Abbiamo molti difetti, lo sappiamo, e l’uscita in ritardo di questo numero lo dimostra, ma abbiamo sicuramente anche delle teste dure: avete in mano il numero 10 del nostro progetto non per caso.
L’inverno che sta finendo si è purtroppo contraddistinto per l’ignoranza e la cattiveria di una campagna elettorale degna della infame classe politica che la anima. L’odio fascista dai social network ha invaso le strade e ha colpito forte. Un delitto efferato, il crimine come metà oscura della normalità, il fascismo armato che coglie l’occasione per sparare nel mucchio. Siamo ripartiti proprio da dove nessuno si sarebbe aspettato una risposta. Macerata è una città normale e proprio per questo piena di contraddizioni e problemi non risolti. In una provincia, come tante, rinascono iniziative politiche dalla base, cospirazioni vitali, dignità. Il racconto dello storico corteo del 10 febbraio ci proietta verso l’apertura di una stagione di incontri e di progetti nella nostra regione, vorremmo accompagnarli come abbiamo sempre fatto, ascoltando, parlando, facendo.
In questo numero raccogliamo come sempre racconti dalla voce dei protagonisti e delle protagoniste e diamo spazio a storie inedite o dimenticate di resistenza e solidarietà.
Antifa Macerata è un progetto giovane che ha recentemente proposto, con la condivisione di un documento in rete, una riflessione aperta a tutti i militanti nelle diverse città d’Italia sulle pratiche e le strategie del contrasto al fascismo. Con loro abbiamo parlato della settimana nera delle Marche, della risposta militante, del grande corteo a cui abbiamo partecipato e di quello che c’è dietro le quinte della piccola città. La recensione del documentario “On the road” di Piers Sanderson ci ricorda che la violenza contro le donne ha un lato quotidiano e strutturale proprio sulle nostre strade: la prostituzione forzata, la repressione delle migrazioni, il razzismo: l’indifferenza non ci è permessa. Ci penserà poi una spigolatura di Joyce Lussu a ricordarci che la provincia marchigiana non è sempre stata rose e fiori. Quando alla fine del Settecento l’onda giacobina ha attraversato queste terre se ne sono viste di cotte e di crude. A proposito di storia, ogni tanto torniamo a Urbino dove, al di là di ogni pronostico, troviamo ancora vivo e attivo un sottobosco di studenti e studentesse insubordinati: la Libera Biblioteca De Carlo si racconta.
In questo numero, complice forse anche il freddo becco delle ultime giornate di febbraio ci siamo rivolti specialmente verso le montagne che ci portano con pazienza sulla loro schiena. In Abruzzo, a Sulmona, il progetto del gasdotto prosegue, come prosegue anche l’organizzazione di una difficile ma necessaria opposizione ai veteropetrolieri. Ha già meno bisogno di loro e del loro velenoso mondo chi sa recuperare tecniche dimenticate e quasi magiche, come quelle per l’autoproduzione del colore blu che ci racconta Luigi. Fare con le nostre mani e con le erbe non è ecologico solo per l’ambiente naturale, ma anche per le nostre menti.
Dalle parti di Pergola, invece, ci arriva un racconto sensibile e documentato su una educazione sentimentale appenninica: l’amore per la montagna può essere un sentimento di apertura, una volontà di incontro e non di isolamento.
Infine in questo numerone 10 non abbiamo badato a spese e pubblichiamo un caustico pamphlet rivoluzionario di Philipponneau, membro della rivista radicale Encyclopédie des Nuisances, la cui traduzione è a cura nostra. E siccome la primavera si affaccia dietro l’angolo di questa buriana, abbiamo scelto di arrivarci preparate e preparati con le previsioni astrologiche di Astronza che ci racconta perché guardare il cielo e le stelle è come guardare in noi stessi, attitudine che come rivoluzionari dovremmo sempre coltivare.
Prima di partire, ci prendiamo ancora un momento per dedicare un ricordo a un compagno che ci ha lasciati da poco. A gennaio una brutta malattia ha avuto la meglio su Donato Romito: maestro elementare, sindacalista di base, compagno sempre in prima fila, pronto a stringerci la mano anche se su molte cose avevamo punti di vista differenti. Donato è stato fin dagli anni Settanta un comunista anarchico, convinto della necessità per gli anarchici di un’organizzazione compatta e strutturata, sempre estremamente lucido e coerente sulle sue posizioni. Originario della Puglia, è stato per decenni un punto fermo per quello che possiamo chiamare “movimento” della provincia di Pesaro e Urbino, e oltre. Una cerimonia laica con canti e bandiere rossonere ha riscaldato le lacrime dei presenti e ci ha ricordato che questa vita è troppo breve per lasciarla scorrere senza godere e lottare.
Signori, il tempo della vita è breve. Ma quand’anche la vita, cavalcando la sfera del quadrante, giungesse al suo traguardo dopo un’ora, anche quel breve corso sarebbe esageratamente lungo, se trascorso in un’esistenza vile. Se vivremo, vivremo per calpestare i Re.
William Shakespeare, Enrico IV
Oroscopo di primavera. Vite precarie, sfighe cosmiche, svolte epocali e destini infami
Di Astronza, con un’intervista di Valentina
Il cosmo questo sconosciuto… ma anche sottovalutato! Abbiamo incontrato Astronza, compagna romana, in uno dei suoi cabaret astrologici e ci ha fatto girare la testa fino vedere i pianeti, così abbiamo deciso di farci raccontare perché – e soprattutto come – restare connessi con il nostro cielo, anche se siamo irriducibili materialiste/i. Per chi continuerà a essere scettico dopo questa lettura: peccato… ma almeno avrete sempre qualcosa lassù con cui prendervela.
Illustrazione di Troche
Ciao Astronza, senza troppi giri di parole e visto che il tuo nome lo suggerisce, spiegaci, soprattutto per lettori e lettrici diffidenti: l’oroscopo e l’astrologia sono una… stronzata?
Assolutamente, direi che è tutto il contrario. Il nome Astronza, come anche la grafica scelta, nascono un po’ come provocazione: molto spesso l’astrologia viene considerata cosa di poco valore, inserita spesso nella categoria tempo libero, quando invece è uno strumento complesso di conoscenza di se stessi, degli altri e di tutto ciò che ci gira attorno e ci attraversa, le energie! Ma molto spesso risulta essere pesante e noiosa quando studiata, o approcciata in maniera errata quando consultata. La previsione del futuro non è possibile per fortuna e l’astrologia ha solo il compito di decifrare quello che c’è e ci potrebbe essere, il mio intento è dare un’impronta ironica e divertente e che soprattutto esca dai soliti canoni fatti di amori solo eterosessuali e rapporti stile famiglie vecchio stampo, far arrivare il messaggio in una chiave diversa. E poi è il caso di non prendersi mai troppo sul serio, un po’ di sana autocritica ci vuole sempre.
Qual è il nostro rapporto con stelle e pianeti? C’è sintonia tra la vita umana e i corpi celesti? Perché dovremmo osservare di più il “nostro” cielo?
Come diceva Ermete Trimegisto: ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso. Il cielo è sempre stato il punto di riferimento dell’essere umano, è da lì che partono tutte le scoperte. Osservando il cielo l’uomo ha imparato a navigare, coltivare e ad avere una concezione del tempo. Guardare al cielo e riconoscerlo vuol dire orientarsi, non penso che possa esistere un motivo più valido di questo. Se so che vado a Berlino a gennaio di certo non parto con le infradito, come non vado alle Canarie con i doposci, così se so che ho Mercurio o Venere opposti e quadrati a Saturno o Nettuno non vado a fare una dichiarazione d’amore. Come non è il caso di darsi all’illegalità o non faccio uscire un libro quando mi trovo un Giove quadrato in aspetto difficile, per esempio con Mercurio. Queste sono sempre indicazioni, poi c’è la scelta che rimane sempre nostra.
Oggi siamo abituati a considerare l’oroscopo con un approccio frivolo e superstizioso, suggerito anche da un modo leggero e/o commerciale di proporre la materia. Dai giornali alle tv la figura dell’astrologo (quasi sempre maschio!) ha una connotazione a tratti folkloristica. Che ne pensi di questi personaggi, ma soprattutto c’è stato un tempo in cui l’astrologia aveva un’altra considerazione?
Illustrazione di Troche
Penso che alcuni astrologi sono molto bravi, ma non vedo la tv da oltre vent’anni e non sono molto aggiornata. C’è Paolo Fox che, quando mi è capitato di vederlo, l’ho visto consumato dalla mole di lavoro e nemmeno gli lasciano lo spazio giusto; Branko, che gli vuoi dire, è leggendo le sue previsioni annuali che è scattata la mia prima molla nel cervello, il transito di Saturno! I loro oroscopi sono veritieri, si basano su transiti reali e danno indicazioni giuste, poi come lo presentano è un altro discorso. Da una parte sono contenta che sia stato dato spazio alla materia anche in altri canali, con la possibilità di uscire dai giornaletti da bagno o dai discorsi da parrucchiere, negli ultimi anni ho visto la riscoperta e crescita di tale disciplina, quindi non mi sento di criticarli. E sì, spesso gli astrologi famosi sono maschi, come i cuochi, quando poi sembra essere di interesse soprattutto femminile, ma si sa la donna in cucina è normale mentre l’uomo è “chef ”… L’astrologia in realtà ha avuto sempre un’altra collocazione, è solo dai tempi moderni che si guarda all’oroscopo personale, prima veniva utilizzata per vedere i grandi accadimenti mondiali tipo le guerre, ciò che poteva accadere a personaggi di un certo rilievo, o anche per i matrimoni illustri, quelli decisi a tavolino dalle grande famiglie come in India, lì ad esempio vengono comparati i due temi e si vedono affinità e possibilità.
Per anni le mie mattine sono state accompagnate dalla voce di Linda Wolf che in una finestra di pochi minuti su Radio2 offriva agli ascoltatori un oroscopo sintetico e sibillino. Linda è stata studiosa, scrittrice e docente nel campo dell’astrologia, personaggio curioso e poco conosciuto. Come lei altre donne hanno dato un contributo fondamentale allo studio delle stelle, anche in una prospettiva razionale e femminista. Ci puoi citare qualche esempio? Hai dei riferimenti nella tua arte?
La mia musa, colei che mi ha convinto della validità dell’astrologia, è stata proprio una donna, Lisa Morpurgo. Venuta a contatto con l’astrologia per motivi lavorativi dopo averla studiata, ha gettato nuove fondamenta per una nuova comprensione dello zodiaco arrivando a ipotizzare l’esistenza di due nuovi pianeti che successivamente sono stati scoperti, Eris e Sedna, governatori del segno del Toro e della Vergine. In realtà ne sono stati scoperti molti altri, ma il discorso si fa lungo e ci facciamo notte, però vi dico che si stanno studiando anche a livello astrologico oltre che astronomico. La Morpurgo sicuramente è un punto di riferimento dell’astrologia italiana, Lidia Fassio, sua allieva, ha fondato la scuola italiana dell’astrologia umanistica, una branca dove l’astrologia mondiale sta volgendo il suo sguardo…
E ora spazio all’oroscopo.
Ariete
La primavera! Grazie al vostro impeto, chiamiamola pure irruenza, la vita esce allo scoperto, viene alla luce e quest’anno il Sole è in compagnia di Mercurio, Venere e Urano agli ultimi gradi pronto a lasciarvi a maggio dopo ben sette anni di transito. Voi in primis e tante energie potenti, innovative e rivoluzionarie. Alcune, a dire il vero molte, però vi richiamano al dovere, ma voi adesso pensate al piacere, alla soddisfazione, ai sentimenti. Tirati tra gli opposti il vecchio e il nuovo, stimoli, indecisione, passioni e progetti lavorativi. Aprile vi vede più sereni e compiaciuti, anche se la stanchezza è tanta come gli impegni che tanto vi piacerebbe evitare, ma non si può! Con Mercurio fino a metà maggio non sapete a chi dare i resti, comunicazioni a go go. Nei sentimenti c’è meno ansia, ci si accasa volentieri. Il mese è scorrevole, sociale e piacevole ma a giugno un po’ di malinconia, di insicurezza vi fa venire voglia di dolcezza…
Illustrazione di Troche
Toro
A marzo avete un’ottima forma psicofisica e tanta voglia di fare qualcosa di nuovo, di eccitante, solo che sarà da aprile che i tempi saranno veramente maturi. Il mese vedrà Venere transitare nel vostro segno dal 1 al 24, è il momento delle piacevolezze, voglia di comprarsi qualcosa, di uscire, di viversi qualche emozione. Siete più belli, Venere in congiunzione emana fascino anche quando non vi piacete. Le forze ci sono ma dalla metà di maggio ci saranno due transiti di grande rilievo per voi. Il primo è quello di Urano il pianeta del cambiamento, della rivoluzione, che il 15 entra nel vostro segno dopo 84 anni e il secondo è la sosta di Marte, pianeta dell’energia fisica e sessuale, che dal 16 che vi si mette in aspetto di chiusura. Evitate gli eccessi e non stressate il fisico, qualcosa di grosso si smuove dentro e fuori di voi, la vita per voi può prendere tutt’altra forma, siete nell’alba di una nuova era…
Gemelli
tante le cose che accadono in questa primavera. Siete svegli e svelti nel prendere le occasioni al volo. Buon momento per avviare nuovi progetti professionali, per riscuotere qualche soldo e anche le relazioni vivono un periodo roseo. Specialmente quando Venere dal 24 aprile arriva nel vostro segno mettendo in risalto il fascino. La voglia di relazionarsi è forte, siete pronti per buttarvi nella mischia. Maghi della parola, suscitate ottime impressioni sulle persone. La sosta di Mercurio fino a maggio favorisce gli scambi, gli spostamenti e stimola la vostra infinita curiosità, voglia di conoscenza. A metà maggio poi comincia la sosta di Marte in Acquario che viene a darvi quella forza in più che vi permette di fare molto. Sicuramente è per voi la stagione più favorevole dell’anno dove è possibile rinverdire rapporti come anche avviarne di nuovi. Giugno vi vede più dolci e disponibili verso gli altri e chissà che non vi sentiam parlar d’amore…
Cancro
La primavera si apre e voi non vi sentite tanto pronti, troppe attività, cose di fretta, cavoli a merenda. La fine di marzo vi vede infastiditi e reattivi con l’ambiente esterno, ma già da aprile qualcosa si muove e pure bene. Venere dal 1 vi rende più belli, di nuovo socievoli e stranamente sociali. Certo c’è la quadratura di Mercurio che non vi permette di esser al top, evitate l’impulsività. È da maggio che la situazione cambia dalla notte al giorno quando Marte si toglie dall’opposizione, Mercurio dalla quadratura, Venere entra nel segno il 19 e, notiziona dell’anno, Urano dopo sette anni in posizione ostile viene a vostro favore! Incontri che fanno battere il cuore come tanto piace a voi, coppie più stabili, l’amore diventa protagonista e soprattutto sereno. Finisce il periodo di magra, qualche soldo torna a girare, nel lavoro comincia a vedersi qualche luce e non è Natale. Giugno vi vede soddisfatti, i cambiamenti che incontrerete stavolta saranno molto positivi…
Illustrazione di Troche
Leone
L’inizio della stagione è foriero di buone occasioni. Sole, Mercurio e Venere a marzo vi danno quella marcia in più che avete fin dalla nascita e che vi porta verso qualche risultato ambizioso che perseguite da un po’ di tempo soprattutto nel lavoro. Anche la sfera erotico sentimentale non è male. Dal primo aprile però i nodi vengono al pettine nei rapporti con gli altri, nei gruppi, nelle relazioni, c’è tensione ognuno sta sulle sue e i nuovi amori, se ci sono, non sono facili. È da metà maggio che la pazienza scema e le cose si complicano, capirsi con gli altri diventa difficile sembra che parlate diverse lingue e pure quella dei segni non sembra funzionare. Marte dal 16 si mette in opposizione e la resistenza la fa da padrone e c’è anche Urano che il 15 entra in quadratura portando un po’ di ribellione. A giugno siete già un po’ più teneri e leggeri e poi arriva Venere nel segno e l’estate vi vede brillare…
Vergine
La primavera comincia con tante anche troppe cose da fare, cosa che comunque a voi piace visto che fermi non ci sapete troppo stare. Tutto accade molto velocemente e non avete molto da prendere fiato. Ad aprile siete sostenuti dal trigono di Venere dal 1 al 24, grande momento per i senti¬menti, nelle coppie c’è affiatamento e per i single è possibile fare incontri interessanti che hanno il sentore di diventare qualcosa di importante e duraturo. Marte fino a metà maggio vi dà la forza necessaria per affrontare tutto. Il periodo è ricco di occasioni per confermare la vostra posizione lavorativa, per trovare consenso e sostegno, sia morale che economico. Sa¬turno è sempre in trigono e a metà maggio lo sarà anche Urano, pianeta del cambiamento, dell’inaspettato, delle novità importanti. L’inizio di giugno vede qualche nuvola affacciarsi nel vostro cielo, con Mercurio negativo meglio andarci piano, a comunicare trovate difficoltà…
Bilancia
L’inizio di primavera vi trova con qualche perplessità. È un periodo in cui siete stressati, agitati, un tantino ansiosi anche. I transiti dei pianeti in opposizione non vi lasciano per niente sereni, vi mancano delle sicurezze. Nel lavoro sembra tutto in forse, vano, faticoso! Occhio nelle finanze, ci sono più uscite che entrate e fino alla metà di maggio non se ne esce. Ma tanto voi siete proiettati verso le relazioni e il godervi la vita, lo sforzo già si sa non fa per voi e con Venere opposta che aspira all’ozio ancor di più. Già dal 1 aprile però il pianeta degli affetti comincia a mandarvi influssi gentili e dal 24, quando entra nel segno dei Gemelli rendendo tutto più bello e armonioso soprattutto a livello relazionale. Dalla metà di maggio c’è una rinascita a livello fisico, Marte il pianeta dell’energia torna in aspetto positivo, finisce il periodo di stasi. Verso giugno vediamo i pianeti transitare nel Cancro e a voi risalir qualche fisima…
Scorpione
Marzo vi vede attivi e propositivi, aprile è invece un mese in cui vorrete prendervela con molta calma. Venere in opposizione fino al 24 vi fa stare un po’ fermi sulle vostre posizioni, non avete molta voglia di sforzarvi, di fare cose impegnative e nemmeno di lavorare, il mood è più che altro sul godereccio andante. È la seconda metà di maggio ad essere difficoltosa quando sia Mercurio che Marte vi mettono a rischio di qualche incidente o accidente dovuto per lo più a distrazione e anche al fatto che non state a sentire quanto vi dicono gli altri e parlo sia di partner sentimentali che professionali. Meglio rimandare acquisti importanti e se vi fanno proposte valutatele perché non sempre sono a vostro favore. Siete sempre i beniamini delle stelle grazie a Giove ma a giugno dovete stare attenti a come vi ponete, la grazia, il tatto, potrebbero venire a mancarvi. Venere e Mercurio una mano ve la danno, datevela pure voi…
Illustrazione di Troche
Sagittario
Pimpante questa primavera soprattutto agli inizi quando i tanti trigoni di fuoco arricchiscono la vostra quotidianità di belle esperienze e persone. Buon momento quindi per darsi da fare, difficile non vi accada nulla perché anche senza troppo volerlo saranno gli altri a cercarvi e trovarvi. Mercurio in sosta porta nuove possibilità lavorative, di ampliare la vostra cerchia o qualche premio. Giusto tra la fine di aprile fino a metà maggio Venere si mette in opposizione facendovi salire un po’ di pigrizia, non avete molta voglia di cose impegnative, c’è più voglia di svago che di altro. Magari sarà proprio la sfera erotico sentimentale a catturare la vostra attenzione e il vostro tempo. Di amori belli ne possono nascere, non solo storielle. Nei rapporti già avviati c’è un maggiore feeling e disponibilità. Da metà maggio potete contare sulla sosta di Marte, insomma state belli parati, il divertimento e la soddisfazione sono assicurati…
Capricorno
Sole, Mercurio e Venere quadrati, quindi ostili, è così che cominciate la primavera! Non bisogna spingere e nemmeno correre se si vuole ottenere veramente un buon risultato, ci sono ritardi incomprensioni e dovete tenere sotto controllo la vostra intolleranza soprattutto a livello pratico lavorativo. Marte nel segno fino al 16 maggio vi rende belli decisi e poco comprensivi, è il caso di ascoltare anche le ragioni degli altri! A marzo pure le relazioni affettive non sono al massimo, ma ad aprile, grazie al trigono di Venere dal 1 al 24, la situazione erotico sentimentale diventa interessante e pacifica, nuovi progetti, incontri interessanti. È verso la metà di maggio che possono arrivare quelle conferme lavorative economiche a cui tanto aspirate, Marte esce dal segno e voi vi sentite meno col fiato sul collo, finalmente potete godere delle soddisfazioni della vita. Giugno porta qualche nuvola, melanconia, voglio di un certo non so che, permalosità…
Acquario
Aria frizzante per voi all’inizio della stagione. Ad aprile c’è giusto un transito breve di Venere fino al 24 che vi rende meno vogliosi di uscire e relazionarvi col prossimo, partner compreso. Difficile scendiate a compromessi, poi la musica cambia e la disponibilità torna. È maggio che dal 16 vede l’ingresso di Marte che rimarrà nel vostro segno fino a novembre. Tanta è l’energia che arriva dal pianeta specialmente perché si trova da subito ostacolato dal transito di Urano in Toro dal 15. Importante è incanalarla bene questa energia altrimenti potrebbe fare danni. Un po’ di rabbia va messa in conto, soprattutto perché le cose non sempre, anzi spesso, non andranno come volete voi. Datevi a qualche esercizio fisico, se non fate all’amore rischiate di fare alla guerra soprattutto se qualcuno invade i vostri spazi o vi sposta i vostri oggetti dai vostri posti prestabiliti. La prima parte di giugno è interessante e divertente e verso la fine che vi mettete di punta…
Pesci
Una primavera ricca quella che vi aspetta. I pianeti portano attività e anche soldi. Periodo intenso e dinamico dove ci sarà poco tempo per fermarsi e rilassarsi. Marte vi dà tono e fermezza per smaltire la gran mole di cose da fare. Il sestile di Venere dal 1 al 24 porta piacere, stabilità e coraggio nella sfera erotico sentimentale. Conferme nelle storie avviate come anche nuovi incontri. Giusto una breve parentesi di disagio può esserci a maggio quando sarete così catturati dalle varie e tante attività da portarvi a trascurare gli affetti ma giugno vede i transiti dei pianeti nel Cancro, segno di acqua come il vostro e lì sì che farete il pieno di situazioni emozionanti e benefiche. Difficile tro¬vare esperienze bloccanti, siete tra i beniamini delle stelle e comunque vadano le cose per voi sarà sicuramente un successo anche se a primo impatto potrebbe non sembrare…
Ringraziamo di cuore Astronza per averci fatto strada sulla via lattea. Per continuare a leggerla e conoscere i suoi appunta¬menti: https://www.facebook.com/ AstrOnzaConFabula
Alcune questioni preliminari molto pratiche
Di Jacques Philipponneau
Il 5 giugno 1999, José Bové, René Riesel e Dominique Soullier nel corso di una campagna contro l’ingegneria genetica, sabotavano i lavori sugli Organismi geneticamente modificati (OGM) effettuati al Centro di cooperazione internazionale in ricerca agronomica per lo sviluppo (CIRAD) di Montpellier. L’intera questione del sabotaggio e del successivo processo è stata letta e affrontata da due prospettive contrastanti: mentre da un lato c’è stato chi ne ha fatto un esempio mediatico di battaglia popolare (“cittadinista”) volta a richiedere maggiore trasparenza, partecipazione, tutela statale e, in definitiva, a raggiungere una pacificante cogestione delle nocività presenti e future, dall’altro lato Riesel ha cercato di affermare la lotta contro gli OGM come una tappa nella costruzione di un’opposizione veramente radicale alla società dominante. A partire da questa vicenda, Philipponneau ha proposto alcune questioni preliminari che potessero fornire una base minima di discussione all’interno del Comitato di sostegno a René Riesel. Si tratta, come dice l’autore, di “banalità di base” utili da riaffermare “per non ricadere in quel continuo riproporre questioni che finge di riscoprire eternamente dei fondamenti critici già chiari da lungo tempo”.
Fa Maschere – Urbino. Foto di Laura Rapone
Il quadro della situazione contemporanea non pare dei più felici e la riflessione di Philipponneau non fa sconti. Infatti, dopo l’ultimo assalto al cielo del Sessantotto e delle lotte sociali del decennio successivo, sembra che le nuove generazioni manifestino una crescente difficoltà anche solo a immaginare quella che una volta veniva chiamata “rivoluzione sociale”. Per volare più basso, sarebbe già qualcosa avere una visione lucida dei falsi bisogni generati dalla società industriale, più che dalle necessità della vita. E porre in discussione le coordinate di base di questa società, stadio attuale del capitalismo, con tutti i suoi veleni e le sue devastazioni ambientali e sociali, per cominciare a chiedersi, intanto, in quale mondo desideriamo vivere e come sia una vita degna di essere vissuta, fuori dalla scolarizzazione istituzionale, dal lavoro, dall’economia mercantile e dalla politica dei palazzi, sperimentando le vie per metterla in pratica qui e ora. Soprattutto, è necessario mantenere vivi e aggiornati gli strumenti critici che ci potranno far affrontare quelle eventuali crisi rivoluzionarie che speriamo allietino il prossimo futuro, anche se al momento non ci è dato intravedere da quale scintilla potranno originarsi.
D’altra parte, il fatto che la rivoluzione non sia ineluttabile non è un buon motivo per scoraggiarsi: “diciamolo chiaramente – scrivono Bertrand Louart e Fabien Palisse – per noi la rivoluzione potrebbe anche non avere luogo, ed è il fatto stesso di guardare in faccia e prendere freddamente in considerazione questa eventualità che sta alla base della nostra attuale riflessione e della nostra attività. La questione, d’altra parte, non è di sapere se la rivoluzione avrà luogo o no, mentre noi ci siamo ancora o no, ma piuttosto di sapere come, con le nostre modeste forze e nelle circostanze attuali particolarmente sfavorevoli, possiamo operare per fare in modo di mantenere vivi e restituire una certa popolarità ai valori legati al progetto di emancipazione individuale e sociale. Quella che motiva la nostra attività in questo senso, non è dunque la certezza che la rivoluzione arriverà un giorno, quanto la nostra adesione ai valori che fondano il progetto rivoluzionario. E abbiamo la presunzione di credere che possiamo tentare di cominciare a vivere secondo questi valori qui e ora, che è anche il principale mezzo per mantenerli vivi, cioè attraverso la loro sperimentazione pratica, e così trasmetterli, esplicitarli, rinnovarli e assicurare loro una certa diffusione” (Bertrand Louart e Fabien Palisse, À propos de quelques grognements et aboiements…, luglio 2001).
Nel tratteggiare la situazione disastrosa del testo presente, Philipponneau lascia comunque aperti degli spiragli di fiducia. Individualmente e collettivamente non sono ancora del tutto chiuse le possibilità di riprendere in mano il senso del proprio stare al mondo. Certo, se si vuol tentare di annodare i fili di una diversa organizzazione sociale, che rispetti le relazioni tra i viventi e i loro territori e non corra a capofitto verso la catastrofe, sarà indispensabile far propria una critica radicale di questo mondo, senza impantanarsi nelle sabbie mobili di quel cittadinismo interessato a partecipare allo sviluppo più o meno sostenibile alternando conflitto e collaborazione con le istituzioni. Non tutto, quindi, è perduto, sebbene a distanza di quindici anni dalla stesura di questo testo non ci sembra siano stati fatti grossi passi in avanti. Eppure, come ha scritto Riesel, “constatare che la guerra è totale e che le nostre posizioni sono fragili non significa dipingere il quadro a tinte fosche. Non sembra possibile scurirlo più di coloro che non hanno nient’altro da offrirci che la ristrutturazione delle rovine” (René Riesel, “Sulla zattera della Medusa”, Torino, Quattrocentoquindici, 2004, p. 11). Le note al testo sono nostre.
Fa Maschere – Urbino. Foto di Laura Rapone
1) Abbiamo globalmente assistito, da trent’anni a questa parte, a una regressione (qualitativa e quantitativa) della contestazione dei fondamenti di questa società?
2) Lo sviluppo e l’estensione della società di massa non hanno compromesso sempre più le condizioni materiali di elaborazione di una coscienza critica che non fosse rudimentale né spettatrice?
3) Se si pensa che l’esistenza di comunità pre- o anti-capitalistiche (oppure pre- o anti-industriali) sia la condizione sine qua non della costituzione e dello sviluppo durevole di una coscienza critica attiva, ma d’altra parte si constata ogni giorno la loro evanescenza o il loro sradicamento, fare come se questo processo potesse ribaltarsi rapidamente non è forse indicatore di una speranza slegata dalla realtà o di una routine militante; cioè, di una forma o l’altra di pigrizia intellettuale?
4) Possiamo sperare, ammettendo tutto questo, che la degradazione delle condizioni di vita sociale e biologiche a livello planetario e l’incapacità manifesta della società industriale a risolvere i problemi che ha creato possano produrre a breve termine una coscienza critica diffusa che colga un giorno l’occasione di esprimersi tanto improvvisamente quanto radicalmente?
5) Questa ipotesi (che si basa sul precedente del Maggio ’68 francese) che presuppone in proporzioni variabili il mantenimento astorico di una coscienza di classe nelle masse atomizzate, una permanenza della “soggettività radicale” in individui profondamente alienati o una tendenza eterna dell’umanità a ricercare la libertà, non è anch’essa una forma di consolazione senza prospettive?
6) In cosa l’esperienza delle diverse opposizioni agli OGM nel corso di questi quattro ultimi anni fa luce sulle questioni precedenti?[1]
7) In breve, se si condividono più o meno queste domande-constatazioni, cosa pensiamo di poter fare delle nostre idee nel prossimo futuro, diciamo nei prossimi dieci anni?
Fa Maschere – Urbino. Foto di Laura Rapone
Nessuna forza sociale significativa, opposta ai valori fondamentali di questa società, si è costituita in nessuna parte del mondo dalla fine degli anni Settanta. Questa assenza impedisce alle minoranze realmente ostili al capitalismo, allo Stato e all’alienazione tecno-industriale, di sperare di intervenire in maniera decisiva sull’andamento del mondo in un prossimo futuro.
È certamente la realtà materiale del sistema di bisogni sviluppati dalla società industriale che modella l’insieme dei rapporti sociali, fino a sradicare la possibilità per la coscienza di rimetterli in discussione. Questo sistema di bisogni è congegnato come l’insieme delle produzioni materiali, organizzative e ideologiche necessarie alla riproduzione della società. Non tutte queste dipendono dalle strette necessità della redditività capitalistica ma sono molto più, fondamentalmente, una visione del mondo che si realizza utilizzando i molteplici mezzi di una mega-macchina sociale equipaggiata dalla tecnoscienza: economici, mediatici, amministrativi, militari, polizieschi, etc.
Nel sistema di necessità artificiali in cui viviamo e di sovrasocializzazione[2] che è ad esso legata, le nozioni di libertà individuale e di autonomia collettiva sulle quali si fondavano i progetti di emancipazione sociale sono progressivamente svuotate del loro contenuto e presto diventeranno impensabili. È per questa impossibilità crescente, piuttosto che per la semplice coercizione, che questa società diventa totalitaria.
Ma il risultato a cui tende questa società totale (poiché mondiale e unificata) è che non esista più niente al di fuori di essa. Né realtà, né critica, né parametri di confronto e presto nemmeno più ricordi.
Questo programma di sradicamento dovrebbe designare, a contrario, quello di coloro che coerentemente si oppongono a tale sistema.
Fa Maschere – Urbino. Foto di Laura Rapone
Dal momento in cui questa società non conosce più una seria opposizione è entrata in una crisi da cui non uscirà più: la degradazione della natura (in tutte le accezioni del termine, fino all’integrità psico-fisiologica dell’uomo) e la disintegrazione sociale costituiscono, che lo si voglia o meno, la questione universale del nostro tempo.
Se non si sono mai visti movimenti sociali lottare contro delle astrazioni teoriche quanto, piuttosto, contro le condizioni concrete dell’alienazione della loro epoca, è altrettanto vero che non s’è mai vista una significativa trasformazione sociale senza che prima la battaglia delle idee non sia stata persa dai sostenitori della vecchia società. E quindi risulta inconcepibile un mero auto-collasso ideologico del sistema che accompagni quello della sua realtà materiale. Poiché l’abbruttimento individuale e collettivo non ha alcun limite conosciuto e non ci sarà salvezza assicurata dall’apocalisse.
L’esito di una simile battaglia di idee implica che dei valori positivi si siano affermati e che siano stati messi in pratica su larga scala contro i valori precedenti. Ma dobbiamo riconoscere che è in maniera frammentaria e occasionale che quei valori sui quali possiamo fare leva vengono affermati o praticati. Come, ad esempio, quello che consideriamo come il successo, malgrado tutte le sue insufficienze, della lotta contro gli OGM: l’aver messo sulla pubblica piazza questioni come il senso della completa rottura con la natura causata dal progresso tecnico o il ruolo dell’ideologia scientifica nel processo d’asservimento alla società totale.
Fa Maschere – Urbino. Foto di Laura Rapone
Ma se anche questi valori non vincessero mai, abbiamo il dovere di assicurare la loro persistenza per il nostro tempo sulla terra, perché è così che amiamo vivere, nonché di trasmetterli ai posteri, come altri lo hanno fatto prima di noi.
Il compito classico di distruggere l’ideologia dominante, i suoi valori e il suo sistema di giustificazione, se è oggi d’attualità, è reso ben più difficile dalla scomparsa dei contesti in cui una coscienza critica attiva poteva trovare le sue condizioni materiali di esistenza.
La gran parte della popolazione dei paesi industrializzati è atomizzata e rimbambita da mezzo secolo di incessanti trasformazioni tecnologiche. Non riesce a reagire alla degradazione reale delle sue condizioni di vita se non domandando allo Stato maggiore protezione, come fanno in maniera apparentemente contraddittoria ma fondamentalmente identica il cittadinismo[3] e l’innegabile deriva verso regimi securitari.
A questa richiesta “politica” soddisfatta dalla cooptazione del cittadisimo, inteso quale coscienza morale volontariamente impotente, e dalla messa in opera pragmatica di un controllo sociale che si sogna assoluto, corrisponde una fuga nel consumo di protesi tecniche o chimiche, palliativi per la scomparsa di ogni vita sociale autonoma e per il crollo della personalità che l’accompagna.
Questo gregge cieco[4] costituisce inoltre la massa di manovra ideale di tutte le manipolazioni che saranno rese necessarie dalle brutali disfunzioni del sistema: crisi economiche o finanziarie, catastrofi industriali, anarchia geopolitica, barbarie sociale generalizzata.
Fa Maschere – Urbino. Foto di Laura Rapone
Se è vero che ogni rivoluzione richiede che dal basso la grande maggioranza rifiuti di continuare come prima, spinta dalle necessità della sopravvivenza e dal dinamismo del proprio progetto sociale, mentre in alto non si possa più governare come prima perché i valori del dominio sono moribondi, dobbiamo riconoscere che nessuna di queste condizioni è presente. In altre parole, siamo solamente all’inizio di questa spirale regressiva.
La colonizzazione operata dalla società industriale sulla vita quotidiana non è una figura retorica ma una realtà travolgente ed è proprio perché si è totalmente realizzata che adesso merita pienamente il suo nome. Ed è proprio l’incarcerazione nei rapporti sociali necessari a questo sistema di bisogni che produce, attraverso il sentimento d’impotenza e la totale dipendenza che questa comporta, la passività pratica e intellettuale dei nostri contemporanei.
Se si accettano questi bisogni e la loro soddisfazione, non si ha alcuna ragione di ricusare questa società, che ne è la forma appropriata così come la loro matrice. Tutt’al più si può domandare allo Stato o alle istanze sovrastatali una produzione più responsabile e una redistribuzione più equa. Per chi si considera per sempre legato a un tale mondo, senza speranza di uscirne, è tutto assolutamente legittimo. Ecco la fonte di tutte le forme di cittadinismo, che rende vane le recriminazioni contro questo moderantismo[5] e inadeguate le accuse di recupero da parte del sistema.
Chi guarda queste realtà con sguardo freddo non può che rabbrividire di fronte alla fragilità della causa della libertà e convincersi che è innanzitutto in lui stesso, nella sua vita individuale e in una realizzazione collettiva, qui e ora, che può fondarla.
Voler uscire dagli attuali rapporti sociali senza demolire questo sistema di bisogni non ha alcun senso, né teoricamente né praticamente. Vale a dire che un’opposizione efficace a questa società non avrà concretezza che quando un numero sufficiente di persone avranno rotto, nella misura del possibile, intellettualmente e materialmente con i suoi valori e le sue false necessità: la questione sociale non è mai stata altra cosa che quella del senso della vita.
È sulla critica di questa vita mutilata che può farsi la distinzione tra coloro che accettano i suoi valori fondamentali (mercificazione, tecnificazione, meccanizzazione, isolamento tecnico, gusto del simulacro, fuga nella rappresentazione, etc.) e coloro che li respingono. Dalla formazione o meno di questa linea di demarcazione dipenderà la nascita di un nuovo progetto di emancipazione oppure l’immersione in una barbarie inedita.
Tuttavia, l’ideologia del progresso tecnico, la mercificazione di ogni rapporto sociale, l’industrializzazione della totalità dell’esistenza cominciano ad essere rimesse in discussione, dopo un lungo occultamento, anche al di fuori del ristretto ambito sopravvissuto dai movimenti radicali degli anni Sessanta e Settanta. Non sorprende che in un primo tempo questa critica sia parziale, riformista, piena di illusioni, tutto dipende da cosa diventerà nei prossimi anni. Ed è qui, naturalmente, che il lavoro critico propriamente teorico conserva tutto il suo classico ruolo di motore, stimolo e denuncia della pseudo-critica.
Fa Maschere – Urbino. Foto di Laura Rapone
D’altra parte, se parlare di un progetto di emancipazione sociale ha ancora un senso, vuol dire che la necessità di tirarsi fuori dall’insieme crescente di costrizioni tecniche e sociali prodotte dalla società industriale, non si riduce a un seducente progetto intellettuale ma può diventare un bisogno sociale di massa.
Sappiamo almeno che lo è in senso negativo. Sotto una forma ormai patologica, il bisogno non reprimibile di fuggire dalla materialità della vita quotidiana attraverso le realtà virtuali, le droghe e i disturbi psicologici relega la ricerca compulsiva del divertimento e il turismo di massa al rango di inoffensive nevrosi della nascente società dello spettacolo.
È questa specie di scommessa che siamo costretti a fare che ci tiene lontani da ogni forma di gauchismo rifatto, che recita incessantemente le stesse verità morte, poiché inutilizzabili, sul capitalismo, la globalizzazione, l’egemonia americana o il pericolo fascista. Realtà o fantasmi che restano in ogni modo fuori dalla portata della magia della parola e della vuota indignazione.
Al contrario, se la lotta di questi ultimi anni contro l’ingegneria genetica ha avuto una tale risonanza, è stata una tale boccata d’aria fresca, è perché si è manifestata laddove non la si attendeva, su un terreno molto concreto, con un obiettivo realistico. Perché è stata innescata da dei protagonisti più o meno oscuri ma che nel corso di questi anni di riflusso avevano saputo costruire basi solide per la loro autonomia materiale e intellettuale. E perché, infine, malgrado la confusione seminata in maniera più o meno interessata da un cittadinismo che si andava ancora definendo, sono due concezioni della vita, in tutti i sensi, che hanno conosciuto lì il loro primo scontro. È in queste schermaglie che le idee diventano pratiche, si affinano e si diffondono.
La società industriale compiuta appare tutto tranne che stabile, costretta dalle sue necessità interne a sconvolgere senza sosta le condizioni di vita, non può che aprire in maniera imprevedibile delle occasioni di conflitto, dovute a esiti fuori controllo o a minacce tangibili su quello che resta di stabile in un mondo divenuto ostile.
Si può dire che è sul cambiamento che si indirizza il potenziale conflitto sociale della nostra epoca, ma è innanzitutto insorgendo contro tutti i cambiamenti imposti dalla società attuale, portatori di degrado e riduzione della condizione umana, che si può prendere coscienza dei bisogni essenziali per una vita degna di questo nome.
In certe circostanze estreme, il progetto di reinventare la vita si semplifica considerevolmente. In Cabilia o in Argentina[6], per cause molto diverse, intere popolazioni sono state costrette a riprendere in mano le condizioni della loro esistenza, la prima delle quali è il dialogo sociale senza mediazioni e la capacità di ritrovare forme di organizzazione non gerarchiche. Quello che diventeranno simili tentativi getterà luce su una questione fondamentale della nostra epoca: la capacità dell’umanità, plasmata all’incoscienza storica e all’irresponsabilità sociale, di riprendere in mano il proprio destino.
Fa Maschere – Urbino. Foto di Laura Rapone
Simili problemi, su questa scala, non sembrano doversi porre in un prossimo futuro nelle necropoli dell’alienazione che sono diventati i paesi industriali europei. La combinazione di una piramide demografica che propende decisamente verso il silenzio dei cimiteri, come dimostrazione genetica dell’assenza di futuro, l’effetto della divisione mondiale del lavoro che allontana dagli occhi il suo lato concreto, sporco e conflittuale, la fabbrica, e la disintegrazione sociale delle vecchie classi pericolose, tutto fa pensare che i prossimi importanti conflitti non si svolgeranno qui. A meno che non si condividano i pronostici di umoristi radicali secondo i quali l’alienazione assoluta provoca immancabilmente una rivolta assoluta e che attendono dunque la realizzazione dell’arte e della filosofia nelle piazze delle periferie, da loro non frequentate.
La resistenza in queste condizioni deve prepararsi a durare e poiché ha poco da aspettarsi da questa società, essa deve tendere a conservare laddove possibile e a ricreare laddove non ci sono più le condizioni di una secessione attiva.
Quali saranno le sue forme è troppo presto per dirlo visto che malgrado qualche tentativo si tratta, per ora, più di una necessità, sebbene abbastanza condivisa, che di una realtà. Si può solamente dire quali non saranno: militanti o comunitarie sul modello degli anni Settanta. Se si possono trovare nel passato delle forme di resistenza offensiva più realistiche è piuttosto verso i circoli di pensiero del XVIII e XIX secolo, le associazioni di mutuo soccorso, le riappropriazioni individuali o collettive di saperi dimenticati o di forme di collettività più organiche, agricole o artigianali, che bisogna guardare.
Ad ogni modo, se questa tendenza si conferma, è soprattutto il lato sperimentale più che i riferimenti storici, la necessità più che l’astrazione di un progetto epocale a lungo termine, che saranno i motori della fondazione durevole di un arcipelago di oasi nella società in decadenza.
Il lato felicemente imprevedibile della storia dirà allora se tutto questo sarà servito solamente a preservare delle forme residuali di umanità o se si sarà trattato di uno dei trampolini provvisori necessari a una ripresa del processo di umanizzazione interrotto brevemente dall’industrializzazione del mondo.
Jacques Philipponneau, membro della rivista «Encyclopédie des Nuisances». Maggio 2002.
Fa Maschere – Urbino. Foto di Laura Rapone
[1] Sul sabotaggio al CIRAD e, più in generale, sulla lotta all’agricoltura transgenica e le sue opposizioni si veda René Riesel, Sulla zattera della Medusa. Il conflitto sugli OGM in Francia, [Torino], Quattrocentoquindici, 2004.
[2]Sovrasocializzazione: “Gli psicologi usano il termine socializzazione per designare il processo con il quale i bambini sono addestrati a pensare e agire come la società richiede. Si dice che una persona sia ben socializzata se crede e obbedisce al codice morale della sua società e se vi si inserisce bene come parte funzionante di essa. […] Alcune persone sono così altamente socializzate che il tentativo di pensare, sentire e agire moralmente impone loro un pesante aggravio. Per evitare sensazioni di colpa devono continuamente illudersi sulle proprie motivazioni e trovare spiegazioni morali per sentimenti e azioni che in realtà non hanno una origine morale. Noi usiamo il termine sovrasocializzato per descrivere tali persone”. Théodore Kaczinsky, Il manifesto di Unabomber. La società industriale e il suo futuro, Roma, Stampa alternativa, 1997, p. 17 [punti 24 e 25].
[3]Cittadinismo: Il termine cittadinismo, di derivazione francese, “indica un movimento composto da un vasto e multiforme arcipelago di associazioni, sindacati, collettivi, organi di stampa e correnti politiche, il cui scopo è battersi per il ripristino della «democrazia tradita». Il fatto che il nostro pianeta si trovi allo stremo, dal punto di vista sociale, politico, economico ed ecologico, oggi non è un mistero per nessuno. La causa di questa situazione viene fatta risalire dai cittadinisti al mancato rispetto della «volontà popolare» la quale – una volta caduta nelle mani di politici assetati solo di potere in combutta con affaristi avidi solo di profitto – si ritroverebbe disattesa, manipolata, rinnegata. Nemici di quei politici e di quegli affaristi (più che del sistema sociale di cui costoro sono espressione), i cittadinisti sono persuasi che la democrazia – nella sua forma più genuina, più rustica – sia effettivamente il migliore dei mondi possibili e che sia possibile migliorare e moralizzare il capitalismo e lo Stato, opponendosi con efficacia alle loro più palesi nocività ed abusi. A due condizioni però: che questa democrazia si esprima attraverso una rinata politica che abbia come modello più l’Atene di Pericle che la Firenze di Machiavelli, ovvero con una maggiore partecipazione diretta dei cittadini, i quali non solo devono eleggere i loro rappresentanti ma devono altresì agire costantemente per fare pressione su di essi affinché applichino davvero ciò per cui sono stati eletti. Questa pressione può venire esercitata nelle maniere più disparate, senza escludere quegli atti di «disobbedienza civica» che tanto fiele fanno sbavare ai reazionari più beceri e tanta ammirazione suscitano all’interno del movimento. […] Sentendosi trascurati, i cittadinisti si vedono costretti a scendere in piazza per difendere i propri «diritti». Le loro lotte hanno sempre obiettivi precisi, si limitano a dire un secco NO a un determinato progetto statale che mette in pericolo la propria salute, senza minimamente voler mettere in discussione l’organizzazione sociale che l’ha prodotto. Le istanze radicali, le tensioni sovversive, non li riguardano minimamente.”. Individui o cittadini?, «Machete», n. 1, gen. 2008, p. 6.
[4] Nel testo originale: troupeau aveugle, dal titolo del libro di fantascienza di John Brunner, Le troupeau aveugle (1972), tradotto in italiano: Il gregge alza la testa (Milano, Nord, 1975).
[5]Moderantismo: posizione dei moderati, termine introdotto durante la Rivoluzione francese.
[6] Sull’insurrezione in Cabilia (regione dell’Algeria) del 2001-2002 si vedano: Groupe Communiste Internationaliste, Ulach smah! Nessun perdono! Notizie dall’insubordinazione algerina, Porfido, Torino, 2002 e Jaime Semprun, Apologia per l’insurrezione algerina, Alcuni amici italiani degli Aarch, Bologna, 2002. Sulle rivolte nell’Argentina travolta dalla crisi economica si veda: Raccolta di materiale sull’Argentina: dicembre 2001-gennaio 2002, [S.l., s.n., 2002].
Le maschere in foto sono realizzate da Fa Maschere www.facebook.com/famaschere
Serie fotografica di Laura Rapone
Aspetti del brigantaggio contadino nel fermano dal 1797 al 1799
Di Joyce Lussu
Ricordiamo Joyce Lussu come una grande e originale personalità della cultura marchigiana del Novecento. Tra i suoi principali impegni c’è sempre stato quello della divulgazione storica, intesa in maniera assai lontana dalla storia di re e battaglie che di solito ci costringono a studiare. Quello che a lei interessa sono i movimenti della plebe oppressa, le sue rivolte per la conquista di condizioni dignitose di esistenza, la vita popolare che prosegue al di sotto dei grandi eventi della storia. In questa cronaca degli anni successivi alla Rivoluzione francese vediamo il territorio fermano percorso prima dall’esercito repubblicano che vuole “esportare” democrazia e libertà, poi dalle truppe lealiste al governo papale intente a restaurare i poteri di clero e aristocrazia. In tutto questo trambusto i notabili locali, pur di mantenere i propri privilegi, non hanno remore a passare da baciapile a mangiapreti per tornare, al momento opportuno, di nuovo uomini d’ordine fedeli a Sua Santità. Contadini e artigiani, nella loro precarietà quotidiana, sono appena sfiorati dai cambi di governo, ma quando si mettono insieme e prendono le armi finiscono per puntare dritti alle case dei ricchi signori e degli oppressori, qualunque sia la loro divisa.
Disegno di Samuele Canestrari [low]
Nella primavera del 1796 Fermo contava 6.000 anime, più 80.000 sparse nei 48 castelli del contado. La direzione della cosa pubblica era nelle mani di una consolidata oligarchia ecclesiastica e delle 76 famiglie nobili. Le notizie della Rivoluzione francese erano giunte soprattutto da gruppi di sacerdoti francesi emigrati nel ’92 e nel ’94 e ospitati in varie parrocchie della zona, ma era generale opinione che si trattasse di cosa remota, e che lo Stato pontificio fosse una grande potenza inattaccabile, al sicuro dai rivolgimenti giacobini e libertari. Il primo richiamo alla realtà fu l’annunziato passaggio, alla fine di marzo, di un distaccamento di cavalleria napoletana che avrebbe fatto tappa al porto di Fermo.
Allarmata dal possibile avvicinarsi di eventi bellici, l’oligarchia fermana mette in moto i tradizionali strumenti del consenso popolare: gli sbirri e le processioni. Meno portata di altre alle repressioni sanguinose, si limita a divulgare, come esempio e ammonimento, quelle avvenute altrove. Intanto il costo della vita aumenta e diventa insostenibile per i meno abbienti. Alla grande fiera di Fermo dell’8 settembre le merci rimangono in gran parte invendute per l’esorbitanza dei prezzi.
Il 3 ottobre viene pubblicato l’editto pontificio per la costituzione anche a Fermo di almeno tre compagnie di soldati: invita “ad arruolarsi tutti gli oziosi e vagabondi siano esteri o sudditi”, nonché “rei contumaci a cui viene assicurata l’impunità”. Si fanno anche più pressanti da parte del governo pontificio le richieste di tributi per le necessità della guerra. La notizia che la truppa pontificia è stata messa in fuga senza opporre gran resistenza sul Senio in Romagna, e che i francesi hanno occupato Pesaro e marciano a grandi passi su Ancona, arriva a Fermo ai primi di febbraio 1797 con una serie di cardinali e di governatori fuggiti dal nord; le loro carrozze coperte di fango, con i cavalli schiumanti, passano in fretta per Porta San Francesco e si fermano davanti ai portoni dei più bei palazzi di Fermo.
Cliffors Harper
Il governatore apostolico monsignor Roberti non nutre grande fiducia nei santi protettori e nelle tre compagnie di vagabondi e contumaci e preferisce, all’alba del 12, far attaccare i cavalli e recarsi, il più velocemente possibile, verso sud. La sua fuga suscita furibonde critiche nella popolazione, che comincia a tumultuare per le vie e per le piazze; i più accesi vanno a rifornirsi di armi proprie e improprie. L’arcivescovo Minnucci, che dovrebbe far le veci di monsignor Roberti, i magistrati e i nobili rimasti in città sono sconvolti: prima minacciano, poi supplicano i rivoltosi di non far uso delle armi, di venire a deporle nel palazzo priorale. Per blandirli, Minnucci fa restituire dal Monte di Pietà i pegni inferiori a due scudi e manda denaro ai parroci affinché lo distribuiscano ai disoccupati e agli affamati. Ma nessuno gli dà ascolto. I notabili si rinchiudono nei loro palazzi, constatando allibiti “quanto sia capace di cambiare l’uomo in soli due giorni” e come “una popolazione così quieta, un contadiname così docile” possa sollevarsi con odio non solo contro gli stranieri, ma anche contro i padroni. E cominciano a pensare che sia più da temere questa “folla immensa di popolo orante” che non le truppe francesi.
Il 13 arriva a Fermo il commissario francese D’Antin accompagnato da due soli dragoni [soldati di cavalleria] per informarsi della situazione. Il 14 il suo corpo, crivellato di colpi, viene trovato in territorio di Monsampietrangeli. Il 20 altri due commissari, questa volta marchigiani, Pezzotti di Loreto e Grimani detto il Polacco di Amandola, scortati da sei dragoni francesi, si recano a Sant’Elpidio accolti da prelati e proprietari, che per l’occasione si sono messi la coccarda tricolore, a presentare la lista delle requisizioni.
Cliffors Harper
Contadini e artigiani, sui quali soltanto pesano, in maniera brutale, le requisizioni di buoi e di cavalli, di biade e di fieni, d’olio e di grano, di camicie e di stivaletti, di tele e di pellami, assistono esterrefatti all’immediato cedimento di monsignori e magistrati di fronte non a un esercito, ma a un commissario civile con una scorta simbolica; tanto più che i repubblicani francesi erano stati descritti fino al giorno prima come dei mostri e dei criminali, al cui dominio era mille volte preferibile la morte. I potenti si sono ancora una volta alleati per depredare i poveri. Incontri e riunioni s’intensificano e si raccolgono le armi disponibili, accette e coltelli e qualche archibugio.
Il giorno seguente, 21, Pezzotti e Grimani si recano a Fermo con cinque dragoni francesi. Mentre scendono verso Campoleggio per uscire dalla città, due dragoni sono presi in mezzo: uno è ucciso e l’altro, gravemente ferito, riesce a rifugiarsi in un portone; gli altri tre fuggono nella campagna. I commissari, che avevano trovato asilo nel palazzo arcivescovile, lasciano la città a cavallo nel cuore della notte, sottraendosi alla furia popolare, accresciuta per la morte di due fermani nello scontro. I rintocchi della campana a martello fanno accorrere dalla campagna i contadini armati che si uniscono ai rivoltosi urbani; e gettano nel terrore ricchi e benestanti che corrono verso le porte della città e si spargono per i campi, mentre la “plebe” saccheggia i palazzi patrizi e gli uffici pubblici.
Intanto i contadini della bassa valle del Tenna, della riva destra del Chienti, delle campagne di Sant’Elpidio, di Monturano, di Montegranaro si sono organizzati e discutono le azioni da intraprendere: alcuni propongono di distruggere il ponte sul Chienti, altri di occupare Sant’Elpidio per avere una base fortificata, altri di andare ad attaccare i francesi che sono a nord di Civitanova. Quanti sono? Le cifre date dai testimoni oscillano tra mille e cinquemila.
Da un gruppo di contadini armati attendati sulla riva destra del Chienti viene avvistata una pattuglia di esploratori mandati dal generale cisalpino Rusca, il quale ha già fatto sapere che occuperà militarmente Fermo per vendicare i dragoni uccisi: due sono abbattuti e gli altri riescono a fuggire. I due cadaveri vengono portati la sera sulla piazza di Sant’Elpidio; e durante la notte tutta la massa dei contadini armati marcia verso Sant’Elpidio per chiedere armi e rifornimenti. Ma le porte della città sono state chiuse e barricate dalle autorità, nonostante i tumulti interni dei popolani. I contadini minacciano di bruciare le porte e i magistrati tentano invano di riunire gli sbirri municipali per difenderle. Un preposto dell’Oratorio, indossando i paramenti più solenni e seguito in processione da altri filippini e da alcuni magistrati, si affaccia “da un finestrone di Casa Mallio, che guardava all’esterno della Porta e sopra i villani ammutinati”, dà la benedizione, mostra il SS.mo Sacramento e invita gl’insorti a ritornare in seno alle famiglie. La predica viene accolta con schiamazzi poco rispettosi e i primi colpi di accetta intaccano le porte. Per evitare il peggio, le autorità le fanno aprire, i contadini irrompono con grida di vittoria e corrono verso il deposito delle armi.
Mezzo baiocco, Fermo 1797
L’abate Mallio e l’abate Jaurel sono fuggiti nella notte, e così magistrati e prelati. Per ecclesiastici e proprietari è il terrore: “Non eravamo più sicuri della vita, molto meno della roba. I villani e molti artisti [artigiani] avevano fatto il progetto di volerci ammazzare tutti, e impadronirsi gli artisti delle nostre case e i contadini delle nostre campagne. Tutti volevano mangiare e bere a comodo loro e a spese nostre. Ci minacciavano sempre di volerci tagliare la testa. Facevano la guardia del paese e avevano le chiavi delle porte. Ogni giorno campane a martello. Tutti correvano, chi armati di schioppi chi di bastoni, perfino le donne e i ragazzi”.
Si forma un improvviso accampamento per le piazze e per le strade, si accendono fuochi, si aprono le porte a gruppi di contadini e di artigiani venuti da altri paesi, si discute in assemblea permanente su come potrebbe essere la vita senza eserciti e senza padroni. Corre notizia che la brigata del generale Rusca stia per arrivare. Si rafforzano le difese, si dispongono gruppi di armati lungo le mura, s’innalzano barricate lungo le strade di accesso. Il 24 mattina una sentinella dà l’allarme con un colpo di schioppo. Dalla costa si riflette un bagliore, un luccicare d’armi. Arrivano da Civitanova i franco-cisalpini dalle smaglianti uniformi, in colonna serrata. Quando cominciano a salire la collina, giungono le note della Marsigliese. La battaglia dura molte ore con molti morti da una parte e dall’altra. Ma le munizioni degl’insorti finiscono presto, mentre quelle dei francesi sembrano inesauribili. Sparando a man salva entrano infine in paese e comincia la caccia all’uomo. La salvezza dei prelati e dei nobili santelpidiesi è arrivata con le truppe atee e giacobine del generale Rusca.
Lo Stato pontificio rimaneva in piedi, incerto e dissestato, privato delle ricche legazioni emiliane e, in novembre-dicembre, anche delle province di Ancona e Pesaro, che aderirono spontaneamente alla Repubblica Cisalpina. Pio VI fu arrestato e accompagnato in esilio a Valenza e il 15 febbraio 1798, anno I della Libertà, fu proclamata la Repubblica Romana. Per far fronte alla disastrosa situazione annonaria, finanziaria e monetaria, la Repubblica è subito costretta a prendere una serie di provvedimenti che, gettando in una crisi senza sbocco il vecchio equilibrio patriarcale e parassitario dello Stato pontificio, suscita contro le nuove istituzioni l’ostilità di tutti i ceti sociali. In un’economia agricolo-artigiana, con una classe borghese poco consistente e legata all’aristocrazia e al clero, l’unica classe rivoluzionaria su cui la Repubblica avrebbe potuto fondarsi era quella contadina. Ma quest’alleanza avrebbe comportato radicali riforme sociali e civili e l’instaurazione di quella “eguaglianza di fatto” che invece è dichiarata una chimera “perché i poveri hanno dell’eguaglianza un’idea molto falsa”.
Cliffors Harper
Nelle città la crisi annonaria provocata dal consumo delle truppe di occupazione, dalla fuga di grano e di altri generi verso la Repubblica Cisalpina, dalla caduta delle antiche barriere doganali, si fa sentire sulla massa dei meno abbienti con l’aumento continuo del costo della vita. La chiusura dei conventi e la soppressione di confraternite e congregazioni priva gli emarginati di quella umiliante carità che pure li aiutava a sopravvivere, senza proporre un’alternativa di occupazione e d’inserimento sociale. La propaganda clericale non farà altro, in questa situazione, che fornire un’ideologia reazionaria allo spontaneo scontento popolare. La politica di Napoleone è di sostenere i partigiani di un’indipendenza “un poco aristocratica” escludendo gli entusiasti della “pura democrazia” i quali “non amano la libertà che per fare una rivoluzione”. Di rivoluzione non si parla proprio e l’albero della libertà viene eretto solo tre mesi dopo, accolto dalla popolazione “languidamente”.
Col passare dei mesi e nonostante le lotte di potere all’interno della municipalità, si cominciano tuttavia a sentire i benefici della razionalizzazione che le leggi francesi portano nei meccanismi amministrativi e culturali. I rapporti sociali si riannodano a livelli più avanzati, si comincia a parlare di scuole per tutti, nuove feste popolari sostituiscono i tridui e le processioni e i contadini cominciano a venire in paese e parteciparvi, dapprima timidamente, poi con slancio e allegria. Si comincia a intravvedere un progresso che potrà un po’ alla volta trasformare gli aspetti pubblici e privati della convivenza, ma alla fine di novembre giunge come un fulmine la notizia che l’esercito di Ferdinando di Napoli è entrato nel Lazio e che il generale borbonico Micheroux, con un forte contingente di fanteria e di cavalleria, sta avanzando dal Tronto verso il territorio di Fermo. Ferdinando IV di Napoli (futuro Ferdinando I delle Due Sicilie) è la pedina e il sicario delle grandi potenze antifrancesi.
Cliffors Harper
Da Ascoli giunge la notizia che “un buon nerbo di truppe napoletane e russe”, rinforzate da un grande stuolo di “insorgenti” ha occupato la città il 25 novembre. La “insorgenza” era un fenomeno ben diverso dall’autonomo ribellismo dei contadini di Sant’Elpidio. Le bande degli insorgenti, provenienti dal Regno di Napoli, si formavano attorno a un capo appoggiato e finanziato dalle autorità ecclesiastiche e militari ma non legato alle normali discipline e regole di guerra, per cui potevano essere usate in azioni terroristiche di particolare efferatezza, con uso di armi proprie e improprie senza nessuna limitazione, massacrando civili e torturando e uccidendo prigionieri senza che nessuno Stato o potere potesse intervenire per protestare contro l’infrazione alle norme belliche. Il reclutamento avveniva nei centri urbani tra gli emarginati e i pregiudicati, e in campagna tra i contadini e i pastori più poveri, ben lieti che qualcuno venisse a dir loro di lasciare la zappa e le greggi e di prendere un’arma come un vero uomo per andare all’avventura, a difendere una Causa; giacobini e patrioti non avevano mai proposto loro nulla di simile.
Il più fermano dei capi dell’insorgenza è Domenico Scatasta, mezzadro in una frazioncina di Fermo. La sua prima apparizione è registrata ai primi di giugno 1799, quando dopo mesi di alterne vicende il brigadiere Navarra entra a Fermo, con “truppe napoletane e russe” e una grossa banda d’insorgenti. Navarra lo nominò comandante di Truppa Volontaria sul campo. In realtà Scatasta riuscì a reclutare solo trentatré uomini e otto ronzini, ma rimase comandante, sperando nel futuro, e intanto mise insieme la prestigiosa tenuta degna del suo grado: “cappello pretino, scarponi, calzone corto negro, uniforme alla Federica e nella pennazza di esso l’effige dell’Angelo custode. La Madonna santissima del Pianto per coccarda. Due pistole, uno sgavazzo, uno spadino elegante, un fodero di sambuco lavorato”.
Il 5 luglio una gran folla si aduna in Piazza del Popolo e nella confusione generale i giovani repubblicani della Guardia civica, rientrati clandestinamente in città, arrestano il brigadiere Navarra e proclamano nuovamente la Repubblica. La Repubblica però dura poco perché il giorno seguente sbarca al porto di Fermo, col compito di organizzare e guidare gl’insorgenti, il giovane ufficiale di carriera De La Hoz. Questi istituì a Fermo una Imperial Regia Pontificia Provvisoria Reggenza, con a capo se stesso, e governò con il pugno di ferro. Pretendeva da tutti un’austera disciplina, a cominciare dai suoi soldati, che condannava a cinquanta legnate sulla pubblica piazza per lievi infrazioni; per una sola bestemmia faceva applicare un marchio sulla fronte, col ferro rovente. Impose a tutti, militari e civili, di portare una medaglia d’argento o di piombo con l’immagine della Madonna e lunghi nastri gialli e neri; ai contadini si raccontava che erano amuleti a prova di pallottola.
L’arruolamento nelle campagne del fermano fu affidato a Scatasta, che si conquistò la fiducia di De La Hoz applicando un metodo infallibile: alle famiglie che rifiutavano di fornire una recluta requisiva cavalli, maiali, armi se ce n’erano, denaro e altri generi di prima necessità; in più, dato che sapeva scrivere, cosa abbastanza rara tra i mezzadri d’allora, presentava al Generalissimo degli elenchi e dei conti molto precisi, tolta naturalmente la sua legittima cresta, e il Generalissimo era molto bene impressionato da queste capacità organizzative e culturali.
Ai primi di agosto De La Hoz parte verso Ancona per “estirpare i Mostri giacopini”, il 9 settembre Scatasta riceve l’ordine di raggiungerlo con uomini e rifornimenti. Il 10 ottobre il generale Mounier decide di fare una sortita da Ancona assediata, tentando di sfondare l’accerchiamento. Non appena esplode il rombo dell’artiglieria e le granate cominciano a scoppiare, Scatasta si cerca un fosso abbastanza profondo dove attendere che sia passata la buriana. Ma De La Hoz, perso ogni controllo, continua a galoppare verso i francesi con la sciabola sguainata, sperando in una morte gloriosa con una pallottola in fronte; gli andò male anche questa, perché la pallottola lo prese all’inguine; ma morì lo stesso. Aveva ventisei anni.
Nella memoria popolare il periodo di De La Hoz fu ricordato come il più funesto e intollerabile. Ancora dopo la seconda guerra mondiale, nelle campagne del fermano, per indicare le più grandi sciagure non meteorologiche che si erano abbattute sul mondo contadino, i vecchi dicevano: “come al tempo della Jozza”.
Joyce Lussu
Il testo qui presentato è una riduzione dell’articolo di Joyce Lussu uscito in «Annali dell’Istituto Alcide Cervi», a. 2, 1980, p. 317-334. Della stessa autrice si veda anche “Storia del fermano, dalle origini all’Unità d’Italia”, Ancona, Il lavoro editoriale, 1982.
Se Urbino continua a morire, noi continuiamo a lottare
Di Libera Biblioteca De Carlo
Urbino, Libera Biblioteca De Carlo.
“Urbino è morta perché da quando ci viviamo è cambiata in peggio e noi non siamo riusciti a farci molto. La vita degli studenti è sempre più precaria e la socialità libera è soffocata. […] Urbino è morta e continuerà a morire se continuerà questo andazzo. Ma noi siamo vivi e continuiamo ad essere in contrasto con la direzione che Urbino sta prendendo. Siamo ancora qui a lottare per una città ricca di socialità e di dignità”.
Questo è ciò che scriveva Pimpi più di due anni fa, nell’edizione di gennaio [#2, ndr.] di Malamente, e ci piacerebbe dire che abbiamo fatto la rivoluzione, che la città è piena di spazi e libera dalla repressione, ma purtroppo le cose non stanno così. Urbino, ancora oggi, si porta dietro l’immagine di città-campus, una città pensata a misura di studente, piccola per conformazione, circondata da mura, quasi un museo a cielo aperto, ma anche un luogo dove divertirsi e trovare momenti di svago. L’Urbino composta dai suoi cittadini si affianca all’Urbino degli studenti, a tal punto che le due dimensioni si ibridano e si confondono, sovrapponendosi e mischiandosi in quella che è, appunto, definita come una vera e propria città-campus. Un’immagine che appare accattivante e invitante riuscendo così ad essere convincente per quella parte di studenti che devono decidere dove passare i prossimi anni della loro vita. Peccato che questa sia l’Urbino di quarant’anni fa!
Già Pimpi aveva descritto alcune problematiche della realtà urbinate: la mancanza di spazi liberi all’esterno dell’università, l’ordinanza anti-alcol e le numerose misure repressive nei confronti di chi osa dissentire. Ma se Urbino continua a morire, noi continuiamo a lottare. Anche se il ricambio generazionale e la dimensione universitaria portano questa città a essere un luogo di passaggio per studenti e studentesse, noi siamo qui oggi e continuiamo a batterci per gli stessi ideali. Il Collettivo per l’Autogestione non esiste più, o meglio, si è trasformato in quella che oggi è la Libera Biblioteca De Carlo che, a sua volta, ha adattato le sue pratiche conflittuali sulla base dei nuovi componenti che la animano. Il fulcro delle lotte in questi ultimi due anni è stata proprio la mancanza di spazi e l’opprimente controllo sociale. Non a caso in conseguenza alle politiche portate avanti dal Comune abbiamo sentito l’esigenza, nell’aprile del 2017, di aderire all’Assemblea per il diritto alla città insieme ad altri studenti e cittadini di Urbino. Alle modalità di gestione dell’ordine pubblico, repressive e limitanti, abbiamo quindi risposto creando momenti di dialogo, confronto e socialità, cercando di rendere nuovamente fruibili tutti quegli spazi che una volta potevano essere vissuti appieno dalla comunità.
Lavori di restauro all’aula occupata autogestita C3.
In tale clima siamo riusciti a organizzare una mobilitazione che ha raggiunto il suo apice l’8 maggio 2017, giornata in cui più di 400 studenti, e non, hanno popolato la piazza scontrandosi direttamente con il sindaco e la sua giunta in merito alle politiche intraprese negli ultimi anni. Il Comune infatti, in un’escalation di misure repressive volte a limitare l’accesso agli spazi pubblici e alla criminalizzazione dello studente, non ha fatto altro che accrescere il conflitto tra le diverse soggettività che animano la città. È stata proprio la piazza, luogo per antonomasia di discussione e incontro, a ritrovarsi di fronte a un emblematico svuotamento e a una perdita di significato a causa dell’eccessiva militarizzazione e chiusura dello spazio urbano. Per questo motivo, proprio da lì abbiamo deciso di rivendicare il nostro diritto a vivere la città. Impossibile negare che avevamo riposto numerose speranze nell’assemblea e nella mobilitazione dell’8 maggio. Purtroppo, a distanza di un anno, ci siamo resi conto di non essere riusciti a indirizzare verso veri e propri risultati pratici quelle potenzialità; forse per inesperienza, forse per un’analisi poco corretta o forse ancora non lo abbiamo capito!
Da questo percorso si è consolidata ancora di più la collaborazione tra i due soggetti che da tempo vivevano l’aula occupata ex C3: il Collettivo e La Sociologica, che hanno deciso di costituirsi come soggetto unico mettendo in comune le proprie pratiche e le proprie prospettive nella Libera Biblioteca De Carlo.
Essendo un collettivo universitario, abbiamo deciso per quest’anno di oc¬uparci in particolare dell’università e dei suoi mutamenti a partire dalla scelta presa dal nostro ateneo di aderire all’accordo tra CRUI e Ministero della giustizia. Tale accordo, che si palesa con una progressiva militarizzazione dell’istituzione universitaria, si configura come la base di un progetto molto più ampio. Se le sue fondamenta ci restano oscure, abbiamo potuto notarne chiare conseguenze nella costituzione del master in comunicazione strategica organizzato in collaborazione con il 28° Reggimento Pavia di Pesaro, con il conferimento del Sigillo di Ateneo al Capo della polizia e della Pubblica sicurezza Franco Gabrielli, regista della discutibile gestione delle situazioni emergenziali di Ventimiglia e de L’Aquila e con tutta un’altra serie di eventi-vetrina, volti a consolidare l’immagine di un’università propensa alla sicurezza e al decoro.
In piazza per il Diritto alla Città, 8 maggio 2017
Noi non ci siamo mai tirati indietro dal contestare il corteggiamento dell’università nei confronti dell’esercito e delle forze dell’ordine. Non l’abbiamo fatto prima e non lo faremo tanto meno ora, soprattutto dal momento in cui l’ateneo ha stretto accordi con i Carabinieri e la Guardia di finanza per la riduzione del 30% delle tasse per le forze dell’ordine e i loro familiari, dimostrando come un diritto di tutti possa divenire sempre più esclusivo. La repressione subita durante questi eventi è stata la solita degli ultimi anni: divieto di accesso alle aule in cui sono tenuti questi teatrini, la Digos che ci segue come ombre, la presenza del questore durante la contestazione ad Alfano, le telecamere puntate addosso, ma nulla al di fuori dell’”ordinaria repressione”. Come nel film L’odio, “il problema non è la caduta ma l’atterraggio” avvenuto quando durante la consegna del Sigillo di Ateneo al Generale Toschi della Guardia di finanza sono state attuate delle procedure di sicurezza anti-terrorismo, con il solo problema che il terrorista in questo caso era lo studente.
L’ironia della sorte ci riporta a venerdì 17, data carica di simbolismi all’interno del senso comune. Quella mattina ci siamo presentati all’ingresso dell’università dove stava avendo luogo il conferimento del Sigillo al Generale e il benvenuto ci è stato dato da un massiccio dispiegamento di carabinieri, poliziotti e finanzieri. A rigor di quella stessa ironia, in quanto studenti l’ingresso ci è stato negato, onorandoci esclusivamente della possibilità di poter manifestare le nostre “dimostranze fuori” (cit). Naturalmente non è mancata la volontà di oltrepassare lo sbarramento, tentativo che, seppur fallito nel suo intento, ha avuto il merito di concretizzare quella tensione che già si percepiva nell’aria. Difatti, una volta aperto lo striscione, ha avuto inizio il gioco del tiro alla fune con la Guardia di finanza che è andato a concludersi con una nostra “vittoria” portando, però, a un successivo inseguimento del nostro compagno che stringeva il premio tra le mani. La caccia al lupo si è conclusa con il rilascio di un calcio a un altro dei nostri che cercava di capire le intenzioni dell’uomo in divisa.
Il finale di alcune storie si mostra chiaro fin dall’inizio, ma in questo particolare caso la violenza che ne è scaturita è stata del tutto nuova nel contesto universitario urbinate. Il culmine dello scontro è stato raggiunto nel momento in cui un compagno è stato atterrato e sbattuto contro il muro per poi essere successivamente trascinato per i capelli all’interno dell’ateneo, spazio trasformatosi improvvisamente in una caserma. Il ragazzo ha subito il solito trattamento riservato alle “zecche”: insulti, minacce di violenza, di arresto ecc. Dopo una mezz’oretta, in cui non sono mancati atti intimida tori per coloro che si trovavano all’esterno, il compagno viene denunciato per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, e finalmente rilasciato dal “Commissariato degli Studi di Urbino”. Tutta la vicenda era stata ripresa da una compagna alla quale è stato letteralmente strappato il telefono dalle mani e poi riconsegnato dopo aver cancellato i video che testimoniavano gli eventi di quella mattinata. Il saluto, infine, ci è stato dato da un “tornate da dove siete venuti, è meglio per tutti!”.
Se il finale non è sempre prevedibile, al contrario la morale è sempre presente. Ciò che emerge dalla giornata di venerdì 17 è la chiara volontà di reprimere il dissenso al fine di facilitare la costruzione di una facciata pulita, ordinata e sicura, voluta dall’ateneo. Questo aspetto si è palesato in diverse circostanze, come il giorno dell’inaugurazione dell’anno accademico in cui ancora una volta ci è stato negato l’accesso all’interno del polo didattico Volponi, o quando siamo stati minacciati di denuncia per aver organizzato un pranzo sociale nella nostra aula occupata autogestita. A distanza di poco più di un mese dal fatidico venerdì 17, abbiamo ricevuto la visita di un responsabile delle sedi universitarie che, attraverso un ulteriore uso scontato delle intimidazioni più volte sentite, ci ha costretti ad annullare la “Fejolada Popular”. Ora, il problema non risiede assolutamente nei fagioli, questo è abbastanza chiaro, ma in un episodio repressivo avvenuto questa volta non fuori, ma proprio all’interno dell’ateneo. Visto l’accaduto abbiamo deciso di rispondere chiamando un’assemblea pubblica con l’obiettivo di discutere in merito a queste pratiche ormai sempre più frequenti che ogni giorno si presentano in modo esponenziale sulla nostra pelle. Il nostro slogan “Non ci avrete mai come volete voi. Viva i fagioli!”, tragicamente ironico, ha rappresentato poi la nostra presa di posizione nei confronti della papabile denuncia all’autorità di pubblica sicurezza se avessimo organizzato l’evento.
Aula C3, Libera Biblioteca De Carlo, “Fejolada Popular”.
Da cinque anni la Libera Biblioteca De Carlo è un esperimento di autogestione, un luogo dove poter sviluppare un pensiero critico, uno spazio di aggregazione e autorganizzazione dove si incontrano diverse esperienze. Sono numerose le persone che hanno attraversato e attraversano tuttora l’aula e non poche sono le attività organizzate: dalle presentazioni di libri, ai cineforum, alle assemblee e pranzi sociali. Uno spazio che possiede una propria unicità in una realtà piccola come quella di Urbino; uno dei molti spazi progettati dall’architetto Giancarlo De Carlo dove risiede l’idea dell’università orizzontale e partecipata, dell’incontro e del confronto, della diffusione e condivisione. In molti si sono dati da fare per rendere più accogliente questo unico spazio libero a disposizione degli studenti. La partecipazione e le idee si sono mostrate sempre più numerose nel lavoro pratico svolto quotidianamente: siamo riusciti a sbarazzarci di una moquette ormai rovinata sostituendola con un parquet, abbiamo creato una biblioteca autogestita, riordinando, catalogando e mettendo a disposizione più di duemila libri. Come realtà autorganizzata che porta avanti una politica dal basso, abbiamo potuto realizzare tutto questo attraverso la vecchia e buona pratica dell’autofinanziamento. Naturalmente, non sono mancate visite indesiderate che, con occhio attento, controllavano che il lavoro non andasse oltre la sostituzione del pavimento visto che, da parte nostra, c’era anche l’intenzione di ridipingere le pareti dell’aula per completare il lavoro di restauro. Fino a quando la manovalanza autogestita va a sostituire un obbligo di manutenzione dell’ente, va tutto bene, ma se poi si tratta di creare qualcosa come un murales, espressione libera di una socialità organizzata, l’unica risposta dallo stesso ente è una minaccia di denuncia (perché il pavimento glielo abbiamo fatto noi, ma poi il muro se lo devono pulire loro!).
Se Urbino era morta, oggi ne troviamo le macerie che continuiamo a raccogliere una a una, mettendo in gioco le nostre stesse teste, cercando di riequilibrare una socialità sempre meno libera che tocca da vicino tutte e tutti noi studenti. E come diceva l’ormai non più sbarbato Pimpi, continueremo ad essere in contrasto con la direzione che Urbino da anni ha intrapreso, trovandoci la maggior parte delle volte dalla “parte sbagliata” della barricata, che in fin dei conti non è nemmeno così male!
Della montagna e di altre sciocchezze
Di Cristiano Ceccucci
Castello di Frontone e Monti Catria e Acuto. Foto di Cristiano Ceccucci
Inizio
Il primo ricordo che ho della montagna risale a oltre trent’anni fa. Con mio padre eravamo saliti dalla “strada delle Scalette” fin quasi a ridosso dei prati del Catria [montagna dell’Appennino umbro-marchigiano, ndr.] sovrastati dall’imponente croce di ferro. Avevamo percorso una delle tante carrozzabili che negli anni Sessanta e Settanta furono aperte in quello che fu uno sconsiderato assalto alla montagna nel nome del “progresso” e che oggi rimangono come vecchie cicatrici che il tempo e la natura faticano a rimarginare.
Fummo sorpresi dalla nebbia che arrivò rapida e silenziosa e avvolse tutto, isolandoci dal mondo. Per me, bimbo di dieci anni, fu quasi un gioco il fatto di ritrovarci avvolti in quella bambagia, ma mio padre si preoccupò e non poco. “La nebbia ammanta tutto di bianco e nasconde, all’occhio di chi guarda, il giallo e il bruno delle colline in lontananza, giù verso la costa. L’immaginazione e il pensiero sono liberi di vagare, in modo di attraversarla e scorgere al di là il sole”.
Fummo “salvati”, in fondo si trattò di un’avventura, dal seguire il suono delle campane al collo delle mucche che pascolavano più a valle, nei pressi della gloriosa 500.
Dopo quell’esperienza ho ricordi di notti passate in tenda, nella faggeta di Valpiana, assieme a mio padre, ai miei fratelli e sorelle attorno a un fuoco, in attesa che l’acqua nella pentola bollisse per un piatto di spaghetti che assomigliavano più a una “colla” che a un piatto di pasta.
Passano gli anni… Nel frattempo mio padre se n’è andato e la passione per le camminate, la montagna e gli spazi aperti che ci ha instillato si è radicata ed è cresciuta. Un’altra passione che aveva, quella della caccia, non è riuscita per fortuna a mettere radici… Non ho mai capito come una persona che ama la natura, e mio padre l’amava davvero, possa esercitare un’attività come la caccia. Ma questa è un’altra storia…
Faggi e antiche pietre. Foto di Cristiano Ceccucci
La percezione del tempo
Avete mai provato a pensare al tempo?
No, non al tempo meteorologico, ma a quello inventato dagli esseri umani per regolare e ordinare le loro occupazioni e attività.
Ecco, quassù in montagna, il tempo come lo intendiamo noi non esiste.
Quassù i problemi e i pensieri legati al materiale quotidiano non arrivano, tutto segue un altro ritmo cadenzato dai suoni, dai colori, dal vento e dal susseguirsi delle stagioni.
Ci troviamo in un altro spazio-tempo, uno spazio-tempo per così dire verticale, che richiede un’altra visione e altri modi di pensare.
L’esplorazione della montagna, con i suoi valichi, i suoi passi i sentieri i boschi e le pareti rocciose, è esplorazione di noi stessi, dei sentieri e dei nostri valichi e forre interiori.
Le montagne sono il nostro desiderio di Altrove, la ricerca della bellezza come cura e nutrimento dell’anima.
La concentrazione nel camminare, passo dopo passo, la fatica e il sudore, hanno una funzione rigenerante per il corpo e soprattutto per la mente.
Otto ore di camminata, di fatica e sudore, non sono la stessa fatica e sudore paragonabili a ore di lavoro “in pianura”, legate alle nostre materiali e terrene attività.
Sono fatica e sudore che portano a scoprire angoli di paesaggio che a volte neanche immaginiamo possano esistere in questo mondo totalmente asservito allo sfruttamento e al profitto.
Eppure certi scorci e certi panorami esistono ancora e basta poco e un minimo di curiosità per arrivare a goderne.
Una prateria d’alta quota, una forra, un bosco o la cima di una montagna.
Quando guardiamo un monte, anche quello che ci sembra di conoscere meglio, in realtà non osserviamo mai lo stesso monte.
Basta una luce diversa, il vento o una stagione differente; potremmo vivere diverse vite, ma la montagna che ci si presenterà davanti sarà sempre mutevole e sfuggente, seppur concreta e apparentemente immobile.
E si risveglierà di nuovo, mutevole e brulicante di vita, al tepore di una nuova stagione.
Fonte Cupaie, monte Catria. Foto di Cristiano Ceccucci
I primi a sfruttare i boschi e le foreste a livello “industriale” furono i romani sia per le costruzioni civili e militari, che per usi agricoli.
Eppure anche i romani, i più moderni tra gli antichi, avevano per gli alberi e i boschi un certo rispetto e timore.
Si, timore, perché la “Selva” rappresentava un luogo ostile, sede di imboscate improvvise e violente, che scompaginavano l’assetto ordinato delle legioni e impedivano ai soldati di combattere, come erano soliti fare, in maniera ordinata.
Alcune selve erano considerate sacre in quanto collegate a località divine di per sé, come sepolcri, templi, sorgenti.
Questi luoghi prendevano il nome di Lucus (Luchi) e erano abitati da divinità, il Genius loci, che rappresentava l’entità soprannaturale che viveva in quel posto. Luco dei Marsi, per esempio, tradisce nel suo nome la presenza di un’antica e sacra presenza.
Dopo duemila anni di cosiddette “civilizzazione” e “modernità” non siamo stati capaci neanche di mantenere un po’ di sacralità per gli alberi e i boschi ma, anzi, abbiamo fatto di tutto per svilire e distruggere tali ambienti.
Nel secondo dopoguerra la superficie boschiva dell’Italia era attorno al 18% del territorio, oggi siamo al 35-36%, il doppio.
C’è stata una grande ripresa dovuta principalmente all’abbandono della montagna e all’inurbamento delle popolazioni, ma la maggior parte di questi boschi sono boschi “poveri” cioè cedui, legati a tagli pesantissimi che difficilmente riusciranno a raggiungere lo stato di boschi maturi ad alto fusto.
Per quanto riguarda le Aree protette e i Parchi Nazionali molto è stato fatto per garantire la salvaguardia degli ecosistemi naturali che hanno favorito la creazione di oasi e “corridoi ecologici” necessari alla fauna selvatica per spostarsi e riprodursi.
Ma la maggior parte di tali aree sono “protette” solo sulla carta in quanto attività venatoria e bracconaggio, il cui confine a volte è nebuloso, abusivismo edilizio, tagli indiscriminati, uso di mezzi motorizzati e altre attività umane, appunto sulla carta proibite, vi si svolgono comunque.
In un paese come il nostro nel quale tutto quello che va sotto il nome di cultura è visto con sospetto, se non con paura, da una classe politica sempre più avulsa dalla realtà e autoreferenziale, la natura e l’ambiente, che per me rientrano a pieno titolo nel concetto di beni culturali, sono beni non essenziali, che possono essere anche trascurati.
Castellaccio, resti di fortilizio medievale nei pressi di Fonte Avellana. Foto di Cristiano Ceccucci
La Memoria e la Montagna
La montagna per me è anche il luogo della Memoria.
Della Memoria e della Resistenza. Della Resistenza legata al passato e della mia Resistenza attuale.
I partigiani salirono in montagna per sfuggire ai rastrellamenti e per lasciare le città dominate da tedeschi e fascisti. Oggi si sale in montagna per ricordare e ancora una volta per resistere.
Resistere ai ritmi imposti dalla società attuale che tutto ha omologato e che ci vuole non più come cittadini con dei diritti e dei doveri, ma come consumatori solamente e che si ricorda di noi solo in occasione di quella sorta di farsa che sono diventate le elezioni!
Questa società che ci obbliga a dover produrre e consumare tutto e sempre di più per diventare schiavi di una sola cosa, il mercato e le multinazionali.
Resistenza, quindi, e Memoria. La montagna ha Memoria.
Molta gente invece ha rimosso i fatti del passato e sottovaluta i rischi del presente perché scomodi e ingombranti e perché di ostacolo al raggiungimento dei loro fini e delle loro misere esistenze.
Cascina in fazione Pretare, Monti Sibillini. Foto di Cristiano Ceccucci
Escursionismo come ecologia della mente e del corpo
Per avvicinarsi alla montagna non c’è bisogno di essere degli atleti o voler svolgere una pratica estrema, basta essere consapevoli dei propri limiti e capacità e osservare poche ma precise norme di comportamento. Il modo migliore per andare in montagna penso sia quello del trekking e dell’escursionismo.
Si tratta di un metodo lento, a “misura d’uomo”, che permette di cogliere tutti i diversi aspetti dell’ambiente, di osservare i colori e le forme, di cogliere i silenzi e i suoni e di vedere animali.
L’ecologia è la scienza che studia gli esseri viventi, l’ambiente in cui questi vivono e le interazioni che avvengono tra questi e l’ambiente stesso.
L’uomo, in quanto creatura vivente e abitante di questo pianeta, non fa eccezione, interagisce con gli altri esseri viventi e l’ambiente da millenni, modificando e condizionando la vita dei primi e l’assetto e l’equilibrio del secondo, spesso in maniera negativa e fortemente impattante.
La pratica del camminare è vecchia quanto l’uomo.
Basti pensare ai popoli del passato, e anche a molte popolazioni attuali, che fin dalla notte dei tempi si spostavano, e si spostano, alla ricerca di territori idonei prima al loro stile di vita legato alla caccia e alla raccolta, poi alle greggi e alle mandrie e alla ricerca di luoghi con climi più miti, quindi adatti all’agricoltura.
Oggi l’escursionismo, il recupero dei sentieri e delle vecchie mulattiere, può essere visto non solo come attività ricreativa e di approccio e ritorno al territorio, ma come vera e propria operazione di recupero culturale delle tradizioni e della memoria.
Nella nostra regione molti sono i sentieri percorribili durante tutte le stagioni dell’anno, da quelli del massiccio del Catria e del Nerone a quelli del Furlo e delle Cesane, da Frasassi e dall’area del pre-appennino fabrianese, al Montefeltro con i due “Sassi” e il monte Carpegna, al massiccio dell’Alpe della Luna, a cavallo tra le Marche, la Toscana e l’Umbria che funge da spartiacque tra l’alta valle del Tevere e quella del Metauro.
Semplici passeggiate o trekking impegnativi su notevoli distanze e con importanti dislivelli.
Boschi, ruscelli, gole e forre che si alternano a prati e pascoli di alta quota, ambienti diversi che costituiscono quell’unicum che rappresenta l’ecosistema montano della nostra regione e che deve essere tutelato e salvaguardato.
Il silenzio dei luoghi attraversati permette di concentrarsi sull’ambiente che si sta attraversando e di cogliere i suoni e gli scorci più belli, di osservare qualche timido animale che si può incontrare lungo il cammino o di vederne le tracce.
Per chi sa “cogliere” si tratta di una immedesimazione con la natura e con la vita che si muove attorno che ci permette di avere un contatto diretto con l’ambiente “primordiale” dal quale tutti veniamo.
In realtà un ambiente primordiale e puramente naturale è oggi pressoché impossibile da rinvenire nel nostro paese, se non in qualche località che si è salvata dalla rapacità dell’uomo e dal profitto a tutti i costi perché assolutamente impervia e difficilmente raggiungibile e quindi economicamente non conveniente, o perché trasformata in area protetta.
Muretto a secco nella faggeta alle pendici del monte Gorzano, monti della Laga. Foto di Cristiano Ceccucci
Finale
Questo breve excursus all’interno del mondo della montagna, dei miei pensieri e in fondo del mio modo di essere, vuole stimolare un invito alla riflessione.
Senza nessuna pretesa dal punto di vista didattico o del voler insegnare qualcosa a qualcuno e ben consapevole che le mie non sono verità assolute.
Sono semplicemente lo sforzo che cerco di compiere quotidianamente nell’approcciarmi agli argomenti che più mi stanno a cuore e nel cercare di avvicinare più gente possibile (se lo vorrà) a un ambiente, la montagna appunto, e alla natura in senso più ampio, che meritano sicuramente la nostra attenzione e il nostro rispetto.
Vorrei far capire che la natura basta a sé stessa.
E dovrebbe bastare così come è anche a noi.
Che non è un bene di consumo e non è nemmeno un contenitore vuoto da dover riempire a tutti i costi con qualcosa che sia “altro”.
Un’alba e un tramonto sono fenomeni naturali già splendidi ed emozionanti così come sono, senza bisogno d’altro.
Altrimenti si perde il senso profondo delle cose e la gente penserà che un tramonto, un bosco e un sentiero “sono fighi” perché c’è della bella musica rilassante, le candele che accompagnano il cammino ai lati del sentiero e il baracchino delle bibite al termine del percorso.
Come ho detto, il mio vuol essere un invito alla riflessione e ad abbandonare almeno per una volta, quando si sale in montagna, gli orpelli che quotidianamente ci portiamo dietro, ma anche dentro.
L’autoproduzione del blu. Dalla pianta (il guado) alla tintura delle stoffe
Di Luigi
Reccipe fiore de guato e impasta insiemi cum orina e aceto forte e fanne uno migliacio e secalo al sole. E se ello bianchigiasse, metice piu fiore de guato e cusì fa tanto che habia bello collore; poi ne fa peze e fornisscelo de seccare e sera facto. Segreti per colori, manoscritto bolognese 2861, XV sec.
Isatis tinctoria, da A. Masclef, Atlas des plantes des France, 1893, v. 2, tav. 38
L’utilizzo delle piante tintorie ha accompagnato la storia dell’umanità almeno fino a quando la chimica, sintetizzando i colori in laboratorio, ne ha determinato il pressoché totale abbandono. Negli ultimi decenni questa tradizione antica è stata riscoperta come innovazione, dando impulso a un settore economico in costante espansione, grazie alle tasche di quella gente alla moda che odia il fango sotto le scarpe ma adora la carezza del cotone naturale, biologico e solidale, tinto con colori vegetali ed ecosostenibili. Le aziende marchigiane hanno presto fiutato l’affare, mettendo in rete imprenditori agricoli e tessili, supportati da dipartimenti universitari di botanica, agraria e chimica, al fine di meccanizzare la produzione, standardizzarla e ritagliarsi una fetta di mercato.
“Introduzione dei coloranti naturali nel settore industriale del tessile marchigiano” è stato un progetto di questo tipo, lanciato nel 2009, che ha coinvolto le università di Ancona, Camerino e Pisa insieme alla società cooperativa Oasi Colori di Lamoli, produttrice su larga scala pigmenti e coloranti vegetali, e ad alcune imprese del settore come Dondup-Arcadia di Fossombrone e Cariaggi Spa di Cagli[1]. La prima è un gruppo di abbigliamento – o meglio fashion house – marchigiano che ha fatto proprio, senza alcun pudore, il nome di un antico lama tibetano (Mingyar Dondup) e con le sue collezioni di alta classe punta alla conquista delle vetrine della moda internazionale. Qualche anno fa, al grido “Rivestiamoci di benessere!”, aveva messo in commercio l’apposita linea “Essentia” e lanciato il progetto Natural Colors, il cui protagonista principale era un jeans al guado di cui davvero si sentiva la mancanza. Esperimento commercialmente fallito: oggi il jeans è fuori produzione. Cariaggi Spa è invece una filatura specializzata nella lavorazione del pregiato cashmere. Anche quest’azienda ha puntato sui colori naturali, in particolare sul blu estratto dalle foglie di guado, con un’idea ben precisa da mettere a bilancio: “la nostra sfida era di rendere attuale l’utilizzo di questo particolare colore applicandolo alle logiche di produzione moderna e industriale”[2].
Si tratta insomma, per rimanere in tema di colori, di una bella passata di green-washing aziendale. E se la “filiera marchigiana del guado” per portafogli gonfi, dopo un lancio carico di aspettative sta da qualche tempo perdendo colpi, iniziative simili si vanno sviluppando in altri distretti industriali. L’intento con cui pubblichiamo questo articolo è quanto mai distante da quello di un capitalismo che per mantenersi à la page riempie i report aziendali di parole come “artigianato”, “tradizione” e “territorio” come fanno, tanto per citare un esempio, gli innovatori del progetto TeSSITURA del Casentino e Valtiberina toscana, per i quali “la tintura con coloranti naturali non vuole e non deve essere sostitutiva della tintura chimica, ma deve esistere come alternativa, fiore all’occhiello dell’azienda che la propone, nell’ottica di un recupero delle tradizioni storiche e artigianali e, quindi, di valorizzazione del territorio”[3].
Non ci interessano affatto le rosee prospettive di una nuova economia di mercato che metta a profitto il guado e le altre piante tintorie, con la sua filiera certificata e garantita, quello che vogliamo stimolare è invece la riappropriazione di un’arte dimenticata, un altro tassello da sottrarre all’economia delle merci e da vivere in maniera, se vogliamo, genuina e clandestina.
Livorno 1812
Dal paese della cuccagna al laboratorio di chimica
Il guado (Isatis tinctoria) è una pianta da sempre conosciuta e apprezzata per le sue proprietà tintorie legate al colore blu. Testimonianze del suo antico utilizzo provengono da India, Medio oriente e Nord Africa, mentre in Europa ha la sua massima diffusione solo in epoca tardo Medioevale. Le ragioni di questo ritardo sono dovute al fatto che il colore è anche una costruzione culturale: nelle società europee mediterranee il blu ha rivestito per tutta l’antichità e l’alto medioevo un marginale ruolo simbolico, per i Romani ha addirittura connotazioni negative in quanto identificato con il colore dei barbari che avevano l’abitudine di colorarsi il corpo per spaventare i nemici; “tingere” qualcosa, nel mondo civile, equivaleva a dire colorarlo di rosso. Solo a partire dal XII secolo il blu va incontro a una progressiva valorizzazione, fino a un totale ribaltamento della prospettiva in età moderna: a un tratto, il blu, diventa bello[1].
La coltivazione e il commercio del guado cominciano quindi ad assumere una notevole rilevanza economica, in particolare in Turingia e nei territori occitani compresi tra le città di Tolosa, Carcassonne e Albi, tanto da dare origine all’espressione pays de cocagne – paese della cuccagna – per indicare un luogo di straordinaria abbondanza e prosperità: le coques o cocagnes erano i pani di pasta tintoria pronti per la vendita. Anche in Italia, tra XIV e XV secolo, il guado è alla base di flussi commerciali essenziali per lo sviluppo economico di numerosi comprensori. Viene lavorato in Umbria (il nome della città Gualdo Tadino deriva da questa pianta), nelle zone appenniniche delle Marche settentrionali (Montefeltro, alta valle del Metauro e del Foglia, Massa Trabaria), in alcuni territori toscani (aretino, Val Tiberina), piemontesi e liguri, ma anche in altre parti del paese. Il suo pigmento blu trovava impiego, oltre che per la colorazione dei tessuti, in molti settori artistici, dalla miniatura dei manoscritti alla decorazione della terracotta, ai quadri dei grandi artisti rinascimentali: ha avuto largo impiego, ad esempio, in numerosi dipinti di Piero della Francesca, il cui padre era un ricco mercante di guado di San Sepolcro.
Il declino dell’Isatis tinctoria comincia nel XVI secolo quando il suo blu viene soppiantato dalla materia tintoria estratta dall’Indigofera – da cui il nome “indaco” –, una pianta proveniente dalle Indie orientali (Indigofera tinctoria) e occidentali (Indigofera anil), che presentava rese nettamente superiori, migliore uniformità cromatica e maggiore facilità di lavorazione. Malgrado gli editti protezionistici a difesa della pianta e dell’economia locale, la coltivazione del guado, non più redditizia, viene progressivamente abbandonata fin quasi a perderne la memoria.
Fasi della lavorazione del guado in un disegno del 1752.
Solo agli inizi del XIX secolo si assiste a un accenno di ripresa per le fortune del guado, quando il blocco dei rapporti commerciali con l’Inghilterra disposto da Napoleone, noto come Blocco continentale (1806), interrompe anche le rotte di importazione dell’indaco rendendo necessario recuperare le tecniche, ormai desuete, di estrazione del pigmento blu da piante locali. Con decreto imperiale vengono banditi dei premi in denaro per chi fosse riuscito a trovare i migliori e più redditizi metodi per la coltivazione e la lavorazione del guado oppure a scoprire un’altra pianta da cui estrarre colore di qualità paragonabile a quello dell’Indigofera delle Indie e delle Americhe. Nella finestra temporale del primo decennio del secolo si mobilitano quindi agronomi e chimici, che danno alle stampe diversi manuali sia in lingua francese che in italiano.
Il definitivo oblio sopraggiunge qualche secolo più tardi, quando i coloranti sintetici prodotti industrialmente, meno costosi, dalle tinte più costanti e di maggior tenuta, mettono fuori mercato l’uso dei coloranti naturali (che d’altra parte, soprattutto nelle vaste coltivazioni indiane, si reggevano su uno sfruttamento brutale della manodopera locale da parte dei colonizzatori europei). La struttura molecolare dell’indaco viene determinata nel 1878, quattro anni dopo viene realizzata la prima sintesi chimica e nel 1897 due fabbriche tedesche avviano la produzione dell’indaco di sintesi su scala industriale, messo in commercio a un prezzo inferiore di due marchi al chilo rispetto a quello naturale. Peccato che in cambio dell’economicità e di un colore perfetto, le tinture sintetiche siano anche inquinanti e nocive, determinando un grosso impatto ambientale nella fase di produzione e lasciando sui tessuti residui tossici causa di sempre più frequenti reazioni allergiche e dermatiti da contatto.
Se la tinta naturale è una tinta viva, capace di vibrare in confronto all’immobilità dei colori di sintesi, va anche detto che, all’interno delle colorazioni naturali, c’è stata storicamente notevole differenza tra le vesti dei ricchi e quelle del popolo, potendo i primi contare sul lavoro raffinato e sofisticato dei tintori, gli altri su procedimenti più rudimentali di estrazione e fissazione delle tinte, non a caso i colori delle vesti della gente comune hanno sempre avuto un aspetto più o meno slavato. Ma oggi, con pochi strumenti di uso comune, possiamo permetterci di controllare e guidare il procedimento produttivo, magari mettendo nel tino qualche composto più efficace dell’urina di cavallo, per autoprodurre a basso costo tinte “da signori”.
Isatis tinctoria
Il guado è una pianta a ciclo biennale, appartenente alla famiglia delle Brassicaceae o Cruciferae, che cresce in modo diffuso e spontaneo con tendenza a diventare infestante lungo strade, ferrovie, su terreni incolti e rocciosi. È presente su tutto il territorio nazionale fino a 2.000 metri di altitudine; nel caso venga coltivata si giova della vicinanza con le leguminose, mentre è bene allontanarla dalle altre piante orticole. Il primo anno presenta solo un’abbondante base di foglie disposte a rosetta, nel secondo anno va a seme innalzando un fusto tra 40 e 120 cm., con una caratteristica fioritura gialla da maggio a luglio.
Guado, primo anno
L’impiego fondamentale di questa pianta riguarda l’estrazione del colore blu, ma in passato è stata anche utilizzata come pianta medicinale per far fronte a carenze di ferro e stati di debilitazione, per stimolare la crescita dei bambini, per curare scorbuto e altre patologie e, per le sue proprietà astringenti e cicatrizzanti, come impacco esterno contro dermatiti, piaghe e ferite. È impiegabile come foraggio per gli animali, anche se ha sapore amaro, ma raramente viene usata nell’alimentazione umana per la sua non facile digeribilità (la parte commestibile sono le infiorescenze prelevate nel mese di aprile con i fiori ancora in boccio, che chi ha lo stomaco buono può mangiare bollite e condite con limone).
Guado, secondo anno, in fiore
Il colorante è contenuto nelle foglie prodotte nel primo anno di vita della pianta, essendo la concentrazione abbastanza bassa è necessario utilizzarne abbondanti quantità, raccolte in piena maturazione, prima che comincino a presentare segni di ingiallimento. Il taglio non danneggia la pianta, che farà crescere nuove foglie consentendo quattro o cinque raccolte per stagione, a distanza di circa venti giorni l’una dall’altra. A fine estate le proprietà tintorie vanno riducendosi, per questo motivo era solitamente proibito che l’ultimo raccolto venisse mescolato con i precedenti ed era tradizionalmente fissato un termine ultimo di raccolta, che alcuni statuti medievali dell’Italia centrale indicano per il 29 settembre.
L’estrazione del pigmento blu, ieri e oggi
Le foglie di Isatis tinctoria contengono due composti organici complessi (glucoside indacano e estere isatanoB) non solubili in acqua; la sostanza colorante (indigotina) non è quindi disponibile direttamente ma va ricavata attraverso una precisa lavorazione. La resa non è molto elevata, considerando che da un chilo di foglie si ottengono non più di uno o due grammi di colore.
Negli anni Settanta e Ottanta, lo studioso di storie locali Delio Bischi ha riportato alla luce nel territorio appenninico del Montefeltro diverse macine in pietra con particolari scanalature, spesso riadattate come basamenti di croci, edicole e altre costruzioni, ipotizzando un utilizzo diverso da quello delle macine per grano e olive. Si trattava infatti di macine da guado utilizzate nelle antiche pratiche di lavorazione di questa pianta, che riducevano le foglie fresche in poltiglia.
La pasta così ottenuta era dapprima lasciata riposare per un paio di settimane su graticci o su un piano inclinato, dando avvio a una prima fermentazione con l’accortezza di controllare costantemente la presenza di eventuali incrinature della superficie, da chiudere per evitare il proliferare di vermi; successivamente la pasta veniva modellava in pani o palle (coccagne) che di nuovo, rigirandoli spesso, erano lasciati stazionare in luoghi ariosi e ombreggiati mentre al loro interno proseguiva il processo di fermentazione. I pani venivano modellati grazie all’aiuto di apposite scodelle in legno, il loro peso e le loro dimensioni erano precisamente regolamentati. Dopo alcune settimane, diventati ben duri, erano consegnati al macero. Qui venivano sbriciolati in acqua, urina e aceto (o vino) e lasciati macerare per almeno quindici giorni. Si può immaginare che l’odore emanato dai maceri da guado non fosse dei migliori e infatti diversi documenti d’archivio testimoniano come loro ubicazione venisse il più delle volte dislocata fuori dalle mura cittadine. A fine macerazione, la pasta di guado veniva essiccata e ridotta in polvere, quindi venduta ai tintori.
Palla di guado macinato: la ‘cocagne’
Con l’arrivo sul mercato dell’Indigofera tinctoria, che dal XVI secolo va a sostituire progressivamente il guado, viene messo a punto un diverso procedimento di estrazione del pigmento indaco, ossia per ossigenazione. Tale procedimento viene esteso anche al guado ed è quello che ancora oggi continua a essere sperimentato e messo a punto, con molte e diverse varianti.
Come indicazioni di massima per un corretto procedimento si possono considerare le seguenti annotazioni, da perfezionare in base all’esperienza e alle attrezzature di cui si dispone. Le foglie fresche, lavate e tagliate a pezzettoni vanno lasciate macerare in acqua calda a 80°C per mezz’ora, in alternativa si possono lasciare in infusione per uno-tre giorni a temperatura ambiente; diventata l’acqua grigia-verdastra, si filtra la soluzione togliendo le foglie dopo averle ben strizzate, si attende il raffreddamento e si aggiunge una base forte per alzare il Ph. Si può utilizzare liscivia, che si ricava trattando la cenere con acqua bollente, oppure calce spenta o soda caustica. Rimestando il tutto con forza, più volte, nel giro di qualche ora si fa prendere ossigeno all’acqua: il colore cambia virando su toni verde-blu, la schiuma da bianca diventa azzurra. In questo modo l’indacano contenuto nelle foglie si ossida dando origine all’indaco che, non essendo solubile, precipita sul fondo del contenitore. Quando, dopo alcune ore, la parte liquida rimane di colore giallo, perdendo tutti i toni del blu, l’operazione è conclusa. Si procede quindi con la filtrazione, raccogliendo il primo liquido che fuoriesce e rimettendolo nel filtro, a quest’operazione seguono un paio di lavaggi con acqua della massa di colore, quindi l’asciugatura all’aria o al calore di una stufa per qualche giorno e infine la raccolta del colore in forma solida. Un’ultima fase consiste nel riporre i pani di colore così ottenuti in barili chiusi, per tre settimane circa, in modo che possano trasudare l’umidità in eccesso, quindi dopo un’ulteriore asciugatura all’aria di qualche giorno, il blu è definitivamente pronto.
Macina da guado, Apecchio (PU)
La tintura
Le tecniche degli antichi procedimenti di tintura, malgrado la loro importanza economica e sociale, sono rimaste conosciute in modo solo approssimativo attraverso testimonianze indirette, come i libri contabili in cui erano registrati quantità e qualità degli ingredienti utilizzati o gli statuti medievali di Arti più importanti (Arte della lana e della seta) che controllavano l’attività tintoria regolandola sulle proprie esigenze, pertanto, tali documenti, tramandano “tutto quello che il tintore non doveva fare; ma più raramente ciò che il tintore avrebbe dovuto fare; mai, o quasi mai, come avrebbe operato in concreto”[4].
Per procedere alla tintura delle stoffe non è necessaria la mordenzatura, cioè il trattamento delle fibre con una sostanza come l’allume di rocca che aiuta la materia colorata a fissarsi sul tessuto, ma basta un lavaggio con sapone neutro. La tecnica della “tintura al tino”, prevede la preparazione di un “bagno colore” in cui immergere il tessuto o il filato. Anche per la tintura, come già per l’estrazione del colore, i procedimenti e le sostanze da utilizzare conoscono una vasta gamma di varianti, l’essenziale è che il Ph sia alto e che la tintura avvenga in assenza di ossigeno. Per fare questo si possono usare elementi chimici come soda e idrosolfito di sodio che agisce da agente riducente, ma anche calce spenta (o liscivia) e fruttosio lavorano adeguatamente, seppure con minor forza.
Per 100 grammi di tessuto si sciolgono in un bicchiere 10 gr. di idrosolfito di sodio ai quali si aggiungono 2 gr. di soda caustica (è una buona idea indossare guanti da cucina); in alternativa 20 gr. di calce spenta e 30 gr. di fruttosio. A parte vanno sciolti 10 gr. di pigmento di guado in acqua tiepida e poi vi si unisce poco alla volta la soluzione precedente (c’è chi preferisce sciogliere il guado in un po’ di alcol). Il tutto si inserisce in una pentola contenente tanta acqua in modo che la stoffa da tingere possa starci comodamente. Si porta a 50-55°C e si lascia riposare un quarto d’ora. Preparato così il bagno colore è il momento di immergere delicatamente la stoffa, che avremo precedentemente lavato e tenuto in acqua per una ventina di minuti.
Ricordarsi che va evitato il contatto con l’ossigeno, per questo è vietato mescolare energicamente e formare bolle d’aria. L’operazione di tintura, a seconda di come abbiamo preparato il bagno, della quantità di pigmento usato e dell’intensità del tono che vogliamo raggiungere, va da una singola immersione di pochi minuti a ripetuti bagni di colore; un ottimo risultato si ottiene dopo un primo bagno di 15-20 minuti. Appena si estrae la stoffa dalla pentola, per i primi trenta secondi ci si chiederà dove abbiamo sbagliato, vedendola appena velata di un pallido color verde, ma subito dopo, come per magia, a contatto con l’ossigeno dell’aria apparirà rapidamente e vistosamente un bellissimo colore blu. La tonalità definitiva si vedrà dopo circa mezz’ora. Infine, prima di stenderla per l’asciugatura, è bene risciacquare la stoffa sotto acqua corrente.
Palle di guado macinato: la ‘cocagne’
Un ringraziamento speciale a Michelina, vera artigiana della tintura, e non solo. Per conoscere le sue creazioni e partecipare ai suoi corsi: https://www.facebook.com/michelina.evacresce
Note
[1] Cfr. Michel Pastoureau, Blu: storia di un colore, Milano, Ponte alle Grazie, 2002.
[1] Cfr. L’economia verde sfida la crisi, Rapporto Green Italy 2012, http://www.symbola.net/assets/files/Rapporto_GreenItaly_2012_1358333078.pdf
[2]Tinctoria. La Cività dei colori, intervista a Cristiana Cariaggi, membro del Cda di Cariaggi, http://www.pittimmagine.com/corporate/fairs/uomo/news/2015/cariaggi.html.
[4] Giovanni Rebora, Un manuale di tintoria del Quattrocento, Milano, Giuffrè, 1970, p. 6.
Cagli – Convento dei Cappuccini – Una macina da guado a supporto di una colona romana con croce
Bibliografia
Jean Pierre Casimir Puymaurin, Notizia intorno al guado (Isatis tinctorum) della sua coltura e de’ mezzi d’estrarne l’indaco, Milano, Stamperia Reale, 1810.
Charles Philibert de Lasteyrie du Saillant, Del guado e di altri vegetabili da cui si può estrarre un color turchino colla descrizione della coltura del guado della preparazione del pastello dei diversi metodi per ottenere la fecula turchina e della maniera di applicarla alla tintura, Roma, F. Bourlié, 1811.
Giuseppe Morina, Del guado e modo da estrarne l’indaco, Napoli, A. Trani, 1811.
Istruzione sulla cultura e preparazione del pastello isatis tinctoria e sull’arte di estrar l’indaco dalle foglie di questa pianta, pubblicato per ordine di s. e. il sig. conte dr. Sussy ministro delle manifatture e del commercio, tradotto da A. Vignozzi, Livorno, Tip. Vignozzi, 1812.
[Gaetano Cioni], Istruzioni sulla coltivazione del guado (Isatis tinctoria) applicabili singolarmente alla Toscana, pubblicate dal direttore della imperiale Fabbrica dell’indaco di Firenze il 6 luglio 1813, Firenze, G. Piatti, 1813.
Franco Borlandi, Note per la storia della produzione e del commercio di una materia prima: il guado nel Medio Evo, in Studi in onore di Gino Luzzatto, v. 1, Milano, Giuffrè, 1949, p. 297-324.
Giovanni Rebora, Un manuale di tintoria del Quattrocento, Milano, Giuffrè, 1970.
Maria Elda Salice, La tintura naturale: come preparare lana e seta per la tintura, come ottenere una vasta gamma di colori dalla cocciniglia, dal caffe, dall’ortica, dalla betulla, dall’indaco, dal te…, Milano, Sonzogno, 1979.
Gudrun Schneider, Tingere con la natura: storia e tecniche dell’arte tintoria, Milano, Ottaviano, 1981.
Sandro Pignatti, Flora d’Italia, Bologna, Edagricole, 1982, v. 1, p. 381.
Delio Bischi, Le macine da guado, in «Proposte e ricerche», 1989, n. 23, p. 63-79.
Delio Bischi, I “Maceri da guado”. Persistente problema nei secc. XIII- XVIII, in «Atti e Memorie», Deputazione di storia patria per le Marche, a. 96, 1991, p. 323-332.
Delio Bischi. L’industria del guado (Isatis tinctoria L.) e il riuso delle mole nella provincia di Pesaro e Urbino (sec. XV-XVII), in «Esercitazioni della Accademia agraria di Pesaro», ser. 3, a. 24, 1992, p. 109-130.
«Proposte e ricerche», 1992, n. 28 (contiene gli atti del convegno “Vegetali per le manifatture nell’Italia centrale: secoli XIV-XIX”, Sanseplocro, 1991).
Michel Pastoureau, Blu: storia di un colore, traduzione di Fabrizio Ascari, Milano, Ponte alle Grazie, 2002.
Un trattato universale dei colori: il ms. 2861 della Biblioteca universitaria di Bologna, edizione del testo, traduzione e commento a cura di Francesca Muzio, Firenze, Olschki, 2012.
Pistacoppi antifascisti
Intervista di Vittorio a Claudio Sopranzetti
Il 10 febbraio Macerata è stata attraversata da una manifestazione storica. 30.000 persone provenienti da tutte le Marche e da molte città d’Italia hanno rifiutato con chiarezza fascismo e razzismo, che sono tornate ad essere ideologie accettate o tollerate da buona parte della classe politica italiana. La rappresaglia razzista del fascista Luca Traini dopo il brutale omicidio di Pamela Mastrogiacomo, di cui sono accusati dei piccoli spacciatori nigeriani, ha scoperchiato le contraddizioni profonde della provincia marchigiana. La pace e la tranquillità pubblicizzate dagli spot idioti delle campagne turistiche nascondono un rancore marcio, la teppa fascista armata, la criminalità nigeriana che sguazza tra proibizionismo e corruzione sociale. Di fronte a questa serie di tragedie la classe politica locale e nazionale ha iniziato a balbettare, l’antifascismo ufficiale ha aderito alla retorica repressiva di Minniti e Renzi. L’antifascismo militante e popolare ha risposto. Antifa Macerata è una realtà recente, nata da una palestra popolare e dalla strada. Quel sabato era in piazza con uno spezzone combattivo e giovane. Nonostante la durezza della giornata, sono riusciti a strapparci un sorriso verso il futuro quando dietro alla cappa dei fumogeni è spuntato il logo “Pistacoppi antifascisti”(“pistacoppi” è il nome dialettale con cui vengono chiamati i numerosi piccioni presenti a Macerata e quindi, per analogia, anche gli abitanti della città).
Macerata, 10 febbraio, pistacoppi antifascisti, foto di Giovanni Martone.
Macerata. Prima e dopo la lunga settimana dall’omicidio di Pamela alla manifestazione antifascista del 10 febbraio. Che cos’è diventata la vostra città? Esiste una particolarità territoriale oppure è lo specchio della “provincia” italiana?
Questa è una riflessione complessa, che stiamo facendo anche noi. Per certi versi ovviamente Macerata ha le sue caratteristiche, che riflettono quelle della classica cittadina italiana tranquilla: non stiamo parlando di un territorio di grosso conflitto sociale, qui ci sono decenti tassi di occupazione, un livello economico e culturale medio alto e forse proprio queste caratteristiche rendono tutta la situazione della settimana appena trascorsa ancora più inquietante. Stiamo comunque parlando di una realtà in cui la gente sta bene. Non siamo in una città come Roma con un sacco di problematiche e una radicata presenza storica fascista, né in territori con una intensa immigrazione. Inoltre siamo in uno dei fulcri nevralgici storici del PD, della sinistra parlamentare italiana, con una presenza di associazionismo fortissima, una presenza della Chiesa cattolica fortissima, un territorio che è stato usato come modello di integrazione. Tra l’altro ho letto che le Marche sono una delle regioni con il più alto tasso di moschee per abitanti musulmani. Insomma, all’apparenza non ci sarebbero i presupposti per vedere accadere questo tipo di cose e, soprattutto, per vedere certe reazioni popolari. E invece quando senti certi commenti al bar ti chiedi se per caso siamo finiti in una cittadina della Baviera nazista nel 1936. Ma proprio perché non è dove te l’aspetti, la situazione diventa particolarmente significativa e richiede un’analisi un po’ più approfondita di quelle che sono le forme del fascismo oggi.
Mi viene in mente il romanzo di Ballard, “Regno a venire”, dove c’è una folla normale che esce dalla sua zona di comfort e comincia a esercitare violenza, prima verbale e simbolica poi anche fisica contro l’immigrato. Sembra un po’ questa storia…
Macerata, 10 febbraio 2018, foto di Yara Nardi.
L’impressione è questa. O anche quella del film Dogville. Una realtà collinare, benestante, di provincia, dove il PD ha dominato e continua a dominare, ma dove trovi queste contraddizioni mostruose che secondo me sono lo specchio dell’imbruttimento, della rincorsa della sinistra parlamentare italiana verso la destra. E parlo di un’ideologia di destra pesante, neanche sociale, dentro il guscio vuoto di un’apparente realtà di sinistra.
Quando parli di imbruttimento io penso anche al delitto da cui è partita la concatenazione di eventi, cioè alla brutalità dell’omicidio di Pamela con tutto il corollario di violenze maschili che l’hanno favorita e causata. Tutta questa storia sembra un corpo estraneo a Macerata e invece da quanto mi dici è una specie di specchio, di doppio, di questa città benpensante.
La sensazione è questa ed è una sensazione che si lega molto alla vecchia analisi del fascismo in Italia come di un cancro dentro un corpo sano, per cui eliminato quel cancro il corpo va avanti in salute. In questa settimana ci siamo accorti che non è così. Ci sono forme radicate di de-umanizzazio¬ne della diversità. Sia come è stato trattato il delitto di Pamela, sia la mancanza totale di dimensione umana delle vittime di Traini sono un’evidenza chiara: i loro nomi quasi non li conosce nessuno, non abbiamo vissuto quello che i media ci hanno proposto dopo gli attentati degli ultimi anni, cioè la faccia delle vittime, la loro storia come centro della discussione. Qui le vittime sono state completamente abbandonate a loro stesse, senza la presenza delle istituzioni, senza nessuno che le andasse a trovare. Sono state cancellate dall’immaginario collettivo, proprio de-umanizzate. Questo è il meccanismo che ha portato Traini alla caccia all’immigrato indiscriminata, perché non è la persona X che ha fatto l’atto Y, ma è questa forma senza faccia dell’immigrato che diventa colpevole di tutti gli atti degli immigrati. Di conseguenza non può neanche essere vittima, rimane sempre un immigrato informe.
Macerata, 10 febbraio 2018, foto di Valeria Tinti.
Un altro aspetto interessante è il ruolo della stampa locale e della narrazione delirante che è stata costruita prima attorno al delitto di Pamela, poi attorno alla sparatoria di Traini e infine alla manifestazione. Qual è il ruolo di questo tipo di comunicazione locale, anche dei social network, e voi, come antifascisti, come avete cercato di intervenire?
In effetti, come dici, c’è stata una sequenza molto serrata di rappresentazioni deliranti. Per prima cosa il tentativo di tribalizzare il crimine dell’uccisione di Pamela e del trattamento del suo corpo, con un tentativo da parte della stampa di rimandarlo a pratiche tribali, nigeriane, al vudù: cose completamente campate in aria. Poi, almeno per le prime tre o quattro ore dall’inizio della sparatoria, tutti i giornali locali hanno scritto di regolamento di conti interno alla mafia nigeriana senza avere alcun tipo di fonte, basandosi assolutamente sul niente.
In realtà le forme di giornalismo cittadino come “Picchio news” e “Cronache maceratesi” sono nate in maniera molto aperta e, potenzialmente, estremamente democratica. Da parte nostra, rispetto a questo, dobbiamo anche cominciare a puntare il dito davanti allo specchio perché non ci siamo sporcati le mani, nessuno di noi ha forse compreso pienamente che lì si sarebbe fatta l’opinione pubblica locale, abbiamo completamente trascurato questo aspetto lasciandolo in mano a tutt’altro tipo di forze e discorsi. Invece forme di fascismo più o meno organizzate e dichiarate sono entrate in questa dinamica e l’hanno fatta loro. “Macerata ai maceratesi”, ad esempio, è una realtà insignificante sul territorio ma ha un’esposizione mediatica mostruosa, proprio perché hanno fatto questo lavoro di comunicazione pubblica, che per loro è anche più semplice dal momento che quella comunicazione coincide o si allinea a tutta una serie di egemonie culturali che si stanno formando anche al di fuori di quello che è il fascismo organizzato. Se Renzi dice “aiutiamoli a casa loro”, allora si apre uno spazio di attenzione per cui chiunque si allinei su quel discorso ha una facilità comunicativa spicciola fortissima. Poi ci sono anche le varie pagine sui social network, del tipo “Sei di Macerata se…”, con un identitarismo fortissimo e dibattiti spesso grossolani, pieni di insulti, pieni di notizie false e di false foto che vengono fatte circolare. In questi giorni, almeno, si nota molta più presenza di gente che si è accorta di quanto sia basso il livello e che cerca di mettere in discussione certi tipi di rappresentazione.
Per me la cosa impressionante è come questi discorsi beceri si riproducano in città. È evidente che non fanno che solidificare una certa forma di analisi: tanta gente ha sempre pensato “immigrati merda, che se ne stiano a casa loro”, però dieci anni fa al bar aveva vergogna di dirlo a voce alta, mentre ora c’è un allargamento delle maglie per cui questi discorsi sono possibili e accettabili e quindi si riproducono. Un po’ come quello che ho visto in Inghilterra dopo la Brexit: una volta che la Brexit ha vinto, tutta una serie di forme di xenofobia, anche contro gli italiani e i migranti bianchi, sono state rese accettabili. O penso a quello che è successo negli Stati Uniti con Trump: il limite di quello che ieri era inaccettabile si allarga fino a diventare all’ordine del giorno. Come dicevo, la componente mediatica in tutto questo, anche dei piccoli giornalini locali, è fondamentale e da non sottovalutare.
Macerata, 10 febbraio 2018, foto di Valeria Tinti.Tu hai seguito la situazione dal punto di vista di Antifa Macerata, ci racconti come si è formato questo gruppo?
La storia di Antifa Macerata è ancora l’infanzia di un movimento che si è trovato ad avere un ruolo da adulto in questa situazione e se l’è preso con i limiti ma anche con la bellezza di questo passaggio. Antifa Macerata muove i primi passi dentro una palestra popolare di Macerata, nata cinque anni fa come molte palestre popolari da gente che non si sentiva pienamente rappresentata dai centri sociali e voleva fare un intervento territoriale, che inizialmente è stato molto forte sulla lotta alla tossicodipendenza, problema storicamente molto sentito a Macerata. L’idea era: meglio stare a rota di palestra che di roba. Sin dall’inizio si erano definiti toni antifascisti e antirazzisti, ma in maniera abbastanza blanda e generica. In seguito alcune delle persone fondatrici della palestra popolare hanno cominciato a prendere parte a momenti più spiccatamente politici, di protesta, hanno partecipato a diverse manifestazioni in Italia e all’estero. Ma, in definitiva, si sono ritrovati un po’ insoddisfatti delle manifestazioni di massa senza un lavoro territoriale e, in particolare dopo l’uccisione del ragazzo nigeriano a Fermo l’anno scorso, hanno sentito la necessità di una presenza antifascista militante e hanno deciso di mettere su questo Antifa Macerata. La dinamica è un po’ complessa, anche perché nella palestra c’è chi ha accolto questa scelta a braccia aperte, ma anche chi l’ha sentita come una cosa troppo politica. Anche la composizione di classe sociale è molto interessante, molto variegata, trasversale, molto meno studentesca di quella dei centri sociali, anche nelle sue forme e nei suoi linguaggi. La sua forza è anche questa, cioè di non essere ancorati a un linguaggio vecchio, di movimento, che non ha troppa presa in questo momento.
Dall’omicidio di Pamela alla manifestazione non c’è stata pace nelle strade di Macerata, sappiamo di almeno un paio di momenti forti di contestazione antifascista in città. Come si è sviluppato questo percorso?
C’è da dire che i nuclei dichiaratamente fascisti in città sono pochi e piccoli, ma dopo gli eventi di questi giorni è evidente a tutti che sotto covava qualcosa di molto più dilagante. Va bene che eravamo tutti distratti dalla manifestazione del 10 febbraio ma è proprio quando si è distratti che queste cose succedono e quindi si è deciso di agire su due dimensioni.
Da una parte mettere pressione, alzare la tensione nei confronti di bar e realtà locali che lasciano spazio di azione ai movimenti neofascisti, dall’altra portare la presenza popolare in piazza ed è quello che è successo domenica 4 febbraio con un presidio spontaneo, molto più allargato, molto meno aggressivo, per dire che le piazze sono nostre. In una situazione del genere, nei giorni immediatamente successivi non poteva essere fatta passare nel silenzio la presenza in città di Casapound [mercoledì 7, ndr.] e il giorno dopo quella di Forza Nuova caratterizzata da un discreto gruppetto di persone estremamente violente presenti nel territorio.
In realtà in città è come se non ci si fosse resi conto del livello di violenza dell’atto di Traini. Far manifestare Forza Nuova, che è stata l’unica forza politica a rivendicare l’atto, lo possiamo paragonare a dare uno spazio di manifestazione all’Isis a Nizza dopo l’attacco, anche se tutto in forma più casareccia. Noi abbiamo avuto pesanti litigate con i giornalisti, anche nazionali, perché era davvero allucinante che su tutti i giornali del mondo qualsiasi articolo sugli eventi di Macerata, tutti, dal primo all’ultimo, parlasse di terrorismo neofascista e invece sui giornali italiani si parlava di un matto. La distanza tra il tipo di dibattito politico che c’è su questi eventi in Italia e la loro rappresentazione internazionale è devastante.
Così siamo arrivati alla manifestazione di sabato 10 febbraio. Bisognerà fare un’analisi approfondita sul tentativo del ministro dell’interno Minniti di creare una “strategia della tensione” rispetto alla presenza in piazza. E anche interpretare la dinamica che parte da un attentato dichiaratamente fascista e dalla sua rivendicazione da parte di un movimento che ha delle relazioni per lo meno ideali con l’esecutore dell’attentato, seguita dall’equiparazione degli atti di una parte e dell’altra, per cui a chi va a contestare un bar che offre spazio ai fascisti si dice “siete come Traini”, e termina con una violazione molto pesante del diritto di manifestare e, appunto, una “strategia della tensione”: si mette paura alla popolazione e si allestiscono tutti i presupposti per una manifestazione violenta, poi quando la manifestazione violenta avviene parte la stretta di repressione e di controllo statale sui territori. Pensiamo che tutto questo sia un dispositivo che si sta attuando e una modalità che verrà probabilmente riprodotta altrove.
Macerata, 4 febbraio 2018, presidio spontaneo.
In questo senso però è andata bene, c’è stata una capacità di rompere questo schema.
Benissimo. Speriamo che questa analisi che ha contribuito alla riuscita della manifestazione sia un messaggio chiaro al tentativo di Minniti. Dobbiamo ricordare che in primis c’è stato l’invito a non manifestare da parte del sindaco di Macerata, che va bene lascia il tempo che trova, poi una nota della prefettura che non avrebbe nessun ruolo nella gestione delle piazze, che spetta direttamente alle questure. Si è riprodotto un tentativo che negli ultimi anni avevamo visto a Ventimiglia, classico esempio di come si sperimentino disposizioni ai margini e poi si applichino anche fuori dai margini, in questo caso non in una grande città ma a livello intermedio di una cittadina di provincia. La prefettura ha fatto una nota ai giornali e poi una nota pubblica usando di nuovo la parola “invito” ma di fatto, essendo passata da quei media di cui parlavamo prima, è stata presa come una proibizione della manifestazione senza alcun sostegno giuridico.
In effetti questa notizia è girata per un paio di giorni, con tutte le caratteristiche di una fake news…
Macerata, 10 febbraio 2018, foto di Valeria Tinti.Esatto. E ha generato una serie di conseguenze profonde. Il ritiro di Anpi, Arci e Cgil ha poco a che fare con questo perché riguarda più delle dinamiche loro interne, ma quello che ci interessa è l’evidenza di realtà nazionali che tentano di arginare e le corrispondenti realtà locali che non le stanno a sentire. Comunque, se volevano proibire la manifestazione avrebbero di fatto dovuto dichiarare un micro stato di emergenza, che però ha tutta una serie di conseguenze legali profonde a partire dal fatto che le autorità locali sono esautorate dal controllo del territorio e interviene il Ministero dell’interno. Questo, chiaramente, in piena campagna elettorale era impensabile e quindi il trucchetto di Minniti è stato quello di mettere pressione, in forme completamente anticostituzionali, per tentare di spingere la questura ad agire. La questura ha lungamente atteso, fino a che venerdì sera alle 9.00 c’è stato un incontro tra prefettura, questura, sindaco, rappresentanti dei centri sociali, Anpi, Arci e Cgil, in cui essendo chiaro che non si poteva proibire la manifestazione, andava deciso che percorso fare. A noi il percorso definitivo c’è stato comunicato solo verso le 11.00 di venerdì sera.
Certo che hanno tentato in tutti i modi di renderla ingestibile. Non c’erano bagni chimici, hanno fatto chiudere tutti i bar, hanno tolto tutti i cassonetti, ci hanno messo in una situazione in cui era facilissimo lasciare la popolazione scontenta per il comportamento dei manifestanti. In tutto questo abbiamo notato una frattura abbastanza chiara tra le istituzioni. Chi sul territorio ci vive e lavora, anche dalla parte delle istituzioni, ha capito che non aveva proprio alcun senso questo attacco frontale e l’ha pagato perdendo il proprio posto… il compagno questore… [ride].
Che persone c’erano in corteo? Che composizione sociale hai visto, legata alla città, alle Marche?
Macerata, 10 febbraio 2018, foto di Yara Nardi.
Anche se noi siamo stati abbastanza stabili nel corteo, non abbiamo girato tantissimo, posso dire di aver visto gente che non vedevo da una vita, di movimenti diversissimi, gente che dai movimenti era uscita, associazionismo, persone in realtà non abituate, in un territorio come il nostro, a stare in piazza. Una sorta di riemersione, che speriamo di riuscire a mantenere, di tutta una serie di forze sociali diversissime nei loro metodi e linguaggi. Ovviamente ho visto una grossissima presenza nazionale, unita a una timida presenza dei maceratesi. Timida nel senso che c’erano tantissime persone che guardavano la manifestazione dall’alto, qualcuna piano piano è poi scesa, ma c’erano anche forze e persone che hanno deciso comunque di starci, nonostante siano state impaurite dal clima di tensione costruito nella settimana. Non ci illudiamo, non era una grandissima presenza locale; il valore della manifestazione penso sia stato su una scala più ampia di quella locale. Su Macerata ha avuto una funzione come di distensione: venerdì le strade erano deserte, si avvertiva la paura di stare in strada, domenica era un’altra Macerata, più quotidiana, più viva. Anche questo è importante. Insomma, possiamo dire di aver vinto una battaglia giocata contro il mastro dello scacchiere, Minniti, ma adesso c’è una battaglia più quotidiana da portare avanti, di quelle coi pedoni che, però, forse sono pure più arcigni…
Macerata, 10 febbraio 2018, foto di Yara Nardi.
Ringraziamo Giovanni Martone, Valeria Tinti, Yara Nardi e Martina Romano per le foto concesse.
Sulle pagine di Malamente (#8) abbiamo già parlato del gasdotto Snam Rete Adriatica, ennesima “grande opera” che dovrà attraversare il Paese dalla Puglia all’Emilia Romagna, devastando i territori appenninici per permettere il flusso di quel combustibile così necessario ad alimentare nuove distruzioni dell’economia industriale. Nell’attesa delle ruspe, che purtroppo avanzano a grandi passi con il benestare delle istituzioni nazionali, c’è chi si sta dando da fare per organizzare la resistenza, la protesta, l’intralcio ai lavori, ognuno con le proprie modalità. Su questo numero abbiamo raccolto un contributo proveniente dal collettivo AltreMenti della Valle Peligna che ci parla, in particolare, di un nodo strategico del gasdotto: la centrale di compressione e spinta prevista a Sulmona. Ancora una volta dobbiamo fare i conti con un modello di sviluppo inaccettabile e insostenibile, che piace agli ingegneri della Snam solo perché riempie le loro tasche (e le loro vuote esistenze), spazza via l’aria pulita e ci lascia un’altra ferita da curare. Mettiamoci di traverso!
Lo scorso 3 febbraio a Sulmona (AQ) si è svolta una partecipatissima assemblea che ha dato vita al Coordinamento No Hub del Gas Abruzzo: sotto questo nome si sono riunite le tante vertenze nate intorno alle questioni riguardanti l’estrazione, il trasporto, il trattamento e lo stoccaggio del gas naturale che vedono nella regione Abruzzo lo snodo strategico della rete nazionale di distribuzione del gas, dai paesi esportatori a quelli importatori. Dal gasdotto Larino-Chieti, al progetto di estrazione a Bomba, dallo stoccaggio di Fiume Treste a Cupello, a quello proposto a San Martino sulla Marrucina, la scelta di Sulmona come luogo di incontro per i vari comitati non diviene affatto casuale, anzi. Sulmona risulta cruciale all’interno di uno dei progetti più ambiziosi nello scenario delle grandi opere dannose inutili e imposte (GODII): il gasdotto della Snam “Rete Adriatica”, continuazione italiana di Tap, per cui la Valle Peligna non solo sarà suolo di passaggio del megagasdotto fino a Minerbio, ma anche sede di una centrale di compressione e spinta del gas. Il 22 dicembre 2017, il Consiglio dei ministri ha portato in dono ai sulmonesi per il santo Natale l’autorizzazione della suddetta centrale in zona Case Pente. Continue reading →
“On the road” un documentario di Piers Sanderson
Di Paola Via
Il 18 febbraio l’autore del documentario “On the road” ha presentato il suo lavoro davanti al pubblico del teatro “La Fenice” di Senigallia. Piers vive da anni nella città di provincia e ha rivolto lo sguardo a uno dei tanti fenomeni “globali” che caratterizzano da anni la vita quotidiana dei nostri territori. La prostituzione forzata di donne di origine nigeriana è da troppo tempo la normalità sulle nostre strade. La violenza sui corpi delle donne nere, quotidiana e normalizzata, è l’altra faccia della falsa indignazione per le violenze sulle “nostre” donne bianche da parte degli immigrati. Il maschilismo e la violenza di genere non hanno purtroppo nazione. Apprezziamo questo documentario perché conoscere la quotidianità degli “altri” e delle “altre” per rifiutare il loro sfruttamento è il primo passo per ricostruire un terreno di umanità comune, unico antidoto al razzismo e al sessismo dilaganti.
Andare oltre è quello che facciamo quando le vediamo sulla strada. Loro. Le prostitute nigeriane. Donne giovani. O forse meglio dire bimbe o ragazzine in corpi di donna. Poiché l’ètà si è sempre più abbassata. Arrivano nei centri di accoglienza italiani per sparire misteriosamente. Sparire per poi riapparire ai bordi delle strade, dove sono costrette a offrire prestazioni per pochi euro su vecchi materassi. Camminano mezze nude, restano in equilibrio per ore su alti tacchi, respirano diossina. Perché quando la plastica brucia, l’aria è tossica. E l’unico calore che le scalda ha il sapore del veleno. Non c’è calore umano in queste strade. In nessun momento. Si lavora sempre, di giorno e di notte. Non ci sono influenze, malattie, diluvi, tempeste, nevi, postumi da gravidanze interrotte che tengano. Non un lavoro normale. Un lavoro che ti chiede di vendere il tuo corpo. Un corpo venduto per una manciata di euro. Per pagare un debito. Un debito inestinguibile, infinito, sempre in aumento. Si inizia con 25-30.000€, ma si arriva anche a 50.000€ se qualcosa non funziona. Non si finisce mai. Non si vede mai la fine. La loro non è vita. Questa è la cosa difficile. Avere a che fare con esseri umani che non sono trattati da esseri umani. Lo sfruttamento a cui sono sottoposte è anormale.
On the road. Di Piers Sanderson
Azione. Azione come agire per cominciare a pensare in modo diverso. Ci riesce un uomo, londinese, senigalliese di adozione, regista, che trasforma la sua professione in una causa etica. Girare documentari per conoscere la realtà, inoltrarsi in luoghi improbabili, ascoltare storie sepolte, marginali, o raccontate sottovoce per la paura che si portano dentro. E poi un’occasione: la lettura di un articolo, una scoperta sconcertante, una molla che scatta dentro. A pochi chilometri dalle nostre case sicure, al confine tra Marche e Abruzzo in provincia di Ascoli Piceno lungo il fiume Tronto si estende per dieci chilometri la Strada della Bonifica. Nel documentario emerge l’eufemistico soprannome di “Strada dell’Amore” per l’elevato numero di prostitute nigeriane che vi si prostituiscono ogni giorno. Da un lato la spiaggia, dove d’estate i bagnanti passano tranquille ore da vacanzieri sotto il sole, dall’altro lato, proprio a pochi passi, vi si insediano numerose fabbriche e industrie. Ed è proprio in questa zona che l’associazione Onlus On the road, da cui trae nome il documentario, concentra le sue forze per contrastare un racket e un giro di sfruttamento e violenza ormai sempre più diffuso. Realtà presente sul territorio dal 1990 e che testimonia il lungo percorso che porta le ragazze sfruttate nel mercato del sesso a essere da vittime a cittadine. Più di 400 ragazze sono state tolte dalla strada dall’estenuante lavoro dei volontari dell’associazione On the road. Nel 2014 le autorità italiane hanno investigato su 2.897 sospetti trafficanti, la Corte d’assise ne ha condannati 169. Nel 2016 sono arrivate in Italia dalla Nigeria 11.089 persone. Di queste l’80% era destinato alla prostituzione! L’ 80%! Perché arrivano proprio dalla Nigeria? Per capirlo bisogna fare un salto indietro nel tempo. Negli anni ‘80. Quando tutto ebbe inizio.
Una promessa. Un desiderio. Desiderio di migliorarsi, di migliorare la propria vita e quella dei propri familiari. L’inizio di un viaggio. Il viaggio della speranza. Ma che di speranza non ha nulla. Si lascia un paese. Non un paese povero, come spesso si è soliti pensare. La Nigeria è il paese più popoloso e più ricco del continente africano. La sua economia si colloca al 26° posto mondiale per il PIL. In un articolo del Corriere della Sera del 2014 si legge proprio che le sue ricchezze hanno superato quelle dell’Africa del Sud. Crescita recente, dunque. Ma tali ricchezze non sono distribuite equamente. E la disparità sociale è sempre più in aumento, la situazione è peggiorata dopo la guerra civile nel 1967 per la secessione del Biafra. I soldi finiscono nelle tasche degli agenti governativi e il divario tra ricchi e poveri è in crescita. Ci sono uomini in Europa che intuiscono la possibilità di fare soldi facili per vie illecite; per farlo si sfrutta la povertà come trampolino di lancio. Tutto ha inizio in Upper Sakponba road, uno dei quartieri più disagiati di Benin city, capitale dello Stato di Edo, nel sud della Nigeria. Qui le ragazze si prostituiscono per meno di due dollari a cliente. Qui vengono intercettate le famiglie bisognose da uomini della rete che si affidano ad amici, conoscenti per avvicinare i parenti della vittima; famiglie a cui è andato storto qualcosa, un’attività economica in crisi, un genitore scomparso improvvisamente… All’inizio il livello sociale non era così basso come quello attuale (oggi le ragazze provengono dalle zone rurali di tutto l’Edo State e il Delta State e in alcuni casi arrivano che non sanno scrivere neanche il proprio nome). Ce lo racconta Iyamu Kennedy nella sua bellissima testimonianza “Lucciole nere” (Kaos edizioni), una raccolta di storie delle prime partenze per Torino, meta prescelta per l’Italia.
Sono storie di persone normali, proprio come noi, giovani con i loro progetti per il futuro, come quella di Isoken, che sogna di diventare vigile urbano, Mea avvocata, Linda scrittrice, Rosaline insegnante che prima di partire vince un concorso in farmacia. E qui sta l’inganno. Inganno diventano la promessa di realizzare il proprio sogno, di ottenere un lavoro come baby sitter, donna di compagnia, cameriera, etc. e la possibilità di mantenere la propria famiglia nel paese d’origine. Spese di viaggio coperte, documenti falsi e si mette in moto la macchina; l’arrivo in Italia, la scoperta di una realtà diversa, l’impossibilità di ribellarsi per le minacce subite. Le donne raccontano di lavori ben retribuiti e quello che fanno realmente rimane un segreto. Per paura o per vergogna. Il giro prende piede al punto che in Nigeria i sacerdoti pentecostali dal pulpito esaltano i vantaggi delle migrazioni e nel nostro Paese la prostituzione nigeriana va a sostituire quella delle prostitute tossicodipendenti italiane per via dell’aids. Corpi in vendita. Uomini che comprano. Il giro si allarga e a metà degli anni ‘90 la rete si consolida, entra in gioco la figura della “madame”, una ex prostituta che, ripagato il debito, decide di entrare nel giro di affari e diventa essa stessa tenutaria, affiancata da gente con ruoli sempre più specializzati (i reclutatori, i trafficanti che si occupano del viaggio, i falsari di documenti, etc.).
Una rete capillare insomma. Cosa è cambiato rispetto agli anni ‘80? La situazione di povertà delle ragazze di partenza è peggiorata; le ragazze sono consapevoli che andranno a fare le prostitute, ma accettano comunque, perché convinte dalla famiglia a sacrificarsi per un breve periodo per poi fare una vita normale e permettere ai fratelli in Nigeria di studiare (la scuola in Nigeria non è un servizio pubblico, ma a pagamento); le vittime non immaginano la schiavitù e lo sfruttamento a cui saranno sottoposte; il viaggio, non più in aereo, è via mare. Ed è proprio in questi anni che si accendono i riflettori sulla questione nigeriana, però con scarso successo. Esce infatti un rapporto dell’ONU che denuncia l’uccisione di 116 donne nigeriane tra il 1994 e il 1998 e nel 2003 la Nigeria approva la prima legge contro il traffico di esseri umani. Legge che non verrà mai applicata. Perché? Ormai è troppo tardi. Tutte le famiglie dello Stato dell’Edo sono coinvolte. Tutti sono complici. A causa di credenze popolari che sono forme di controllo spaventose! In Nigeria la maggior parte della popolazione, oltre a essere cristiana, crede a particolari leggende e tradizioni tribali legate alle credenze Ju-Ju; per sancire il patto tra la famiglia e i trafficanti si compie un rito che ha valore di affiliazione. La ragazza viene portata in un tempio, spogliata, le vengono tagliati capelli, unghie, pelo pubico unito a indumenti intimi sporchi di sangue mestruale, tagliuzzata in alcune parti del corpo per permettere agli spiriti di entrare e costretta a fare un giuramento: pagare il debito ai trafficanti. Solo a debito sanato, sarà libera; fino ad allora qualsiasi tentativo di allontanarsi o ribellarsi agli uomini della rete scatenerà una ritorsione degli spiriti che si accaniranno su di loro con eventi nefasti. Di questo rito le ragazze hanno una paura incontrollata, che diventa una violenza psicologica più pericolosa di quella fisica. Un potente strumento di controllo. A oggi il rito voodoo è uno dei maggiori ostacoli alla lotta contro la tratta di esseri umani. Tant’è che quando arrivano in Italia, anche quando i volontari delle associazioni riescono a toglierle dal giro, rifiutano di farsi aiutare. Soffrono di attacchi di panico, insonnia, allucinazioni, attacchi psicotici che leggono come una maledizione degli spiriti per aver tradito il giuramento. Negli ospedali italiani si è registrato un aumento di sintomi post traumatici legati a episodi di violenza. Numerosi centri italiani stanno sperimentando protocolli di cura di disturbi mentali di cittadini stranieri che si rifanno agli studi di etnopsichiatria. Tra questi il più importante è il centro Frantz Fanon di Torino, attivo dal 1997.
Mancano però dei tasselli, anzi tre tappe per completare questo dipinto dalle tinte oscure.
La Strada della Bonifica del Tronto
Prima tappa, l’inizio dell’inferno: Agadez. 1500 km separano Benin city da questa città del Niger. Niger, paese appartenente alla Comunità Economica degli Stati africani, dove non serve il visto per circolare. Qui i trafficanti possono circolare liberamente. Niger, il primo produttore africano di petrolio e 12° al mondo. Paese anche questo ricco. Da qui passa ogni genere di contrabbando: merci contraffatte, hashish, cocaina, eroina, petrolio venduto ai margini delle strade in bottiglie di liquore rubato. Il valore di tale commercio illegale è però ormai di gran lunga superato da quello degli esseri umani. Esseri umani sbattuti per un periodo indefinito (da qualche mese fino a due anni, anche se ultimamente i tempi si sono abbreviati) nella famose case di collocamento. Ad Agadez ce ne sono almeno 70. Luogo che di casa ha solo il nome. Veri ghetti soffocanti e sovraffollati, protetti da poliziotti corrotti e controllati da uomini armati di spade e pugnali. Vitto e alloggio, per chi arriva in modo spontaneo e autonomo, si pagano con il proprio corpo. A meno di tre dollari a cliente. E parte di questa miseria va alla madame locale.
Seconda tappa: attraversare il deserto per raggiungere la costa libica. Attraversare le stesse vie del commercio che hanno percorso gli schiavi 800 anni prima. Con una sola differenza. Le stesse vie oggi sono ingovernabili e inondate di armi! I migranti sono caricati 30 alla volta su dei pick up come bestiame, i trafficanti conoscono i posti di controllo sicuri, i soldati corrotti accettano le tangenti per pagarsi cibo, benzina e pezzi di ricambio perché i fondi destinati all’esercito sono rubati a Niamey, poco più a ovest. E la storia si ripete: nel 2015 il Niger approva la prima legge contro il traffico di esseri umani. Ma ancora una volta questa legge non viene rispettata. Troppe le persone coinvolte. Ogni trafficante dà lavoro a cento famiglie.
Significa che, se non ci fossero tali traffici, queste famiglie non saprebbero di che mangiare e i giovani rischierebbero di finire sotto il reclutamento dei gruppi Jihadisti. Una guerra tra poveri. Ma da quando i controlli sono aumentati, paradossalmente sono aumentate le morti di migranti. Per evitare i controlli si percorrono strade meno battute, ma più pericolose e in presenza di convogli militari i trafficanti non esitano ad abbandonarli lungo la via. In mezzo al deserto. Senza acqua col sole a picco per giorni. In queste condizioni è impossibile sopravvivere. Si è costretti a bere la propria urina per non morire. A centinaia le pietre disposte in forma circolare trovate lungo la traversata a testimoniare la presenza di cadaveri. Morti ignoti. Di cui nessuno sa nulla.
Terza tappa: se l’inferno ha un nome è Sebha. Siamo in Libia. Le torture a cui sono sottoposti nelle case di collocamento libiche sono note a tutti. Ce lo racconta il giornalista Ben Taub del New Yorker in un’inchiesta pubblicata su Internazionale. Qualsiasi persona passata dalla Libia ha subito violenza. Violenze inenarrabili. Atrocità illeggibili. Non sembra siano passati 73 anni dai lager nazisti! Qui vengono violentate anche le bambine. Chi si ribella viene ucciso. Uomini torturati con la corrente elettrica. Malati sepolti vivi. Ogni venerdì ne vengono uccisi cinque a scopo dimostrativo. Proprio Piers Sanderson racconta che la storia che lo ha toccato di più viene da questo posto. Una ragazza ricorda l’amica mortale tra le braccia dopo un’iniezione letale perché era affetta da malaria. Con un ultimo desiderio. Chiedere di raccontare al figlio in Nigeria che il suo corpo si trovava lì, in Libia. E l’unica certezza, che si trasforma in un senso di colpa logorante: di non poterlo fare.
Infine un viaggio senza fine: il mare. Naufragare o sopravvivere e rimanere deturpati. A vita. Perché i migranti oggi non sono più accompagnati dagli scafisti su imbarcazioni sicure. Dopo la tragedia di Lampedusa nel 2013, si sono intensificate le politiche di contenimento degli sbarchi da parte dell’Unione Europea. Con un unico risultato. L’incremento di decessi. I trafficanti temono, non rischiano. Prendono dai cinesi gommoni a 20 € e li caricano con un cellulare satellitare in mano. Nient’altro. Al centro, dove si fanno sedere donne e bambini, le esalazioni di benzina sono più forti e se vengono a contatto con l’acqua del mare scatenano una miscela esplosiva che causa problemi respiratori ai polmoni e corrode la pelle. La brucia. Rimani segnato, in modo indelebile.
Una volta approdate in Italia, le ragazze hanno l’ordine di dire che sono maggiorenni, perché nei centri di accoglienza per adulti i controlli sono minori. Chiamano la madame che attiva la rete dei trafficanti, i quali sanno bene come accelerare le vie burocratiche per farle uscire inosservate dai centri. Spariscono. E, come già detto, ricompaiono misteriosamente sui cigli delle strade delle nostre città. Sotto l’indifferenza di tutti. Costrette a una vita che non hanno scelto. Naufragano in un mare di silenzio.
Lo stesso Piers ha impiegato mesi prima di potersi avvicinare, fingendo di essere un volontario di On the road. Inizialmente senza telecamera. C’è voluto tempo. Per guadagnare fiducia, per trasmettere umanità, per far sentire che nessuno avrebbe fatto loro del male, nessuno voleva usarle. Convincerle a parlare non è stato semplice. Nessuno le ha pagate per farsi intervistare. Ma se le loro storie fossero state diffuse, forse, altre ragazze non avrebbero dovuto subire tutto ciò dopo di loro. Questo è stato detto. Un racconto in cambio di salvezza. Non per loro. Per chi verrà dopo. Un forte messaggio di speranza. Speranza di cui oggi tutti abbiamo un grande bisogno. E di una nuova etica. Non si chiede a nessuno di essere dei supereroi. Ma qualcosa si può fare.
Informarsi, studiare i fenomeni con dati certi prima di farsi la bocca bella con pregiudizi fasulli e che non fanno un bel regalo alla nostra intelligenza.
Sostenere, anche economicamente, associazioni come On the road, unica voce che lotta quotidianamente contro un muro di omertà.
Capire che ormai stiamo attraversando una svolta epocale e ogni evento ha ricadute globali: siamo interconnessi, interdipendenti, non possiamo più dire “non posso farci niente” e i fatti di Macerata ce lo dimostrano. Ogni persona è chiamata alle proprie responsabilità.