A un certo punto
sembravamo spacciati. Il numero di contagiati saliva ogni giorno insieme
al numero delle vittime, decine di milioni di italiani si erano chiusi in casa
a tempo indeterminato, il presidente del consiglio Giuseppe Conte appariva in
televisione ogni due o tre giorni per emanare nuove regole. Le terapie
intensive sembravano sul punto di scoppiare, in televisione virologi e
opinionisti più eventuali che vari continuavano ad accapigliarsi su questioni
difficilmente comprensibili ai più, su Facebook i post degli infermieri e delle
infermiere con il volto sempre segnato dalla fatica si moltiplicavano, così
come le foto inquietantissime dei cadaveri portati via dai mezzi militari nella
notte. Quattro o cinque generazioni, in vita loro, non avevano mai visto il
baratro così tanto da vicino.
Marzo 2020, l’Italia è un paese in ginocchio. Terrorizzato dal Covid-19, acronimo inglese di Coronavirus Disease 19, ovvero infezione da Sars-CoV-2, una malattia respiratoria difficile da identificare. Non solo l’Italia, che comunque è stata tra i primi paesi a chiudere tutto, l’intero pianeta Terra è sconvolto e reagisce nelle maniere più disparate: chi ignora il problema, chi utilizza l’esercito, chi si colloca a metà tra queste due cose.
Qui e seguenti: “Pandemia” – Opera di Blu, Campobasso 2019
Il contesto
Nelle Marche, all’estrema periferia dell’impero, già alla fine di febbraio il governatore Luca Ceriscioli si era lanciato in una personalissima guerra al governo centrale per imporre la chiusura delle scuole della sua regione per cercare di contenere i contagi. Una vicenda in qualche modo paradigmatica del caos italiano di quei giorni: lunedì 24 febbraio Ceriscioli convoca i giornalisti per annunciare la serrata degli edifici scolastici. Nel bel mezzo della conferenza stampa, però, il presidente marchigiano riceve una telefonata dal presidente Conte, che lo obbliga a desistere dal suo proposito. Smentita in diretta, dunque, e gran brutta figura per Ceriscioli. Martedì 25 febbraio, al mattino, il governo incontra in videoconferenza i rappresentanti di tutte le regioni italiane e, senza obiezioni, si trova un accordo sul fatto che qualsiasi decisione dovrà essere presa tutti insieme. Le fughe in avanti della Lombardia e del Veneto, che nella settimana precedente avevano cominciato a produrre ordinanze, sembravano arginate. Ma il pomeriggio dello stesso giorno, a sorpresa, Ceriscioli con un atto d’imperio chiude le scuole, questa volta per davvero. Il governo si innervosisce e decide di impugnare davanti al Tar il provvedimento della Regione Marche.
Intervista di Sergio Sinigaglia a Carlo Carboni e Michele Serafini [QUI IL PDF]
A metà marzo ad Ancona, presso la Facoltà di Economia, si doveva tenere un incontro pubblico promosso dalla nostra rivista insieme al mensile Gli Asini e al Circolo Laboratorio Sociale. Alla vigilia di una tornata elettorale in cui si prefigurava un successo della destra, l’intento era quello di ragionare sulle trasformazioni avvenute nelle Marche, sui mutamenti sociali, economici, culturali e antropologici, specchio del contesto più generale. Tra i relatori era previsto Carlo Carboni, docente di sociologia presso la stessa facoltà, autore di numerosi saggi tra cui “Il marchingegno”, edito nel 2005 da Affinità elettive, che analizzava il defunto modello marchigiano incentrato sul “piccolo è bello” e cercava di ragionare sulle possibili alternative.
L’incontro di Ancona è saltato a causa delle restrizioni
imposte dall’epidemia di Covid-19; abbiamo però ritenuto opportuno intervistare
Carboni sulle tematiche di cui avremmo dovuto discutere a marzo. L’intervista contiene
alcuni riferimenti alla “classe dirigente” che ovviamente non ci appartengono
visto che le nostre idee guida sono, piuttosto, i concetti di autonomia
sociale, autogestione, autogoverno. In ogni caso ci sembra un contributo
importante e qualificato per riflettere sui cambiamenti in atto, con l’auspicio
che nella prossima primavera si possano ricreare le condizioni per riproporre
l’iniziativa annullata.
Per ampliare il quadro sulla situazione regionale abbiamo intervistato anche Michele Serafini che, ritornato nelle Marche dopo due anni da ricercatore in antropologia a Londra, ha contribuito alla formazione del gruppo di ricerca interdisciplinare “Emidio di Treviri” formato da antropologi, sociologi e urbanisti, seguendo fin dalle primissime fasi le vicende del terremoto e post-terremoto 2016. Michele ci ha parlato delle dinamiche dell’entroterra, in particolare delle conseguenze determinate dall’ultimo sisma in territori già gravemente alle prese con fenomeni sociali ed economici che ne hanno fortemente indebolito il tessuto civico.
Andrea Pazienza, “Vignette”
Intervista a Carlo Carboni
Nel 2005 hai scritto “Il marchingegno” dove riflettevi
sul modello di sviluppo tradizionale della nostra regione e di come ormai
mostrasse la corda, quindi sottolineando la necessità di un suo superamento e
di un cambio di paradigma. A quindici anni di distanza sembra che siamo ancora
al palo…
Non è cambiato nulla, anzi il contesto è peggiorato. Già due anni fa Ilvo Diamanti a un convegno all’Istao (Istituto Adriano Olivetti, ndr.) ad Ancona aveva osservato come le Marche fossero scivolate nella “media mediocritas” italiana. Devo dire che dopo la vicenda del terremoto di quattro anni fa, a cui dobbiamo aggiungere lo scossone della crisi del 2008, con tutte le conseguenze avute sia nell’apparato produttivo che nel sociale, molti di quelli che hanno fatto i cantori di questo modello di sviluppo diversi anni fa – mi riferisco al nostro ambito accademico – abbiano peccato di un eccesso di entusiasmo rispetto a una realtà che ha invece mostrato tutti i suoi limiti strutturali.
Intervista di Luigi al Collettivo Anna Campbell di Pesaro
Se volete trovate la nostra rivista a Pesaro potete andare allo Spazio popolare Anna Campbell, dove puntualmente, ogni tre mesi, portiamo le copie fresche di stampa. Con questo nome e nell’attuale sede, lo Spazio ha aperto da pochi anni – libero da bieche logiche di “area” politica – raccogliendo l’eredità di quasi quarant’anni di autogestione nella città di Pesaro. Quattro decenni di conflittualità sociale, di battaglie culturali e politiche, di solidarietà attiva, di musica senza prezzo e di antidoti alla rassegnazione. Con questa intervista ad alcuni membri del nuovo Collettivo di gestione (intervista che abbiamo raccolto a luglio, in occasione di un pranzo a sostegno della rivista) raccontiamo che cos’è oggi lo Spazio popolare, come si inserisce e confronta con la città e quali sono i suoi progetti, in corso e futuri.
Partiamo dalla storia di questo posto, che oggi è lo Spazio popolare Anna
Campbell, ma che raccoglie l’eredità storica del centro sociale di Pesaro.
Quale percorso vi ha portato fino a questa sede e alla formazione dell’attuale Collettivo?
Giuseppe: L’attuale esperienza nasce da quella che era la realtà
del centro sociale Oltrefrontiera di Pesaro, portata avanti nella sua ultima
fase dal Collettivo Malarlevèt (“male allevati”, in dialetto). Lo sgombero
dalla sede storica, nel gennaio 2017, è stato uno spartiacque enorme. Noi
veniamo da lì, anche se per età, interessi, trasferimenti ecc., diversi
compagni non sono più nel Collettivo; quella di oggi è quindi una nuova fase,
ripartita con quelli che sono rimasti.
Lo sgombero avvenne
perché le azioni del Collettivo Malarlevèt si
erano spesso scontrate con le forze politiche che
amministravano la città. Ad esempio: la
battaglia contro il jobs act e contro lo
“Sblocca Italia” che favoriva le
trivellazioni in mare (a Pesaro, la nuova piattaforma
Bianca-Luisella), il sostegno al popolo palestinese (il comune
abbandonò il gemellaggio con Rafah nella
striscia di Gaza), ecc. Nel periodo antecedente allo sgombero, tra
l’altro, avevamo preso una posizione netta per il No al
referendum costituzionale del 2016, creando il comitato “per
il No sociale” e organizzando iniziative anche colorite, come il
funerale della democrazia, con tanto di bara e candele che avevamo esposto di
fronte al centro sociale mentre era di passaggio il sindaco, che stava andando
lì vicino, a un comizio pro Sì al referendum.
Giuseppina: Circa un mese dopo quell’episodio, un venerdì notte,
hanno cambiato la serratura del posto. La mattina successiva, quando siamo
arrivati, abbiamo appunto trovato la serratura cambiata e attaccato sulla porta
c’era un cartello scritto a penna che avvertiva che quella era una proprietà
comunale e se qualcuno entrava sarebbe stato sanzionato. Il posto infatti non
era uno spazio occupato, ma era dato in comodato d’uso gratuito, da oltre
trent’anni.
Quella mattina c’erano già pronte le macchine della digos, che stavano a vedere se avessimo forzato la porta. Noi però non siamo rientrati in quel momento, ma abbiamo deciso di porre il problema pubblicamente. La scusa accampata dall’amministrazione comunale è stata che avevano chiuso il posto perché pericolante, quando in realtà nello stesso edificio c’era uno spazio per gli anziani del quartiere, che noi stessi avevamo costruito tirando su un cartongesso, e quello è rimasto – ed è ancora – tranquillamente lì. Quando abbiamo sollevato la questione che avevano sequestrato all’interno cose nostre, compresi mobili, computer e una piccola biblioteca, ci hanno fissato un appuntamento per poter rientrare a riprenderle: quando siamo arrivati avevano già buttato tutto fuori, in mezzo al fango perché aveva piovuto. Tutto buttato così.
C.S.A Oltrefrontiera Pesaro, via Leoncavallo (2017)
Giuseppe. Per completare il racconto va anche detto che, la
settimana prima dello sgombero, un ragazzo che frequentava assiduamente lo
spazio con difficoltà economiche e legali (rinnovo del permesso di soggiorno)
venne chiamato in questura e dopo due giorni si presentò “spontaneamente” in
Comune per consegnare copia delle chiavi del centro sociale. Con quel gesto gli
uffici comunali costruirono un ridicolo atto di rinuncia del nostro Collettivo
alla concessione dello spazio (in essere dal 1985), riuscendo loro – dopo vari
tentavi fatti nel corso degli anni – a entrare nella struttura e quindi a
sgomberarci. Da quel momento è iniziato il nostro viaggio per riprenderci lo
spazio sociale della città di Pesaro. Dopo inutili tentavi di dialogo con gli
uffici comunali e i politici locali, abbiamo convocato un’assemblea cittadina
molto partecipata: non bastò a cambiare la situazione, ma servì a organizzare
la lotta.
Passati pochi giorni abbiamo
organizzato una manifestazione/sit-in di fronte al municipio, che aggirando la
polizia si è trasformata nell’occupazione di alcuni uffici comunali per mezza
giornata. Questo bastò a scuotere l’amministrazione che decise di incaricare un
nuovo referente politico, l’allora assessore Bartolucci, per gestire e
risolvere il pasticcio. Bartolucci trasformò l’atto di sgombero in una proposta
di “trasferimento” in una nuova sede (lo spazio dove siamo ora).
Discutemmo nell’assemblea cittadina della proposta. Avevamo due scelte: rientrare nel posto da cui eravamo stati sgomberati, con un’occupazione e una successiva resistenza, oppure accettare la trattativa con l’amministrazione comunale per il trasferimento. Scelta difficile, alla luce di tanti casi come il nostro, finiti male. Alla fine l’assemblea fu costretta a votare e, con poco scarto, fu presa la decisione di accettare la proposta di trasloco. Ci sono poi volute tante riunioni in Comune e tante lettere protocollate ed è passato più di un anno prima di poter entrare effettivamente nel nuovo spazio, ma alla fine ci siamo riusciti e ora dobbiamo lottare per mantenerlo, perché se è vero che abbiamo risolto i problemi tecnico/burocratici quelli politici sono ancora tutti lì.
In piazza dopo lo sgombero, sotto la sede del Comune di Pesaro, gennaio 2017
Quindi siamo arrivati ad oggi. In questa nuova fase avete anche
cambiato il nome del Collettivo, come lo avete scelto?
Giuseppe. Dopo tutto il
percorso fatto, appena preso possesso del nuovo spazio il Collettivo ha scelto
di darsi un nuovo nome. Sono state fatte diverse proposte, ma il nome di Anna
Campbell, che due ragazze del Collettivo avevano conosciuto, è piaciuto ed è
stato accettato da tutti e tutte. Anna Campbell è stata una martire per la
liberà e i diritti civili: una delle tante combattenti straniere andate a
difendere il popolo curdo del Rojava, unitasi alle YPJ (Unità di difesa delle
donne). Si trovava ad Afrin il 15 marzo 2017 per impedire l’ingresso dell’ISIS
ed è rimasta uccisa a ventisei anni a causa di un missile turco. La scelta è
stata unanime, anche perché il nostro Collettivo ha sempre sostenuto
l’esperienza politica e sociale del confederalismo democratico del Rojava. Tra
l’altro nel 2015 abbiamo anche partecipato alla raccolta di aiuti denominata
Carovana per Kobane.
Quali sono le prime iniziative
che avete messo in piedi?
Giuseppina. Siamo partiti con il Festival delle cucine popolari autogestite. Nel 2018 abbiamo ospitato la terza edizione, tutte le assemblee sono state fatte qui allo Spazio e l’evento pubblico al parco Miralfiore. L’idea è che anche la cucina, a partire dalla materialità del cibo e da tutto quello che gli ruota attorno, può essere un terreno di lotta, di costruzione dell’autonomia, di rivendicazione politica. Queste cucine – come la nostra “cucina resistente” – sono anche cucine “in movimento”, perché disponibili a spostarsi in caso di necessità, ad esempio si è andati a far da mangiare per i migranti bloccati sul confine a Ventimiglia; noi ci siamo spostati spesso, anche per dare sostegno a Bologna a XM dopo il primo tentativo di sgombero.
La Boutique di Anna che cos’è
e come è nata?
Giuseppe: Quella che abbiamo
chiamato la Boutique di Anna è una stanza piena di vestiti e altri generi,
tutti suddivisi e ordinati, che sono liberamente a disposizione di chiunque ne
abbia bisogno, secondo le sue necessità. Sono vestiti raccolti in occasione del
terremoto del 2016 da parte delle Brigate di solidarietà attiva, di cui
facciamo parte. In quell’occasione c’eravamo offerti come centro di raccolta
per il Centro-Nord. I beni venivano smistati e
mandati nei vari campi di terremotati ma, come spesso accade per le emergenze
derivate da calamità naturali, le risposte solidali delle persone sono state
molto più abbondanti delle esigenze reali. Avendo raccolto più del necessario,
per un certo periodo, durante la fase dello sgombero, abbiamo organizzato lo
“scambio solidale”: ogni sabato mattina ci mettevamo in piazza, proprio
sotto al municipio, per scambiare prodotti che nel cratere
non servivano più, come dentifrici e prodotti per l’igiene, in cambio di cose
più strettamente necessarie.
Giuseppina: Finché a un certo punto si è posto il problema di cosa fare di tutto quello che era avanzato, in particolare avevamo ancora scatoloni e scatoloni di abbigliamento. Abbiamo pensato di continuare a dar loro una destinazione di solidarietà e così in questa nuova sede abbiamo organizzato la Boutique di Anna. Qui non facciamo una selezione tra chi può venire a prendere e chi no, non chiediamo credenziali né documenti perché siamo fuori dalla logica di certe istituzioni, dove chi si presenta in stato di necessità deve anche dimostrare di essere povero, cosa che ci sembra perfino umiliante, o dove non si può scegliere quello che si vuole ma solo prendere quello che è stato assegnato. E comunque molte persone che vengono più o meno frequentemente a prendere spesso portano anche altre cose, dando vita a un circuito solidale di scambio.
La Boutique di Anna, Pesaro
Giuseppe: È infatti nata
una rete di relazioni attorno alla Boutique, possiamo chiamarla una “comunità
resistente”, che si organizza e collabora per sostenersi: chi ha di più, dà di
più, chi ha bisogno prende. Nelle nostre iniziative cerchiamo sempre di
ampliare la comunità e i campi d’azione, e così arriviamo a parlare anche
dell’ultimo passo, la creazione dello Spaccio popolare, che è un modo diverso
di procurarsi il cibo, più vicino al nostro sentire, fuori dalla grande
distribuzione, genuino e solidale. È un passo molto impegnativo ma
fondamentale, perché il cibo è un bene primario da sottrarre al capitalismo.
Come abbiamo già detto, grazie alla nostra cucina popolare abbiamo negli anni
creato delle relazioni che, ora, ci hanno permesso di dare vita a questo
Spaccio popolare al quale partecipa una rete di produttori locali ed etici, che
non sfruttano il territorio, le persone, gli animali (il nostro obiettivo è di
dirigerci verso uno Spaccio prevalentemente vegetariano).
Quali sono altre iniziative e
attività che ruotano attorno allo Spazio popolare?
Giuseppe: Il nostro spazio vuole essere aperto alla città, ovviamente a quella parte di città con cui condividiamo dei principi e dei valori di base (antifascismo, antirazzismo, antisessismo, antispecismo). Il Collettivo Anna Campbell ha attivato pratiche di mutualismo, azioni anticapitaliste e ambientaliste, lotte alle discriminazioni, riuscendo così a tessere una serie di legami con le associazioni del territorio e ad avviare collaborazioni che prima il centro sociale non aveva. Adesso diverse associazioni vengono qui o comunque sono in contatto con noi – come l’ONG La Palla rotonda, l’ODV Stay Human, l’APS Arcigay Agora, il Collettivo studentesco Iskra, l’APS Giovani profughi e altre – e con loro organizziamo diverse attività. Detto questo, non ci facciamo però mancare altri tipi di attività come il presidio antifascista ogni volta che Casa Pound si presenta, il sostegno alla comunità LGBTQI (l’anno scorso abbiamo partecipato all’organizzazione del primo Pride Marche), il boicottaggio dei prodotti israeliani per cui facciamo parte della rete BDS (movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro l’occupazione e l’apartheid israeliane), l’attenzione al mondo del lavoro con il supporto ai sindacati di base, ecc.
Biliardino in terrazza, Spazio popolare Anna Campbell
Giuseppina. Ad esempio La Palla
rotonda è un’associazione che tenta di fare integrazione e aggregazione
attraverso sport e cultura. Con loro abbiamo fatto diverse serate dal titolo
“Conosci il mio paese”: ogni volta, chi è originario di un paese lo presenta,
racconta cosa succede politicamente e non solo, insomma cerca di farcelo
conoscere e dopo la presentazione c’è sempre una cena collettiva in cui
proviamo a cucinare alcuni piatti tipici di quel paese. Facciamo una ricerca e
cerchiamo di riprodurli, anche se non è facile per via degli ingredienti che
possiamo reperire qui (in particolare le spezie sono di solito molto
importanti). A fine serata c’è una cosa simpatica, un quiz a squadre, che mette
alla prova la conoscenza su quel determinato paese; in palio non c’è niente, ma
è una piccola cosa che coinvolge molto e sprona alla conoscenza reciproca:
conoscenza che è la base del vivere insieme. Di queste serate a tema ne abbiamo
fatte su tanti paesi, come Bosnia ed Erzegovina, Burkina Faso, Gambia, Guinea,
Mali, Slovenia…
Un’altra iniziativa che è appena partita è la Ciclofficina. Vogliamo organizzare una piccola officina di attrezzi, così chi vuole ripararsi la bici può venire qui e con l’aiuto di qualcuno di noi, o da solo se è capace, può farlo, oppure se ne ha bisogno può prendere una delle bici che abbiamo già rimesso a posto; quelle che abbiamo adesso sono biciclette abbandonate che il comune (di Gabicce, non di Pesaro) ha recuperato e, passato un certo tempo in cui nessuno le ha reclamate, ce le ha donate.
Foto di gruppo alla cena Conosci il mio paese [Iraq e Pakistan], dicembre 2019
Tra le associazioni con cui collaborate hai citato Giovani profughi.
Tu, Adama, che ne sei formalmente il presidente, ci racconti chi siete e che
cosa fate?
Adama: Il nome della nostra associazione – Giovani profughi –
l’abbiamo scelto per far capire subito chi siamo veramente: siamo i profughi
che la gente ha visto sbarcare e che ancora sbarcano qui. Siamo venuti tutti
via mare, alcuni già sette anni fa. Prima dell’associazione, che è nata
ufficialmente il 30 gennaio 2020, ci vedevamo come gruppo di amici, ci siamo
infatti conosciuti nelle strutture di accoglienza che ci hanno accompagnato per
un periodo, fino a quando due anni fa la legge le ha chiuse e molti ragazzi si
sono trovati in difficoltà. Così abbiamo iniziato ad aiutarci tra di noi: chi
aveva un lavoro o una casa non poteva lasciare un fratello fuori. E poi
vogliamo condividere la nostra esperienza con chi è arrivato da poco e con
quelli che arriveranno. Aiutarli a capire cosa serve per integrarsi, per
imparare la lingua, per vivere qui scegliendo una buona strada.
In particolare sul lavoro è molto
importante essere informati, perché se non conosci i tuoi diritti non puoi
neanche chiederli e allora ci facciamo aiutare da chi è più esperto, dai
sindacalisti ad esempio. All’inizio ci siamo incontrati proprio per problemi di
lavoro di alcuni ragazzi che erano sottopagati, abbiamo invitato qui, in questo
Spazio di Pesaro, un sindacalista dell’USB che poteva darci una mano; quel giorno
abbiamo scoperto anche tanti altri problemi che aveva la nostra gente e così è
nata l’idea dell’associazione. Da poco abbiamo aperto una nostra sede a
Mercatale di Sassocorvaro, ma rimane un legame speciale con lo Spazio di Pesaro
che è sempre stato aperto e disponibile con noi.
Ultimamente, durante il lockdown, abbiamo aiutato nella preparazione e distribuzione dei pacchi viveri per le famiglie in difficoltà.
Cosa vedi nel vostro futuro?
Adama: La prima cosa che
vorrei vedere è l’integrazione: una società senza discriminazione, senza
razzismo, senza tutte queste difficoltà che abbiamo per ottenere una casa e un
lavoro, perché ci sono persone che guardano solo il colore della pelle o da
dove vieni. Noi siamo qui perché non potevamo stare dove eravamo e adesso
cerchiamo di integrarci. Penso che l’integrazione tra i popoli sarà inevitabile
nel tempo. Trovare chi ci lascia sempre indietro e ci tratta male rende solo le
cose più difficili e lascerà segni di dolore nelle menti e nei cuori che
saranno difficili da cancellare. Se tu mi aiuti a integrarmi non avremo nessun
problema e vivremo in pace, ma se tu adesso mi respingi, quando sarò integrato
avrò sempre una brutta immagine di te. Nel nostro futuro vogliamo avere bei
ricordi, non brutti ricordi.
Nei prossimi giorni ospiterete
qui allo Spazio popolare una serata informativa sulle lotte per i diritti degli
animali, con cena vegan, da cosa nasce questa iniziativa?
Paolo: Io sono attivista per i diritti degli animali da circa cinque anni, sono stato in vari gruppi; ultimamente, parlando con altri attivisti, abbiamo pensato di organizzare una cena, sia per conoscerci meglio tra di noi, sia per invitare altri e condividere informazioni sulle lotte per i diritti degli animali. Valentina ci ha proposto di farla qui allo Spazio popolare, ci è sembrata una buona idea e così è nato questo incontro. Personalmente mi sto concentrando sul filone della comunicazione efficace per attivisti perché mi rendo conto che è molto difficile parlare con altre persone di argomenti come veganismo, diritti degli animali e loro liberazione – immediata! Alcuni attivisti arrivano addirittura ad accusare una sindrome da stress. Ci sono persone che ci si dedicano full time, che vanno ad esempio a fare i rescue (liberazioni) degli animali negli allevamenti intensivi, ma la condizione di un attivista, o anche solo di una persona vegana, è quella di far parte di una piccola minoranza costantemente sotto pressione e quasi sotto attacco da parte di altre persone che magari non hanno affinato il ragionamento su certi argomenti. Non solo non vieni compreso, ma spesso vieni marginalizzato e quasi umiliato per la tua scelta, che in fondo non è che la ricerca del benessere per i viventi. Un libro cardine su questo discorso è “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche”, di Melanie Joy: lei si occupa proprio di fare formazione per gli attivisti proponendo diverse strategie di comunicazione efficace. Credo sia bene iniziare a discutere di questo, la serata che faremo qui sarà l’inizio di questo confronto.
Concerto del Trio Kaos, 3 agosto 2019
Fermo restando la verità oggettiva sintetizzata nello slogan ACAB (All
cops are bastards), voi avete seguito e ora vi state legando alla rete ACAD
(Associazione contro gli abusi in divisa). Ci raccontate qualcosa di questa
rete e di come sta nascendo qui allo Spazio popolare di Pesaro un suo nodo
territoriale?
Giuseppina: ACAD è rete eterogenea di persone, di diversa
provenienza, che si è associata a partire dai casi di Federico Aldrovandi
(2005), Uva, Cucchi e tanti altri, tutti morti nelle mani delle forze
dell’ordine. Il percorso prima informale ha poi portato alla nascita
dell’associazione, con un coordinamento nazionale e vari nodi territoriali.
ACAD è diverse cose: un osservatorio per monitorare e contrastare gli abusi
compiuti dalle forze dell’ordine, un pronto intervento che grazie a un numero
verde si attiva immediatamente in caso di segnalazione di abusi, un mutuo
soccorso solidale per le vittime e le loro famiglie, un centro di
controinformazione per smontare le versioni dei verbali di polizia.
Noi, a Pesaro, stiamo diventando
uno dei nodi territoriali di ACAD, anche se in questo momento il Covid ha un
po’ bloccato la situazione. Vogliamo dare appoggio a chi ne ha bisogno, anche
perché abbiamo riscontrato che a Pesaro gli abusi sono evidenti, i più comuni
riguardano il mancato rinnovo dei permessi di soggiorno, il continuo
approfittare di chi ha documenti in scadenza, perquisizioni assurde e così via.
Giuseppe: In realtà questa non è un’attività nuova per noi, nel
senso che un sostegno di questo tipo lo abbiamo sempre dato, anche con il
supporto del nostro avvocato che ci segue da anni e degli avvocati di strada di
Pesaro. Il nostro arrivo in ACAD è stato quindi naturale, la cosa positiva è
che ci dà una struttura di riferimento, una rete.
Il vostro spazio sociale si trova nella zona pesarese di Villa
Fastiggi, pochi chilometri più avanti lungo la strada c’è un carcere dove –
come purtroppo in moltissimi altri istituti penitenziari – le condizioni dei
detenuti sono pessime, c’è sovraffollamento, ci sono problemi sanitari, sono
avvenuti maltrattamenti e anche episodi molto più gravi, come ad esempio la
morte di Eneas (Anas Zamzami) nel 2015. Vi siete fatti
un’idea di cosa succede in questo carcere?
Giuseppina. Eneas era un giovane che stava scontando una lieve condanna nel carcere di Villa Fastiggi e si è tolto la vita. Su come sia arrivato a questo gesto sappiamo che ci sono fondate responsabilità da parte dell’amministrazione penitenziaria. Il caso di Eneas lo abbiamo seguito e siamo tuttora in contatto con il gruppo di amici e amiche che sta cercando di far luce sulla sua morte.
Verità per Eneas, morto di carcere, dicembre 2018
Giuseppe. Il carcere è un luogo di raccolta di “poveracci” e di
disperati, il sunto della repressione di tutti coloro che sono emarginati, i
cui problemi si potrebbero affrontare con ben altri strumenti; con il welfare,
la solidarietà, le politiche sanitarie… Le storie di abusi, violenze, atti di
autolesionismo e purtroppo di suicidi escono dal carcere di Villa Fastiggi e ci
riempiono di rabbia e sconforto. Purtroppo, oltre la condanna del tribunale, la
volontà punitiva verso i detenuti che si vive nell’ambiente del carcere è una
cosa che abbiamo percepito e che ci è stata ampiamente raccontata. Per quanto
possiamo, cerchiamo di attivarci a ogni sollecitazione, come nel caso di Eneas
o collaborando con l’associazione Antigone. Vorremmo andare anche oltre, per
questo abbiamo incontrato due volontari di Pesaro che tramite il rugby sono
riusciti a organizzare attività sportiva nel carcere, dopo tre anni di
richieste e di ostacoli. Ci aspetta un lavoro lungo e difficile.
A Pesaro, come in tutta la riviera, conoscete bene che cos’è lo
“sfruttamento stagionale”, cioè quel lavoro in alberghi, ristoranti,
stabilimenti, che dura qualche mese ed è fatto orari di lavoro interminabili,
paghe ridicole, contratti non rispettati, assenza di turni di riposo eccetera. So
che siete attivi/e anche su questo fronte, vero?
Giuseppina. Abbiamo aderito fin da subito alla campagna “Mai più sfruttamento stagionale” e al coordinamento nazionale, nato principalmente da attivisti dell’USB di Bologna, poi diffuso a Rimini, qui a Pesaro, in Toscana, in Sardegna. Si sta estendendo lungo tutte le zone costiere, dove lo sfruttamento stagionale si sente di più (certo, esiste anche in montagna, ma per ora il coordinamento è più presente sul mare). La campagna “Mai più sfruttamento stagionale” è una piattaforma di rivendicazioni, la prima cosa che chiede è, almeno, come minimo, il rispetto del contratto Collettivo nazionale, che è pessimo e pieno di criticità, ma è meglio di niente.
Io posso parlare per esperienza
personale, ho iniziato a fare le stagioni quando avevo quattordici anni e ti
posso assicurare che è vero che anche allora si lavoravano 15 ore al giorno, ma
con tre o quattro mesi di lavoro mi pagavo gli studi e le vacanze, d’inverno
non gravavo sulla famiglia. Gli stagionali di allora sapevano che per quei mesi
avrebbero praticamente vissuto dentro l’albergo o il ristorante, però poi avevano
tutto l’anno a disposizione. Oggi è molto diverso, si lavora sempre per tantissime
ore, senza giorno libero, ma le paghe sono ben diverse e non c’è mai un vero
contratto in regola. Io adesso ho un contratto a chiamata: spesso la sera mi
dicono se la mattina dopo devo andare a lavorare oppure no. Non esiste nessuna
garanzia, nessun diritto. Anzi, oggi più che mai con la pandemia in corso,
molti datori di lavoro ti fanno sentire fortunato ad essere sfruttato, in
confronto a tanti altri che con il Covid sono rimasti disoccupati.
Giuseppe. Bisognerebbe puntare a un vero e proprio sciopero degli
stagionali, ma è difficile. Per ora ci sono riusciti i bagnini di salvataggio
della Versilia, che come categoria hanno una certa forza perché se non si
presentano lo stabilimento non può aprire, e quindi hanno ottenuto qualcosa. La
campagna “Mai più sfruttamento stagionale” è stata accompagnata anche da
un’indagine, sotto forma di questionario, dove tra l’altro è emersa una delle
cose più tristi del lavoro stagionale cioè gli abusi, le molestie, con parole e
atteggiamenti: per le donne la situazione è ancora più pesante.
Recensione
di: David Bernardini, Nazionalbolscevismo.
Piccola storia del rossobrunismo in Europa, Milano, Shake, 2020, pp. 176,
14 euro.
Di Archivio Antifascista
Il rosso e il bruno. Erano questi i colori dominanti del
primo nazismo (contrazione lessicale di nazionalsocialismo): il rosso della
bandiera con la svastica, ideata da Hitler per evocare il socialismo, e il
bruno delle uniformi delle S.A. (Sturmabteilung), la prima
organizzazione armata paramilitare del partito nazista. Le Squadre d’assalto, fondate
e comandate da Ernst Röhm, furono infatti note anche come “camicie brune” o
“armata bruna”, ma vennero pure soprannominate sezioni “bistecca”, ossia brune
fuori e rosse dentro, non solo perché vi aderirono in maggioranza lavoratori
industriali e agricoli [circa il 62%][1]
– tra i quali numerosi ex comunisti o ex socialdemocratici – ma in quanto
attraversate da una concezione marcatamente anti-borghese del
nazionalsocialismo.
Oltre che tra gli squadristi della S.A., era infatti convinzione
diffusa nella “sinistra” del nazionalsocialismo che fosse necessaria una
“seconda rivoluzione” che portasse alla liquidazione dei privilegi dei ceti
borghesi, dei banchieri e della dinastia imperiale, entrando in conflitto con
Hitler per la sua politica subalterna al capitalismo industriale, tanto da
essere accusato di tradimento.
Su posizioni ulteriormente estremiste, fin dagli inizi del
movimento nazionalsocialista, era stata forte la tendenza definita come
“nazionalboscevica” che faceva proprio il modello sovietico del socialismo da
caserma, giungendo a una visione strategica in cui l’asse imperiale
euro-asiatico – con Terzo Reich e Urss alleate – avrebbe conteso il dominio
continentale alle nazioni liberaldemocratiche dell’Occidente.
Tale prospettiva, negli anni Trenta, in Germania poteva
vantare diversi precedenti storici, risalenti a von Clausewitz, e anche
riferimenti filosofici, tra i quali Jünger; ma l’aspetto più significativo è
che nel cruciale primo dopoguerra tedesco il suggestivo incontro tra
l’ideologia nazionalista e quella del “socialismo in un solo paese” portò al
costituirsi di formazioni e correnti politiche ad esso ispirate, sia in campo
nazionalista che in settori social-comunisti.
Tra i principali protagonisti di queste diverse esperienze
troviamo i nomi dei comunisti Laufenberg e Wolffheim, dei socialisti Niekisch,
Winnig e Paetel, dei nazionalsocialisti fratelli Strasser. Questi ultimi, dopo
essere stati promotori e dirigenti del movimento nazionalsocialista nella
Germania settentrionale, con forte seguito anche in contesti operai, entrarono
in aperto conflitto con Hitler, sia per l’intransigente opposizione alla
dinastia imperiale che per la loro concezione di “estrema sinistra” del partito[2].
Infatti, durante la Notte dei Lunghi coltelli – 30 giugno
1934 – Hitler ordinò alle S.S. e alla Gestapo di eliminare fisicamente i
vertici delle S.A., a partire dall’ex camerata della prima ora Röhm, assieme a
esponenti nazionalbolscevichi come Gregor Strasser, oltre a militari dissidenti
e alcuni esponenti della destra conservatrice; ma appare evidente che i
principali obiettivi del massacro furono le turbolente S.A. e la “sinistra”
strasseriana, nonché una loro possibile convergenza per liquidare e sostituire
Hitler[3].
La reazione nazista non risparmierà neppure i presunti fiancheggiatori di Röhm
e Strasser negli ambienti artistici, bollati come «bolscevichi della cultura»[4]
Le relazioni intessute tra la Repubblica di Weimar e l’Urss
continuarono anche dopo l’avvento del nazismo. Alcuni documenti del ministero
degli Esteri tedesco, resi pubblici a Londra negli anni Cinquanta, provano che
già nel 1933 vi erano state trattative segrete tra esponenti del governo di
Mosca e quello di Berlino. Come è noto questo intenso lavoro diplomatico
avrebbe portato a diverse intese russo-tedesche (agosto 1939: accordo commerciale; 23 agosto: patto Ribbentrop-Molotov di
non-aggressione; settembre 1939: trattato di amicizia; febbraio 1940: nuovo
accordo economico[5]) e, prima
della sconfitta totale, alcuni gerarchi e settori nazisti avrebbero inseguito
in extremis una pace separata con l’Unione Sovietica. Si trattò comunque di
decisioni, dettate da convenienze economiche e dai rispettivi tatticismi, che
non rispecchiavano assonanze sul piano ideologico o strategico, in quanto il
nazionalbolscevismo era stato da tempo debellato, anche se la fazione “di
sinistra” del complotto militare antihitleriano del 20 luglio 1943 –
l’Operazione Valchiria orchestrata da von Stauffenberg – sarebbe stata
favorevole a un armistizio con Mosca[6].
Questa sintetica premessa può essere utile per presentare il lavoro di ricerca storica da tempo svolto da David Bernardini che ha portato alla recente pubblicazione del libro Nazionalbolscevismo. Piccola storia del rossobrunismo in Europa (Shake edizioni, Milano 2020).
Infatti, se a partire dai primi anni Novanta sono riemerse aree politiche e culturali richiamantesi all’esperienza storica del nazionalbolscevismo, d’altro canto il rosso-bruno è divenuto, paradossalmente, un’indistinta categoria post-ideologica che allude variamente alla presunta fine della contrapposizione tra destra e sinistra, con possibili sintesi o convergenze tra gli orizzonti del fascismo e del comunismo, ma anche al risibile superamento della critica della divisione in classi della società, a favore della riesumazione dell’identità – nazionalista o nazionalitaria – collegata al concetto, ambiguo, di comunità popolare[7].
John Heartfield, “Mimikry”, 1934. “Quando tutti i tentativi di trasmettere idee nazionalsocialiste alla classe operaia fallirono, Goebbels ebbe un’ultima disperata idea: persuase il Führer a indossare una barba di Karl Marx quando in futuro si sarebbe rivolto ai lavoratori”.
Le sinergie nazionalbolsceviche o nazionalcomuniste
perseguono infatti una prospettiva rivoluzionaria, confidando che «si manifesterà
la superiorità dell’appartenenza nazionale su quella di classe» mentre, nella
futura «patria socialista», non sarà abolita la proprietà privata ma integrata
in una sorta di capitalismo di Stato.
Per questo il comunismo di riferimento è la sua degenerazione
staliniana, tra piani quinquennali e guerre patriottiche, non certo quello
dell’internazionalismo delle classi sfruttate. D’altronde, l’ordine sociale a
cui aspira non si discosta significativamente dalla dittatura nazista, condividendone
la concezione totalitaria dello Stato, razzismo e sessismo inclusi.
Paradossalmente, negli ultimi decenni, queste teorie
hanno visto una loro sconcertante rinascita soprattutto nella Russia post-sovietica,
vedendo sorgere un’area politica ultranazionalista, comprendente organizzazioni
diverse, in cui si mescolano sinistramente fascismo, stalinismo e nostalgie
zariste, concretizzando quella fusione «di
destra e sinistra contro le élite» teorizzata da Aleksandr Dughin.
Negli anni Sessanta e Settanta, oltre che in Francia con
i movimenti promossi o legati al belga Jean Thiriart[8],
l’Italia è stato il secondo paese europeo dove si formarono raggruppamenti e
teorici variamente influenzati dalla corrente nazionalbolscevica, richiamandosi
altresì al cosiddetto fascismo di sinistra, ossia alle dissidenze interne al
regime mussoliniano che rivendicavano l’originario Programma dei Fasci del 1919
e alla corrente “socializzatrice” della Repubblica di Salò.
Dopo l’esperienza di Giovane Europa (filiazione italiana
di Jeune Europe di Thiriart) fu, in particolare, l’Organizzazione Lotta di
Popolo a tentare di accreditarsi come terza posizione, rivoluzionaria, secondo
la nota formula di dannunziana memoria «aldilà della destra e della sinistra»,
sino a giungere a mettere sullo stesso piano antifascismo e anticomunismo,
quali ideologie funzionali al «sistema». Lotta di Popolo, pur senza mai
giungere alle posizioni nazionalbolsceviche, esprimeva una forte
contrapposizione al capitalismo – a partire da quello statunitense – non
nascondendo simpatie per la rivoluzione cinese, nella convinzione «che il
comunismo ha trionfato solo quando si è identificato con la causa nazionale,
proprio come ha fatto Stalin»[9].
Se queste erano le pur eterodosse coordinate teoriche di
Lotta di Popolo, la sua effettiva attività risultò assai meno univoca, con
evidenti risvolti di provocazione nei confronti del movimento studentesco e
della sinistra extraparlamentare, mentre è accertata la collusione di alcuni
suoi dirigenti e militanti con gli apparati statali durante la stagione dello
stragismo, nonché i suoi collegamenti con gruppi dichiaratamente nazi-fascisti,
a loro volta impegnati a compiere azioni dimostrative, danneggiamenti e
attentati con falsa matrice anarchica o maoista[10].
Tali aspetti meriterebbero peraltro uno specifico
approfondimento, non tanto per la – tutto sommato – breve stagione di Lotta di
Popolo (1969 – ’73), ma per aver essa fornito i «quadri metapolitici» a successive
formazioni armate dell’estrema destra (Anno Zero, Terza Posizione, Costruiamo
l’azione…) che ne raccolsero il testimone, nonché per l’influenza nei percorsi
avviati tra gli anni Ottanta e Novanta con la rielaborazione e la penetrazione
culturale di elementi teorici di quell’area politica in ambiti sociali senza
più un’identità di riferimento a sinistra.
L’epoca del post-ideologico ha inoltre aperto larghi
spazi all’ideologia dell’obliquo, con accenti apparentemente antisistemici che
in Italia attraversano partiti istituzionali come la Lega e il Movimento 5
Stelle e, fuori dal parlamento, gruppi sovranisti di destra e di sinistra che
si rispecchiano nella retorica del complotto, ordito da oscure entità
mondialiste ai danni dei popoli.
Nei confronti di questo sottofondo trasversale, nella
polemica politica ritorna impropriamente il riferimento superficiale al
rosso-brunismo, accreditando presunti intellettuali anticonformisti che, per
aver rotto «il tabù dell’impurità» (come rivendicato da Costanzo Preve, passato
dal marxismo al comunitarismo “moderno”), sono comodamente invitati nei salotti
televisivi per screditare la “sinistra radical chic”[11].
Da parte sua, la controinformazione antifascista sovente
ha intravisto l’ombra del nazionalbolscevismo pure in gruppi fascisti
tricolorati, con appena qualche velleità di ribellismo, o nelle parole d’ordine
demagogiche della “destra sociale”, senza invece avvedersi di quanto certe
tematiche e posizioni abbiano da tempo travalicato i tradizionali territori del
pensiero di destra, dopo decenni in cui l’equiparazione morale tra chi
combatteva a fianco dei nazisti e chi era nella resistenza è stata favorita
anche dalla sinistra democratica nel perseguire una pacificazione nazionale
senza memoria.
Persino settori della sinistra antagonista mostrano talvolta
scarsa consapevolezza nell’adottare slogan e analisi provenienti dal campo
avverso e scelte di campo, nel segno dell’antiamericanismo, a fianco di cattive
compagnie che, indirettamente, ricalcano il copione del superamento rosso-bruno
dell’antitesi tra nazione e classe[12].
In realtà, come ben chiarisce storicamente David
Bernardini, il nazionalbolscevismo tedesco fu un fenomeno tutt’altro che banale
e i suoi protagonisti pagarono con l’annientamento la loro opposizione alla
strategia geopolitica imposta al partito nazista da Hitler, affiancato da gerarchi
come Himmler e Goebbels con rinnegati trascorsi “strasseriani”.
Nonostante che tale tendenza, interna al nazionalsocialismo,
sia uscita sconfitta e il fatto che in Italia l’area politico-editoriale che si
ispira con qualche coerenza al nazionalcomunismo o al comunitarismo risulti
minoritaria nel panorama del radicalismo di destra, è molto interessante
tornare a Weimar per comprendere come, in tempi di crisi e senza utopie, i
nemici dell’emancipazione sociale giocano la carta del nazionalismo come alternativa
rivoluzionaria al dominio del capitale e quindi, come conclude Bernardini, «la
sfida è allora rifiutare la trappola identitaria».
[1] Il
dato è riportato in Peppino Ortoleva e Marco Revelli, La società
contemporanea, Milano, B. Mondadori, 1986.
[2]
Gregor Strasser, croce di ferro durante la Prima guerra mondiale, poteva
vantare di avere la tessera n. 9 del partito nazista; già Gauleiter di Monaco
di Baviera e Bayreuth, nonché deputato al Reichstag, per un certo tempo fu l’unico
a poter contendere la leadership a Hitler. Il fratello Otto, su posizioni
anticapitaliste ancora più avanzate, dopo aver rotto con Hitler nel 1930
avrebbe fondato il Fronte Nero. Cfr Max Gallo, La notte dei lunghi coltelli.
30 giugno 1934, Milano, Mondadori, 1999.
[3] Per
tale sorte i nazionalbolscevichi sono stati definiti da Armin Mohler come i
«trotzkisti» del nazionalsocialismo; ma, come il trotzkismo rimane storicamente
una tendenza del movimento comunista internazionale, nonostante la liquidazione
dei suoi dirigenti a opera di Stalin, così è innegabile che il
nazionalbolscevismo appartiene alla storia del movimento nazista. Cfr. Marco
Rossi, I fantasmi di Weimar. Origini e
maschere della destra rivoluzionaria, Milano, Zero in Condotta, 2001.
[4]
Cfr. Lionel Richard, Nazismo e cultura, Milano, Garzanti, 1982, pp. 122-125.
In particolare, già nel luglio 1933, i pittori Otto Andreas Schreiber e Hans
Weidemann – certo non marxisti – erano stati accusati da Alfred Rosenberg di
«bolscevismo culturale» e il pittore Karl Hofer aveva pubblicamente replicato
che tali epiteti non avevano senso in quanto nel campo dell’arte il bolscevismo
portava avanti una politica identica a quella dei nazisti, perdendo così il suo
posto d’insegnante di Belle Arti e ricevendo il divieto di dipingere.
[5] Cfr.
Arturo Peregalli, Il patto Hitler-Stalin e la spartizione della Polonia,
Roma, Erre emme, 1989.
[6]
Cfr. Hans Magnus Enzensberger, Hammerstein o Dell’ostinazione, Torino,
Einaudi, 2008.
[7]
Sull’argomento si rimanda a Pietro Stara, La comunità escludente. La nuova
destra tra piccole patrie e Europa nazione, Milano, Zero in condotta, 2007
(disponibile gratuitamente: https://www.zeroincondotta.org/testi/ps_lacomunitaescludente.pdf).
[8]
Jean Thiriart (1922-1992), già volontario nella divisione Wallonien delle Waffen-SS,
dopo essere stato condannato per collaborazionismo durante l’occupazione
nazista e aver fondato nel 1963 Jeune Europe, nel 1969 avrebbe abbandonato la
militanza attiva sino al 1982, quando prese parte alla fondazione del Partito nazional-comunitarista,
divenendone il teorico di riferimento sull’immutato filo rosso-bruno per cui «La nazione è l’involucro e il socialismo il suo
contenuto».
[9]
Tale fascinazione per Stalin non fu peraltro ricambiata in Unione Sovietica
dove i due principali esponenti nazionalbolscevichi russi, Pëtr Savichij e
Nikolaj Ustrjalov, furono rispettivamente condannati a dieci anni di gulag
(1945) e alla fucilazione (1937). Cfr. Sergej Kulešov, Vittorio Strada, Il
fascismo russo, Venezia, Marsilio, 1998.
[10]
Si veda, ad esempio, il capitolo Nazisti in maschera in Luciano Lanza, Bombe
e segreti. Piazza Fontana 1969, Milano, Eelèuthera, 1997.
[11]
Dopo aver soppiantato Massimo Fini, fondatore del Movimento Zero, Diego Fusaro rappresenta senz’altro il caso più
avanspettacolare. Adepto del filosofo post-marxista Costanzo Preve, ha
da tempo precisato che «il mio pensiero non è
marxista (con buona pace del coro di chi continua a darmi del marxista)… mi
limito a dire che l’obiettivo è per me la ridialettizzazione dell’odierno
capitalismo assoluto: e per fare ciò, occorre tornare agli Stati nazionali, al
conflitto di classe, al welfare state
e alla progettazione operativa di futuri alternativi, sottratti alla presa fatale
della globalizzazione e dell’eurocrazia dilagante. Non sono marxista, né voglio
esserlo». Sulla base di tale impostazione, in sintonia con Casapound e il
Partito comunista di Marco Rizzo, propone un fronte comune contro il
«neocolonialismo immigrazionista» e si è fatto promotore della fondazione di
Vox Italia, «movimento politico che unisce valori di destra e idee di sinistra» (da notizie disponibili nel web).
[12]
Emblematico il caso del Donbass dove, nelle milizie filorusse, si trovano
assieme volontari o mercenari di opposto
orientamento – dai veterocomunisti ai neonazisti – pagati in dollari
dall’autoproclamata Repubblica popolare per combattere le bande
ultranazionaliste ucraine, appoggiate dagli Usa, dove militano altri gruppi
nazifascisti. La simpatia dell’estrema destra per il Donbass peraltro non deve
meravigliare dato che nella Costituzione della
Repubblica popolare di Donetsk si vietano l’omosessualità e l’aborto, viene
imposta la religione cristiano-ortodossa come religione di Stato e si esaltano
i valori tradizionali del «Mondo Russo». Su tale realtà, oltre ai numerosi articoli
di stampa in merito all’inchiesta giudiziaria aperta a Genova nell’estate 2018
che vede coinvolto anche il Partito
comunitarista europeo, si rimanda ai numerosi
interventi di Saverio Ferrari (Osservatorio democratiche sulle destre) presenti
in rete.
Recensione di: Luc Boltanski e Arnaud Esquerre, Arricchimento, traduzione di Andre de Ritis, il Mulino, 2019, pp. 592, 38 euro (prima ed. Gallimard, Paris, 2017)
Di A. Soto
Un
libro di difficile lettura, ma importante, da studiare e a mio avviso
discutere, perché se è vero, come è vero, che l’accumulazione capitalista
continua e si intensifica, essa si basa su nuovi dispositivi economici e su
forme di valorizzazione della merce che hanno assunto dall’ultimo quarto del
ventesimo secolo un’importanza inedita. Per valorizzazione della merce gli
autori intendono la trasformazione in capitale: la descrivono con acume,
unendo, contro ogni ortodossia disciplinare, le scienze sociali, sulla scia
degli insegnamenti di due grandi, Fernand Braudel e Giovanni Arrighi.
Partiamo
da questo assunto: non siamo in una società post-industriale e lo si capisce
dal fatto che non abbiamo mai avuto così tanto oggetti industriali. Ma questi
non sono più prodotti in Occidente. L’Europa è un continente segnato dalla
deindustrializzazione che ha preso forma nei dieci anni successivi al Maggio ’68
e che ha rappresentato sia una risposta alla crisi che ha colpito il
capitalismo a partire dalla fine degli anni Sessanta (con un calo del tasso di
rendimento del capitale superiore al 40% tra il 1965 e il 1973), sia il
tentativo, riuscito, di sbarazzarsi di una classe operaia particolarmente
combattiva.
Alla
delocalizzazione industriale si sono affiancati nuovi modi di creare valore,
dipendenti gli uni dagli altri, che non implicano più la produzione di beni, ma
coinvolgono settori come l’arte, la cultura, il territorio, l’enogastronomia,
il turismo.
In
Europa, ma qui l’attenzione degli autori è in particolare rivolta alla Francia
e in secondo luogo all’Italia – veri e propri “giacimenti culturali” – si è
passati da un’economia incentrata sulla produzione industriale a un’economia
dell’arricchimento, termine con cui sono definite le operazioni, o i processi,
che accrescono il valore della merce e ne aumentano il prezzo.
La
merce non è oggi solo una forma standard, com’è stata per lo più nella società
industriale a partire dal XIX secolo: agli oggetti “in serie” si sono
affiancati oggetti particolari, unici, diversi, di lusso, o per lo meno così narrati
e quindi valorizzati. Un oggetto di valore è tale in quanto differente
dagli altri (è speciale, differente, raro o di pregio), magari inserito in una
collezione (di vini, orologi, occhiali, coltelli, gioielli, ecc.), o
semplicemente “di tendenza”, in quanto legato a un marchio “storico”.
Fernand
Braudel analizzava come l’estrazione di plusvalore si ottenesse non tanto e non
solo dal lavoro, secondo l’insegnamento di Marx, ma dallo spostamento delle
merci (plusvalore di mercato)[1].
Boltanski ed Esquerre allargano il concetto di spostamento dall’ambito
geografico a quello di status: un oggetto acquisisce valore quando passa dall’essere
un oggetto standard all’essere un oggetto speciale, parte di una collezione o
“di tendenza”. Un esempio: l’orologio x prodotto in serie ha un determinato
valore, e quindi un prezzo; ma se fa parte di una collezione, o se è stato
posseduto da qualche personaggio importante, se è in qualche modo differente
– ha un prezzo maggiore. Questa forma di creazione di ricchezza non produce
nuovi oggetti, ma utilizza oggetti già esistenti, fino a poco prima trattati
come rifiuti, ignorati o abbandonati nelle cantine e ora messi a valore da un
capitalismo integrale, che agisce in maniera flessibile.
L’economia
dell’arricchimento ha contribuito ad aumentare i redditi da patrimonio rispetto
a quelli da lavoro, col risultato che il capitalismo non dipende più da una
massa di lavoratori potenzialmente inclini all’insubordinazione: per gli autori
questo è uno dei cambiamenti più significativi vissuti dalla borghesia negli
ultimi trent’anni. È così aumentato considerevolmente il numero assoluto dei
ricchi e dei super ricchi, oltre che le diseguaglianze a livello mondiale: ne è
un indice il consumo, che negli ultimi venti anni si è diviso tra un consumo di
massa di prodotti standard e un consumo di prodotti diversi e speciali
(artigianali, biologici, garantiti, tradizionali, vintage), destinati a
soddisfare gli interessi dei più ricchi.
Chi
si arricchisce con l’economia dell’arricchimento? Una classe patrimoniale,
composta da grandi ricchi, ma anche da una nuova classe media di rentiers
e di eredi.
Chi
è invece lo sfruttato da tale economia? I lavoratori precari e stagionali, un
proletariato, a differenza di quello industriale, disperso e transitorio e
pressoché privo di organizzazioni.
E
i quadri? Sono i creativi, giovani, scolarizzati, commercianti di se stessi,
anch’essi dispersi spazialmente e temporalmente, con un tempo di lavoro che
coincide spesso col tempo di vita, e soprattutto autosfruttati. Oltre che
incapaci di individuare la controparte della quale non di rado condividono gli
stessi “valori”.
Ecco
che l’economia dell’arricchimento arricchisce non solo gli oggetti,
ammantandoli di una narrazione per venderli a un prezzo elevato, massimizzando
il profitto, ma anche i più ricchi; senza che, d’altra parte, coloro che non si
arricchiscono, o che addirittura si impoveriscono, e che potrebbero a giusto
titolo dirsi sfruttati, dispongano di strumenti per mettere in evidenza e
criticare la propria condizione.
[1] “La merce per
spostarsi da un luogo all’altro deve aumentare di prezzo nel corso del
viaggio”, Fernand Braudel, Civiltà
materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), v. 2: I giochi dello scambio, Torino, Einaudi,
1981, p. 154.
“Non è di una domenica in campagna che abbiamo bisogno, ma di una vita meno artificiale“.
Il nome di Bernard Charbonneau (1910-1996) è frequentemente associato a quello del più noto Jacques Ellul: entrambi sono considerati precursori dell’ecologia politica e del pensiero della decrescita. Originari di Bordeaux, amici, quasi coetanei, hanno condiviso per oltre mezzo secolo molte inquietudini, fatta eccezione per la fede religiosa: protestante Ellul, agnostico Charbonneau. Ellul, che riconosceva di dover a Charbonneau molte sue ispirazioni – “Charbonneau mi ha insegnato a pensare e mi ha insegnato ad essere un uomo libero” – lo presentava come “il primo a superare la critica del macchinismo e dell’industria per accedere a una visione globale della tecnica come potere strutturale della società moderna”[1]. Charbonneau è infatti tra i primi a interrogarsi sulle profonde trasformazioni introdotte dal progresso tecnico, su come l’aumento della produzione materiale si accompagni al venir meno della libertà individuale. Ne desume la necessità di arrestare la crescita economica, che ormai diventata fine a se stessa non è compatibile con la salute dell’uomo e della terra.
Disegno di Valérie Paquereau 2018
Negli anni Trenta è per alcune
stagioni vicino agli ambienti di Esprit e di Ordre nouveau (che
non ha niente a che vedere con l’omonimo movimento di estrema destra del
dopoguerra) e partecipa alla corrente di pensiero detta del “personalismo”, che
intendeva rompere con le ideologie dominanti del secolo cercando una via
alternativa tanto al capitalismo liberale quanto al comunismo. Se ne distacca
quando capisce di non riuscire a far accogliere in pieno la sua analisi critica
della società tecnoscientifica e l’urgenza di suscitare un’azione collettiva per
riorientare la società contro il culto della tecnica, della produzione, dello
Stato.
Dopo essere stato marginalizzato e misconosciuto nel dopoguerra dominato anche a sinistra dalla fascinazione per il progresso e l’espansione economica, Charbonneau ha esercitato una discreta influenza nel post-Sessantotto, con l’emergere delle lotte ecologiste. Lotte che non ha solo teorizzato ma alle quali ha partecipato in prima persona, in particolare all’interno del Comitato di difesa della costa aquitana. Nella seconda parte della sua vita si ritira con la famiglia in un paesino nei pressi di Pau, ai piedi dei Pirenei, continuando a insegnare storia e geografia nei licei della provincia sud-ovest: la sua eredità sta venendo oggi sempre più riscoperta, pur restando ancora quasi del tutto sconosciuta in Italia.
In difesa della costa aquitana, Guethary, settembre 1975
Il merito principale di Charbonneau
è aver sottoposto a una critica complessiva la moderna società industriale –
cioè l’organizzazione sociale fondata sul lavoro coatto e sulla produzione di
merci – denunciando il mito del progresso in quanto illusorio e distruttivo.
Quella che lui chiama la Grande Mue è la grande mutazione che stiamo
vivendo, un concetto più ampio di quello di “rivoluzione industriale”: l’epoca
in cui la tecnoscienza ha rimodellato il pianeta a sua immagine e somiglianza
e, con esso, ha ridisegnato radicalmente l’essere umano, il suo stare al mondo
e la sua mentalità. Si tratta di una mutazione epocale, paragonabile per la sua
portata soltanto alla trasformazione prodotta dall’introduzione delle tecniche
agricole nel neolitico, che non riguarda solo l’economia o qualche singolo aspetto
della società, ma l’intera condizione umana.
A tutto questo Charbonneau oppone
un progetto rivoluzionario a partire dalla vita quotidiana, alla cui base siano
le comunità che abitano i territori, che riconducono la produzione nelle
proprie mani, che capovolgono le pratiche e l’immaginario coltivando rapporti
umani contrari a quelli della società tecnoindustriale. Questa rivoluzione deve
passare anche, e soprattutto, attraverso un nuovo rapporto con la natura,
intendendo con questo termine ciò che sfugge ai tentacoli del sistema
industriale, che ne resta ai margini e si sottrae alle sue costrizioni. Alla
natura è strettamente legata la libertà,
un concetto che deve scendere dall’ideale filosofico per farsi materia
quotidiana: “la libertà è essere libero… non essere definito come tale”[2], ma
essere liberi non è possibile se non scardinando il sistema tecnico che toglie
responsabilità e potere decisionale al soggetto umano. La natura rappresenta
quindi uno spazio di libertà per l’individuo e di autonomia per le comunità:
“una manifestazione di anarchismo concreto”.
Nella società industriale la natura è ovunque sottomessa, ma allo stesso tempo viene anche ricostruita artificialmente a uso e consumo di un’umanità che ha completamente smarrito ogni profondo legame con essa. L’ambiente naturale diventa quindi sia un serbatoio di materie prime per le esigenze dell’industria, sia la meta dei fine settimana per un tempo che è chiamato “libero” solo in funzione di quello occupato dalla produzione. Alla fine, tutti possono oggi dichiararsi “amanti della natura”, intendendo il più delle volte un suo surrogato, ovvero il parco naturale, il percorso turistico di montagna, lo spazio verde urbano o il documentario del National Geographic.
Henriette e Bernard. Maison du Boucau, Saint-Pé-de-Léren, 1990 circa
Charbonneau di fronte a tutto
questo, ponendo già negli anni Trenta le basi di una nuova ecologia politica,
afferma che il “sentimento della natura” – espressione ripresa dal geografo
anarchico Élisée Reclus – non è solo un capriccio letterario, ma una “forza
rivoluzionaria”. Le sentiment de la nature, force révolutionnaire è il
titolo di un suo lungo articolo del 1937. Tanto più la società incatena l’uomo
con i suoi imperativi di produzione e consumo, tanto più il “sentimento della
natura” è una reazione a queste costrizioni: una viva ricerca di libertà. In
questo senso non manca in Charbonneau anche un recupero della dimensione
spirituale dell’essere umano e del suo stare su questa Terra, che equilibri la
dimensione materiale dell’esistenza. L’emozione che suscita il contatto diretto
con la natura – e anche quell’alleanza con la natura che sta alla base
dell’abitare e vivere un territorio – è un grande stimolo alla volontà di
cambiare il mondo per edificare una società ecologista e libertaria.
Qui di seguito proponiamo la
traduzione di alcuni estratti presi da varie opere di Charbonneau.
Il sentimento della natura, forza rivoluzionaria, 1937
Per tutti coloro che hanno
ancora un genuino desiderio di vivere, che non vegetano nello stomaco del
mostro sociale, non c’è che una soluzione: attendere la fine del lavoro. Vivere
per mesi una vita rallentata. Per l’adulto, il termine “vacanze” finisce per
essere significativo come lo è per uno studente recluso in un collegio, proprio
perché la società attuale è chiusa come un collegio. Per molti giovani, al di
là delle ipocrisie filosofiche, il viaggio in montagna o al mare rappresenta il
solo momento di vita possibile. Invano cercano di persuaderci che il tempo
libero è divertimento; piuttosto, è il lavoro artificiale imposto dall’attuale
società che merita di essere trattato con ironia. Il nostro tempo libero è un
affare secondario? In realtà è il solo momento in cui possiamo vivere senza
secondi fini, con la camicia sbottonata, giocando, conoscendo e assaporando la
gioia di placare la nostra fame e la nostra sete.
Per i giovani di oggi, il sentimento della natura non è la vaga emozione di fronte a uno spettacolo, è una sete che nasce dal desiderio di vivere, un sentimento tragico, antagonista alla vita quotidiana che conduciamo; se resta inespresso è solo perché alberga nel più profondo di noi stessi. Ma è ora il momento in cui questo conflitto ha raggiunto una tale violenza che preme per mostrarsi alla nostra coscienza. È strano che la montagna sia per alcuni l’unica salvezza, è strano che non possiamo vivere davvero se non quando, zaino in spalla, guadagniamo l’ingresso di una valle; perché non possiamo vivere se non fuggendo il nostro lavoro, la nostra famiglia, la nostra patria? Fuggiamo senza voltarci indietro: la montagna, in altri tempi terra di rifugio per i popoli vinti, è oggi l’asilo di coloro che non trovano pace se non quando la sua ombra cala sui giorni feroci delle città. Scappiamo anche da noi stessi, ma dal momento che il nostro io non è che un io sociale, stiamo scappando dalla nostra società civilizzata.
Charbonneau ed Ellul – Archivio B. Charbonneau
Finché ci saranno governi ben
organizzati, i ministri della polizia faranno bene a diffidare dei giovani che
escono da soli per percorrere sentieri isolati: sono certamente spiriti
malvagi, molto più di certi senatori comunisti. “Ma sono così carini, hanno
idee generose e vaghe, non fanno politica” – senza dubbio, ma è sempre
possibile che a lungo termine uno spirito malvagio finisca per prendere
coscienza delle sue esigenze. I governi diffidino di questi giovani entusiasti,
posseduti dallo spirito di giustizia, dal sentimento di miseria comune; diffidino
anche dell’amore autentico per la natura perché se un giorno, abbattendo
brutalmente le sottili costruzioni della politica, un movimento si opporrà alla
più raffinata delle civiltà, questo sentimento sarà la sua forza essenziale.
Possiamo dire che fino alla metà
del XIX secolo, non avendo l’umanità vissuto troppo lontano dalla natura, il
sentimento della natura non ha mai avuto grande considerazione nella vita
sociale. Questo sentimento si è sviluppato nella misura in cui un paese o una
classe hanno visto la loro vita trasformata dalla civiltà industriale,
manifestandosi con più forza tra le classi ricche e in quei paesi dove hanno
maggiormente inciso le conseguenze del progresso tecnico: Inghilterra, Stati Uniti,
Germania, Francia. In questi paesi la classe “naturista” è stata per prima la
borghesia poi, nell’ordine, gli impiegati e gli operai; ai Touring club
borghesi hanno risposto più tardi i Naturfreunde (gli Amici della
natura) socialisti. […] Il sentimento della natura ha inizialmente penetrato la
classe borghese, con manifestazioni che possono riassumersi in una parola:
turismo. […] La borghesia non sfugge al suo destino, che è di vivere in maniera
sempre più artificiale anche quando cerca di ritornare alla natura. […] Il
sentimento della natura, per come si esprime comunemente nella borghesia, ha
subìto una doppia deviazione: materialista e idealista. Il borghese torna alla
natura per riposarsi o per vedere un bello spettacolo: la natura è per lui un
giardino pubblico in mezzo a terreni occupati da fabbriche e campi. La
considera una parentesi che non ha nulla a che vedere con la sua vita di tutti
i giorni: amicizie delle vacanze, entusiasmi delle vacanze, amori delle
vacanze; per due mesi il borghese s’illude di amare, di affezionarsi, poi, a
settembre, come dice M. Martin “chiude le valigie e ritorna agli affari seri”.
Le jardin de Babylone, 1969
La seconda rivoluzione industriale, quella degli idrocarburi e della chimica, si sta imponendo nelle campagne europee. La macchina va troppo veloce per il pensiero: il suo utilizzo precede sempre la coscienza dei suoi effetti. La motosega non lascia più il tempo di riflettere come l’ascia. Se si può abbattere una quercia in qualche minuto, ci vuole comunque un secolo per farla crescere. Il trattore non è più appannaggio dei grandi proprietari terrieri, i prodotti chimici diminuiscono il lavoro del contadino, ma visto che bisogna pagarli, alla fine ci si ritrova comunque a lavorare. La piccola impresa agricola non è più redditizia. Il progresso tecnico significa concentrazione, la meccanizzazione genera grandi aziende. Il ruscello irriga terreni saturi di chimica e basta qualche pompa per prosciugarlo. Cos’è diventata la vita segreta delle valli? Il lavoro diventa veramente lavoro, cioè lavoro di fabbrica. Tra non molto i contadini reclameranno il loro diritto di passare le vacanze in campagna.
Lettera di Jaime Semprun per la riedizione di Jardin de Babylone, 2001 – Archivio B. Charbonneau
La rivoluzione agricola ha raso
al suolo la campagna francese, lasciando solo una distesa, polverosa o fangosa,
dove il trattore, a perdita d’occhio, traccia la sua linea. Indifferente ai
rilievi, al passato, va. Se il trattore ti consente di lavorare tre volte più
velocemente, devi lavorare tre volte di più per pagarlo.
Tutta la vita umana è
espressione della natura, nulla di essenziale può essere aggiunto ad essa: nel
migliore dei casi, l’artificio può semplicemente camuffare un vuoto. Il cielo è
blu sulla nostra testa e l’acqua chiara scorre tra le nostre dita; il nostro
cuore batte e i nostri occhi sono aperti. Cos’altro potremmo chiedere? Tutto
quel che c’è di più bello e più forte, dal più semplice al più sublime, non
l’ha inventato nessuno: le nuove invenzioni, nel migliore dei casi, sono solo
nuovi pretesti per vecchie gioie. Bevi in una giornata assetata e mangia al
momento della fame, tuffati nell’onda e prendi un pesce, scherza con l’amico o
bacia gli occhi dell’amica. Tutto ciò che possiamo acquisire è solo
un’aggiunta, l’essenziale ci è stato dato il giorno della nostra nascita.
Gli uomini si sono radunati
nelle città per sfuggire alle forze della natura. E ci sono riusciti fin troppo
bene; l’abitante della città moderna tende a essere completamente inglobato in
un ambiente artificiale. Non solo per via della folla, ma perché tutto ciò che
lo circonda è fabbricato dall’uomo, per l’utilità umana. In mezzo alle case,
gli uomini hanno riportato la terra e costruito uno scenario; gli avventori dei
giardini pubblici sono troppo numerosi: guardare ma non toccare. Il costo delle
megalopoli aumenta ancora di più delle loro dimensioni. Bisogna far arrivare
più energia, più acqua. Bisogna assicurare il trasporto dei cittadini,
sbarazzarsi dei cadaveri e di altri scarti. Riciclando l’acqua delle fogne, la
città è ridotta a bere la propria urina. Propongo di stimare in franchi il
metro quadrato o il metro cubo d’aria pura, come i kilowatt. Il XIX secolo
aveva le sue galere industriali, il nostro ha l’inferno quotidiano dei
trasporti. La megalopoli non può essere salvata che dal sacrificio, ogni giorno
più spinto, delle sue libertà.
Se il paesaggio rurale è il risultato di un matrimonio tra terra e uomo, la città moderna è una costruzione in cui le ragioni umane – a volte impazzite – hanno vinto.
Selezione dall’archivio B. Charbonneau, 2019
Se non affrontiamo gli effetti
sulla natura e sull’uomo della civilizzazione industriale e urbana dobbiamo
considerare probabile la fine della natura con, per qualche tempo, una
confortevole sopravvivenza nella spazzatura: solida, liquida o sonora. E se
qualche incidente sconvolgerà la grande macchina, non saranno più solamente i
pesci a marcire all’aria aperta, ma gli uomini fisicamente e soprattutto
spiritualmente asfissiati.
La natura resta l’indispensabile
superfluo della società industriale. I mass media diffondono quotidianamente il
mito del Mare, della Montagna o della Neve. Il turista non è che un voyeur,
il suo viaggio si riduce al monumento o al sito classificato d’interesse.
Ovunque l’artificio cerca di restituirci la natura. Isolato dalla natura nella
sua auto, il turista guarda con occhio sempre più indifferente il piatto
documentario che passa dietro al finestrino. Ammirare i ghiacciai attraverso le
finestre di un palazzo non impedisce di lamentarsi se il riscaldamento è troppo
basso. Un turista non vive, viaggia; appena mette piede a terra, il clacson del
pullman lo richiama all’ordine; il turismo e la vita autentica si mescolano tra
loro come l’olio fa con l’acqua. Con la società capitalistica il turismo è
diventato un’industria pesante. Le agenzie turistiche fabbricano in serie
prodotti standard, il cui valore è quotato in borsa. Non ci sarà più natura in
Francia, ma autostrade che condurranno da fabbrica a fabbrica – chimica o
turistica.
Notre table rase, 1971
Non dobbiamo difendere la natura in sé, ma la
natura abitata, il diritto alla campagna che implica dei duri compiti. I
naturalisti furono i primi a scoprire l’ecologia. Ma se ci atteniamo alla
difesa di biotopi e specie, trascuriamo l’essenziale del problema, che è umano,
e rimaniamo soddisfatti di riforme ad hoc. Alla fine la natura sarà salvata da
qualche riserva – naturale perché protetta dalla polizia – dove solo
l’ambientalista certificato potrà entrare e anzi non vedrà di cattivo occhio i
terreni militari chiusi al pubblico. Per lui, più un territorio è inabitabile,
più è interessante: è per questo che difende le zone inospitali più delle
campagne. Come il protettore dei siti d’interesse, il naturalista vede solo il
suo lavoro e per salvare la natura è pronto a privarne l’uomo. Eppure è il
primo a sapere che l’uomo non vive dello spettacolo della natura e che
rifiutargli l’acqua e il pesce è ucciderlo.
Non credo che eviteremo lo
scontro con la società attuale, anche se sarebbe bello se scomparisse senza
lotte. La rivoluzione verde (o ecologica, se preferite: non mi interessa la
parola, è la cosa che conta per me) mette in discussione, molto più del
socialismo, i principi e gli interessi della società borghese in cui viviamo. Ci
saranno da combattere niente meno che Dio e il portafoglio: la Chiesa e il supermercato.
Eviteremo la violenza, la guerra? Chi ama la campagna ha di meglio da fare che giocare
al piccolo soldato, ma temo che i rapporti tra il movimento ecologista e la
nostra società rimarranno pacifici solo nella misura in cui il movimento
resterà confinato nel recinto in cui è stato parcheggiato. Non vedo come potrà
evitare atti di sabotaggio punibili dalla legge, che in questo caso si
applicherà con più rigore rispetto a quando si tratta di inquinamento dei
fiumi. È probabilmente quando vedremo versare il suo sangue che sapremo che la
rivoluzione del 2000 è nata.
Le Système et le chaos. Critique du développement exponentiel, 1973
L’azione della tecnica è automatica, precede la riflessione. Il suo ritmo troppo veloce eccede la previsione; quando crediamo di coglierne gli effetti, è già oltre. […] L’uomo dunque non è più il fine di questa evoluzione che lo supera, ma soltanto la sua provvisoria giustificazione; la macchina non è più il mezzo di cui una società si serve, ma la potenza che la modella: i cambiamenti tecnici determinano trasformazioni economiche che provocano a loro volta trasformazioni sociali: nel nostro mondo ossessionato dall’efficacia, queste seguono e non precedono. La tecnica allora fa la storia, perché domina le forze naturali e le forze spirituali si rifiutano di controllarla. Le nostre rivoluzioni non modificano più le condizioni sociali e non riescono a stare al passo di quelle generate dalle tecniche. La macchina a vapore ha fatto di più per cambiare la società che non i principi del 1789, se la libertà non si è stabilita sulla terra, la fabbrica sì.
Le Système et le chaos, 1973
La società industriale vede bene
il deficit delle società sottosviluppate o del passato, ma ignora il suo; anche
perché giudica alla luce dei propri criteri. Per percepire i costi naturali e
umani, bisogna aver scelto la natura e l’uomo.
La ragion d’essere e il difetto
di ogni apparato è di sostituirsi all’uomo fisico o spirituale. Ogni
meccanizzazione si paga con una perdita di coscienza; alcuni ne approfitteranno
per porla altrove, ma non è questo che succede di solito. Guidare bene un’auto
vuol dire non pensarci più e agire automaticamente, la riflessione è troppo
lenta per il ritmo della macchina. Così il suo automatismo conquista l’uomo che
talvolta trova la pace in questa incoscienza; se certi operai soffrono alla
catena di montaggio, molti ci stanno bene, nella gradevole consapevolezza del
loro vuoto interiore. Forse il progresso dell’organizzazione risponde al
segreto desiderio dell’uomo: fabbricare l’automa che un giorno si incaricherà
di pensare e vivere al suo posto.
Chronique de l’an deux mille, 1974
Si è visto che la crescita esponenziale mentre risolveva problemi ne poneva di nuovi; aveva costi di ogni genere: economici, ecologici, sociali. Si è scoperto che ogni azione è ambigua; la produzione può essere anche chiamata distruzione della materia prima: la produzione di legno rade il bosco. La stessa cosa si può dire in due modi. La civiltà dell’igiene è allo stesso tempo una civiltà della spazzatura. […] Se non ci si interroga più sui costi delle proprie azioni, allora le conseguenze saranno per lo più negative: potremmo allungare all’infinito questo catalogo di produzioni distruttive di una società che si rifiuta di mettere in discussione le conseguenze dell’economia. Non dobbiamo dimenticare che si tratta di una crescita esponenziale: la curva irresistibilmente decolla e si raddrizza, e tende verticalmente, cioè all’assoluto. Ma lo spazio-tempo della Terra è finito… Più andiamo, più pagheremo caro vantaggi che s’assottigliano. All’inizio i benefici della crescita sono evidenti: con pochi milioni abbiamo potuto guadagnare mesi sulla traversata atlantica, ma per guadagnare tre ore abbiamo investito miliardi. Così come le centrali atomiche, costeranno care. E non sarà solo in dollari, ma in un’organizzazione raffinata, in una disciplina implacabile: in libertà.
Le totalitarisme industriel, 2019
Le Feu vert, autocritique du mouvement écologiste, 1980
Un bel giorno, il governo sarà
costretto a praticare l’ecologia. Senza farci illusioni possiamo pensare che, a
meno di una catastrofe, il cambiamento ecologico non sarà dovuto a
un’opposizione minoritaria e sprovvista di mezzi, ma alla borghesia dominante,
il giorno in cui non potrà fare diversamente. Saranno i vari responsabili della
rovina della terra che organizzeranno il salvataggio di quel poco che rimane e
che, dopo l’abbondanza, gestiranno la penuria e la sopravvivenza. Poiché queste
persone non hanno pregiudizi, credono tanto nello sviluppo quanto nell’ecologia:
in realtà credono solo nel potere, facendo ciò che è inevitabile.
L’amante della natura è
perfettamente integrabile nel sistema industriale come gestore delle riserve naturali
o dei parchi nazionali, che fungono da alibi per le necessità industriali, immobiliari,
fondiarie e turistiche, nella proporzione di un’allodola per un cavallo. In
questi spazi-reliquia, amministrativamente congelati, il naturalista può soddisfare
la sua passione per la natura intatta come l’etnologo quella per le società
tribali chiuse in altre riserve e musei. Ma tra la natura provvisoriamente
riservata e la cultura del cemento e dell’asfalto, quello di cui gli individui
saranno privati è la campagna in cui l’agricoltore vive e preserva la terra per
tutti. Non essendo né bestia né angelo, né orso né ecologista incaricato di
studiarlo e ospitato come tale nel parco nazionale, posso solo rifiutare una
società che mi proibisce di vivere la mia patria: la terra.
La chiave del problema non è
nella natura o nell’uomo, ma nel loro rapporto, soprattutto in uno spazio
profondamente umanizzato come l’Europa delle città e delle campagne.
L’ecologismo ha un solo modo per risolvere la contraddizione tra natura e uomo:
eliminare quest’ultimo. […] L’amante della natura ha una sola soluzione da
offrire all’uomo: la riserva naturale estesa su tutto il pianeta. E, per
finire, la partenza per Saturno o il suicidio dell’ultimo elemento
perturbatore: il direttore di questo museo. […] Ma la coscienza attiva della
natura è una questione di morale o, piuttosto, di etica: è un risveglio dello
spirito. La protezione della natura affonda più nella libertà che nella
materia.
Producendo un superfluo che può essere aumentato indefinitamente, l’industria del tempo libero è uno dei motori dello sviluppo e, poiché la natura è il suo oggetto principale, è la causa numero uno della sua devastazione. Solo la guerra può sprecare ancora più energia e spazio. Questo svago standardizzato e concentrato, perché organizzato, non ha motivo di essere se non per i profitti degli operatori turistici. La sua giustificazione è di fornire a tutti ciò che in realtà distrugge: natura e libertà.
Henriette e Bernard
Bibliografia su Bernard Charbonneau
Bernard
Charbonneau: une vie entière à dénoncer la grande imposture, sous la
direction de Jacques Prades, Ramonville, Érès, 1997.
Daniel
Cérézuelle, Écologie et liberté: Bernard
Charbonneau, précurseur de l’écologie politique, Parigi, Parangon, 2006.
Bernard
Charbonneau: habiter la Terre. Actes du colloque du 2-4 mai 2011,
Université de Pau et des pays de l’Adour, 2012.
Daniel Cérézuelle, Bernard
Charbonneau, in 20 penseurs vraiment critiques, coordonné par Cédric
Biagini, Guillaume Carnino et Patrick Marcolini, Montreuil, L’Échappée, 2013.
Bernard Charbonneau, Jacques
Ellul, Nous sommes des révolutionnaires malgré nous: textes pionniers de
l’écologie politique, Pargi, Seuil, 2014.
Bernard Charbonneau &
Jacques Ellul: deux libertaires gascons unis par une pensée commune,
présentation et choix d’extraits par Jean Bernard-Maugiron, [Bordeaux], Les
Amis de Bartleby, 2017.
Daniel
Cérézuelle, Bernard Charbonneau ou La critique du développement exponentiel,
Lione, Le Passager clandestin, 2018.
https://lagrandemue.wordpress.com
(sito dedicato al pensiero di B. Charbonneau).
[1] Le due citazioni: Patrick Chastenet, Entretiens avec Jacques Ellul,
Parigi, La Table Ronde, 1994; Jacques Ellul, Une introduction à la pensée de
Bernard Charbonneau, in “Ouvertures. Cahiers du Sud-Ouest”, n. 7, 1985, p.
41.
[2]
B. Charbonneau,
L’État, (1949); nuova edizione: Parigi, R&N, 2020.
Da “La guerra delle foreste”, Tabor edizioni [QUI IL PDF]
Le vili creature dei boschi vivono senza legge, non obbediscono e non
rispondono a nessuno, perché ignorano ogni legame di dipendenza.
John Aubrey, storico
inglese del XVII secolo
Boschi e foreste rappresentano da sempre l’emblema del selvatico, del misterioso, dell’ingovernabile, sede di tutto ciò che è altro, diverso e nemico rispetto al consorzio civile. Il bosco, a meno che non gli si faccia assaggiare la razionalità di una ruspa, rimane estraneo alla modernità e alle sue leggi, irrimediabilmente ostile alla rapidità dei flussi, allo sfruttamento estensivo, alla concentrazione umana. Presi da questi pensieri, pubblichiamo il capitolo conclusivo di “La guerra delle foreste”, un agile libretto della casa editrice valsusina Tabor, invitandovi a dare un’occhiata a tutto il suo bel catalogo (www.edizionitabor.it). La storia parte dalle foreste e dai terreni incolti su cui si svolge la lotta dei Diggers (Zappatori) nell’Inghilterra del Seicento, una lotta di contadini poveri che occupano le terre sottraendole alle “enclosures” (recinzioni), per coltivarle e viverle insieme in un progetto comunitario ed egualitario che inevitabilmente si scontra con la nascente società borghese e capitalistica. Nel solco della tradizione religiosa millenarista, continuando a rifiutare autorità e divinità estranee e predatrici, i Diggers vogliono portare il paradiso sulla terra, raccogliendo il testimone delle sommosse contadine del XIII e XIV secolo, del Movimento del libero spirito e della ribellione anabattista di Münster del 1534. Restituire risorse alla collettività è una lotta di ieri e di oggi, così come sottrarre la vita umana all’impero delle merci: l’inciviltà della “foresta”, se sappiamo ascoltarla, ha ancora qualcosa da dirci.
La guerra delle foreste, Tabor edizioni
La foresta è, da sempre, un
dominio incantato. Che sia quello di Merlino, uomo dei boschi della leggenda arturiana,
o quello di Robin Hood, il territorio della foresta è un grande serbatoio di
sogni. Il popolo degli alberi vi conduce una vita oscura e misteriosa, e il
melo, albero magico di Merlino, o la quercia pluricentenaria della foresta di
Sherwood, rifugio di Robin Hood e dei suoi compagni, affondano le loro radici
nell’inconscio dell’uomo medioevale.
Ma tuttora la foresta continua a
proiettare l’ombra della sua inquietante alterità sul nostro immaginario. È un
luogo in cui l’umano non detta legge, in cui è facile perdersi e abbandonare la
propria umanità. Le fiabe della nostra infanzia, del resto, non raccontano
nulla di diverso. La foresta è il territorio in cui si perdono Pollicino e i
suoi fratelli, ormai alla mercé dell’altro, dell’umano regredito allo stato
bestiale; o ancora Cappuccetto rosso e il lupo che la aspetta ai margini del
bosco.
Parecchi romanzi recenti
riprendono – trasformandola e attualizzandola – l’ossessione della “selva
oscura”. Stephen King, ad esempio, racconta la storia di una bambina che si
perde nella foresta e viene perseguitata da una forza ostile[i].
La foresta ha qui un doppio volto: luogo inquietante e pieno di pericoli ma
anche territorio che può ammansirsi e da cui può sorgere il meraviglioso. Il
giornalista Vatanen, protagonista di L’anno
della lepre[ii], abbandona la
propria vita umana razionale (fatta di automobile, lavoro, moglie e figli) per
inoltrarsi nel bosco all’inseguimento della lepre che ha investito con l’auto.
O, ancora, nel romanzo La fune[iii], gli abitanti di un villaggio situato sul limitare di un’immensa foresta un mattino scoprono una fune che vi si inoltra. Seguendola lasceranno il loro villaggio per sprofondare nell’ignoto. La foresta è questo territorio che spalanca un altrove talvolta minaccioso. È l’animale, è l’albero, è l’altro da sé.
Marty Woods
Anche nelle nostre edizioni, Tabor,
con il fumetto Fondobosco[iv],
abbiamo intrapreso un’avventura analoga: quella di Pinot, boscaiolo delle Alpi che
si trova catapultato in un allucinante e apocalittico viaggio nel selvatico (e
nell’inconscio) innescato dagli spiriti dei larici oltraggiati dall’arroganza della
civiltà.
Il cristianesimo farà una gran
fatica a liberarsi dalle leggende legate alle foreste, dove al riparo dei grandi
alberi si nascondono le streghe, i maghi o i druidi, trovandovi il loro rifugio
naturale. Un’arcaica civiltà vi si è ritirata, quella della Dea madre e del
ciclico ritorno delle stagioni, quella dell’accordo tra umano e animale e tra
il principio maschile e femminile.
I poveri che vivono nelle foreste
all’epoca della rivoluzione inglese del 1649 conservano un certo numero di
pratiche e di credenze provenienti da tale civiltà, in particolare il ricorso
all’uso delle erbe e alla magia.
Questi miti e saperi agresti
sopravvivranno ancora a lungo, e gli uomini e le donne dei boschi potranno per
lungo tempo ancora nascondervisi con i propri intrighi, le proprie trame e le
proprie esistenze, agli occhi dei potenti potenzialmente sediziose oltre che
dissolute.
Possiamo rintracciarne una traccia anche in diversi film. Tra questi, La fiancée du pirate[v], in cui la protagonista vive in una capanna nel bosco vicino al villaggio e grazie ai suoi poteri si vendicherà degli abitanti del paese, colpevoli di aver maltrattato lei e sua madre. Anche qui, la vita al margine, nella foresta, dona alla donna una forza che proviene da un mondo arcaico, simboleggiato dal suo animale da compagnia, il caprone, e dal suo rapporto con la natura e la sessualità.
Reynolds Stone
Gli alberi sono anche i testimoni della storia e la loro tranquilla opacità ci lascia immaginare i tempi antichi in cui loro erano già lì. Nel film Vertigo[vi] di Hitchcock, il momento in cui i due personaggi principali si ritrovano in una foresta di enormi sequoie e risalgono i tempi osservando i cerchi concentrici di un tronco è una delle scene più enigmatiche del cinema. La mano guantata della protagonista indica due punti sul tronco mentre dice: «Qui sono nata… e qui sono morta». L’albero rappresenta qui il tempo che passa, testimone del tempo perduto.
Anche nel cinema più recente, e
nelle serie tv, che più di ogni altro genere contribuiscono oggi alla
costruzione dell’immaginario collettivo, la foresta continua a rivestire il suo
ruolo di “altro” contrapposto all’umano e alla sua razionalità: ad esempio, tra
le tante, Zone Bianche (2016), serie
poliziesca in cui è il bosco, con le forze arcaiche che vi risiedono, il vero,
ambiguo, protagonista nella catena di omicidi e sparizioni che colpisce il
villaggio di Villefranche.
La foresta e le sue creature
popolano il nostro immaginario, e camminando tra i suoi alberi, nelle Cévennes
come nelle Alpi o nei Pirenei, non ci sorprenderemo di scorgere con la coda
dell’occhio il guizzo di una fuga precipitosa, lo scatto furtivo di un abitante
dei boschi, di un troll o di un folletto, che si nasconde da noi, dai nostri tracciati
e… dai nostri bulldozer.
La foresta da vivere emerge come
tema chiave nei testi di Winstanley [principale portavoce del movimento
comunitario dei Diggers nell’Inghilterra del Seicento]: essa servirà ai «carpentieri, falegnami, tornitori,
costruttori di aratri, liutai e costruttori di altri strumenti musicali, e tutti
coloro che lavorano il legno».
È un bosco da usare quello descritto, ma a differenza dello sfruttamento
capitalista, si tratta di un uso collettivo e finalizzato al bene comune.
L’aumento demografico portò con sé una crescente pressione su foreste e terre demaniali da parte degli occupanti (squatters) che vi costruivano le loro capanne. La consuetudine garantiva loro il precario diritto di installarsi a meno di un miglio dagli insediamenti industriali. Altri costruivano le loro baracche illegalmente, e la lontananza dai poteri garantiva loro una maggiore tranquillità. Per lo più si trattava di artigiani (forgiatori, fabbri ferrai, arrotini, tessitori…), ma anche di banditi, commedianti, venditori ambulanti, predicatori e ogni sorta di nomadi e fuggiaschi.
The Diggers
Il bosco rappresenta quindi un
rifugio per i proscritti e per i poveri, oltre che una riserva di ispirazione per
i poeti. Il buio della foresta stende un insopportabile cono d’ombra sulle
carte di chi vorrebbe il controllo totale del territorio. Perciò è da sempre
tenuta in grande sospetto dai poteri d’ogni epoca, nel solco di «un’ostilità radicale, di
origine religiosa, tra le istituzioni umane e le foreste circostanti»[vii].
Beninteso, la storia cui abbiamo
accennato non è affatto conclusa, in Inghilterra come altrove. Di fronte all’emergenza
posta dalle distruzioni del capitalismo globalizzato, essa non fa che acquisire
importanza. E il legame di filiazione con gli uomini e gli eventi qui citati,
malgrado più di tre secoli di distanza, si mostra in tutta la sua evidenza. Dal
Messico al Brasile, dall’India al continente africano, fino a contrade a noi
più prossime, nei territori rurali di un’Europa forse non pacificata come
appare, la guerra dei boschi, delle terre e delle risorse è più attuale che
mai.
La sollevazione degli Zappatori è
destinata a risorgere ancora e ancora…
La foresta – ne siamo certi – non
ha ancora detto la sua ultima parola.
Noi, piuttosto, siamo ancora
capaci di sentirla?
[i] Stephen King, La bambina che amava Tom Gordon,
Sperling & Kupfer, 1999.
[ii] Arto Paasilinna, L’anno della lepre, Iperborea, 1994.
[iii] Stefan aus dem Siepen, La fune, Neri Pozza, 2013.
La storia, soprattutto se narra di anarchia e sovversione, può essere qualcosa di più intrigante delle noiose pagine di un manuale scolastico. Con Mario Buda viaggiamo tra la Romagna e gli Stati Uniti, in mezzo a scioperi, revolver e dinamite. Ma chi era in realtà questo enigmatico personaggio, la cui vicenda si intreccia anche a quella di Sacco e Vanzetti? E perché negli anni Trenta alcune fonti lo indicano come un collaboratore della polizia politica fascista? Si è davvero venduto e ha finito per fare l’infiltrato? A prendere per buone le carte di questura potrebbe sembrare così, ma se si scava più a fondo emergono le sorprese… anche perché diversi compagni continuano a dargli fiducia e dopo la Liberazione rientra senza strascichi nel movimento; chissà allora che non si riescano a dipanare i fili di una sorta di triplo gioco, con Buda che si fa passare per collaboratore del fascismo soltanto per suonarle meglio al regime. Alla fine dei conti, sbaglia chi crede che siano gli sbirri quelli più furbi!
Mario Buda, 1927
Mario
Augusto Buda nasce il 13 ottobre 1883 a Savignano di Romagna (dal 1933
Savignano sul Rubicone) da Federico, contadino, e Clarice Bertozzi. Ha una
sorella, Maria, e due fratelli, Primo e Carlo. Finite le scuole elementari
lavora come contadino e aiuto calzolaio. Nel 1899, sedicenne, è condannato a
dieci giorni di reclusione per furto in un negozio di ferramenta.
Nel
1904 presta il servizio militare a Forlì e tre anni dopo emigra negli Stati
Uniti. Si stabilisce dapprima nei dintorni di Boston, poi in Colorado, Illinois
e Wisconsin; si guadagna da vivere con lavori precari, per lo più giardiniere e
manovale, e si avvicina all’anarchismo diventando un sostenitore di «Cronaca
Sovversiva» di Luigi Galleani.
Alto
non più di un metro e sessanta, calvo e con i baffetti, ha occhi piccoli e naso
grosso: da qui il soprannome che gli affibbiano gli amici: “Nasone” o “Big
Nose”.
Negli
anni dal 1911 al 1913 torna a Savignano e lavora col padre come giardiniere,
per poi andare nuovamente in Massachusetts, dove viene raggiunto dal fratello
Carlo. Si stabilisce inizialmente a Framingham, lavorando in fabbrica, poi
passa un periodo di circa un anno a Roxbury, nei dintorni di Boston, impiegato
presso una lavanderia con lo stesso Carlo. Aderisce al locale Circolo educativo
mazziniano, prende parte alle attività militanti tra le quali l’organizzazione
di una Scuola moderna, le conferenze,
i pic-nic, le rappresentazioni teatrali, la partecipazione alle lotte sul
lavoro.
Conosce Nicola Sacco nel corso di uno sciopero a Hopedale nel 1913 e Bartolomeo Vanzetti tre anni più tardi in occasione dell’agitazione presso la Cordage Company a Plymouth.
Si
trasferisce in seguito a Wellesley, dove con Carlo apre una lavanderia di sua
proprietà. Il 25 settembre 1916, nel corso di una manifestazione a North Square
(Boston) contro l’intervento dell’esercito statunitense nella Prima guerra
mondiale, viene arrestato insieme a Federico Cari e Raffaele Schiavina. Al
processo si rifiuta di giurare sulla Bibbia ed è condannato a cinque mesi di
prigione. I suoi compagni raccolgono 1.200 dollari per garantirne il rilascio e
la sua condanna viene poi annullata in appello.
Nel
corso del 1917 con altri militanti, tra i quali Sacco e Vanzetti, varca il
confine messicano per stabilirsi in una casa comune nei dintorni di Monterrey,
città dove lavora sempre in una lavanderia.
Ritornato
negli Stati Uniti, si fa passare per Mike Boda o Mario Rusca, oppure per un tirolese
di Predazzo di nome Michael Wolf, e si stabilisce prima a Chicago, poi a Iron
River, infine a New York. La sua attività è ora quella di venditore di whisky,
olio, formaggio e pasta.
Nell’autunno del 1917 un attentato contro un commissariato di polizia di Milwaukee provoca la morte di dieci agenti. Non è un fatto isolato: a fronte di una repressione brutale e diffusa contro i Reds da parte delle autorità statunitensi e in particolare in risposta all’ordine di deportazione di Galleani nel febbraio 1919, gli anarchici si fanno sentire con scritti minacciosi e con una serie di azioni che fanno scalpore. Il primo maggio 1919 una trentina di plichi esplosivi sono spediti agli indirizzi di importanti esponenti della politica, dell’industria, della magistratura, della polizia e del giornalismo. Quasi tutti vengono intercettati dalle autorità. La notte del 2 giugno successivo si verificano all’incirca alla stessa ora sette esplosioni in sette città diverse: Boston, New York, Paterson, Filadelfia, Pittsburgh, Cleveland e Washington. Obiettivo sono le abitazioni di personaggi di primo piano dell’amministrazione, dell’industria e della magistratura, tra i quali il Procuratore generale Mitchell Palmer. Ingenti i danni materiali, una sola vittima: Carlo Valdinoci, stretto compagno di Buda e uno dei pilastri di «Cronaca Sovversiva», saltato in aria sul retro della casa di Palmer insieme all’ordigno che trasportava.
La casa del procuratore generale Mitchell Palmer a Washington dopo l’eplosione del 2 giugno 1919
In
sede storica è stata ipotizzata da più parti una partecipazione di Buda a
questi fatti, ma di certo non c’è nulla. Di lui in questa fase sappiamo infatti
poco, se non che risiede in Massachusetts e si dedica con assiduità alla
propaganda. Con la sua Overland, insieme al whisky e ai prodotti alimentari,
distribuisce vario materiale a stampa e gli ultimi numeri di «Cronaca
Sovversiva», che dal febbraio del 1918 il corriere American Express non
consegna più a causa delle pressioni del governo. In tale attività gira sempre
armato di revolver.
Nel
maggio 1920 la polizia è impegnata nell’indagine su una banda di italiani,
sospettata di una rapina fruttata sedicimila
dollari e di un duplice omicidio a South Braintree, il precedente 15 aprile.
Gli indizi portano a un certo Boda, che figurerebbe come il capo del gruppo.
Seguendo le sue tracce gli agenti di West Bridgewater arrestano Sacco e
Vanzetti, con l’accusa di aver partecipato ai fatti.
L’11 settembre 1920 i due sono condannati in primo grado. A mezzogiorno del 16 settembre un carro trainato da un cavallo e pieno di frutta, ma anche di quarantacinque chili di dinamite e di due quintali di pezzi di metallo, esplode all’angolo di Wall Street con Broad Street, tra lo United States Assay Office, il Sub-Treasury Building e il palazzo della J.P. Morgan & Company: il centro del capitalismo americano. La deflagrazione lascia sul selciato trentotto morti, centinaia di feriti e ingenti danni materiali. I colpevoli di questo “atto di guerra”, come titola il «New York Times» del 17 settembre, non saranno mai trovati. Alcuni decenni più tardi un altro libertario, Charles Poggi, farà a riguardo il nome di Buda.
Attentato anarchico a Wall street, 16 settembre 1920
Poco dopo l’attentato,
l’anarchico romagnolo salpa da Providence
verso Napoli e a novembre è di ritorno a Savignano, dove va ad abitare a casa
della madre, in via Castelvecchio 22.
Il
28 febbraio 1921 a San Mauro Pascoli i rossi si scontrano con una squadra
fascista accorsa da Cesena per affiggere dei manifesti. Intervengono i
carabinieri di Savignano e si accende una sparatoria, nel mezzo della quale
cade il maresciallo Pietro Ragni. Per la sua morte viene imputato Buda in
correità con altri sedici antifascisti. Incarcerato dal 1° marzo alla fine di
settembre, è assolto dalla corte d’appello di Bologna per insufficienza di
prove.
Nell’agosto successivo è denunciato per omessa dichiarazione di una pistola, che porta sempre con sé nel quotidiano tragitto tra Savignano, dove in una camera di casa sua fabbrica e vende pantofole e galosce, e Rimini, dove lavora per un periodo presso una calzoleria di via Gambalunga 17. A Savignano frequenta i compagni di ideale con i quali organizza un gruppo anarchico che promuove conferenze di propaganda in favore di Sacco e Vanzetti in vari centri del circondario, tra cui Gambettola e Santarcangelo, dove Buda è in stretto contatto con Amleto Fabbri, futuro segretario negli Stati Uniti del Comitato di difesa per Sacco e Vanzetti.
Effetti dell’esplosione del 1920 ancora oggi visibili al n. 23 di Wall Street
Dopo
l’ascesa del fascismo mantiene contatti epistolari con i libertari residenti in
Francia e negli Stati Uniti e fa circolare letteratura anarchica in modo
clandestino, come hanno modo di verificare i carabinieri facendo irruzione in
casa sua, il 18 settembre 1925.
Il
20 agosto 1927, tre giorni prima dell’esecuzione di Sacco e Vanzetti,
viene arrestato. Trattenuto nelle carceri di Forlì fino
alla fine di dicembre, è assegnato al confino
di Lipari per cinque anni. Presenta ricorso, ma invano. Qui ritrova Galleani e
condivide un’abitazione insieme ad altri confinati emiliani e romagnoli.
Sull’isola
riceve la visita del giornalista americano Edward Holton James e di Giuseppe
Dosi, commissario di polizia che si fa passare per giornalista italiano.
Entrambi intervistano Buda per tre giorni sulle circostanze che hanno portato
alla condanna a morte di Sacco e Vanzetti, affermando di ritenerli innocenti e
di volerne riabilitare la memoria. Buda ribadisce l’innocenza dei due anarchici
giustiziati e la propria estraneità ai fatti.
Su
suggerimento di James, dal quale comincia a ricevere del denaro, chiede
ripetutamente clemenza a Mussolini lamentando di essere stato confinato su
volontà del governo americano perché ritenuto implicato nell’affaire
Sacco e Vanzetti.
Il
1° marzo 1928 è tratto in arresto insieme ad altri tre confinati perché
sorpreso a cantare inni sovversivi nella sua abitazione. Viene condannato a tre
mesi che sconta nelle carceri di Messina.
Trasferito
a Ponza nel luglio del 1929, viene definito dal Ministero degli interni un
“irriducibile avversario del regime” e uno “strenuo e fanatico sostenitore
delle idee comuniste-anarchiche le più avanzate […], preconizzatore convinto
degli Stati Uniti di tutto il mondo, retti da Commissari del popolo sotto le
bandiere dei soviet di tipo russo”.
Nell’aprile
del 1932 James torna a fargli visita insieme al diciottenne Dante Sacco, figlio
di Nicola, che Buda aveva conosciuto da bambino.
Scontata
per intero la pena, il 19 novembre 1932 viene liberato con foglio di via
obbligatorio per Savignano. Qui riprende a lavorare nella produzione e vendita
di scarpe. Stando alle carte di polizia, diventa un fiduciario dell’OVRA (organizzazione
segreta della polizia politica fascista) e ottiene dalla prefettura di Forlì un
regolare passaporto per recarsi a Parigi con l’obiettivo di infiltrarsi negli
ambienti antifascisti di lingua italiana. Varca il confine nel febbraio del
1933 e si ferma in Svizzera e in Francia, prima di tornare in estate in
Romagna. Non abbiamo notizie di sue eventuali rivelazioni, ma il periodico
comunista «Bandiera Rossa» di Parigi del 9 settembre lo denuncia pubblicamente
come una spia.
A Savignano continua a lavorare come calzolaio e nel 1934 si sposa con rito religioso con Sara Randi. Nell’agosto del 1937 è di nuovo a Parigi dove frequenta, tra gli altri, Umberto Tommasini, Gino Bibbi e Giobbe Giopp con i quali stabilisce di compiere un attentato contro Mussolini per mezzo di un’autobomba che dovrebbe sorprendere le guardie ed esplodere all’interno del Viminale. Torna quindi in Italia con il compito di raccogliere informazioni su abitudini e itinerari del duce.
Dimostrazione per Sacco e Vanzetti in Union Square a New York, 9 agosto 1927
Per
i compagni è un militante fidato, per la polizia un informatore dal nome in
codice “Romagna”. Nel maggio del 1938 due antifascisti, Luigi Tocco e Luigia
Battaini, consegnano a Buda in un bar di Milano il denaro necessario
all’attentato. Ma il progetto sfuma e in agosto Tocco e Battaini sono
arrestati.
Nel
febbraio del 1942 la prefettura di Forlì ottiene da Roma la cancellazione del
suo nome dal novero dei sovversivi perché “serba regolare condotta politica […]
non dà luogo a rilievi [e] in varie occasioni si è reso utile al locale
organismo dell’OVRA”.
Nel
1944 muore la madre. Con la Liberazione riprende il suo posto nel movimento
anarchico locale, distribuisce la stampa libertaria e affigge «Umanità Nova»
sotto i portici di corso Vendemini. È conosciuto come un uomo colto e amante
della campagna. Muore il 1° giugno 1963 dopo essere stato ricoverato due mesi
presso il locale ospedale di Savignano. Lascia al nipote Vittorio alcuni libri
anarchici e una colt a tamburo. I funerali si svolgono in forma civile e la sua
figura viene ricordata sulla stampa anarchica dalle due parti dell’oceano.
Chi
è stato davvero Mario Buda? Un militante molto deciso o un abile
doppiogiochista? C’è davvero lui dietro alcune delle pagine più eclatanti della
lotta contro le autorità statunitensi? È stato un informatore, una spia o un
provocatore? E se sì, da quando? E ancora: le notizie che avrebbe dato alla
polizia avevano davvero qualche valore? Fino a che punto ha spinto il suo
doppio gioco e in favore di chi?
Troppi, ancora, i punti oscuri. Il mistero continua. Le ricerche anche…
Tecnici analizzano i resti della bomba di Wall Street, settembre 1920
Fonti utilizzate
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Morte di San Francesco, uno dei frati trascrive il Testamento, miniatura, manoscritto Vitt.Em.1167
Sorella povertà
Alla morte di Francesco (1226),
la scelta tra povertà o non povertà divide l’ordine da lui fondato in due
correnti: gli Spirituali, fedeli allo spirito della Regola e al suo Testamento,
praticanti la povertà assoluta, e i Conventuali, più propensi ad accomodarsi
con il mondo, ovvero ad accettare donazioni, godere di rendite e fissare in
conventi la propria stabile dimora.
Per la Chiesa in quanto
istituzione e sistema di potere, la concezione della povertà volontaria è
qualcosa di destabilizzante ed è infatti una delle principali leve con cui
viene attaccato il suo dominio nel basso medioevo. In fondo la povertà non
sarebbe che un mezzo per raggiungere la perfezione
e quindi l’eterna salvezza dell’anima, ma affermarla e praticarla finiva con il
mettere in discussione l’intero apparato di potere ecclesiastico che non
avrebbe potuto reggersi con i forzieri vuoti. Quindi, se da una parte non
sembra opportuno rinnegare in toto la povertà come valore cristiano, dall’altro
la Chiesa è ben attenta a contenerla entro precisi limiti, circoscritti dalla
catena dell’obbedienza che legava gli Ordini mendicanti alla casa madre di Roma.
Le Marche sono una delle aree di
maggior radicamento della corrente spirituale-pauperistica, che si raccoglie attorno
a Pietro da Macerata detto Fra Liberato e Pietro da Fossombrone detto Angelo
Clareno. Insieme a loro, le fonti registrano altri predicatori marchigiani di sorella povertà, come Corrado da Offida,
Tommaso e Trasmondo da Tolentino, Francesco da Falerone, Giovanni da Bolognola,
Vincenzo da Camerino, Francesco da Mondavio, Bonaventura da Cagli. Ulteriori zone
di influenza spirituale sono la Toscana con Ubertino da Casale e la Francia
meridionale con Pietro di Giovanni Olivi; quest’ultimo aveva indossato l’abito
francescano intorno al 1260 a Béziers, cittadina dove ancora aleggiava il
ricordo del genocidio di uomini, donne e bambini perpetrato appena qualche
decennio prima, per estirpare l’eresia catara, dal rappresentante pontificio Arnaud
Amaury al grido: «Uccideteli
tutti! Dio saprà riconoscere i suoi»[1].
Con il Concilio di Lione del 1274
papa Gregorio X, oltre a invocare una nuova crociata per la liberazione della
Terra santa, colpisce duramente gli ordini mendicanti togliendo loro il voto di
povertà e proibendo il formarne di nuovi. Gli Spirituali sono chiamati a
rientrare nei ranghi dell’ordine francescano egemonizzato dall’altra e più
potente fazione. Ma non tutti sono disposti ad accettare di buon grado quella
che ritengono un’indebita imposizione. Può il Papa contestare la Regola della
povertà, ispirata divinamente a
Francesco?
Il rifiuto parte proprio dalle Marche, scatenando l’inizio della persecuzione nei confronti dei frati dissidenti. Tra loro Angelo Clareno, nato con il nome di Pietro intorno al 1255 a Chiarino, tra Loreto e Recanati, ed entrato a quindici anni nei francescani di Fossombrone (o, forse, di Cingoli). Insieme ad altri viene segregato in convento, privato di confessione e sacramenti, inibito a colloqui con soggetti esterni, fino a quando oltre dieci anni dopo, nel 1289, il nuovo ministro generale dell’ordine Raimondo Gaufridi lo spedisce missionario in Armenia, insieme a Pietro da Macerata e qualche altro confratello ritenuto d’intralcio nella penisola.
Angelo Clareno, Artista sconosciuto, XVI secolo
Le «tribolazioni» francescane
Nel 1294 l’elezione a pontefice
di Celestino V, l’ex eremita Pietro da Morrone, sembra ribaltare le carte in
tavola. I più ferventi fautori della povertà evangelica ottengono infatti l’autorizzazione
a staccarsi dall’ordine sempre ben presidiato dai gaudenti Conventuali,
formando un’apposita congregazione di Pauperes
eremite domini Celestini. Clareno, intravedendo finalmente un auspicato futuro
di povertà e ascesi, fa rientro in Italia. Ma, come si sa, Celestino V è il
papa del gran rifiuto; dopo neanche
un anno di pontificato, messo sotto pressione dai maneggi di potere, capisce
che guidare la Santa sede non è cosa per lui e si dimette. Chiusa parentesi. La
prima decisione del nuovo papa Bonifacio VIII (1294-1303) è annullare tutte le
concessioni e i privilegi concessi dal suo predecessore: per gli Spirituali
rincomincia a tirare una brutta aria. Gli altri, i Conventuali, covano vendetta
contro quei miserabili frati che vorrebbero ridurre la comunità a campare senza
conventi, senza soldi, dispersa fuori dalle città: ai loro occhi sono tutti
quanti “dolciniani”, cioè eretici della peggior specie, senza sfumature né
eccezioni, da liquidare con ogni mezzo necessario.
Fra Liberato e Angelo Clareno emigrano di nuovo in cerca di un po’ di pace, questa volta in Grecia, ma anche lì li raggiunge la condanna del nuovo papa che li bolla come ribelli a ogni religione approvata e, lo si può immaginare, in quell’epoca ricevere una tale condanna, tanto più per un frate, erano dolori assicurati. Fra Liberato si fa coraggio e decide di tornare in patria per incontrare Bonifacio VIII e provare a farlo ragionare: l’Inquisizione non aspettava altro e solo per un soffio il frate riesce a sottrarsi alle grinfie del segugio domenicano Tomaso d’Aversa, per chiudersi fino alla fine dei suoi giorni nell’eremo di S. Angelo della Vena. Clareno capisce che è il caso di restare ancora un po’ in Grecia e solo dopo la morte di Bonifacio VIII rimette piede in Italia. Trascorre quindi alcuni anni ad Avignone dove, sotto l’ala protettrice del cardinale Giacomo Colonna, spera vanamente di ottenere qualcosa da papa Clemente V (1305-1314) o, almeno, di scongiurare un doloroso strappo tra i poveri eremiti e madre Chiesa.
Celestino V benedice Angelo Clareno e al confratelli, miniatura, manoscritto Vitt.Em.1167
Niente da fare, anzi la
situazione peggiora ancora con papa Giovanni XXII (1316-1334), acerrimo nemico degli
Spirituali che, da parte loro, nella reciproca accusa di eresia, lo considerano
nientemeno che il precursore dell’Anticristo: «perversus, maleficus, blasphemus, maledictus, a Deo
maledictus»[2].
Con la bolla Sancta Romana Ecclesia (1317),
dalla cattività avignonese il papa prende
di mira proprio i Francescani insubordinati, ricordando loro che l’obbedienza
al successore di Pietro è una virtù superiore alla povertà e, per ben
imprimerlo nelle loro teste, nel 1318 a Marsiglia fa bruciare sul rogo quattro Spirituali
irriducibili. La condanna papale è aggravata nel 1323 con la bolla Cum inter nunnullos che intende chiudere
la questione dichiarando una volta per tutte eretica la tesi della povertà di
Cristo e degli apostoli. In sostanza, i frati potevano essere poveri quanto
volevano, ma non era loro concesso di mettere in discussione la gerarchia
ecclesiastica e l’autorità del pontefice. Complessivamente, nell’arco di un
secolo e mezzo, si contano almeno una cinquantina di bolle pontificie inerenti
la repressione dei Francescani dissidenti[3].
Clareno, scomunicato, si
autodifende con passione e convinzione con una Epistola excusatoria e inizia a peregrinare tra vari monasteri raccogliendo
attorno a sé i cocci del francescanesismo spirituale. Con chi è ancora disposto
a seguirlo nonostante minacce, ritorsioni e repressione fonda il gruppo dei fratres de paupere vita, i Fratelli
della vita povera, o Fraticelli, organizzati come ordine francescano
indipendente che ormai non riconosceva più l’autorità della meretrix magna, ovvero di quella Chiesa
romana traditrice del Vangelo di Cristo.
Per confortare compagni e
discepoli condannati dalla Chiesa e braccati dall’Inquisizione, mostrando loro
le ragioni provvidenziali di tanto soffrire, Clareno scrive un Liber chronicarum contenente la storia
delle «sette
tribolazioni»
subite dal piccolo nucleo di francescani di cui egli stesso è parte ad opera di
chi ha abbandonato la via spirituale per quella materiale. Le tribolazioni erano state all’origine profetizzate da Cristo a
Francesco, in questi termini:
«si
daranno ad accumulare denaro, testamenti e legati; di conseguenza senza alcun
pudore si abbandoneranno a litigi, allontanandosi dall’amore alla santa
povertà, umiltà e orazione, e perseguiteranno con astio e maltrattamento quelli
che nella Religione gli si opporranno. […] Crederanno cosa sacroscanta
confonderli e opprimerli con frode; e riterranno giusto suscitare contro di
loro una guerra. […] Correranno dietro la dignità ecclesiale e gareggeranno tra
loro per apparire superiori agli altri. Chi cercherà di essere umile e zelare
la pura osservanza della promessa, procurando di elevarsi alle cose celesti,
sarà disprezzato come pazzo e schernito come inutile e buono a nulla. Quindi
ogni cattivo soggetto riverserà il puzzo della sua condotta contro i frati e
cercherà di scusare e sminuire le proprie scelleratezze»[4].
Nonostante la guida di Clareno, che comunque non ebbe successori della sua tempra, i dissidenti restano frammentati in mille rivoli diversi, come testimoniano i tanti nomi non esattamente sovrapponibili l’uno all’altro: Fraticelli, Fraticelli de paupere vita, pauperes Fraticelli, Fraticelli de opinione, pauperes Fratres, humiles Christi pauperes e altri[5]. Va anche detto che il termine Fraticelli non ricorre quasi mai negli scritti dello stesso Clareno e quando compare è sempre sulla bocca degli avversari, che raccolgono sotto tale nome un po’ tutto quel mondo francescano ai confini tra ortodossia ed eresia[6].
Cristo ispira a San Francesco la Regola, miniatura, manoscritto Vitt.Em.1167
Un’eresia moderata
Comincia quindi a prendere forma
una rete di contatti tra eremi e monasteri dell’Italia centrale, con al centro
il monastero del Sacro Speco di Subiaco, dove Clareno si era trasferito. I
Fraticelli conducono un’esistenza da eremiti, privi di ogni bene materiale,
vivono in luoghi appartati o ospitati in piccoli conventi, predicano agli
incolti villani e ai vagabondi, mendicano di che mangiare, aiutati per quanto
possibile dalla popolazione locale. Applicando alla lettera la Regola
francescana, potevano possedere solo una o al massimo due tuniche di vile
panno, senza mai sostituirle per tutta la vita: probabilmente non è solo
figurata la definizione di pauperculos
pediculosos (poveretti pidocchiosi) con cui venivano spesso chiamati.
A detta dei loro avversari,
aderivano ai Fraticelli e ai loro amici laici, detti Bizzocchi o Beghini, «quanti erano di costumi
guasti e corrotti, ed inoltre contadini stanchi di faticare ed artigiani
scioperati»[7].
Gente poco raccomandabile, insomma, la cui condotta era un campionario di «errori» e «nefandezze» che turbavano la vita
religiosa, sociale e politica[8].
Peggio ancora se si trattava di donne seguaci della «turba mendicante», che «col pretesto di chiedere
l’elemosina vagano per ville e castelli»,
cosa ritenuta quanto mai sconveniente. Infine, per qualche storico cattolico di
tempi a noi più vicini, l’eresia dei Fraticelli era malvagità assoluta, ovvero comunismo bello e buono:
«adunque i Fraticelli d’opinione furono i seguaci degli eretici Apostolici, dei Manichei, poi degli Albigesi e per conseguenza ancora i padri e gli antesignani del comunismo, del radicalismo e socialismo presente, propugnato da Proudhon, da Owen, da Hegel, da Fourier. Questi dissero: la proprietà è un furto; e i Fraticelli: i beni sono comuni. Ecco il comunismo. Il peggior male del mondo sono i governi; ogni potestà di principe è un avanzo di superstizione pagana. Ecco il radicalismo. La donna è libera, gridava Sansimon [Saint-Simon]; la donna è una preda comune, gridarono questi eretici. Ecco il socialismo misto e sensuale»[9].
Sacro Speco di Subiaco, rifugio di Angelo Clareno
La dottrina dei Fraticelli era
molto affine a quella dei temutissimi Apostolici di Gherardo Segarelli e dei
Dolciniani di Fra Dolcino e Margherita da Trento. La base comune partiva
dall’influenza della filosofia della storia di Gioacchino da Fiore interpretata
come susseguirsi di epoche: all’era del Padre e a quella del Figlio sarebbe
seguita quella dello Spirito Santo, caratterizzata da pace, amore e
solidarietà, in cui la nuova Ecclesia
spiritualis, ecumenica e tollerante, avrebbe soppiantato la vecchia
gerarchia ecclesiastica romana. Tuttavia, mentre i Fraticelli si ritengono
legittimi discendenti dell’ordine fondato da San Francesco, gli Apostolici
considerano i Francescani un ordine tra gli altri e non si ritengono soggetti
alla Regola. Soprattutto, quello dei Fraticelli è un movimento moderato che
cerca di rimanere prudentemente all’interno dell’ortodossia cattolica, seguendo
la via del ritiro dal mondo in eremi solitari, la via della resistenza passiva[10].
Un movimento fatto di «santi
e ribelli insieme»[11].
Tutt’altro radicalismo è dimostrato invece dagli Apostolici, che sulle montagne
della Valsesia, agli inizi del Trecento, resistono in armi alla crociata
dell’Inquisizione, unendo la loro lotta alla guerriglia delle popolazioni
montanare minacciate dalla prepotenza dei vescovi e ferme custodi
dell’autonomia della civiltà alpina. A loro, però, andò decisamente peggio
rispetto ai marchigiani che tutto sommato, a parte qualche rogo qua e là, se la
cavarono chinando il capo. Gli Apostolici vennero massacrati sulla cima del
loro ultimo baluardo, il monte Rubello; le loro guide, Dolcino, Margherita e
Longino furono catturate, torturate e bruciate[12].
La vocazione di Clareno al misticismo eremitico lo tiene lontano dallo scontro in campo aperto e perfino contro il malefico Giovanni XXII, che l’avrebbe assai volentieri abbrustolito in piazza, scrive ai suoi seguaci di non ribellarsi, «ma piuttosto di fuggire dal suo cospetto serbando fede, nel silenzio di eremi lontani, all’ideale da lui calpestato»[13]. Non per questo viene lasciato in pace. Nel 1334 l’inquisitore Simone da Spoleto tenta di catturarlo, vivo o morto, ma l’abate di Subiaco colpito dalla rettitudine e dalla levatura morale del suo ospite non lo consegna; Clareno può così fuggire nel Regno di Napoli fino ad approdare nel convento di S. Maria dell’Aspro, in Basilicata, dove sempre aspettando l’Apocalisse prossima ventura, muore nel 1337.
Gioacchino da Fiore
In quello stesso anno 1337 il
Fraticello Francesco da Pistoia viene consegnato al braccio secolare e fatto
salire sul rogo a Venezia. Altri due compagni sono bruciati a Montpellier nel
1354. Nel 1389 è la volta di Michele Berti da Calci, nella piazza di Firenze[14].
E ancora roghi a Firenze e Fabriano nel 1449-1450. Certo, non tutti si lasciano
martirizzare; i processi danno conto di abiure e ritrattazioni, più o meno
sincere, con conseguenti condanne al carcere, confische dei beni, espulsioni,
penitenze, scomuniche. Sotto processo vanno anche i protettori dei Fraticelli,
come accade nel 1336 ai vescovi e alle autorità di Camerino e Fermo e agli
ufficiali del comune di Matelica accusati di averli accolti, mentre due anni
dopo è la volta della città di San Ginesio[15].
Gli ultimi fuochi
A partire dal pontificato di Bonifacio
IX (1389-1404) la dissidenza eremitica francescana inizia progressivamente a
rientrare nel seno della Chiesa, in un percorso lungo e irto di ostacoli. Nel
frattempo, per non sbagliare, prosegue la persecuzione degli insubordinati. A
combattere una volta per tutte l’eresia dei Fraticelli marchigiani viene
chiamato nel 1425 Giacomo della Marca, poi fatto santo. Si racconta che mentre i
frati bruciavano nella piazza di Fabriano, Giacomo ebbe la prova definitiva che
si trattasse realmente di eretici: al suo naso giungeva infatti il puzzo di
carni arrostite, mentre se fossero stati santi le loro carni sul fuoco
avrebbero senza dubbio emanato buon profumo d’arrosto[16].
Negli anni immediatamente successivi le Marche continuano a essere territorio d’elezione dei poveri eremiti. Nel 1427 la popolazione di San Severino insorge contro il commissario pontificio, Astorgio Agnesi vescovo di Ancona, odiato sia per i suoi modi di governo sia in quanto noto inquisitore dei miti Fraticelli, che si vede costretto a far accorrere in tutta fretta in città le truppe pontificie per soffocare la sommossa. San Severino, scomunicata dal papa Martino V, sarà assolta e riappacificata solo nel 1428. In quello stesso anno, a poca distanza da lì, «ad terrorem et exemplum perpetuum» viene atterrato il castello di Maiolati, nella Vallesina roccaforte dell’eresia. Gli abitanti dispersi trovano scampo nei paesi vicini e solo dopo due anni ottengono la grazia di rientrare, ma con il divieto di ricostruire le mura del paese. Nel frattempo la fine di qualcuno non è ben documentata ma la si intuisce da una coeva nota di spesa degli inquisitori: «oleo et lignis pro comburendo hereticos»[17].
Il persecutore di eretici San Giacomo della Marca
L’ultimo processo inquisitoriale
di cui si ha notizia si svolge a Roma nel 1466 contro alcuni Fraticelli laziali
e di Maiolati, guidati da un certo Fra Niccolò di Cupramontana, sorpresi e
catturati durante un pellegrinaggio verso Assisi. Proprio Maiolati,
Cupramontana e territori limitrofi sono una delle ultime oasi dell’eresia.
Stando alle poco affidabili confessioni del processo, estorte come da prassi
con le peggiori torture, i fratres di
Maiolati sarebbero stati soliti abbandonarsi nottetempo a orge dionisiache,
«e peggio ancora non avrebbero dubitato di
dare la morte appena nato al frutto dei loro mostruosi congiungimenti,
passandoselo di mano in mano in una ridda bacchica intorno a un fuoco
infernale. Né infine avrebbero rifuggito dal ridurre in polvere quelle ossa
innocenti per immergerle nel vino, che conservato in un barilotto sorbivano poi
di volta in volta ad imitazione del mistero eucaristico»[18].
Da questa storia, di cui si
trovano fantasiose varianti distribuite nei paesi della Vallesina, trae origine
l’ingiuria popolare un tempo tipica di queste zone: «sei nato nel barilotto».
Le ultime battute della storia dei Fraticelli, che nel corso del XV secolo avevano fondato la cosiddetta Congregazione dei Clareni, si intrecciano alla storia degli Osservanti, altra corrente francescana che apprezzava la povertà ma con molto meno radicalismo rispetto ai precedenti Spirituali. Figure come Giovanni da Capestrano o Giacomo dalla Marca, dopo essere stati accaniti persecutori dei Fraticelli, recuperano dal movimento l’ideale di semplicità evangelica e, come Osservanti, dimostrano che il saio sbrindellato si può indossare anche all’interno di madre Chiesa. Il loro esempio, unito alla mutata situazione culturale ed ecclesiale, toglie terreno sotto ai piedi dei Fraticelli dando loro quel colpo di grazia che l’Inquisizione non era riuscita a infliggere. Gli eremi di montagna vengono abbandonati in un lento processo che si conclude solo intorno a metà XVI secolo, quando anche gli ultimi sedici insediamenti marchigiani vengono svuotati e i loro occupanti trasferiti nei conventi in prossimità o dentro i centri urbani.
Grzegorz Gwiazda, Heretic, 2014
Bibliografia
Luigi
Fumi, Eretici e ribelli nell’Umbria:
studio storico d’un decennio (1320-1330), Todi, Atanor, [1916].
Ciro da Pesaro, Il Clareno (studio polemico), Macerata, 1921.
Lorenzo Berardini, Frate Angelo da Chiarino alla luce della
storia, Osimo, Pax et bonum, 1964.
“Picenum Seraphicum”, 1974, n.
11: Spirituali e fraticelli nell’Italia
centro-orientale.
S. Iacobus de Marchia, Dialogus contra fraticellos: addita versione
Itala saeculi 15°, recensuit Dionysius Lasic, Falconara Marittima,
Biblioteca francescana, 1975.
Angeli Clareni Opera, Roma, Istituto storico italiano per il Medio
Evo, v. 1: Epistole, a cura di Lydia
von Auw, 1980; v. 2: Historia septem
tribulationum Ordinis Minorum, edizione critica a cura di Orietta Rossini,
introduzione e commento di Hanno Helbling, 1999.
Gian Luca Potestà, Angelo Clareno: dai Poveri Eremiti ai
Fraticelli, Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo, 1990.
I Fraticelli: santi o eretici? Atti del convegno, Cupra Montana, 3 ottobre
1997, a cura di Riccardo Ceccarelli, Cupra Montana, [s.n.], 1998.
Società internazionale di studi
francescani, Centro interuniversitario di studi francescani, Angelo Clareno francescano. Atti del 34°
convegno internazionale, Assisi, 5-7 ottobre 2006, Spoleto, Fondazione
Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 2007.
Felice Accrocca, Un ribelle tranquillo. Angelo Clareno e gli
Spirituali francescani tra Due e Trecento, Assisi, Porziuncola, 2009.
Angelo Clareno, Libro delle cronache o delle tribolazioni
dell’ordine dei Frati Minori, in Fonti
Francescane, 3. ed., Padova, Editrici francescane, 2011, p. 1381-1440.
Arnaldo Sancricca, I “Fratres” di Angelo Clareno: da poveri
eremiti di papa Celestino a Frati Minori della Provincia di S. Girolamo de Urbe
attraverso la genesi del Terz’ordine regolare di S. Francesco in Italia,
Macerata, Simple, 2015.
[1] Secondo la storiografia
più recente questa notissima frase non sarebbe autentica, certamente reale è
invece il massacro di Béziers; cfr. Marco Meschini, L’eretica. Storia della crociata contro gli Albigesi, Roma, Bari,
Laterza, 2010.
[2] Da una lettera di alcuni
Fraticelli al comune di Narni, cit. in Mariano D’Alatri, Fraticellismo e Inquisizione nell’Italia centrale, “Picenum
Seraphicum”, a. 11, 1974, p. 306.
[4] Angelo Clareno, Libro
delle cronache o delle tribolazioni dell’ordine dei Frati Minori, in Fonti Francescane, 3. ed., Padova,
Editrici francescane, 2011, p. 1397-1398.
[5] Cfr. Clemente Schmitt, Introduzione allo studio degli Spirituali e
dei Fraticelli, “Picenum Seraphicum”, a. 11, 1974, p. 18.
[6] Cfr. Roberto Lambertini, “Non so che fraticelli…”: identità e
tensioni minoritiche nella Marchia di Angelo Clareno, in Società
internazionale di studi francescani, Centro interuniversitario di studi
francescani, Angelo Clareno francescano.
Atti del 34° Convegno internazionale, Assisi, 5-7 ottobre 2006, Spoleto,
Fondazione Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 2007, p. 232.
[7] Giacinto Nicolai, Vita storica di San Giacomo della Marca dei
minori protettore della città e diocesi di Napoli, Bologna, Mareggiani,
1876, p. 95
[8] Cfr. Mario Natalucci, Lotte di parte e manifestazioni ereticali
nella Marca agli inizi del secolo XIV, “Studia Picena”, a. 24, 1956, p.
141.
[9] G. Nicolai, Vita storica di San Giacomo della Marca dei
minori protettore della città e diocesi di Napoli, cit., p. 90.
[10] Cfr. Francesco Lombardi, Misticismo e utopia nei Fraticelli
marchigiani, in Il mondo delle
passioni nell’immaginario utopico. Giornate di studio sull’utopia, Macerata,
26-27 maggio 1995, a cura di Bruna Consarelli e Nicola Di Penta, Milano,
Giuffrè, 1997, p. 155-173.
[11] Felice Tocco, I Fraticelli, “Archivio storico
italiano”, a. 35, n. 238, 1905, p. 331.
[12] Cfr.: Corrado Mornese, Eresia dolciniana e resistenza montanara,
Roma, DeriveApprodi, 2002; Tavo Burat, Fra
Dolcino e Margherita: tra messianesimo egualitario e resistenza montanara, [S.l.],
Tabor, 2013.
[13] La lettera di Clareno è
riportata in F. Tocco, I Fraticelli,
cit., p. 342.
[14] Cfr. Anonimo fiorentino, Storia di fra’ Michele minorita, a cura
di Emanuele Trevi, Roma, Salerno, 1991.
[15] Cfr.: Arnaldo Sancricca, I “Fratres” di Angelo Clareno, Macerata,
Simple, 2015, p. 93-120; Mariano D’Alatri, L’inquisizione
francescana nell’Italia centrale del Duecento, con il testo del Liber
inquisitionis di Orvieto trascritto da Egidio Bonanno, Roma, Istituto storico
dei Cappuccini, 1996.
[16] Cfr. Umberto Picciafuoco,
I Fraticelli nel centro Marche e in
particolare a Cupra Montana, in I
Fraticelli: santi o eretici? Atti del convegno, Cupra Montana, 3 ottobre 1997,
a cura di Riccardo Ceccarelli, Cupra Montana, [s.n.], 1998, p. 57.
[17] Cfr. Giovanni Annibaldi, L’azione repressiva di Martino V contro i
ribelli di Jesi ed i Fraticelli di Maiolati, Massaccio e Mergo, “Picenum
Seraphicum”, a. 11, 1974, p. 410-411.
In questo scritto gli anarchici di una zona rurale degli Stati Uniti descrivono come le persone che vivono fuori dai grandi centri urbani hanno contribuito al movimento contro la violenza della polizia e contro la supremazia bianca istituzionale, sorto a Minneapolis ed estesosi al resto del paese in risposta all’assassinio di George Floyd. Gli autori di questa lettera sono anarchici e anarchiche che vivono nelle zone periferiche del Pacifico nordoccidentale, in mezzo a una maggioranza bianca e traboccante di suprematismo. Questo contesto differisce da altre aree rurali statunitensi: autori e autrici parlano solo della propria esperienza, senza volersi fare portavoce di altre comunità. Lo scritto, per motivi di sicurezza legati al fatto di vivere in piccoli contesti, esce in forma anonima, senza nomi né indicazione di luoghi specifici.
Ci svegliamo, ci
giriamo nel letto e prendiamo il telefono. Che notizie di ieri sera? Quali
informazioni, quale controinformazione? Ci sono stati sviluppi splendidamente
belli o impensabilmente tragici? Quali messaggi pieni di agitazione o di
euforia di amici e compagni? Immagini e parole non si distinguono più – ce ne
sono tante, tutte in una volta. Il 25 maggio, la polizia di Minneapolis ha
assassinato George Floyd, una delle innumerevoli vittime di un sanguinoso
retaggio di violenza razzista della polizia. Questa nazione è stata costruita
su terre depredate, genocidi indigeni, schiavitù nera, sfruttamento e
oppressione di tutte le persone di colore e sappiamo che quest’impero non
cederà il potere di sua spontanea volontà. Tuttavia, nel dolore e nella rabbia,
le persone in tutto il Paese si stanno sollevando in difesa delle vite e dei
corpi neri.
A Minneapolis, un
commissariato di polizia è stato occupato e dato alle fiamme. Ovunque vetrine
distrutte, merci espropriate e condivise. La Guardia nazionale, l’esercito
stesso, è stata chiamata per reprimere i disordini. I manifestanti stanno
morendo per la strada – fino ad ora solo una manciata di anime coraggiose e belle
se n’è andata ma temiamo che altre seguiranno. I nazionalisti bianchi stanno
cercando di cogliere l’attimo per realizzare i propri sogni di guerra razziale.
I liberali fanno gli straordinari per indebolire il movimento nelle strade.
Sappiamo che qualsiasi cambiamento radicale richiederà la distruzione
dell’intero sistema razzista e capitalista, e intorno a noi vediamo una nazione
sull’orlo dell’insurrezione e delle possibilità rivoluzionarie. Iniziamo a
vedere uno spiraglio che si apre, verso la libertà, ma ciò sarà possibile solo
se ci saranno abbastanza persone pronte a lottare al nostro fianco. Le città
sono in fiamme per la liberazione dei neri.
Ma che dire di noi, attivisti sperduti, nascosti tra le colline, nelle pianure e nei boschi? Non ci troviamo lì, al centro di questo movimento, almeno non quanto vorremmo. Siamo anarchici e anarchiche rurali, fisicamente lontani dalla metropoli. Abitiamo in questi luoghi più selvaggi perché ci offrono spazio per pensare, un ritmo più lento della vita, una connessione con la Terra – spazio per progetti autonomi e idee per espandersi e crescere fisicamente, come una felce che si dispiega, fuori dalla costante sorveglianza di sbirri, vicini, politici. Sarebbe facile impegnarsi in questa rivolta come osservatori o, forse, come consumatori. Controlliamo le notizie mentre ci occupiamo del fienile, della fattoria, mentre ripariamo il camion. Ci teniamo aggiornati mentre ci prendiamo cura del bestiame e delle creature selvatiche. Inviamo un messaggio a un amico – “Hai visto che è successo?!” – mentre ci occupiamo del frutteto, cacciamo i topi dalla tettoia di legno, controlliamo i pannelli solari, spazziamo via la merda. La vita rurale ha ritmi e routine incessanti. Vivendo a una certa distanza fisica dalle città, è facile sviluppare anche una distanza emotiva. Ma questo momento è troppo importante, troppo urgente per far finta di nulla.
Non viviamo in
città, ma sappiamo di essere collegati a essa. Dove viviamo, l’onnipresente
controllo della polizia viene sostituito dall’altro braccio del controllo dello
Stato razzista: suprematisti bianchi, nazionalisti bianchi e le milizie loro
associate. La maggior parte dei poliziotti delle piccole città e degli sceriffi
della contea sostengono questi gruppi, o in maniera esplicita o comunque per
affiliazione. Nelle zone rurali non è necessario un distintivo per terrorizzare
i cittadini neri e latini – bastano una pistola e una bandiera americana.
Anche se le riforme
o i tagli alla polizia (o, vogliamo sognare, la sua abolizione) attecchiscono nelle
città, qui la supremazia bianca si palesa su ogni camioncino con la
decalcomania Blue Lives Matter (Le vite dei poliziotti contano) e un fucile sul
sedile del passeggero. Le richieste di Trump di resistere alla lotta antirazzista
e antifascista non fanno che aumentare il pericolo per i BIPOC (Black, Indigenous,
People of Color – Persone nere, indigene e di colore) rurali, per le persone
visibilmente queer e trans, per antifascisti e antifasciste, e per tutte quelle
persone ritenute “altre”.
Quindi, cosa possiamo fare adesso, in quanto anarchici e radicali che vivono nelle comunità rurali? Come possiamo creare una solidarietà diretta con le zone metropolitane impegnate in una rivolta di massa? Come possiamo mobilitare le nostre comunità perché questa lotta per la liberazione dei neri giunga fino a noi? Ci siamo posti queste domande, sentendole riecheggiare anche sulle labbra di chi ci circonda. Con il mutare della nostra lotta, i nostri bisogni e le nostre strategie divergeranno: le città potrebbero aver bisogno di diventare rovine per essere ricostruite, ma i campi e le foreste non devono bruciare nel processo di trasformazione verso un mondo giusto e libero. Siamo tutti uniti, perché il nostro progetto è lo stesso: stiamo costruendo un mondo nuovo, erediteremo la Terra. E, come tutti in questo momento, ci chiediamo cosa fare, come collocarci in questo selvaggio e spaventoso momento di disordini e possibilità.
Vorremmo condividere
alcune idee che potrebbero essere utili per altri/e radicali rurali che stanno
cercando di partecipare a questo importante momento. Stiamo incespicando verso
il futuro in modo imperfetto; ci sono tante risposte quanti sono gli individui,
i progetti e i contesti. Ma il punto cruciale è questo: non dormirci sopra. Non
possiamo lasciar perdere ciò che sta accadendo solo perché siamo a ore di
distanza dalla rivolta più vicina. Riconosciamo che non esiste un “consenso
all’interno della comunità nera”, ma identifichiamo i radicali neri con i quali
condividiamo affinità – da un punto di vista storico, attuale e locale – e ne
seguiamo l’esempio. Dobbiamo trovare i nostri punti di connessione, unirci e
metterci al lavoro. Lo spiraglio diventerà un varco solo se continueremo a
spingere tutti insieme.
Offriamo sostegno e solidarietà nelle nostre comunità locali. La “comunità” è una serie di cerchi concentrici e sovrapposti di connessione e affinità. Offriamo spontaneamente e generosamente cura e solidarietà alle famiglie che abbiamo scelto e a quelle biologiche, ai nostri compagni e alle nostre compagne, di casa e di terra, ad amici e amiche, a vicini e vicine. Doniamo il nostro tempo e il nostro lavoro affinché altri progetti possano nascere, crescere e migliorare. Concentriamoci sulle esigenze degli afroamericani e degli indigeni delle nostre comunità. Ascoltiamo le voci di compagni e compagne neri/e e sosteniamo l’organizzazione da loro guidata.
Mobilitiamoci (anche) da casa. Cos’è giusto fare qui? Cosa è possibile? Andiamo con i piedi di piombo nell’importare direttamente le tattiche delle grandi città in quelle piccole. Pensiamo in modo strategico e impegniamoci in atti creativi, selvaggi e fantasiosi, favorendo le relazioni, con l’arte della guerriglia, il sabotaggio, ’organizzazione, la raccolta di fondi e d’informazioni, il mutuo soccorso. Parliamo con le nostre comunità bianche e non-nere di ciò che sta accadendo, in particolare con coloro che potrebbero pensarla diversamente da noi. Ascoltiamo ciò che le persone dicono e rispondiamo alle loro domande. Presentiamoci carichi d’entusiasmo alle dimostrazioni locali, perché sappiamo che reggere i cartelli di cartone all’angolo è una tappa importante per questa città.
Offriamo i nostri spazi rurali per il riposo e il
recupero per coloro che hanno
bisogno di staccare da ambienti stressanti o traumatizzanti. Siamo chiari sia
su ciò che possiamo o non possiamo offrire (pasti, letti, uso di spazi comuni,
acqua corrente) sia su altre considerazioni: il progetto di casa o di terra è
composto unicamente da residenti bianchi/e? La cittadina è sicura per le
persone di colore? Che dire di chi è visibilmente queer o trans o che appartiene
a un’altra categoria emarginata?
Identifichiamo i nostri nemici locali. Molti suprematisti bianchi vivono qui, in
mezzo al nulla. Individuiamoli e impariamo a conoscere le loro reti e le loro
capacità. Usiamo queste informazioni tatticamente per contrastare le loro
iniziative. Stiamo attenti a salvaguardare le nostre identità e a rimanere anonimi/e
perché un nemico ben armato non è qualcosa con cui scherzare, soprattutto quando
tutti in città conoscono il tuo viso e il luogo in cui abiti.
Ci armiamo e ci alleniamo a vicenda. La destra razzista è pesantemente armata. Compriamo armi e impariamo a sparare. Creiamo dei poligoni per condividere e sviluppare le nostre capacità.
Diamo soldi come riusciamo. Facciamo donazioni per fondi di cauzione, doniamo per acquistare
materiale per dimostrazioni, doniamo ad afroamericani/e e alle organizzazioni
guidate da loro. Doniamo il più generosamente possibile, soprattutto se
beneficiamo del privilegio bianco o di quello di classe, se stiamo ancora
ricevendo uno stipendio o se riceviamo un extra per la disoccupazione legata al
Covid.
Forniamo supporto tecnico. Potremmo anche vivere in una caverna ma alcuni/e di noi hanno internet e
linee telefoniche. Aiutiamo con la grafica e il web design. Ascoltiamo le
frequenze radio della polizia e inviamo aggiornamenti ai compagni e alle
compagne sul campo. In questo caso, non ha importanza dove ci troviamo.
Identifichiamo risorse e linee di approvvigionamento e distribuiamo le eccedenze. Quali risorse possiamo condividere? Come possono essere dirette a livello locale e verso le città in rivolta? Esistono prodotti CSA (Community Supported Agriculture: agricoltura sostenuta dalla comunità locale) che possono essere distribuiti gratuitamente alle famiglie BIPOC? Un erborista può creare pacchetti di cure mediche da inviare al fronte? I negozianti di attività rurali potrebbero avere in stock prodotti che sono esauriti nelle grandi città. Sono anche meno propensi a tenere sotto chiave le bombolette spray e i tronchesi, e possono essere meno sospettosi nei confronti di chi acquista vestiti neri supplementari, ombrelli e altri oggetti che potrebbero destare sospetti in una città.
Andiamo in città quando possiamo. È un lungo viaggio ma proviamo ad andarci. Andiamo a manifestare e fare rumore. Distribuiamo maschere, mettiamoci tra la polizia e i più vulnerabili, accorriamo come medici di strada e, sì, distruggiamo persino le vetrine. Seguiamo la folla, prestiamo attenzione a ciò che ci circonda, osserviamo attentamente chi chiama a un’escalation delle azioni o a una riduzione d’intensità. Partecipiamo alla lotta in questo modo perché sappiamo che lo Stato non reagisce se non di fronte a una minaccia e che centinaia o migliaia di persone nelle strade non possono essere ignorate a lungo.
Cerchiamo di
contribuire in tutti questi modi e innumerevoli altri, perché sappiamo che una
lotta fantasiosa, militante e responsabile per la liberazione dei neri deve
essere centrale nella lotta per il mondo che intendiamo costruire insieme.
Piccole città e zone rurali devono insorgere a fianco delle metropoli e le
nostre comunità rurali devono collegarsi tra loro per condividere sostegno,
risorse, idee e competenze. Il fronte rurale non rifletterà direttamente gli stessi
movimenti, gli stessi orrori e le stesse trasformazioni della città. Abbiamo le
nostre peculiarità, strategie, demoni e possibilità. Dobbiamo coinvolgere le nostre
diverse abilità e forze, trovando i modi per attivarle. Dobbiamo lavorare
diligentemente per degli obiettivi, con cura. Sappiamo che il cammino sarà
lungo e che, strada facendo, impareremo e faremo degli errori.
La liberazione dei neri è la liberazione umana. Diamoci dentro, farabutti/e!