Il 7 dicembre [2018] a Corinaldo è una sera fredda e tranquilla. Il paese dei matti, secondo tradizione locale, o patria della santa Maria Goretti per i clericali che abbondano da queste parti, è un piccolo centro benestante di imprese agricole e manifatturiere.
In questi giorni sui social e sui giornali locali si fa un gran parlare dell’appena inaugurato impianto di risalita sul Monte Catria e del più generale progetto di ampliamento del comprensorio sciistico. Gli amministratori locali, le ditte appaltatrici e i gestori degli impianti e del rifugio gongolano nei loro selfie sorridenti su uno sputo di neve ormai mezza sciolta, sbeffeggiano un pugno di temerari ambientalisti che sono andati a contestarli e ripetono il ritornello dell’“investimento strategico” e del “progetto di sviluppo”. Noi, su Rivista Malamente (#13, gennaio 2019) abbiamo cercato di spiegare con un lungo e dettagliato articolo perché questi lavori sono un bel vantaggio per pochi (per quelli che vedono girare i quattrini), ma un grave danno per l’ambiente montano e per chi ha davvero a cuore la vita della montagna appenninica.
Tutte le statistiche sono concordi: gli sciatori diminuiscono anno dopo anno e la neve sotto una certa quota di altitudine è sempre più scarsa. Eppure politici e amministratori dell’Appennino non si scollano da un modello di sviluppo dannoso e irragionevole, nell’assurdo tentativo di rilanciare l’economia montana ampliando il parco giochi dello sci di pista e degli impianti di risalita. Un modello che fa la fortuna di pochi imprenditori che possono speculare sui cantieri di lavoro e accaparrarsi sovvenzioni pubbliche. È quello che sta accadendo nel comprensorio del Monte Catria, a 1.700 metri, sull’Appennino nel nord delle Marche. Poco importa se le attrezzature resteranno inutilizzate e le ferite inferte alla montagna saranno difficili da rimarginare, per ora si pensa solo a spianare e livellare piste disboscando vaste porzioni di faggeta e a costruire impianti di risalita sempre più potenti e veloci. Noi pensiamo che la montagna non abbia bisogno di invasori equipaggiati all’ultima moda Decathlon che scivolano a testa bassa su e giù per i suoi pendii, ma di comunità che la vivano quotidianamente, in un’insanabile lotta contro leggi di mercato fatte a misura dell’economia cittadina.
Dalla “valanga azzurra” alla fine dello sci di massa
Fino alla scoperta illuminista e romantica delle Alpi, le alte quote sono sempre state un ambiente ignoto e pericoloso. Poi, da un lato gli scienziati hanno iniziato a esplorare e studiare il territorio, dall’altro scrittori e poeti vi hanno trovato i segni del bello e del sublime. Vengono così avviate le prime escursioni e, lentamente, si allargano le pratiche dell’alpinismo e dello sci. Il vero e proprio turismo montano nasce però solo a metà Ottocento, inizialmente come villeggiatura estiva per le famiglie della borghesia cittadina attirate dall’aria buona della montagna. Nel corso del secolo successivo si afferma gradualmente l’idea della vacanza durante la stagione invernale e lo sci, da semplice strumento di mobilità sulla neve dalle origini antichissime, diventa divertimento e sport, mentre fanno la loro comparsa i primi impianti di risalita.