichi, largamente conosciuta nella storia e in una certa misura anche nel presente dell’appennino marchigiano. Il percorso storico della proprietà è infatti ben più accidentato di quanto possa apparire, disseminato di resistenze ed esperienze alternative e contrastanti il modello di proprietà privata come diritto soggettivo assoluto.

Queste esperienze si localizzano soprattutto nelle aree montane, su pascoli e boschi poco appetibili per l’avanzante agricoltura moderna, in zone impervie dove il mutuo appoggio è essenziale per fronteggiare le difficoltà della vita. La modalità di gestione collettiva delle terre non è solo un espediente tecnico o giuridico ma deriva dalle caratteristiche stesse della vita montana, in cui l’assetto comunitario è un valore preminente, superiore alle forme individualistiche. Questi terreni, come i beni collettivi in generale, non rispondono all’interesse esclusivo del dominus, del titolare della proprietà, sia esso una persona fisica o un ente, libero di sfruttarlo a suo vantaggio anche fino all’esaurimento della risorsa, ma vanno mantenuti per il bene della collettività, che comprende anche le future generazioni, e quindi salvaguardati.

La storia che vogliamo ripercorrere è quella della strenua difesa delle terre collettive e del modo di vivere comunitario contro le autorità succedutesi nei secoli. Forme che sono state spazzate via solo dal processo storico del capitalismo, che ha rotto i vincoli del vivere umano con la terra e in particolare con la montagna. Dal dopoguerra infatti, con lo svuotamento delle campagne in cambio di un salario garantito, di qualche aggeggio tecnologico con cui riempire la casa e del controllo poliziesco per le strade, si sono perse forme di autogestione e saperi millenari. Oggi, perciò, avvertiamo l’urgenza di recuperare una dimensione locale e comunitaria, la dimensione dell’autogoverno che pone in discussione ogni modalità di gestione verticistica e controllo statale. E, con essa, provare a ricostruire quei legami comunitari scardinati dalla società industriale, per ridare un senso autentico alla proprietà collettiva, senza ridurla ad un suo simulacro sottoposto a mire speculative o affidato a qualche ente di gestione.

I monti Sibillini
I monti Sibillini

Terre collettive e usi civici nelle Marche

Per cominciare vanno distinte due diverse situazioni: le “terre collettive” e le “terre gravate da usi civici”. Le prime possono essere in proprietà aperta, cioè appartenere a tutta la collettività stanziata su un determinato territorio, oppure in proprietà chiusa, cioè riservata solo a certi soggetti ovvero ai discendenti di sangue (in linea maschile fino a tempi recentissimi) degli antichi proprietari originari, con esclusione dei nuovi residenti. Negli usi civici invece la collettività può solo trarre delle specifiche utilità (pascolo, legna, prodotti del bosco, caccia e pesca, acqua) ma la proprietà del terreno è di qualcun altro, in tempi antichi del feudatario poi passata in genere al demanio comunale.

Mentre il dominio collettivo è un fatto sociale prima ancora che economico, l’uso civico non presuppone necessariamente una comunità, in quanto riferito ai singoli individui che possono soddisfare le proprie esigenze personali o familiari. Pur non sottovalutando l’importanza degli usi civici, con il loro corollario di lotte tra proprietari e titolari dei diritti, sono le terre collettive che ci possono suggerire una reale alternativa al modello economico dominante. Le forme più note e diffuse si trovano nell’arco alpino orientale, ma sono presenti anche nel resto della fascia alpina e in tutta la dorsale appenninica fino all’Abruzzo. Nonostante le similitudini, non sono assimilabili a un unico modello in quanto un grande peso hanno le specificità e le tradizioni locali. I nomi, poi, sono i più vari: regole (arco alpino orientale), favole e faole (Lombardia), vicinie e vicinanze (arco alpino centro orientale), consorterie (Val d’Aosta), partecipanze (Emilia e Romagna), comunaglie (Liguria), università agrarie (Lazio e appennino centrale), patriziati (Ticino).

Nelle Marche sono conosciute come comunanze: “le comunanze hanno un regime rappresentativo per le deliberazioni d’interesse generale e sono amministrate da due massari che fanno ricordare i due consoli dell’antichità; negli statuti è sempre una sapiente previdenza, affinché gli interessi dei singoli siano in armonia con quelli della collettività. Il dominio comune si tripartisce in bosco, pascolo e terra coltivabile. Nel bosco ognuno fa provvista del combustibile per consumo della famiglia e del legname da costruzione per usi domestici e agrari. Il pascolo si esercita nei boschi di alto fusto, nei cedui dopo il taglio, nei prati naturali dopo la falciatura, nei campi seminativi dopo il raccolto. Ogni famiglia ha in uso esclusivo, ma temporaneo, qualche appezzamento coltivabile. I prodotti dei tagli dei boschi e della falciatura dei prati si dividono tra i comunisti”[1].

Praticamente inesistenti lungo la fascia costiera fatta eccezione, là dove il monte arriva a picco sul mare, per quelle di Fiorenzuola di Focara e di Sirolo, le comunanze hanno avuto invece una notevole diffusione nelle zone altocollinari e nella montagna appenninica. Protette dall’inospitalità che la montagna riserva a chi non la sa vivere, queste forme di proprietà collettiva si sono mantenute e tramandate nei secoli, mentre laggiù, tra le fertili e accessibili pianure e in riva al mare, il progresso e la sua scienza economica modellavano un mondo di diseguaglianze. Nel 1884 l’Inchiesta Jacini registra nelle Marche 351 comunanze distribuite in 37 comuni, su una superficie di 22.000 ettari, oltre a 97 terreni con diritti d’uso. In buona parte erano localizzate nella zona montuosa dei Sibillini, tra le province di Macerata e Ascoli. Nell’anconetano vengono citate le comunanze di Arcevia, Fabriano, Genga e Sassoferrato, mentre in provincia di Pesaro si trovano concentrate nelle zone montuose meridionali, attorno ai monti Nerone e Catria (Apecchio, Cagli, Cantiano, Frontone, Pergola, Piobbico, Serra S. Abbondio, Urbania), occupando porzioni significative della superficie totale dei terreni, fino al 61% dei terreni comunali di Frontone e al 41,3% di Serra Sant’Abbondio (secondo una rilevazione di inizio anni ottanta del Novecento)[2]. Quasi assenti sono invece nel Montefeltro, per via di una differente storia politico-istituzionale.

Vittorio Danielli, Le proprietà collettive e gli usi civici d'Italia, 1898
Vittorio Danielli, Le proprietà collettive e gli usi civici d’Italia, 1898

Proprio questa differente distribuzione territoriale, nel confronto tra il Montefeltro e i Sibillini, ci consente di cogliere come la proprietà collettiva sia un fattore positivo sia per quanto riguarda il tenore di vita delle comunità locali, che anche in tempi difficili possono contare su una risorsa certa, sia per la salvaguardia dei suoli e dell’ambiente, sottratti per il bene comune alla dissipazione individualistica delle risorse: “nelle Marche esistono due montagne; una, particolarmente ed uniformemente povera e dissestata: quella montefeltrana, la quale, fra le altre sue specificità, fa registrare anche quella di essere priva di proprietà collettive; un’altra a discreta tenuta ambientale e con un tenore di vita per certi aspetti migliore di molte aree collinari ed urbane: e questa coincide con la montagna maceratese ed ascolana, fortemente connotata dalla presenza delle comunanze e dalla cultura ecosistemica delle comunità locali che le hanno difese e conservate”[3].

D’altra parte le proprietà collettive non rappresentano isole felici aliene dai mali di questo mondo. Avidità ed egoismo, laddove il vivere comune si degrada, portano alla necessità di regolamenti prescrittivi, forme di controllo, multe e guardie campestri. Oltre all’attacco dei notabili esterni che minano confini e diritti, le comunanze devono fronteggiare anche le conflittualità interne, con gli utenti più agiati che acquisiscono la forza per piegare a proprio vantaggio le regole tradizionali. Non che con questo si voglia avvalorare la tesi della “tragedia dei beni comuni”, sostenuta dall’economista Garrett Hardin e dai suoi epigoni, secondo la quale gli individui sarebbero incapaci di gestire beni comuni in quanto a prevalere è sempre l’interesse del singolo, con la conseguenza dell’inevitabile esaurimento delle risorse qualora non intervengano regole di buona amministrazione imposte dall’esterno[4]. Se non vogliamo chiamare in causa Elinor Ostrom, economista di ben altra levatura che ricevette il premio Nobel sostenendo tesi esattamente opposte, basta guardare le tante storie di autogestione dove la condivisione prevale sulla prevaricazione. E poi, in fondo, nell’improbabile ipotesi che avesse ragione Hardin, in confronto alla tragedia del tempo presente, non avremmo davvero nulla da perdere.

Il monte Acuto visto dal monte Catria
Il monte Acuto visto dal monte Catria

Breve storia di “un altro modo di possedere”

Le comunanze nascono in tempi antichi, certamente pre-romani: ab immemorabili si legge nei primi atti scritti. Per molti secoli hanno dovuto fare i conti con la permanente ostilità da parte dei poteri costituiti e dell’ordine giuridico dominante e resistere al variare degli ordinamenti politici e sociali, anche facendo dell’isolamento montanaro la propria forza.

I Romani tendevano a non sprecare denaro e legioni per imporre la loro legge in queste zone impervie, poco abitate, poco produttive: “col loro pragmatico buon senso – scrive Joyce Lussu – avevano capito che non conveniva spingere alla disperazione e alla guerriglia le comunità che vivevano nei fortilizi naturali della montagna, con una padronanza del terreno che avrebbe messo in difficoltà anche un esercito molto agguerrito. Per cui, nelle Marche e altrove, si contentavano di ghettizzarle circondandole a valle con solide e fedeli colonie, e spesso non si preoccupavano nemmeno di pretendere il versamento di tasse, che sarebbero state comunque assai scarse e faticose da riscuotere”[5].

In epoca medievale le proprietà collettive cominciano a perdere i primi pezzi. Non è facile per le comunità resistere alle mire di feudatari, principi, comuni e signorie e se in alcuni casi mantengono tenacemente la propria autonomia, in altri in cambio di protezione assoggettano se stesse e le proprie terre al signore, al comune o all’autorità ecclesiastica, rimanendo con in mano il solo diritto d’uso delle stesse. È d’altra parte in questo periodo che si iniziano a raccogliere in forma scritta le norme consuetudinarie poste a fondamento delle comunità locali. In età moderna gli Statuti tramandano le regole, spesso assai dettagliate, sull’uso dei beni comuni e ciò che si era salvato delle comunanze riesce a mantenere la propria specificità mentre il volto agricolo delle Marche viene modellato dal regime mezzadrile che pervade e disegna l’intero territorio regionale, con i suoi contadini sottomessi al proprietario terriero e al fattore, attaccati con la propria famiglia al podere, dediti al lavoro e, più tardi, perfino orgogliosi di star meno peggio del bracciante.

Più in generale, lungo il corso dei secoli il processo di affermazione del modello capitalista in agricoltura va privando la tradizionale economia contadina dei diritti comunitari sulle terre e troverà il suo compimento quando riuscirà a gettare sul mercato una classe di proletari senza terra, adatti al funzionamento della fabbrica moderna. Se fino al Seicento permane in larga parte l’antica autonomia e le comunanze godono ad esempio di totale franchigia fiscale, successivamente l’aumento delle imposte è una delle leve per intaccare l’uso collettivo delle risorse: per farvi fronte si affittano i pascoli, si vende la legna, si spartiscono tra privati le terre agricole più fertili, si compromettono porzioni di bosco pur di coltivare e monetizzare.

Comunanze in provincia di Pesaro e Urbino
Comunanze in provincia di Pesaro e Urbino
Comunanze in provincia di Ancona
Comunanze in provincia di Ancona

A livello organizzativo, fino a metà Settecento tutto il potere decisionale è nelle mani dell’assemblea degli utenti (solo in casi eccezionali le deliberazioni vengono fissate dal notaio) poi, nel secolo successivo, la fisionomia cambia: la parola d’ordine diventa razionalizzare, la gestione burocratica e fiscale si complica, necessitando di nuove figure, istruite, che verbalizzino le sedute, tengano i libri contabili, regolamentino gli affitti e che man mano acquisiscono potere a scapito degli organi di autogestione democratica. Ecco nascere un vero e proprio corpo burocratico presto egemonizzato dalla borghesia cittadina. D’ora in poi, di fatto, le assemblee si limiteranno a eleggere gli amministratori: “a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento, alle assemblee degli utenti si sono sovrapposti organi ristretti con poteri di decisione e gestione, e gli affari relativi ai beni collettivi non si decidono più nelle adunanze plenarie sui prati e sotto i faggi di montagna, ma dai vertici amministrativi nelle residenze municipali e nelle case cittadine”[6].

La cultura giuridica ottocentesca affonda il colpo di grazia sulle proprietà collettive. Se la legge serve a codificare i rapporti di forza sociali, facendosi specchio di una società liberale e liberista, il destino della proprietà collettiva non può che essere l’emarginazione giuridica e ancor prima ideologica. Un’avversione verso comunanze e istituti simili, come ammette l’economista Ghino Valenti, dettata “dalla paura, diciamolo senz’ambagi, di fare una concessione, di cui il socialismo possa in avvenire giovarsi per raggiungere i suoi sconfinati ideali”[7].

La civiltà del diritto generata dalla Rivoluzione francese si incentra infatti sulla sacralità della proprietà privata individuale. La dimensione collettiva è respinta in quanto perturbatrice dell’ordine politico su cui si regge lo spirito del tempo e la presenza di consuetudini d’uso da parte della popolazione locale sui terreni viene vista come un retaggio di organizzazione feudale e un ostacolo alla moderna politica agricola. Lo smantellamento della proprietà collettiva prosegue con la legislazione civile napoleonica di inizio Ottocento, volta a ricondurre in proprietà comunale, amministrata dal Municipio, tutti i terreni fino allora goduti autonomamente dalle collettività. Per quanto riguarda i territori storicamente sottoposti allo Stato della Chiesa, come le Marche, grava nel 1801 il motu proprio di Pio VII per la demanializzazione e vendita dei beni collettivi, che però riesce solo marginalmente a intaccare i territori delle comunanze, anche per via della vigorosa resistenza messa in opera dalle comunità locali: “gran parte del brigantaggio attivo sulla montagna ascolana fra età napoleonica ed unificazione nazionale è motivato, fra l’altro, proprio dalla volontà di difendere comunanze o usi civici”[8].

Dal momento dell’unificazione italiana lo smantellamento prosegue inesorabile. Durante i lavori per l’Inchiesta Jacini (Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola) diverse rappresentanze comunali chiedono senza mezzi termini al regio commissario “di tagliare alle radici l’antica pianta e di far sparire le comunanze insieme coi diritti d’uso […] invocando dottrine di economia politica allora indiscusse, e l’interesse dei loro bilanci”[9]. Il concetto è ribadito dallo stesso Stefano Jacini nella relazione finale dell’Inchiesta in cui chiede al ministero “che venga affrettata la liberazione completa, non solo di nome ma anche di fatto, della proprietà rurale dai vincoli e gravami che la inceppano in più modi”[10]. Nella smania di abolire le collettività che permea la cultura giuridica del periodo va detto che si registra qualche eccezione tra giuristi, economisti e sociologi eterodossi, i quali riconoscono almeno il diritto di esistenza a queste forme alternative di proprietà, sempre, ben inteso, che non mettano in discussione il sistema generale della proprietà capitalista. Così ad esempio, viene fuori il provvedimento del 1894 sull’Ordinamento dei domini collettivi nelle Province dell’ex Stato Pontificio, presto reso inefficace, che in sostanza riconosceva la legittima esistenza della proprietà collettiva riconducendola sotto la tutela dello Stato.

Si è ormai capito che il dominio totalitario dello Stato e del mercato avanza a grandi passi, non risparmiando neppure quelle terre appenniniche che l’isolamento aveva protetto nei secoli. La legge fascista del 1927 sul “riordinamento degli usi civici” pretende di uniformare in un unico calderone situazioni e tradizioni diverse per cancellare tutto con un solo colpo di mano, anche se nella pratica le nuove figure dei Commissari “per la liquidazione degli usi civici” riusciranno a liquidare ben poco. Più tardi, con le “leggi sulla montagna” del 1952, 1971 e 1994 e con il Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004, la strategia dei poteri dominanti si affina non puntando più alla brutale soppressione dell’anomalia ma al suo recupero all’interno dell’ordinamento, come istituti tradizionali da tutelare, salvaguardare e valorizzare economicamente.

Terreni sul Monte Catria
Terreni sul Monte Catria

Comunanze senza comunità

Ingabbiare quegli antichi assetti collettivi e comunitari nel costume troppo stretto del sistema politico moderno, facendo calare dall’alto forme giuridiche che appartengono a una cultura estranea e nemica, è un’operazione impossibile se non snaturandoli, ma necessaria all’autorità pubblica per esercitare forme di controllo.

Come dicevamo in apertura, la proprietà collettiva ha senso fintanto che esiste una comunità legata da un vincolo solidaristico e spontaneo, ma nel momento in cui viene a perdersi il legame con quegli specifici uomini e donne per fare riferimento a un cittadino in astratto, essa smarrisce il suo valore sociale. Nel mondo della merce la comunanza diventa un’azienda agro-silvo-pastorale che di valore conosce solo quello dei registratori di cassa, come se la sua giustificazione stesse nella produttività (ambientale, turistica, economica) che dimostra con una oculata gestione imprenditoriale. Le terre non più direttamente utilizzate vengono sfruttate magari affittandole a grandi allevatori o a industrie del legname ed ecco che la montagna casca dalla padella dell’abbandono alla brace dello sviluppo capitalista che ne fa mera appendice delle aree urbane. Quando, poi, si inizia a pensare alla valorizzazione dei territori come nicchie gastronomiche il cerchio si chiude: le loro tipicità le ritroveremo esposte sugli scaffali delle neomoderne boutique del gusto.

Il lago di Pilato sui monti Sibillini
Il lago di Pilato sui monti Sibillini

Bibliografia:

Atti del convegno nazionale sulle comunanze agrarie e le terre dei comuni, con particolare riferimento all’appennino centrale: situazione attuale e prospettive future: Macerata, 3 ottobre 1970, [S.l., s.n., 1970?].

Francesco Bonasera, Le “comunanze agrarie” nelle Marche: considerazioni geografiche, «Annali della Facoltà di Economia e commercio [dell’Università di Palermo]», 33(1979), n. 2-3, p. 217-232.

Carla Catolfi,  Le comunanze agrarie nella transizione al Novecento, in Nelle Marche centrali: territorio, economia, società tra Medioevo e Novecento: l’area esino-misena, a cura di Sergio Anselmi, [S.l.], Cassa di Risparmio di Jesi, 1979, v. 2, p. 1428-1473.

Vittorio Danielli, Domini collettivi ed usi civici della provincia di Pesaro ed Urbino, Senigallia, Tip. Puccini e Massa, 1908.

Vittorio Danielli, Le proprietà collettive e gli usi civici d’Italia: storia legislazione e dottrina con raffronto alle origini e vicende delle comunanze agrarie della provincia di Pesaro e Urbino, Pesaro, Nobili, 1898.

Gaspare Finali, Le Marche: ricordanze, Ancona, Morelli, 1896 (rist.: [Pesaro], Istituto per la storia del Risorgimento italiano-Comitato di Pesaro e Urbino, 2010).

Garrett Hardin, The Tragedy of the Commons, «Science», 1968, n. 162, pp. 1243-8.

Fondazione Medit Silva, Studi e ricerche sugli ordinamenti statutari delle proprietà collettive presenti nella Regione Marche e nell’Appennino centrale, Ancona, Consiglio Regionale delle Marche, 2013.

Olimpia Gobbi, Le Comunanze dei Sibillini fra XVII e XIX secolo: uso delle risorse e conflitti d’interesse, «Proposte e ricerche», 1994, n. 32, p . 65.

Olimpia Gobbi, Le terre collettive nell’esperienza delle comunanze agrarie marchigiane, «Archivio Scialoja- Bolla», 2004, n. 2, p. 97-123.

Paolo Grossi, “Un altro modo di possedere”. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, Giuffrè, 1977.

Massimo Guidetti, Paul H. Stahl, Un’Italia sconosciuta: comunità di villaggio e comunità familiari nell’Italia dell’800, Milano, Jaca Book, 1977.

Inchiesta Jacini. Atti della Giunta per la inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, v. 11: Relazione del commissario marchese Francesco Nobili-Vitelleschi, senatore del Regno, sulla V circoscrizione, t. 2: Provincie di Perugia, Ascoli-Piceno, Ancona, Macerata, e Pesaro, cap. 17: [Ghino Valenti], La proprietà collettiva nella zona montana, p. 487-516, Roma, Forzano, 1884 (rist.: Sala Bolognese, Forni, 1987); v. 15.1: Relazione finale sui risultati dell’Inchiesta, Roma, Forzani, 1884 (rist.: Sala Bolognese, Forni, 1988).

Indagine preliminare per lo studio delle comunanze agrarie dell’Appennino umbro-marchigiano, [a cura dell’Istituto Policattedra di Geografia], Rimini, Maggioli, 1983.

Corrado Leonardi, Ville e comunanze nella corte di Casteldurante nei sec. XIII-XVI, in Uomini, insediamenti, territorio nelle Marche dei secoli XIII-XVI, Ancona, Deputazione di storia patria per le Marche, 1981, p. 267-318.

Joyce Lussu, Le comunanze picene: appunti e immagini tra storia e attualità, Fermo, Andrea Livi, 1989.

Joyce Lussu, Tra comunità e comunanze all’ombra della Sibilla: divagazioni picene, «Proposte e ricerche», 1988, n. 20, p. 111-116.

Ghino Valenti, Il rimboschimento e la proprietà collettiva nell’Appennino, Macerata, Stab. tip. Mancini, 1887.

Comunanze agrarie tra Marche e Umbria
Comunanze agrarie tra Marche e Umbria

[1] G. Finali (1896), Le Marche, p. 162-163.

[2] Cfr. Inchiesta Jacini (1884), v. 11, t. 2, cap. 17; Indagine preliminare (1983).

[3] O. Gobbi (2004), Le terre collettive, p. 123.

[4] G. Hardin (1968), The Tragedy of the Commons.

[5] J. Lussu (1989), Le comunanze picene, p. 31.

[6] O. Gobbi (1994), Le Comunanze dei Sibillini, p . 65.

[7] G. Valenti, Il rimboschimento e la proprietà collettiva, p. 82.

[8] O. Gobbi (2004), Le terre collettive, p. 101.

[9] G. Finali (1896), Le Marche, p. 162.

[10] Inchiesta Jacini (1884), v. 15, t. 1, p. 100.

Il mare di Ventimiglia (#1)

Il mare di Ventimiglia
Di Rafael

Neanche ci vengono le parole, per dire qualcosa di umano e sensato rispetto a quello che sta accadendo alle frontiere dell’Unione Europea. L’orrore e la rabbia riempiono i pensieri e strozzano la voce. Forse, elencare uno per uno i nomi dei morti, bambini, donne, uomini di ogni provenienza, servirebbe almeno a rendere loro omaggio. Tuttavia esistono anche atti di resistenza, come i presidi permanenti contro le frontiere che stanno nascendo là dove lo scontro per la libertà di circolazione sta aumentando la sua intensità. Tre compagni/e delle Marche nel mese di agosto hanno ricevuto un foglio di via da Ventimiglia per il loro impegno a fianco di chi vuole la libertà. Anche le Marche sono attraversate dai movimenti migratori: da un lato c’è il porto di Ancona, da sempre porta di passaggio, da troppi anni anche prigione e spesso tomba di migranti. Dall’altro l’accoglienza sul territorio di profughi e richiedenti asilo ha portato nelle città e nei paesi dei volti, delle storie nuove, delle domande, lo stimolo a guardare il mondo in faccia. I razzisti li attaccano con viltà, noi vogliamo dir loro “benvenuti e benvenute”.

Ventimiglia, luglio 2015 - Foto di Michele Lapini
Ventimiglia, luglio 2015 – Foto di Michele Lapini

 

È un mare bellissimo quello di Ventimiglia. Quello non lo possono separare. Ogni disegno sopra l’acqua dura il tempo di un’onda. La terra invece viene divisa in tanti, grandi e piccoli appezzamenti. Stati, Unioni di Stati, Stati Uniti. E ancora, proprietà privata, pubblica, statale.

Succede che a Ventimiglia due Stati della stessa Unione non si mettano d’accordo sul transito delle persone. I solenni accordi dell’Unione si infrangono sugli scogli, e una manciata di donne e uomini lo rendono evidente con un gesto: restare, per non tornare indietro, per poter continuare ad andare avanti.

Due Stati dicevamo. Erano tutti d’accordo che all’interno dell’Unione non ci sarebbero stati più confini. Fuori sì, mura alte come nessuna civiltà aveva mai eretto, ma dentro le persone erano libere di muoversi.

Fuori però nel frattempo succedono tante cose e si sa, anche le mura più solide hanno dei passaggi.

Ventimiglia, manifestazione No Border - Foto di Michele Lapini
Ventimiglia, manifestazione No Border – Foto di Michele Lapini

 

Chi era fuori ora è dentro e fra gli Stati dell’Unione regna la confusione. Ritornano i confini, ritornano le guardie di confine e tutto il vecchio armamentario dell’assedio. Nuove-vecchie mura tornano a separare, ed è così che si riscoprono vecchi sentieri partigiani, strade romane dove passeggiare, ponti ferroviari da scalare.

Si presidia il confine a Ventimiglia. Per ribadire che quelle mura devono cadere, dentro e fuori. Per supportare materialmente chi ha deciso di restare e chi decide di andare. Si cucina insieme, c’è chi sta e c’è chi passa. Anche qui, come in altri luoghi, si impara insieme ad aggirare i posti di blocco. Non bisogna farsi identificare da queste parti. Ci identificano lo stesso, non tutti però.

La polizia guarda il presidio e cerca di capire chi, tra quelli che sono dentro “di diritto” sta con quelli che erano fuori, e che però adesso sono dentro. Li lasciamo guardare, non ha importanza. Come l’acqua del mare ci scuotiamo appena. Ci scostiamo, passiamo.

Passiamo pomeriggi a fare il bagno nella spiaggia dei ricchi. Insieme impariamo a nuotare, può servire anche questo. Ai ricchi non piace troppo vederci divertire, non capiscono come si possa, noi e loro, condividere lo stesso mare. Ma il mare non lo possono separare.

Ieri abbiamo fatto assemblea. Non è stato facile, si parlavano tante lingue. Abbiamo parlato delle guardie. Dicono che ce ne dobbiamo andare, dove non si sa, noi in stazione non ci vogliamo tornare. Dicono che sennò ci identificano, ma tanto lo fanno lo stesso.

Abbiamo deciso di stare, restare, resistere. Anche andando insieme alla spiaggia dei ricchi, o in stazione dove tanti non sanno dove andare. E allora si va a dare qualche indicazione. Noi siamo al confine, veniteci a trovare. Di là si può andare, cercate di non pagare.

Impariamo a essere acqua. Seguire il flusso, senza curarsi troppo degli ostacoli. Aggirare i blocchi per l’acqua non è difficile, non ci possono fermare.

E i ricchi, e le guardie, gli Stati e le Unioni, non sanno bene che fare.

Le ore scorrono lente sotto questo sole.

I ricchi hanno le barche, l’aria condizionata e il prosecco.

Noi pensiamo a stasera, a domani.

Ci organizziamo.

Là gli scogli, poi il mare. Ci sono vicini, ci accolgono in questo stare, ci accompagnano nel nostro andare. C’è da far cena, c’è da scendere in stazione dopo.

Facciamo finta di non sentire l’elicottero, di non vedere i borselli della digos.

Ci prepariamo alla mareggiata, i confini cadranno.

Ventimiglia, luglio 2015, presidio permanente No Border - Foto di Michele Lapini
Ventimiglia, luglio 2015, presidio permanente No Border – Foto di Michele Lapini

 

Links utili per approfondire:

Blog del Presidio Permanente di Ventimiglia
http://noborders20miglia.noblogs.org/

Blog di Eat The Rich e Ventimiglia Border Kitchen
http://reteeattherich.noblogs.org/

Ventimiglia, luglio 2015, presidio permanente No Border - Foto di Michele Lapini [2]
Ventimiglia, luglio 2015, presidio permanente No Border – Foto di Michele Lapini [2]

Padiglione zero (#1)

Padiglione zero
Di Valentina

Le esposizioni mondiali trasfigurano il valore di scambio delle merci; creano un ambito in cui il loro valore d’uso passa in secondo piano; inaugurano una fantasmagoria in cui l’uomo entra per lasciarsi distrarre. L’industria dei divertimenti gli facilita questo compito, sollevandolo all’altezza della merce.
Walter Benjamin, I “passages” di Parigi

Padiglione Zero
Padiglione Zero

 

Sono stata all’Expo e non serve girarsela tutta, basta vedere un padiglione, il “padiglione zero”.
Mi è servito più quello che qualsiasi incontro promosso dalla rete No-Expo.
È stato concepito come la porta d’ingresso dell’esposizione, dove circa il 70% dei visitatori passeranno. È il padiglione che racconta la filosofia dell’Expo di Milano e lo scopo primo dell’installazione è quello di emozionare, perché come ha dichiarato uno dei curatori “le persone che si emozionano sono molto più ricettive. La meraviglia é la più grande forma di conoscenza che possediamo”.

E ci sono ampiamente riusciti, il padiglione ti sovrasta, ti stupisce e ti accoglie in questo viaggio virtuale all’interno di una porzione di crosta terrestre, un viaggio nella storia dell’uomo dal punto di vista dell’alimentazione e dell’agricoltura.

È immenso (circa 9000 mq), irregolare e altissimo. Una sorta di tempio, perché sempre a detta dei curatori “il concetto di sacralità e di profondo rispetto verso la terra ha guidato la predisposizione del padiglione” e questo intento è immediatamente dichiarato sin dall’ingresso, sulla cui facciata troneggia una famosa definizione dell’agricoltura data da Plinio: “Divinus halitus terrae” (il divino respiro della terra).

Entrati nell’antro della terra, si perdono immediatamente le coordinate spaziali e temporali, tutto è fuori misura, straordinariamente affascinante e spettacolare. La prima sala tematica che si incontra è L’Archivio della memoria, un’enorme biblioteca di legno con infiniti cassetti che racchiudono idealmente tutti i saperi millenari e usanze alimentari dell’uomo. Si accede poi in una sala al cui interno svetta un albero di 23 metri che buca il soffitto proprio a rimarcare la supremazia della natura sull’uomo, mentre sul più grande videowall mai realizzato (21 metri per 50) viene proiettato il filmato di Mario Martone, Pastorale cilentana, una sorta di armonioso dialogo tra l’uomo e la natura.

La visita prosegue attraverso stanze con installazioni, dedicate alla natura e agli animali, che incantano e rimarcano l’alleanza tra l’uomo e la natura; un’alleanza che culmina nella Valle della civiltà, un’agorà con al centro un tavolo che rappresenta la Pangea costruito con legno kauri, il più antico legno al mondo, una rarità datata 48.000 anni fa.

Expo, Padiglione zero
Expo, Padiglione zero

 

Attraversando una grande anfora iconica, si è catapultati nella modernità, il passaggio è segnato da un plastico della superficie di circa 320 metri quadrati, che mostra come l’uomo, dalla rivoluzione industriale in poi, abbia spezzato l’alleanza con la natura e abbia influito pesantemente sulle modifiche dell’ambiente cambiando anche il modo di produrre il cibo.

La contemporaneità infatti è rappresentata dalla Borsa mondiale del cibo allestita su 650 schermi che ti annientano e ti impressionano, sui quali scorrono le oscillazioni dei prezzi degli alimenti accompagnate da scritte come “lo sfruttamento energetico e la speculazione finanziaria sono le cause dello squilibrio tra gli uomini”.

Qui la parola è speculazione”, spiegano i curatori. Subito dopo ci sono montagne di cibo, lo spreco. Attraverso piccole fessure, si scorge poi quello che l’uomo tende a dimenticare: le immagini di catastrofi ed eventi naturali ti entrano dentro con una violenza inaudita.

Ma subito dopo arriva l’armonia: piccole comunità rurali e sostenibilità agricola. Si vede su un altro schermo gigante tutto ciò che di bello c’è e si può fare al mondo rispettando l’ambiente ed infine, nell’ultima stanza, quella delle Buone pratiche vengono presentati i migliori 5 progetti per lo sviluppo alimentare promossi dall’ONU.

Stupore, emozione, memoria e colori. Esci dal padiglione e quasi hai voglia di applaudire, bravi ti viene da pensare, stiamo andando tutti nella stessa direzione, il pianeta presto sarà un posto migliore. Denunciano la speculazione finanziaria, parlano di buone pratiche e di comunità rurali sostenibili…

Questo per qualche secondo, poi sale la rabbia, sento il bisogno di scrollarmi di dosso quello che ho visto. Ricollocarmi nel tempo e nello spazio, non farmi sovrastare da quella parte emozionale-irrazionale che mi ha guidato per tutta la visita. E dopo la rabbia per vedere che si sono appropriati di nostre istanze, facendole proprie, arriva l’amaro, perché l’indebita appropriazione e la conseguente narrazione gli è riuscita ed anche bene. Una perfetta opera di marketing, dispongono di risorse e mezzi, vincono illudendo, ma di fatto spendono più per farne un visionario ideale che un percorso reale, con la complicità di chi parla e pratica l’eco-sostenibilità.

Sull’Expo hanno vinto loro: Monsanto, Coca Cola, McDonald’s… non c’è dubbio.

Expo insegna: la devastazione e il saccheggio come modalità di governo (#1)

Expo insegna: la devastazione e il saccheggio come modalità di governo
Di Gianluca

Primo Maggio 2015, Milano, corteo No Expo - Foto di Michele Lapini
Primo Maggio 2015, Milano, corteo No Expo – Foto di Michele Lapini

 

Sei mesi di Expo, ormai prossimi alla conclusione, possono darci una chiave di lettura del presente. Questa grande fiera dello sfruttamento e dell’ipocrisia, passerella luccicante del capitale e delle sue pratiche predatorie, ha retto l’urto dello scandalo a seguito delle inchieste per corruzione e malaffare, mentre i movimenti non sono riusciti ad inficiarne la retorica paternalistica e trionfalistica.

Dopo la fiammata del 1° maggio il nulla. Un incendio isolato, ripiegato su se stesso, come un fiore che nasce, cresce ed appassisce in un sol giorno. A seguire il deserto. Disgregazione diffusa e totalizzante per un movimento che arranca dietro a se stesso e ai propri fantasmi. Nel frattempo, dall’altra parte della barricata, il nemico ha sperimentato il nuovo assetto che vuole imprimere al paese. L’esposizione universale va letta non solo come lo specchio di un paese sotto attacco, dunque, ma può diventare la cartina di tornasole per una guerra che è già cominciata e di cui vanno colte le implicazioni e le possibili strategie di contrasto. Niente, o molto poco, resta da difendere: tutto da conquistare, da reinventare. A partire dalle diverse sacche di resistenza anticapitalista che, nonostante tutto, continuano ad avere la forza e la potenzialità per imporre una rottura, una battuta d’arresto. Non è l’unità a tutti i costi ciò che serve ai movimenti, ma un linguaggio in comune ed una definizione chiara di chi è il nemico e degli obiettivi che si pone. L’Expo non è solo la fotografia nitida di ciò che le classi subalterne hanno subito negli ultimi anni, ma principalmente una dichiarazione d’intenti: un futuro negato in un paese totalmente ristrutturato.

Primo Maggio 2015, Milano, distruzione creativa - Foto di Michele Lapini
Primo Maggio 2015, Milano, distruzione creativa – Foto di Michele Lapini

 

La capacità di leggere questa sottile differenza potrebbe essere la condizione per proiettarci in avanti, al di là del grande evento, oltre una sconfitta che rischia di fagocitare anni di esperienze maturate nelle lotte contro le grandi opere. Perché a voler guardare bene la sfida che ci si pone è il sabotaggio di una sola grande opera: un unico, enorme, articolato modello di accumulazione, che allo sfruttamento del lavoro accompagna il saccheggio dei territori, dotandosi di una pratica politica autoritaria che non ammette intralci. Sentiamo infatti ripetere continuamente che il paese sta cambiando e non ci si possono permettere battute d’arresto. Il governo delle grandi intese non si stanca di ripeterci che il mondo ci guarda e non possiamo permetterci brutte figure. Da qui lo scandaloso accordo con i sindacati confederali che hanno accantonato il diritto di sciopero nei sei mesi precedenti l’esposizione e durante l’intera durata della stessa. Medesima retorica, possiamo affermarlo oggi, con cui si annuncia la stretta sugli scioperi perché, dal sito archeologico di Pompei al settore dei trasporti, non si possono creare disagi in un momento così delicato. Bisogna sacrificare, ancora, dignità e vita al supremo interesse della ripresa economica.

Lo si diceva anche per la TAV ed oggi non ci crede più nessuno: non possiamo fermare il progresso per le rivendicazioni di qualche montanaro affezionato alla propria terra e alla propria salute. L’analogia tra il modello TAV e il modello EXPO sta tutta qui: imporre la trasformazione dei territori, sacrificarne gli interessi degli abitanti ed impedirne ogni rivendicazione attraverso la militarizzazione e la santificazione politico-mediatica di grandi opere e grandi eventi. A questo modello dobbiamo guardare come al nuovo modus operandi della classe dirigente, una sorta di colonialismo interno che dopo la mercificazione dei beni comuni mira alla conquista della terra e alla sua svendita agli interessi del grande capitale.

Primo Maggio 2015, Milano, corteo No Expo - Foto di Michele Lapini
Primo Maggio 2015, Milano, corteo No Expo – Foto di Michele Lapini

 

La gentrificazione e lo sventramento dei quartieri popolari ad uso e consumo di residence e centri commerciali, le trivelle lungo tutta la dorsale adriatica, la TAV, il ruolo delle grandi cooperative che in cambio della gestione dei mega appalti ricevono in pasto i diritti dei lavoratori: la grande opera da fermare è tutta in questo modello coperto dalla retorica dell’interesse nazionale al di sopra di tutto e tutti. Sabotare queste sperimentazioni è un compito arduo ma non demandabile, per soddisfare l’aspirazione a stravolgere lo stato di cose presenti.

Torna alla mente, di nuovo, il 1° maggio milanese. E viene da pensare che nell’isolamento e nella dispersione in cui annaspano i movimenti, si ha sempre più bisogno di certe fiammate. Quantomeno per restituire a chi non è più disposto a subire e temporeggiare la consapevolezza che possiamo sabotare prima di tutto questa atmosfera di calma apparente. In fondo agli annunci trionfalistici del nemico, dietro al velo delle sue menzogne, risiede un po’ della nostra verità. Va tutto bene, sentiamo echeggiare ovunque. Sappiamo che non è vero ed è nostro il compito di generalizzare questa consapevolezza. Di fronte a ciò, il grido di rabbia e disperazione del primo maggio, seppure soffocato nella narrazione tossica dei media mainstream e dal retrocedere di pezzi di movimento terrorizzati dalle conseguenze delle proprie aspirazioni rivoluzionarie, è un sussulto di dignità che irrompe in un quotidiano avvilente e ci indica una strada. Non certo l’unica, ma quantomeno un segnale che può essere colto da chi sente l’esigenza di rispedire al mittente la paura e l’incertezza per un futuro insondabile ed un presente negato.

Primo Maggio 2015, Milano, corteo No Expo - Foto di Michele Lapini
Primo Maggio 2015, Milano, corteo No Expo – Foto di Michele Lapini

Trivelle in Adriatico (#1)

Trivelle in Adriatico
Intervento di Augusto De Sanctis

Fig. 1 - Critical mass No Ombrina, Pescara, 19 maggio 2015
Fig. 1 – Critical mass No Ombrina, Pescara, 19 maggio 2015

 

Il mare Adriatico, dalla Puglia all’Emilia-Romagna, si trova al centro di una serie di progetti energetici che riguardano in particolare l’installazione di piattaforme per l’estrazione di idrocarburi e le perforazioni per lo stoccaggio in profondità di biossido di carbonio prodotto dalle emissioni industriali, con tutto il corollario di impianti di gestione e di logistica. Anche senza doversi interrogare su cosa farne dell’energia, di quanta e per quale modello di sviluppo ne dovremmo avere bisogno, è evidente che progetti di questo tipo presentano un significativo impatto inquinante sull’ambiente, tanto più in un mare piccolo e chiuso come l’Adriatico, oltre a fattori di rischio non prevedibili. In gioco ci sono grandi profitti per le multinazionali che fanno girare l’economia del petrolio, agevolati dal decreto Sblocca Italia del governo Renzi che individuando in questi progetti delle attività “di interesse strategico nazionale” li impone dall’alto ai territori e alle comunità che vi abitano.

Dopo il corteo abruzzese del 23 maggio 2015 che ha visto sfilare a Lanciano sessantamila persone, anche nelle Marche sono partite le mobilitazioni per cercare di impedire l’ennesima devastazione ambientale. Per informare su quanto sta accadendo di fronte alle nostre coste e organizzare la resistenza si sono svolte assemblee pubbliche molto partecipate e stimolanti in diverse località marchigiane. Riteniamo importante costruire un’opposizione dal basso a questa grande opera, inutile per le nostre vite e dannosa per il territorio, ma allo stesso non dimenticare la pluralità delle lotte per l’ambiente e la salute che, benché su scala minore, necessitano del nostro impegno e della nostra azione.

Non riponiamo fiducia nelle battaglie condotte a suon di ricorsi amministrativi e carte bollate e nessuno riuscirà a convincerci che le istituzioni locali possano essere nostre alleate, così come non ci interessa porci su un piano prettamente tecnico-scientifico per confutare le affermazioni degli specialisti del petrolio e dimostrare la nocività dei loro progetti. Ci ostiniamo però a voler ostacolare con ogni mezzo i disegni di dominio del capitalismo, tanto più nella sua forma industriale, e per questo siamo interessati ad approfondirne la conoscenza. Su questo numero di Malamente pubblichiamo la trascrizione dell’intervento di Augusto De Sanctis, attivista del coordinamento “No Ombrina”, registrato durante l’assemblea del 1° luglio al Parco del campo d’aviazione di Fano.

Fig. 2 - Critical mass No Ombrina, Pescara, 19 maggio 2015
Fig. 2 – Critical mass No Ombrina, Pescara, 19 maggio 2015

 

Buonasera a tutti, questa è già la quarta volta che vengo nelle Marche e sono molto contento del movimento che si sta sviluppando attorno a questi temi. Io vorrei questa sera illustrare, anche da un punto di vista un po’ tecnico, la problematica della deriva petrolifera che i governi da Monti in poi, fino a Renzi, stanno cercando di implementare e imporre sui territori. Vi invito intanto a visitare i nostri siti e le nostre pagine (https://stopombrina.wordpress.com). Per la manifestazione di maggio a Lanciano ci siamo inventati anche un photo contest e ovunque le persone andavano, dall’Argentina a Cuba, dalla Malesia all’Islanda, ci mandavano foto con cartelli con scritto “No ombrina”; addirittura una persona si è portata dietro la bandiera “No ombrina” e si è fatta un percorso in bicicletta, passando peraltro anche da qui, per arrivare fino in Croazia.

In generale, per noi è importante studiare e approfondire, poi però andiamo sempre nelle piazze. Durante la conversione in legge del decreto Sblocca – io lo chiamo Sporca – Italia siamo stati in sit-in davanti a Montecitorio. Io rivendico questo passaggio, credo sia un passaggio fondamentale per i prossimi anni del movimento ambientalista in Italia, perché in quella mobilitazione ci siamo incontrati con diverse centinaia di persone provenienti da tutta Italia per farci sentire non solo rispetto alle trivellazioni ma anche su tanti altri temi, dal momento che il decreto parla non solo di petrolio, ma anche di gasdotti, di stoccaggio gas, di bonifiche, di privatizzazione dell’acqua e chi più ne ha più ne metta.

Lo Sblocca Italia è nato ad agosto dell’anno scorso. Il 3 agosto Renzi aveva detto più o meno così: “farò un decreto che sbloccherà l’Italia, solo che purtroppo non posso farlo subito, l’avrei voluto fare oggi, ma prima devo sentire le persone” e quindi apre alla partecipazione. Allora, io che voglio essere un buon cittadino che partecipa, sono andato sul sito del governo e ho cercato il materiale su cui esprimermi. Sul sito, su questo decreto, c’era solamente una pagina scarsa con elencati dieci punti: “Sblocca porti”, “Sblocca autostrade” e giusto due righe di spiegazione; anzi lo “Sblocca porti” non aveva neanche due righe di spiegazione, c’era scritto “Sblocca porti” e basta. Al che io ho mandato un’email per richiedere il materiale. L’indirizzo a cui mandarlo era, non sto scherzando: rivoluzione@governo.it. Nessuno ha risposto alla mia richiesta e il materiale non me l’hanno mandato. È interessante notare che a quanto pare nessuno della stampa abbia fatto il mio stesso percorso, avrebbero potuto far fare una figura meschina a questo governo.

Perché il decreto Sblocca Italia costituisce un punto focale della politica aggressiva del governo sui territori? Ora non ve lo leggo tutto, ma soffermiamoci sull’articolo 38, “Misure per la valorizzazione delle risorse energetiche nazionali”: “al fine di valorizzare le risorse energetiche nazionali e garantire la sicurezza degli approvvigionamenti del Paese, le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale rivestono carattere di interesse strategico e sono di pubblica utilità, urgenti e indifferibili”. In questo articolo si dice che qualunque giacimento del paese di idrocarburi, quindi metano e olio, è di interesse strategico nazionale, è di pubblica utilità e anche tutto quello che si trova intorno diventa di pubblica utilità. E quindi si deve fare. Noi abbiamo subito commentato questo passaggio dicendo che è paradossale che il paese del sole, il paese dei beni artistici, delle bellezze paesaggistiche, veda come strategico il petrolio e non i nostri ulivi, le nostre vigne, il nostro paesaggio, che invece vengono tutti dopo lo sviluppo petrolifero.

L’articolo precedente, il 37, dice una cosa che è passata sotto silenzio. Voi nelle Marche avete il parco dei Sibillini e penserete che quello è un posto intoccabile, ebbene in questo decreto c’è scritto che se qualcuno volesse fare un gasdotto enorme, sbancando tutto, verrebbe meno il piano del parco. Automaticamente. Io vengo dall’Abruzzo, nel parco nazionale d’Abruzzo abbiamo la “camosciara” che è famosa in tutto il mondo, protetta da cento anni, ma anche qui, se la Snam decidesse di far passare un gasdotto, ci andrebbero le ruspe e verrebbe meno il piano del parco. Lo dice espressamente l’articolo 37, andatelo a leggere, è una cosa terrificante.

Lo Sblocca Italia pone quindi degli obiettivi molto chiari: privilegio totale delle fonti fossili rispetto a tutto il resto, come se fossimo in un deserto. Su questo noi eravamo già mobilitati. Nel 2008, con migliaia di persone in piazza, abbiamo vinto la battaglia contro il Centro Oli di Ortona che volevano costruire in mezzo alle vigne. Peraltro hanno sbagliato proprio il posto perché a Tollo c’è la più grande cantina sociale abruzzese… e quindi è successo un finimondo! L’abbiamo battuto. Da lì è partita tutta questa lotta che ci ha portato in piazza a Lanciano lo scorso maggio; per sottolineare l’unitarietà, davanti al corteo non c’era nessuna bandiera che non fosse quella “No Ombrina” che ci siamo dati tutti assieme.

Cos’è Ombrina? E perché tutto questo macello in Abruzzo? Davanti alla costa teatina, a sud di Pescara, dovrà arrivare una piattaforma da quattro a sei pozzi, molto vicina alla costa, a sole tre miglia e mezzo, ma la cosa più grave è che questa piattaforma sarà agganciata ad una meganave raffineria lunga 330 metri, tre volte un campo da calcio. Il nome tecnico è FPSO: Floating Production Storage and Offloading. Il nostro petrolio è infatti di scarsa qualità e quindi deve essere desolforato subito, non può essere trasferito a lunga distanza perché la presenza di zolfo andrebbe a rovinare gli oleodotti e le navi per il trasporto. Quindi ci dovrebbero piazzare per venticinque anni un aggeggio del genere davanti alle nostre coste. Quattro mesi fa, a febbraio, una nave simile è scoppiata di fronte alle coste del Brasile, per fortuna stava a duecento chilometri di distanza, ma purtroppo sono morte nove persone se ricordo bene; quattro anni fa di fronte alla Nigeria una FPSO della Shell, quindi di una grossa società, ha perso 40mila tonnellate di petrolio in mare, immaginate cosa vorrebbe dire perderle in Adriatico: mezzo Adriatico verrebbe precluso alle attività umane.

Molto spesso noi ci accorgiamo di questi progetti quando vengono messi a “valutazione di impatto ambientale”. La procedura è pubblica; l’azienda proponente deve fare uno studio di impatto ambientale e mandarlo al Ministero dell’ambiente (perché i progetti, anche in terraferma, adesso sono stati accentrati tutti a Roma, mentre prima se qualcuno voleva fare un pozzo di petrolio doveva mandarlo alla Regione). Sul sito del Ministero dell’ambiente compare quindi l’annuncio e voi avete sessanta giorni di tempo per fare delle osservazioni, poi va tutto a una commissione nazionale, sempre presso il ministero. In questa commissione per l’impatto ambientale le nostre tasse diventano progetti. Qui ogni anno vengono decisi progetti da miliardi di euro di valore, fra cui il TAV, le autostrade, la Quadrilatero qui nella vostra zona.

Si potrebbe pensare che della commissione facciano parte dei grandi nomi. Ebbene, recentemente la stampa nazionale ha evidenziato che alla commissione nazionale ci sono personaggi che come minimo hanno qualche “ombra” sopra, per cui, tra l’altro, sono in corso interrogazioni parlamentari ed esposti a varie procure della Repubblica. Vado a memoria: c’è un personaggio che da dieci anni siede in questa commissione, Vincenzo Ruggiero. Vi invito a fare una prova, cercate il suo nome su internet e troverete la relazione dello scioglimento del consiglio comunale di Gioia Tauro nel 2008 per infiltrazioni mafiose. Il paragrafo su questa persona inizia così: “Ruggiero Vincenzo, commercialista”, un commercialista nella commissione di valutazione impatto ambientale è già un po’ particolare…, “è fortemente sospettato di essere asservito alla cosca dei Piromalli”[1]. Questa persona decide per voi, per noi, se si devono fare questi megaprogetti, compreso Ombrina. Ma non è il solo, su almeno una ventina di questi commissari ci sono ombre da chiarire, soprattutto sul lato del conflitto di interessi.

La questione non riguarda solo l’Abruzzo, o la Basilicata. Questa è la mappa delle concessioni dei titoli minerari in Italia [fig. 3]. Come vedete parte dal Piemonte, dalla zona di Novara, poi scende sulla pianura padana, va in mare davanti alle coste emiliane, riscende sulle Marche dove prende sia la costa che l’entroterra, l’Abruzzo, poi va verso l’interno, la Basilicata, una zona del Salento e il canale di Sicilia: questi sono titoli minerari già concessi.

Fig. 3 - Carta dei titoli minerari in Italia, 2015
Fig. 3 – Carta dei titoli minerari in Italia, 2015

 

Veniamo alle Marche. Noi abbiamo realizzato un dossier che si chiama Tutti i numeri degli idrocarburi nelle Marche, può essere scaricato in pdf[2]. Nella figura vedete i titoli già concessi [fig. 4]: nelle Marche circa il 22% del territorio è già stato dato alle compagnie petrolifere in concessione, alcune sono già produttive, nella terraferma ci sono una trentina di pozzi, tutti a gas. Poi ci sono altre due istanze, una delle quali a Monte Porzio, proprio qui vicino a Fano, dove c’è la richiesta da parte di una società di ottenere in concessione 20mila ettari di terreno. Tutte queste mappe potete trovarle su un sito ufficiale che funziona molto bene e vi invito a consultare, cioè il sito dell’Unmig, l’Ufficio minerario dello Stato (http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it). Apro una parentesi: di solito quando si fa un piano regolatore ci si scanna per qualche metro, poi però piazzano sopra i territori concessioni petrolifere con interi paesi dentro; in Molise le tre più grandi città, Isernia, Termoli e Campobasso sono all’interno di concessioni petrolifere, con tutte le case, tutte le persone. Avete visto che le concessioni petrolifere sono tutte dritte, ricordano i confini dell’Africa: si traccia una riga e cosa c’è sopra non interessa.

Fig. 4 - Carta dei titoli minerari nelle Marche, 2015
Fig. 4 – Carta dei titoli minerari nelle Marche, 2015

 

Poi abbiamo le concessioni a mare, sono moltissime, circa 400mila ettari di mare sono stati già concessi ai petrolieri. Ci sono diverse piattaforme, venticinque pozzi se ricordo bene, alcuni anche ad olio, non solo a metano. Qui c’è un aspetto particolare che vi riguarda direttamente. In realtà tutte queste concessioni ci riguardano, ma questo è molto particolare perché è un caso unico in Italia e credo uno dei pochi del Mediterraneo. Si tratta di Sibilla. Sibilla non è una concessione per cercare e trovare metano o petrolio, ma è una concessione per verificare se ci sono le condizioni per stoccare in profondità l’anidride carbonica responsabile dell’effetto serra, che andrebbe sottratta dai cicli produttivi industriali e, appunto, stoccata a migliaia di metri in profondità sfruttando delle rocce porose che si trovano sotto il mare e che secondo loro avrebbero caratteristiche idonee per ospitarla. Sibilla ha già avuto la valutazione di impatto ambientale positiva nel 2013, però è ora dormiente o almeno non ci sono attività a nostra conoscenza. A mio avviso, siccome ci sono stati grossi finanziamenti dell’Unione europea qualche anno fa, loro hanno intanto preso l’autorizzazione e per ora il progetto è lì fermo, potrebbe non partire mai come potrebbe partire improvvisamente. Come ho detto si tratta di un’attività sperimentale, perciò gli impatti non sono ben noti. In Norvegia, dove hanno fatto una cosa simile, si è verificato un problema di tenuta di queste rocce porose riempite a pressione di gas, l’anidride carbonica tendeva a scappare da dove volevano confinarla.

Che il governo italiano stia puntando proprio sugli idrocarburi lo dice chiaramente questa immagine [fig. 5]; questa è una mappa ufficiale, noi tendenzialmente usiamo sempre dati ufficiali anche se certe volte sottostimano il problema. Quello segnato è un permesso di ricerca di prospezione, non di perforazione, risalente al 3 giugno. La Regione Abruzzo, così come la Regione Puglia, faranno ricorso al TAR, noi abbiamo già emesso un comunicato stampa chiedendo anche a Ceriscioli (Regione Marche) di far ricorso. L’attività di prospezione prevede l’utilizzo della tecnica Air-Gun: una nave fa su e giù lungo tutto quel tratto trascinando un aggeggio, scusate i termini, che ogni qualche secondo rilascia aria a pressione creando come un’esplosione e producendo un’onda sonora ad altissima intensità che viene immessa in mare migliaia di volte. Queste onde arrivano negli strati geologici, si riflettono e permettono di registrare dati per individuare in profondità gli eventuali giacimenti. Immaginate l’impatto che potrebbe avere, soprattutto sui cetacei. Esistono ricerche scientifiche che provano come i cetacei reagiscano molto male a questa forma di inquinamento acustico, ma c’è anche forte preoccupazione per le attività di pesca. La cosa che a noi preoccupa di più è che se vogliono fare questa ricerca su aree così immense (si tratta di un milione e mezzo di ettari in mare) è chiaro che hanno idea di venirci poi a trivellare.

Fig. 5 - Aree di prospezione in Adriatico, progetto Spectrum Geo Ltd
Fig. 5 – Aree di prospezione in Adriatico, progetto Spectrum Geo Ltd

 

Voi però penserete: se trovano il metano qui, a noi ci arriverà gratis, o quasi. Ebbene, avete visto quante concessioni già ci sono nelle Marche in terraferma, vediamo allora a quanto ammontano le famose royalties date alla Regione Marche negli anni. Il massimo è stato un milione e mezzo di euro nel 2012 a fronte di 183 milioni di metri cubi di metano, estratti l’anno precedente. Il gas si paga sugli 80 centesimi a metro cubo, quindi il valore estratto è di circa di 150 milioni di euro. Vi è convenuto dare ai petrolieri 150 milioni di euro di controvalore a fronte di un milione e mezzo? Cioè l’1%. In pratica noi stiamo regalando i nostri giacimenti alle aziende. Questo perché le royalties in Italia derivano da quando c’era l’ENI, che era pubblico, e quindi era una partita di giro: l’ENI dava soldi allo Stato ma era lei stessa dello Stato. Adesso non è più così in quanto ad agire ora sono spesso aziende private straniere. E poi, in teoria, le royalties in Italia sarebbero dal 7 al 10%, ma nella pratica esiste il regime delle franchigie, in base al quale fino a un tetto di produzione le compagnie non pagano niente. E non è poco: in mare fino a 80 milioni di metri cubi di gas all’anno. Noi veramente lo stiamo regalando. Al di là delle questioni ambientali, noi regaliamo a delle aziende il nostro metano. È una cosa incredibile e ci dovrebbero essere rivolte solo su questo aspetto. L’Italia è un territorio dove le aziende multinazionali del petrolio dicono: andiamo lì perché conviene, ce lo danno gratis!

Un altro punto che pochi immaginano va oltre la questione delle trivelle. Forse ancora più preoccupante è infatti quello che c’è dietro, perché il pozzo da solo non può vivere. Ha bisogno del gasdotto, dell’oleodotto, di posti dove stoccare il materiale. E infatti vogliono fare stoccaggi di gas nel vostro territorio, nelle Marche. E poi ci sono i grandi impianti di rifiuti, solo per perforare un pozzo si fanno 3.500 tonnellate di rifiuti; un pozzo in Basilicata solo di acqua inquinata da trattare tira fuori sessanta autotreni al giorno. Dovete perciò immaginare che se un territorio viene indirizzato verso gli idrocarburi, il problema non è solo il pozzo in sé, ma tutta la logistica che viene costruita attorno.

Fig. 6 - Assemblea Trivelle Zero, Ponterio (PU), 5 agosto 2015 - Foto di Mirko Silvestrini
Fig. 6 – Assemblea Trivelle Zero, Ponterio (PU), 5 agosto 2015 – Foto di Mirko Silvestrini

 

Faccio un rapido accenno agli stoccaggi perché riguardano due aree del territorio marchigiano, una è San Benedetto del Tronto, l’altro Palazzo Moroni, un po’ più a nord, dove Acea, Gaz de France e altre compagnie vogliono stoccare in profondità il metano estratto dai pozzi. Immaginate come un palloncino che d’estate viene riempito e poi d’inverno, quando c’è la richiesta, il metano viene tirato su e portato coi gasdotti verso il Nord Europa. Quali problemi può comportare? I terremoti. In Italia sulla questione dei terremoti legata agli idrocarburi c’è stata un’omertà micidiale, mentre all’estero, nel mondo della ricerca, gli stessi petrolieri ammettono da decenni che l’estrazione degli idrocarburi può comportare terremoti. L’Italia comunque non poteva far finta di niente per troppo tempo e se prendiamo il decreto di valutazione impatto ambientale dell’anno scorso firmato dal ministro Galletti per lo stoccaggio di San Benedetto troviamo scritto, testuale, che “qualora la micro sismicità riconducibile alle attività di esercizio dello stoccaggio” (ammettono quindi che c’è un legame tra terremoti e un’attività umana), “eguagli o superi la magnitudo locale 3.0” (ma fino a che magnitudo ci possiamo aspettare? 4? 5? L’Aquila era 6), “dovranno essere adottati dal soggetto gestore responsabile tutti gli accorgimenti opportuni atti a riportare la magnitudo massima dei sismi a valori inferiori a 2.0”[3]. Come se ci fosse la manopola con cui il terremoto si regola. Voi, se dovessero fare uno stoccaggio qui sotto, leggendo questa autorizzazione, vi fidereste ad avere una casa qui?

Se cercate in internet “gas storage earthquake” troverete che in Spagna il progetto Castor da un miliardo e mezzo di euro, di fronte a Valencia, lo hanno dovuto spegnere in tutta fretta dopo due mesi perché aveva prodotto oltre duecento terremoti. E adesso gli spagnoli stanno pagando l’azienda con le proprie tasche, con le bollette, perché avevano un contratto dove la parte pubblica si assumeva i rischi. Oppure fate una ricerca su “Groningen earthquakes”: nel più grande campo a metano d’Europa, in Olanda, si è innescata una sequenza sismica dal 2002-2003 in poi. Dopo che per trent’anni hanno tirato su grandi quantità di metano ora si trovano con cento terremoti all’anno, con 150mila case da ristrutturare, trenta miliardi di euro di danni e non si sa che cosa accadrà. C’è una lettera del ministro dell’economia olandese al Parlamento che afferma: abbiamo dovuto ridurre del 20% l’estrazione, ma non sappiamo se si il fenomeno si bloccherà, non sappiamo neanche se si blocca se non estraiamo più niente, non sappiamo quanto sarà forte la prossima scossa, sostanzialmente non sappiamo nulla se non che questo fenomeno si è innescato a causa dell’estrazione di gas.

Fig. 7 - Assemblea Trivelle Zero, Ponterio (PU), 5 agosto 2015 - Foto di Mirko Silvestrini
Fig. 7 – Assemblea Trivelle Zero, Ponterio (PU), 5 agosto 2015 – Foto di Mirko Silvestrini

 

Tornando all’Italia, uno dei primi progetti partiti dopo lo Sblocca Italia riguarda proprio le Marche ed è la concessione Santa Maria Goretti (le chiamano con nomi davvero imbarazzanti) a Ripatransone. Lì ha sede una delle più importanti aziende marchigiane di vino biologico. Il titolare, Vagnoni, mentre a ottobre noi facevano il sit-in a Roma stava vincendo i tre calici della guida del Gambero rosso. Immaginiamo che era tutto contento, poi, a gennaio, io sul sito del ministero vedo la notizia di questo pozzo e insieme al comitato di San Benedetto del Tronto facciamo un comunicato stampa. A Ripatransone nessuno sapeva niente, il sindaco non aveva detto niente alla sua popolazione. Insomma quella persona da un giorno all’altro si è trovata con il progetto di un pozzo quasi in mezzo alle sue vigne. A cinquecento metri da uno dei centri storici più belli d’Italia dovrebbe nascere una torre di sicurezza di cinquanta metri con la fiammella accesa in alto. Voi pensate questo imprenditore che esporta tantissimo all’estero, che ha fatto una cantina con le opere d’arte in mezzo alle botti, per dire l’eccellenza del nostro paese, e che ci mette il governo Renzi? Un pozzo.

Nel piano di sicurezza ed emergenza che la società Appennine Energy, inglese, ha previsto per Ripatransone, si trova come primo rischio il blowout, cioè le eruzioni in testa pozzo di cui poi vi dirò qualcosa in più, seguito dall’inquinamento a mare (a mare? Ripatransone sta in mezzo alle colline!), esplosione, incendio, evacuazione sanitaria, mezzi aerei, radioattività, mezzi navali (?!) e operatori subacquei (?!), questo tanto per dirvi come il copia-incolla di questi studi è evidente. Viene presa in considerazione anche l’emergenza maggiore, descritta come “situazione di pericolo già in atto che interessa gran parte o in toto il cantiere e rischia di estendersi all’esterno con conseguenze considerate gravi dal punto di vista umano”, e voi già pensate all’esplosione nel cantiere, a Ripatransone in fiamme… “che potrebbero influenzare negativamente l’immagine della società e dell’attività presso l’opinione pubblica”[4]. Cioè, il problema per loro è chiamare un esperto di marketing che sappia vendere il problema alla popolazione!

A un certo punto abbiamo visto che si parla di radioattività. Questo è un altro problema poco conosciuto. Durante le operazioni dei pozzi si possono produrre, a seconda del contesto geologico, materiali radioattivi, per due motivi. Il primo è un aspetto naturale: quando si scava un pozzo a tremila metri di profondità e si iniziano a tirare fuori idrocarburi, per una questione chimica si concentrano radionuclidi. Non è tantissima ma una certa radioattività è presente ed è vero che è naturale, ma prima stava sotto a tremila metri di profondità, una volta fatta affiorare va gestita, con tutta la filiera legata al corretto trattamento di questi materiali. La seconda ragione è invece legata all’attività di ricerca. Nel pozzo, per studiare il giacimento, vengono mandate ogni tanto delle sonde, dei bussolotti con una sorgente radioattiva. Col piccolo particolare che ogni tanto le perdono nei pozzi e le lasciano andare perché recuperarle sarebbe troppo problematico. In Italia non si sa quante se ne sono perse, una sicuramente in Basilicata l’anno scorso in base alle notizie apparse sulla stampa. Un gruppo di ricercatori nigeriani ha pubblicato un report su quante sonde sono state perse nel mondo: solo negli U.S.A. centoquattro in diciannove anni, che non è un numero piccolo. Negli Stati Uniti, nel 2002, si è verificato un incidente nucleare con irraggiamento di una trentina di persone, in pratica si sono dimenticati la sonda aperta vicino al pozzo per due giorni.

Avevo fatto cenno al blowout, l’eruzione in testa pozzo, che è un fenomeno fortunatamente raro consistente in una risalita incontrollata di idrocarburi nel pozzo a fortissima pressione che, esplodendo, forma una vera e propria eruzione. In Italia è successo a Trecate nel 1994. Per Ripatransone e Ombrina ci hanno detto che non può accadere perché metteranno sopra la testa del pozzo il BOP, il blowout preventer. Cioè un sistema di valvole e ganasce che dovrebbe impedire in caso di risalita la fuoriuscita incontrollata dal pozzo. Io che non sono ingegnere ma mi informo molto, come spero che anche voi farete, ho cercato in rete “accident blowout preventer” e ho trovato il sito della Commissione d’inchiesta del governo degli Stati Uniti (http://www.csb.gov), quindi un sito ufficiale, non ambientalista o altro, in cui si parla del più grave incidente mai accaduto nella storia degli idrocarburi, nel 2010 nel Golfo del Messico. Ricordate? Bene, sul sito trovate anche un bel video, il problema è stato proprio il BOP che non ha funzionato e il suo malfunzionamento ha moltiplicato l’impatto. Quindi, quando i petrolieri dicono che è tutto sicuro, non credeteci, non è vero.

Fig. 8 - Piattaforma Deepwater Horizon, Golfo del Messico, 2010
Fig. 8 – Piattaforma Deepwater Horizon, Golfo del Messico, 2010

 

Un’altra cosa poco nota l’hanno scoperta due ricercatrici di Princeton. Di solito ci si preoccupa sempre dei nuovi pozzi, ma quelli abbandonati? In Italia sapete quanti pozzi sono stati scavati in terraferma e in gran parte abbandonati, anche nelle campagne marchigiane? 7.220 (circa 200 sono ancora attivi). Che fine hanno fatto? Li hanno tappati, si chiama “chiusura mineraria del pozzo”, cioè un bel tappo di cemento. Queste due ricercatrici hanno trovato che questi pozzi perdono in atmosfera quantità di metano non da poco, si stima che solo in Pennsylvania, che è uno Stato industriale, dal 4 al 7% delle emissioni di metano sia legato ai pozzi abbandonati[5]. Questo in atmosfera, poi però dobbiamo pensare anche alle nostre falde acquifere, noi non ce ne accorgiamo ma sotto abbiamo quantità di acqua molto più grandi dei fiumi che vediamo in superficie. Se noi ci piazziamo sopra un pozzo che succede?

Avete mai sentito parlare di fracking? Si pensava che l’inquinamento negli Stati Uniti dei pozzi di acqua potabile fosse legato al fracking, una tecnica molto aggressiva di stimolazione dei giacimenti attraverso l’iniezione a pressione di fluidi che rompono le rocce e fanno sì che gli idrocarburi scorrano in maggior quantità verso il pozzo. In Italia il fracking è vietato, ma comunque non siamo al sicuro perché una ricerca pubblicata in una rivista scientifica tra le più importanti al mondo, gli atti dell’Accademia di scienze degli Stati Uniti, aggrava il problema. I ricercatori hanno infatti dimostrato che non è tanto il fracking a far andare gli idrocarburi nelle fratture per poi arrivare all’acqua, ma in realtà è molto più semplice e può accadere in qualsiasi pozzo, e cioè i pozzi perdono. La contaminazione dell’acqua avviene attraverso le rotture della camicia di cemento attorno al pozzo[6]. E noi stiamo già perdendo la nostra acqua; le Marche hanno perso un quarto della loro acqua di falda, non solo per gli idrocarburi.

Dobbiamo pensare che questa lotta contro il petrolio non è solo perché non vogliamo il pozzo dietro casa, ma è parte di un problema più generale che riguarda il nostro modello di sviluppo e l’impatto dei cambiamenti climatici. Bastano pochi gradi di aumento della temperatura media causata dalle emissioni in atmosfera derivanti dal consumo di fossili, carbone, petrolio, metano e avremo grossi problemi con l’acqua. Perciò noi dobbiamo combattere assolutamente le emissioni in atmosfera, lo dice anche l’enciclica di papa Francesco. Che, devo dire, la cita pure Renzi e questo mi limita molto, ma evidentemente lui non l’ha capita. Io me la sono letta e dice delle cose quasi millenaristiche, visionarie, sulla gravità di quanto sta accadendo sul nostro pianeta. Io sono ateo ma penso che il papa sia un’autorità morale sicuramente importante. I vescovi abruzzesi sono venuti con noi a manifestare, le diocesi abruzzesi hanno scritto secondo me il più bel documento contro lo Sblocca Italia, sostenendo che è necessaria una “biociviltà” con una “democrazia ad alta intensità”. Qualcosa si sta muovendo nelle coscienze, qualche volta ci viene voglia di rispondere in maniera più energica ma noi siamo nonviolenti, però ci ribelliamo e contestiamo, dobbiamo assolutamente combattere quello che sta accadendo, cercando di formare un movimento con l’idea di bloccare lo Sblocca Italia. Già da stasera e nei prossimi mesi ci daremo da fare per organizzare un movimento “Trivelle Zero – Salviamo l’Adriatico”, in tutta la riviera dal Friuli fino al Salento.

 

[1] Prefettura di Reggio Calabria, Accesso al comune di Gioia Tauro […] eseguito dal 18 dicembre 2007 al 18 aprile 2008. Relazione, <http://www.genovaweb.org/GIOIA-TAURO-Relazione-Comm-Accesso.pdf>.

[2] Tutti i numeri degli idrocarburi nelle Marche, a cura di Augusto De Sanctis, <http://www.globalproject.info/public/resources/pdf/Tutti_i_numeri_idrocarburi_Marche_2015_10_06_2015.pdf>.

[3] DM-0000166 del 19/06/2014, Stoccaggio gas naturale in strato denominato San Benedetto Stoccaggio, <http://www.va.minambiente.it/File/Documento/108572>.

[4] Appennine Energy Spa, Permesso “Santa Maria Goretti” – Studio di impatto ambientale, <http://www.va.minambiente.it/File/Documento/125264>.

[5] Mary Kang [et al.], Direct measurements of methane emissions from abandoned oil and gas wells in Pennsylvania, Proc Natl Acad Sci USA, 2014; 111(51): 18173-18177. doi:10.1073/pnas.1408315111.

[6] Thomas Darrah [et al.], Noble gases identify the mechanisms of fugitive gas contamination in drinking-water wells overlying the Marcellus and Barnett Shales, Proc Natl Acad Sci USA, 2014; 111(39): 14076-14081. doi: 10.1073/pnas.1322107111.

A Kobane si combatte ancora (#1)

A Kobane si combatte ancora
Intervista a Karim Franceschi, volontario da Senigallia con le YPG in Rojava da gennaio a marzo 2015. Raccolta da Vittorio a maggio 2015.

Karim a Senigallia
Karim a Senigallia

 

“Qui si combatte, si muore, ma anche si vince per la libertà e l’emancipazione di tutti i popoli. Aiutate, italiani, la rivoluzione spagnuola. Impedite al fascismo di appoggiare i generali faziosi e fascisti. Raccogliete denari. E se per persecuzioni ripetute o per difficoltà insormontabili, non potete nel vostro centro combattere efficacemente la dittatura, accorrete a rinforzare le colonne dei volontari italiani in Ispagna. Quanto più presto vincerà la Spagna proletaria, e tanto più presto sorgerà per il popolo italiano il tempo della riscossa”.
Carlo Rosselli, discorso pronunciato alla radio di Barcellona il 13 novembre 1936.

Io partirei chiedendoti se questa che tu hai fatto è stata la tua prima esperienza di solidarietà internazionale o come vuoi definirla, e cosa pensi delle altre esperienze che hai visto attorno a te prima di questa, ad esempio il Chiapas o la Palestina.

Io ricordo il mio ingresso nei centri sociali nel movimento dell’Onda e c’erano compagni come Serena che seguivano la questione del Chiapas molto da vicino e ricordo l’entusiasmo con cui lo facevano e le possibilità che questa cooperazione internazionale aveva aperto per il movimento dei centri sociali italiano e per i compagni. Ricordo tutta la questione dell’analisi politica aperta attraverso questi tipi di esperienze ed era stato qualcosa che aveva arricchito moltissimo i centri sociali e ci aveva arricchito tantissimo a noi come militanti dandoci anche una nuova spinta rivoluzionaria. Io ricordo bene questa cosa quando ero arrivato anche se poi la prima volta che ho seguito una questione internazionale l’ho fatto per il Rojava, parliamo di sei anni dopo e sono andato lì. Siamo arrivati nel Rojava molto in ritardo, il Rojava è un esperimento che è andato avanti per tre anni e noi siamo arrivati lì solo quando attraverso Kobane c’era stato il botto mediatico, perché Kobane era stata assalita, perché insomma era una città in gravissima crisi umanitaria. L’ISIS è un’organizzazione che tira tantissimo dal punto di vista mediatico e la situazione che si era creata ci ha fatto aprire gli occhi anche a noi. C’è da dire che il nostro movimento dal punto di vista internazionale ma anche dal punto di vista locale è stato indebolito tantissimo negli anni e dall’altra parte nel Rojava c’è un grandissimo muro linguistico e culturale per cui a noi in Europa, e soprattutto in Italia, ci è arrivato veramente pochissimo: le pubblicazioni, tutta la discussione pubblica, internet, comunicati non c’era quasi niente di tradotto in inglese e praticamente niente in italiano. Siamo andati lì con la mente quasi vuota su quello che stava succedendo laggiù, eravamo molto aperti ed abbiamo iniziato con la città sotto assedio a conoscere il Rojava ad intrecciare rapporti anche umani e politici, a creare rete, a sederci con i loro responsabili a parlare dei problemi, della sperimentazione politica, di cosa è il confederalismo democratico che ancora non capivamo bene proprio per questa mancanza di documentazione tradotta in inglese o in italiano. Fondamentalmente è una cosa ancora nuova, ci stiamo organizzando adesso anche con questa staffetta che usa lo stesso metodo organizzativo utilizzato da Ya Basta per il Chiapas, cioè la carovana. Stiamo organizzando carovane aperte non soltanto ai centri sociali, perché i centri sociali sfortunatamente sono così deboli che con delle carovane autonome fanno veramente poco, e quindi una cosa che stiamo cercando di fare sul modello del Chiapas è di conoscere ed instaurare dei rapporti con queste realtà del Rojava. Questa sperimentazione politica rappresentata dal confederalismo democratico parla fondamentalmente di autonomia, parla di lotta di classe, parla di una minoranza etnica schiacciata da politiche capitaliste e da grandi interessi economici e parla di lotta armata.

Karim tra i combattenti kurdi
Karim tra i combattenti kurdi

 

La differenza che vedo rispetto al Chiapas è che quella esperienza nasceva in uno scenario internazionale completamente diverso. Nella fine degli anni ’90 c’era il movimento contro la globalizzazione capitalista, si stava costruendo una rete internazionale di contatti e di scambi tra attivisti, ancora prima di Seattle che fu nel 1999. Un aspetto forte di quell’esperienza del Chiapas fu quello di creare una nuova rete tra tanti compagni. Questa lotta del Rojava esplode nel mezzo di una lunga guerra civile. Per noi la guerra caratterizza purtroppo il medio-oriente da sempre, da quando ne abbiamo memoria c’è stata sempre una guerra da quelle parti. Andare dentro quel conflitto è diverso da andare in una situazione come quella del Chiapas dove c’era e c’è una guerra a bassa intensità, ma dove potevi anche evitarla se volevi. Se uno invece va in Rojava è impossibile evitare la guerra. Come la vivono i compagni della tua generazione?

Questa è una grande domanda, e sentendola mi ha illuminato dei punti che avevo oscuri. Questa capacità di intrecciare rapporti con gli altri gruppi politici c’è in Rojava, ma per farlo devi entrare in Rojava non lo puoi fare da Suruc, dal confine turco, perché al confine turco ci rimangono i giornalisti, le ONG. I gruppi politici sono dentro il Rojava che combattono ed hanno dei fronti aperti, hanno le loro sedi dentro le basi e sono tutti armati. Per intrecciare rapporti con loro ci devi entrare dentro. Il problema qual è? È che quelli che entrano dentro sono tutti gruppi politici strutturati, hanno un minimo di struttura ed organizzazione perché altrimenti non puoi impegnarti in quel tipo di lotta. Io penso che se la questione Rojava fosse avvenuta nel periodo della questione Chiapas non staremmo facendo questo discorso perché in questo momento c’è un enorme indebolimento dei movimenti rivoluzionari in Europa e soprattutto in Italia e questo porta al fatto che fondamentalmente dall’Italia nessun movimento si è impegnato a mandare militanti a partecipare alla lotta armata ma non ha neppure aperto una discussione su questo fatto qua. Non è tanto grave il fatto di non mandare combattenti o non mandare militanti che comunque possono fare anche altri lavori in queste zone di guerra oltre che combattere, la cosa più grave è che non si è nemmeno aperta una discussione su questa cosa.

Kobane vista dal confine turco - Foto di Maria Novella De Luca
Kobane vista dal confine turco – Foto di Maria Novella De Luca

 

Perché secondo te? Ormai che hai aperto tu la questione, una domanda te la faccio. Quando ho saputo della tua storia ho pensato “adesso un sacco di gente partirà dietro Karim” perché io se avessi avuto la possibilità, cioè se non avessi dei figli, penso che sarei partito. E invece ho visto che non c’è stata questa cosa, non voglio dare un giudizio se sia giusta o sbagliata questo tipo di scelta ma mi aspettavo che si sollevasse un dibattito. E che ci fosse una presa di posizione e invece questa cosa non sta avvenendo. Perché?

In realtà non faccio politica, faccio politica ma non mi interessa fare il politico, io dico quello che penso. Anzitutto sono partito in semi-clandestinità, ho avvertito pochi compagni del fatto che sono partito e molti l’hanno saputo sotto forma di shock. C’è una ragione se sono partito come sono partito. Quando con dei noti compagni che hanno responsabilità nel movimento avevo accennato al fatto che sarei poi partito ho ricevuto delle risposte molto chiare: non vogliamo averci niente a che fare. A quel punto mi sono organizzato da solo, mi sono autofinanziato il viaggio e tutto il resto senza coinvolgere assolutamente nessuno all’interno del movimento. Una volta che io ero lì e si è saputo a livello pubblico, la mia presenza ha avuto un impatto mediatico ma non si è aperta nessuna discussione. Il motivo secondo me è che come movimento da troppo tempo ci siamo abituati ad uno stile di vita che non è rivoluzionario ma abitudinario, le nostre pratiche cercano di tutelare uno stile di vita che è quello del compagno dei centri sociali, piuttosto che perseguire l’obiettivo della lotta di classe e della rivoluzione. Questa scelta avrebbe prodotto un distacco netto da quello stile di vita, penso che non ci fossero compagni non tanto nel movimento ma ai vertici del movimento pronti a mettersi a rischio più del solito e quindi a mettere a rischio uno stile di vita. Io penso che se si fosse aperto un tavolo di discussione qualcuno sarebbe venuto laggiù ma il fatto che non si sia aperto ha tolto ogni possibilità che questo avvenisse. Sono stato contattato da tantissima gente sui social che mi chiedeva informazioni su come andare, che voleva andare lì a combattere ma parliamo di centinaia di persone, ovviamente io per ragioni di sicurezza e ragioni legali non ho risposto a nessuno di questi, ho mandato a cagare un po’ tutti, ma nessuno di questi era dei centri sociali.

Kobane, aprile 2015 - Foto di Maria Novella De Luca
Kobane, aprile 2015 – Foto di Maria Novella De Luca

 

Per i kurdi che importanza hanno avuto l’adesione diretta, il sostegno diretto alla loro lotta armata in Rojava da parte degli internazionalisti? È qualcosa che a loro interessa perché ha un potere simbolico di mostrare che esiste una solidarietà internazionale fattiva, è una necessità militare o è un modo loro di intendere la solidarietà internazionale? In altri conflitti abbiamo visto come gli internazionali, specialmente i nordamericani e gli europei abbiano giocato un po’ la parte dei cugini ricchi che vanno in giro, finanziano, fanno iniziative di solidarietà ma a cui spesso manca un piano di condivisione materiale forte. In Chiapas c’era un po’ una via di mezzo, noi andavamo al di là del cugino ricco che porta i soldi, partecipavamo in maniera pratica alla vita delle comunità, alla loro autogestione, alla costruzione degli ospedali e delle scuole, al livello di partecipazione pubblica in delle manifestazioni che a volte erano anche dure. La scelta di partecipare nell’EZLN non veniva promossa da loro, ti dicevano: non abbiamo bisogno di guerriglieri europei, abbiamo bisogno di cooperanti, di giornalisti… perché secondo te i kurdi hanno aperto questo canale, avrebbero potuto dire facciamo da soli…

Senza offesa per chi ha partecipato all’EZLN, ma il livello di apertura e di crescita che offre il Rojava chi ha partecipato all’EZLN se l’è solo sognato, perché è tutte queste cose insieme: ha un significato simbolico, ha un significato ideologico, di cooperazione, tutte queste cose messe insieme perché una volta che tu vai lì finché fai parte delle organizzazioni umanitarie che portano aiuti arrivi a un certo livello per loro, sei un grande amico. Quando vai lì ed entri insieme con loro nel campo di battaglia non devi per forza entrare dentro lo YPG[1] perché ci sono gruppi politici che portano dentro Kobane il simbolo della propria organizzazione politica e non sono YPG, sono anche internazionali e si portano il loro simbolo. Per loro è una cosa enorme avere internazionali che combattono con loro perché molti che combattono nello YPG non vengono da organizzazioni politiche. Anche i curdi vengono dalle campagne della Siria e non sono nemmeno politicizzati, per loro vedere un italiano, un americano che combatte con loro gli fa saltare tutto il processo di ideologizzazione in un secondo, non hanno bisogno di sei mesi, un anno per capire perché stanno lì a combattere. Perché sognano tutta la loro vita di andare a vivere in uno di quei paesi e vedere un americano combattere insieme a loro lì, li fa capire immediatamente anche a loro perché sono lì a combattere ed è un enorme apporto per il morale della truppa e sembra una cavolata ma quando tu sei lì capisci che il morale determina il vincitore in un campo di battaglia. Durante una battaglia, durante una guerra il morale determina se la truppa scapperà o resterà a combattere e fondamentalmente è quello a decidere il risultato. Poi per loro ha anche un’importanza per diffondere la loro ideologia, per loro è importante dare degli strumenti anche alle altre organizzazioni politiche e non ne hanno bisogno, non hanno bisogno di questi che sono su tutte le liste terroristiche della Turchia, di questi gruppi comunisti, non hanno bisogno di questa cattiva pubblicità, non hanno bisogno di far venire i loro militanti a costruire fronti, a specializzarsi. Non ne hanno bisogno ma lo fanno ugualmente perché per loro la cosa più importante è la loro anima, l’ideologia del confederalismo democratico è più importante della stessa Rojava in Siria, per loro può saltare la Siria ma non può saltare la loro anima, per mantenerla in vita si sentono obbligati a dare sostegno a tutte quelle altre organizzazioni e gruppi che si autodefiniscono anticapitalisti.

 

Facevamo il paragone con un ciclo precedente di movimento che aveva visto nel Chiapas il centro di formazione umana e politica; oggi invece il Rojava e il conflitto in Siria sono dentro una guerra più sporca, più cattiva. Per chi guarda dall’Occidente la guerra civile siriana appare come un caos in cui è difficile capire come schierarsi. Anche il discorso sulla resistenza in Irak durante l’occupazione americana aveva paralizzato i movimenti perché una volta che non si era riusciti a fermare la guerra con le manifestazioni pacifiste tutto quello che è successo dopo è apparso come un campo di violenza incomprensibile dove noi europei non avevamo niente da dire, niente da dare. In Siria invece è successa una cosa particolare: dei combattenti europei che sono andati con l’ISIS, tu ne hai parlato in qualche intervista. Perché spesso si dice che chi va a combattere con IS è gente che è fallita in Europa?

Queste sono stronzate, chi va a combattere con l’ISIS sono medici, laureati che rinunciano a paghe da 100 mila o 200 mila dollari all’anno per andare lì, persone che si laureano con i massimi dei voti negli Stati Uniti o in Europa e vanno lì. È ridicolo dire che sono persone che hanno fallito in Occidente, una gran parte sicuramente sono spinti dall’ostracizzazione, dalle politiche anti-islamiche che l’ISIS adora, perché la maggior parte dei musulmani sia laggiù che qua sono moderati, una piccolissima parte è quella radicale. La loro strategia è fare sì che i moderati vengano cacciati dalle comunità e società europee ed occidentali in modo tale che trovandosi isolati debbano guardarsi fra loro e andare a radicalizzarsi ed aumentare il loro bacino di militanti. L’ISIS si è presentato come l’unica realtà, prima del Rojava, che per generazioni abbia combattuto l’imperialismo ed il capitalismo. Come movimenti abbiamo smesso così tanto di combattere l’imperialismo che abbiamo iniziato a dire che l’imperialismo non esiste o che l’imperialismo è una cosa che non esiste come qualcosa di assolutamente cattivo. Fondamentalmente abbiamo smesso di combattere ma non solo noi, quelli di sinistra nel mondo hanno smesso di essere un avversario credibile per questa enorme macchina di distruzione che sono l’imperialismo ed il capitalismo e sono rimasti solo loro. Cinquanta anni fa ovunque andavi nel mondo potevi combattere sotto una specie di falce e martello: le rivoluzioni della sinistra erano ovunque in qualunque continente si poteva combattere, a Cuba, Laos etc… adesso non c’è più niente. I compagni, anche qua in Europa andavano a formarsi in Palestina dove c’era la sinistra, adesso la Palestina è tutta in mano ai radicali islamici, non all’ISIS, ai radicali islamici, e anche nella Freedom Flottilla sono tutti salafiti estremisti islamici. Anche in Tunisia quando i compagni hanno provato a fare qualcosa sono stati schiaffeggiati dai radicali islamici che hanno tutta la forza militare, li hanno messi in un angolo ed i compagni sono stati zitti e sono tornati a fare quello che sanno fare cioè parlare. Le sinistre hanno perso in tutto il mondo credibilità nel fare la rivoluzione e adesso in mano ce l’hanno questi radicali islamici e l’ISIS e quelli che ad un certo punto vedono che hanno bisogno di un marchio, di nuove armi e finanziamenti, si guardano intorno e comprano dentro il franchising dell’ISIS e questo si espande senza aver bisogno di raggiungere un posto con le forze armate. Adesso il Rojava è veramente piccolo, noi parliamo del Rojava come se fosse l’unica soluzione, ma noi parliamo di tre città e la loro piccola regione intorno che è un cantone e che è un piccolo pezzo della Siria. I cantoni di Kobane e di Afrin nella regione di Aleppo sono fondamentalmente qualcosa di più di una città. L’unico cantone che si sta espandendo a livello territoriale è quello di Cezire ed è lì che i compagni di tutto il mondo hanno la possibilità di formarsi militarmente e di partecipare ad una lotta armata di sinistra, socialista.

Kobane, aprile 2015 - Foto di Maria Novella De Luca
Kobane, aprile 2015 – Foto di Maria Novella De Luca

 

Questa è una grossa differenza rispetto alle esperienze del passato e che riporta alla memoria in bianco e nero della guerra di Spagna.

No, a me non la ricorda perché per la guerra civile spagnola solo dall’Italia erano partiti in 5000, c’erano brigate internazionali, una brigata sono 300 persone… (ride) cazzo qui non c’è un compagno internazionale che vada a combattere a Cezire, la maggior parte sono militari, persone che fanno il soft air, a cui piacciono i giochi di guerra o invece persone normali che partono anche per ragioni umanitarie, che dicono: “guarda la gente viene massacrata da ’sti bastardi dell’ISIS e nessuno fa un cazzo, io vado lì a combatterli, a dare una mano, non ho mai avuto un’arma in mano non ho una ideologia politica e vado lì a combattere, a dare una mano per una questione umanitaria”. La maggior parte sono così anche se ultimamente hanno cominciato ad arrivare dei compagni: ho visto due anarchici dall’Europa a Kobane ma arrivavano anche per non andare in galera perché hanno avuto delle sentenze di carcere lungo, si dovevano fare 20 anni di galera e sono venuti là per non andare dentro. Io non vedo compagni che si organizzano per tenere fronti, l’unica eccezione sono i compagni turchi, dei partiti turchi, non hanno grandissimi numeri ma stanno andando lì con numeri consistenti e stanno offrendo un aiuto consistente e reale. Fare un paragone con la guerra civile spagnola è assurdo, i compagni internazionali sbilanciavano la cosa da una parte, è ridicolo, anzi se si vuole fare un paragone con la guerra civile spagnola bisogna farlo con l’ISIS perché lì si che arrivano migliaia di internazionali dall’Europa e fanno la differenza per quanto riguarda il campo di battaglia e l’apporto militare.

 

Una critica che viene fatta in Europa per quanto riguarda le donne nella situazione del Rojava è che fare la guerra sia qualcosa di molto maschilista. Si vedono le forze guerrigliere curde femminili ma resta una diffidenza nei confronti del fatto che la guerra sia qualcosa di dominato da una logica maschile. Cosa pensi della situazione delle donne qui e laggiù?

Penso che le donne qui in Europa siano più oppresse che nel Medio Oriente perché per lo meno nel Medio Oriente si sentono oppresse, sanno di vivere di merda e si vorrebbero levare quel cazzo di velo, qua si sentono libere, buon per loro. Ma qua anche io tra i compagni nei centri sociali ne vedo davvero poche di donne ai vertici, io ne vedo davvero poche di compagne che guidano movimenti. Noi parliamo del Rojava dove le donne comandano, le donne guerrigliere combattono meglio degli uomini. Non parlo di quelle che vengono dalle montagne, ci sono infatti i “cugini” che vengono dalle montagne, da vent’anni di esperienza nella guerriglia. Io parlo di donne che vivevano in Siria e che hanno sempre visto la madre con il velo mangiare in cucina separata dal marito, sfornare otto figli senza lavoro, senza diritto di voto, marginalizzate dalla vita sociale e pubblica, per quanto riguarda la sfera di potere tutta in mano ai maschi, loro vengono da queste famiglie. Io le ho viste nell’addestramento, mi ci sono addestrato i primi 4-5 giorni e poi le ho riviste a Kobane. Le ho riviste in altri campi di addestramento: sono le peggiori quando si addestrano, si lamentano sempre, corrono meno di tutti si sfiancano dopo un giro di corsa di 100 metri non riescono più a camminare, e poi le rivedi due o tre mesi dopo sul campo di battaglia in prima linea, combattono più feroci degli altri, non scappano mai, sono motivo di ispirazione per tutti gli altri. Nei fronti caldi li vedi con il telefono in mano i capitani delle YPG che chiamano a Kobane e che chiedono che le donne delle YPJ[2] vengano a dare una mano perché sono una garanzia e sono le migliori combattenti. E quando io le ho viste in addestramento con la mia mentalità europea ho detto: “è tutta una cosa mediatica”. Poi le ho riviste nel campo di battaglia: piangono ma non scappano, mantengono la loro femminilità, non alzano mai la voce quando parlano tra loro, mantengono dei tratti estremamente femminili ma poi in battaglia combattono meglio degli uomini. Ma perché fondamentalmente tutta questa idea militare che abbiamo qua dei muscoli degli allenamenti e dei pesi, tutta questa mentalità militaristica americana con gli sport estremi che ti spingono al limite fisico sono tutte puttanate, laggiù non fanno sport, non lo fanno, lo fai per addestrarti, per abituarti a certe movenze, serve più a livello psicologico. I guerriglieri non si allenano, sono magrolini, sono un po’ debilitati, qualcuno è un po’ più ciccio, tutto quello che serve è coraggio e quello ce l’hanno da vendere. Ma per liberarsi da quel tipo di cosa lì io non so quale sia la chiave e non so nemmeno se ci sia. Di fatto però quelle donne stanno lì e combattono meglio degli uomini, non ti so spiegare bene ma sicuramente là le donne sanno meglio degli altri quello per cui stanno combattendo.

Kobane, aprile 2015 - Foto di Maria Novella De Luca
Kobane, aprile 2015 – Foto di Maria Novella De Luca

 

Oltre al Rojava, vedi qualcosa in Medio Oriente in altre zone che possa andare in quella direzione? C’è una nuova tendenza in atto o il Rojava è un faro nella notte?

È un faro nella notte che non si spegne in nessuna maniera. Io mi sto continuando ad esercitare nel kurdo, ho scaricato manuali e dizionari per comprendere meglio la grammatica perché penso che lo scalino più importante da superare sia la barriera linguistica. In realtà basterebbe sapere il turco, perché il faro non è partito dalla Siria ma fondamentalmente è partito dalla Turchia ed è la che ci sono tanti partiti e movimenti politici che sono di quello stampo. A noi mancano ancora le connessioni con quei movimenti e partiti politici. Sicuramente arriverà da lì un’ondata di cambiamento, prima di tutto arriverà in Turchia. Tanti compagni sono andati in Rojava e si sono formati e quando quelli torneranno in Turchia ce ne accorgeremo. Per quanto riguarda l’Europa non so bene quale sia la situazione, per ora quelli che so che si sono mossi in maniera concreta sono i tedeschi ma loro hanno sempre avuto con la Turchia relazioni più strette per una questione legata alle seconde generazioni e tanti nei movimenti tedeschi parlano il turco. Penso però che ci sia una grandissima opportunità anche per i movimenti italiani. Io non so ancora cosa farò, sto cercando di riprendermi dallo shock dal punto di vista umano, sono stato a Kobane ed ho ancora in qualche maniera uno shock post-traumatico ma non è PTSD[3] (ride). Ho bisogno di riambientarmi anche per non fare cose da matti, ma io vedo un grandissimo potenziale venire da lì a qua. Quello che sto cercando di capire è se i centri sociali siano il veicolo per questo potenziale o se sia necessario ricostruire qualcosa da zero.

 

[1] YPG (Yekîneyên Parastina Gel – Unità di Difesa del Popolo) sono le forze armate kurde del Rojava.

[2] YPJ (Yekîneyên Parastina Jin – Forze di Difesa delle Donne).

[3] Sigla per Post-traumatic stress disorder, diagnosi psicologica di uno stato di forte ansietà e sofferenza dovute all’esperienza di eventi traumatici.

Salvini, le Marche, io e te (#1)

Salvini, le Marche, io e te
di Redazione

Manifestazione contro Salvini, Pesaro, 25 maggio 2015 - Foto di Cindy
Manifestazione contro Salvini, Pesaro, 25 maggio 2015 – Foto di Cindy

 

Eccoci finalmente al numero uno del progetto Malamente. Dopo l’uscita del numero zero abbiamo raccolto opinioni, critiche e suggerimenti, abbiamo cercato di allargare la rete dei nostri contatti per collaborazioni e distribuzione. Le impressioni sono positive, la ricchezza delle storie che stiamo incontrando non entrerà tutta neanche in questo numero, ma questo ci spinge già a pensare al prossimo. Ogni articolo ha una introduzione della redazione che vuole guidare la lettrice e il lettore nella comprensione del contesto e dei collegamenti tra ogni storia e il territorio in cui viviamo. La nostra casella di posta e l’account twitter sono aperti a commenti e discussioni.

In questo spazio vogliamo dire la nostra su alcuni episodi di lotta e di critica agiti sul nostro territorio contro chi strumentalizza le identità locali per un progetto neofascista. Infatti anche nelle Marche, così come in tutte le città e i paesi dove Matteo Salvini si è affacciato durante la campagna elettorale di maggio, le piazze hanno risposto con una sonora contestazione, assediando i suoi comizi allo scopo di impedirgli di parlare. A Macerata, Senigallia, Pesaro, Ancona, Porto Recanati è stata interrotta la tolleranza repressiva che spesso contraddistingue questi territori. Di fronte alla finzione del dialogo televisivo che domina questo miserabile tempo preferiamo uova, pomodori, frutta marcia, fumogeni e petardoni, come il minimo che si possa scagliare contro il felpato e la sua claque.

Nonostante qualcuno voglia farci credere che in questo modo “è stato fatto il suo gioco”, riteniamo che opporsi fisicamente al leader leghista sia stata l’unica cosa giusta da fare. C’è poi chi, con un curioso gioco di inversioni, ha accusato i contestatori di essere dei “fascisti”, in quanto si sarebbero opposti con la forza al diritto di parola che una società democratica deve concedere a tutti. Siamo d’accordo che poter esprimere liberamente la propria opinione è un diritto ignoto ai regimi autoritari, ma si tratta di una conquista di chi è senza potere. Quando a reclamare a gran voce il diritto di parola è invece chi si trova in posizione di forza, chi ha sempre un posto in prima serata in qualche canale televisivo è evidente che qualcosa non torna.

D’altra parte non pensiamo che il confronto dialettico sia sempre e comunque segno di tolleranza e democrazia, esso infatti non esiste in astratto, estrapolato dal contesto e dai soggetti che vi partecipano. Il dialogo è possibile quando le parti sono sul medesimo piano di reciprocità e, cercando di far valere le proprie idee, danno e prendono qualcosa l’una dall’altra. Ma quando le decisioni sono già stabilite e ad averle prese è proprio uno degli interlocutori, allora il pacato dialogo diventa una farsa, oltre che inutile perdita di tempo: “a chi mi contesta in maniera pacifica – ha detto Salvini ai giornalisti dopo la contestazione di Pesaro – dico che possono urlare e scrivere ciò che vogliono. L’importante è che non rompano le scatole alla gente per bene”.

Manifestazione contro Salvini, Senigallia, 14 maggio 2015 - Foto di Matilde Mazzaferri
Manifestazione contro Salvini, Senigallia, 14 maggio 2015 – Foto di Matilde Mazzaferri

 

Inoltre, nel nostro caso, non siamo di fronte a un semplice confronto di opinioni diverse, visto che dietro le parole di chi siede là dove vengono approvate le leggi e la politica del paese avvengono dei fatti concreti: la sofferenza dei migranti e la costruzione di un mondo sempre più intollerante nei confronti del diverso. Salvini non esprime semplicemente pareri come potrebbe fare qualunque razzista al bar, Salvini produce fatti. L’avanzata della Lega Nord nelle Marche sostenuta dai fascisti di Sovranità, dal 6,3% delle Regionali del 2010 all’attuale 13,02% testimonia la pericolosità della sua propaganda. Nella sua posizione di oggettivo potere, le sue parole diffondono odio e danno copertura a tanti piccoli gesti quotidiani di ordinario razzismo ed emarginazione.

Non ci interessa, quindi, discutere con Salvini e con quelli come lui, ma solo cacciarli dalle nostre piazze. Manifestare in maniera composta e contrapporre parole alle parole lo lasciamo ai “sinceri democratici” che popolano i salotti televisivi. Che il leghista, per raccogliere consensi, si atteggi a vittima di contestatori che gli impedirebbero di esercitare i propri diritti, è una questione, come abbiamo cercato di spiegare, falsa, che lasciamo prendere per buona ai campioni della solidarietà istituzionale e a coloro che hanno smarrito qualunque parvenza di senso critico.