L’aria è cominciata a diventare pesante (#2)

L’aria è cominciata a diventare pesante
Di Gegè

È noto come quei presupposti sui quali le cooperative sono nate, mutualità, solidarietà e controllo democratico, ormai da tempo siano stati smarriti e soppiantati dalla meschina cultura imprenditoriale che le rende in tutto simili a una qualunque impresa privata. Sempre più spesso i soci lavoratori devono lottare se vogliono strappare anche i più elementari diritti. Uno stimolante dibattito su “Cooperative vere e false: nuova frontiera dello sfruttamento e dei diritti negati” si è svolto in occasione della festa nazionale USI-AIT che quest’anno si è tenuta a Fano dal 4 al 6 settembre 2015, organizzata da compagni e compagne dell’USI Marche e ospitata dallo Spazio sociale autogestito Grizzly. Riportiamo qui la testimonianza diretta, una volta tanto relativa ad una lotta vincente, di un compagno socio lavoratore di una cooperativa sociale del fermano.

Almanach du Père Peinard 1899
Almanach du Père Peinard 1899

 

“La situazione economica di chi lavora nelle cooperative non si differenzia in alcun modo dai lavoratori impiegati nelle imprese private dove, però, l’operaio può ricorrere alla lotta e allo sciopero per reclamare più salario o rivendicare più diritti per le condizioni di lavoro. Ben altro stato di fatto nelle cooperative, dove gli operai debbono subire la mercede fissata, anche se infima, senza poter reclamare ed ottenere un trattamento migliore poiché la cooperativa non avrebbe la possibilità di soddisfare alle richieste dei propri soci, operai-padroni. Si credeva che la cooperazione avrebbe soppresso lo sfruttamento dell’appaltatore, ma questo riappare sotto altre spoglie. I grossi direttori di cooperative, che intascano le quindici, le venti, le trenta lire giornaliere (un operaio percepisce tre lire, due e cinquanta e non di rado anche una lira e cinquanta al giorno) fra stipendi, indennità, percentuali, diarie, ecc., non guadagnano meno di certi imprenditori contro i quali spesso si sono appuntati gli strali dei lavoratori sfruttati”.
Alibrando Giovannetti, sindacalista USI, 1915

Almanach du Père Peinard 1896
Almanach du Père Peinard 1896

 

Voglio raccontare l’esperienza portata avanti nella cooperativa sociale in cui lavoro e di cui sono socio, per dimostrare che le lotte si possono anche vincere. La cooperativa, attiva in provincia di Fermo, con circa 250 soci lavoratori gestisce servizi socio educativi e socio sanitari, oltre che formazione e progettazione.

Circa due anni fa a causa della crisi economica e delle speculazioni che nel nome di questa hanno preso vigore, la mia cooperativa ha iniziato a corrispondere le retribuzioni mensili con consistenti ritardi. Svariate sono state le lettere di richiamo e le riunioni con la dirigenza ma il problema era ed è quello di molte realtà: la mancanza di liquidità e i ritardi da parte della committenza nel pagamento delle fatture. Il CDA ha così deciso di affidarsi a un esperto che ha avuto la brillante (e fallimentare) intuizione di progettare un piano di ricapitalizzazione per innalzare il valore del patrimonio della cooperativa, da mettere a garanzia con le banche per l’anticipo di denaro contante con cui pagare gli stipendi. Ovviamente a pagare sono sempre i soliti noti e così molti di noi hanno sottoscritto un finanziamento tra i 1.200 e i 2.000 euro da pagare in “comodissime detrazioni dalla busta”. Peccato che nel piano di rientro avessero previsto di raccogliere 180.000 euro e invece ne hanno incassati solo 60.000: quota che non ha nessun valore ai fini del tentativo di innalzare il patrimonio a garanzia. Il risultato è che i lavoratori non solo hanno continuato a prendere gli stipendi in ritardo, ma tutt’ora si vedono detrarre mensilmente la somma per il pagamento del finanziamento.

L’aria è cominciata a diventare pesante e, per timore di azioni sindacali, l’amministrazione ha ben pensato di inserire all’ordine del giorno dell’assemblea dei soci ordinaria dello scorso ottobre l’approvazione di un regolamento interno (ai sensi dell’articolo 6 della legge 3 aprile 2001 n. 142) dal contenuto a dir poco scandaloso. Il regolamento comprendeva articoli contrari al contratto nazionale, come ad esempio l’ipotesi per cui la corresponsione dello stipendio mensile era “vincolato alla disponibilità economica della cooperativa” e che la stessa avrebbe potuto pagare acconti di stipendio anche con ritardi di tre mesi, stabilendo una graduatoria tra i soci a seconda dei crediti da questi maturati. Ulteriori questioni non secondarie riguardavano l’utilizzo di lavoro gratuito volontario obbligatorio, la gratuità delle ore di formazione e tanto altro.

In sede di assemblea, una volta conosciuto il contenuto di quello che loro descrivevano come una pallosa formalità, io e altri colleghi abbiamo bloccato il voto e abbiamo chiesto di indire un’altra assemblea dei soci in cui noi stessi avremmo presentato una diversa bozza di regolamento e avremmo chiesto di mettere a voto contemporaneamente le due versioni. Intanto faccio pubblicamente presente ai soci i motivi per cui andava fermato il regolamento proposto dal CDA. Il primo è il rifiuto totale per l’ipotesi di una contrattazione di secondo livello in deroga ai più elementari diritti sindacali, che dimostra anche l’irresponsabilità del CDA in quanto un accordo del genere sarebbe di certo stato impugnato generando ciò che loro tentavano di scongiurare (le azioni sindacali); il secondo motivo era rappresentato dalla dinamica dirigenza/lavoratori che è qualcosa che dovrebbe essere distante dal concetto di cooperazione. Accuso quindi il CDA di aver adottato scrupolosamente il metodo Marchionne in un contesto dove discorsi di questo tipo non dovrebbero assolutamente trovare spazio e rilancio pretendendo che la situazione venisse affrontata attraverso l’adozione di dinamiche mutualistiche e di solidarietà tra i lavoratori e non con lo schifo che ci stavano somministrando. Infine, propongo di costituire un fondo di solidarietà che supporti i lavoratori in difficoltà e che possa essere usato anche come anticipo stipendi.

Almanach du Père Peinard 1897
Almanach du Père Peinard 1897

 

Lavoriamo per altri due mesi circa e ci presentiamo alla partecipatissima assemblea straordinaria con un nuovo regolamento in cui non solo vengono cassate tutte le offese ai lavoratori, ma vengono messi al centro gli aspetti peculiari del cooperativismo e dell’azione diretta e partecipativa che esso dovrebbe rappresentare, aggiungendo a integrazione dell’articolo sulla crisi aziendale la prescrizione per cui entro due mesi i lavoratori avrebbero costituito un fondo di solidarietà in cui sarebbero stati convogliati i soldi della mancata ricapitalizzazione fermi ad ammuffire in un conto di Banca Etica.

L’assemblea è stata qualcosa di esaltante: articolo dopo articolo i soci votavano contro la bozza dei padroni, fino all’approvazione totale del nostro regolamento. Il fondo di solidarietà ha quindi un regolamento e, soprattutto, ha come base i 60.000 euro amaramente ceduti dai nostri padroni. Ora toccherà ai soci iscriversi al fondo e donare ore lavoro, ferie, permessi ai lavoratori in difficoltà. Nello specifico, il fondo è costituito da tre diverse misure: il fondo per l’anticipo sugli stipendi in caso di ritardo e per altre necessità; la banca ore lavoro per i lavoratori a cui è stato ridotto l’orario o come cuscinetto in caso di attivazione della cassa integrazione e la banca ferie e permessi donati dai lavoratori ad altri lavoratori che ne abbiano bisogno; il fondo per l’acquisto di libri di testo e cancelleria per i figli dei soci in difficoltà.

Il percorso che abbiamo intrapreso come soci lavoratori è incentrato sul tema del cooperativismo originario e sulla funzione centrale che ha l’assemblea nella scelta delle strategie e delle visioni future: questa secondo me è l’unica strada possibile per resistere alla crisi prendendosi la responsabilità di un bene collettivo. Alla crisi, infatti, si resiste con una propensione al mutuo aiuto e non con tagli e licenziamenti. Un vero cooperativismo dev’essere all’insegna della solidarietà attiva e questo è quello che cerchiamo di fare con l’istituzione di fondi di solidarietà e bloccando in assemblea qualunque deroga sui contratti. Confrontandomi con altri compagni che già avevano affrontato situazioni identiche in giro per l’Italia e che hanno visto realizzato ciò che noi con fatica abbiamo respinto, ho sentito il bisogno di sintetizzare la nostra esperienza positiva, sperando che possa servire ad altri per non arretrare di un passo su ciò che faticosamente in anni e anni di lotte abbiamo conquistato e per rilanciare l’azione diretta all’interno dei nostri posti di lavoro.

 

Almanach du Père Peinard 1898
Almanach du Père Peinard 1898

Un’eretica del nostro tempo. Joyce Lussu in sette pannelli (#2)

Un’eretica del nostro tempo. Joyce Lussu in sette pannelli
Di Pamela

Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l’ho ancora detto.
Nazim Hikmet

La luna si è rotta. Sono stati i pensieri delle donne liberate ad urtarne la sferica semplicità e a frantumarla, in cinque pezzi. Cinque come i lembi di terra di cui è composta la nostra povera e ormai esausta madre terra. Cinque come gli anni di quella bambina scalza, seduta su una vecchia sedia, la cui immagine apre la mostra in questione, ideata e curata dall’Archivio-Biblioteca E. Travaglini e dal collettivo Anarchici/che Valcesano.

Partigiana, traduttrice, scrittrice e divulgatrice, antifascista, femminista, poetessa, antimilitarista, attivista politica e anticlericale. Questi alcuni degli aggettivi che possono aiutare nel definire una figura tanto eclettica e all’avanguardia. Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, alias Joyce Lussu, è stata un laboratorio vivente di idee che ha cercato di comunicare alle generazioni a venire, insieme a quello spirito critico e libero che l’ha contraddistinta più di ogni altra cosa.

È ricordandola così che, mentre il 2012 stava volgendo al termine, nelle stanze annose e ricolme di libri dell’Archivio-Biblioteca Enrico Travaglini di Fano, è nata l’idea di dedicare una piccola mostra a questa grande donna alla quale, oltre al pensiero, ci accomuna l’origine marchigiana. Proprio nel 2012 Joyce avrebbe compiuto cento anni, ma c’era un’ulteriore motivazione che ci spingeva a ricordarla: i suoi numerosi interventi ai Meeting Anticlericali, appuntamenti libertari che hanno animato le estati fanesi dal 1984 al 1998.

Spint* da un entusiasmo in parte mutuato dalla figura che andavamo definendo, abbiamo autoprodotto la nostra mostra, composta di sette pannelli in forex, delle dimensioni di 70x100cm. Una volta terminato il lavoro, sono iniziate le esposizioni itineranti.

Jesi, Firenze, Fermo. E poi il Fuorisalone libertario, rassegna che avrebbe dovuto svolgersi nella città che a quella mostra aveva dato i natali, Fano. L’esposizione dei sette pannelli avrebbe dovuto accompagnare la presentazione del libro Joyce Lussu. Un’eretica del nostro tempo, edito da Gwynplaine in occasione dei cento anni dalla nascita della pensatrice marchigiana. Ma proprio Fano, o meglio la sua amministrazione comunale, ha deciso che quel 6 settembre 2013 non si poteva ricordare Joyce all’interno della Rocca Malatestiana, il cui giardino l’aveva accolta così tante volte quando era in vita.

La mostra, che è stata comunque esposta alcune settimane più tardi presso l’Infoshop di Fano, è ora in attesa di riprendere il suo vagabondaggio. Nel frattempo la pubblichiamo su queste pagine.

[Recensione]. Ai nostri amici (#2)

Ai nostri amici
Di Miranda

Recensione a: Comitato Invisibile, Ai nostri amici, Parigi, La Fabrique, 2014. Tradotto e pubblicato in Italia a luglio 2015, autoproduzione.

Comitato Invisibile, Ai nostri amici
Comitato Invisibile, Ai nostri amici

L’estate scorsa quando ho saputo che il Comitato Invisibile avrebbe pubblicato un nuovo libro sono saltato dalla sedia, era ora. Erano passati sette anni dall’uscita de “L’insurrezione che viene”, un breve trattato di politica radicale che aveva scosso la Francia. Era il seguito di “Appel” uno squisito libretto di fuoco etichettato dalla stampa forcaiola come la bibbia dei black bloc. I presunti autori erano stati arrestati nel novembre 2009, accusati di una serie di sabotaggi alla rete dei TGV francesi e di aver formato una associazione a delinquere. La loro storia aveva sollevato in Francia e non solo un forte movimento di solidarietà. Il libro era stato pubblicato in Italia dalle edizioni Porfido ma l’attenzione nel nostro paese fu scarsa, il dibattito era piuttosto bloccato e stanco, eccezione fatta per la polizia politica che ne fece un feticcio, una figurina rara, da ricercare in occasione di perquisizioni ed arresti. Pochi anni dopo, nel 2011, sembrava che una nuova ondata di lotte suscitate anche dalla crisi economica avrebbe riaperto le danze della liberazione sociale. Qualcosa infatti è successo, le insurrezioni sono arrivate, ma la rivoluzione è ancora un po’ in ritardo, si potrebbe dire parafrasando il primo capitolo del libro. “Ai nostri amici” è nato da una riflessione collettiva, che ha coinvolto centinaia di persone in tutto il mondo, sullo stato delle rivolte contro il potere neoliberale ai quattro angoli del pianeta. Oltre alle argomentazioni politiche ricche e radicali degli autori ed autrici, il libro è anche una traccia, la testimonianza di una generazione di ribelli che ha provato di tutto per costruire una pratica rivoluzionaria e non si è arresa. Questi non sono tempi facili, si sono sgretolate certezze ideologiche ed organizzazioni militanti, e lo spirito del tempo non è dei migliori ci dicono gli autori. Incombe infatti una ariaccia triste di catastrofe che “Ai nostri amici” affronta senza rimanere paralizzato dallo sguardo della medusa della “sfiga” e del potere. Ci vuole coraggio anche per poter sognare. Ci vuole conoscenza dettagliata del funzionamento dei dispositivi di dominazione per immaginare un sabotaggio efficace. Ci vuole conoscenza dei punti deboli dell’economia e della logistica per immaginare una buona vita. Questa lettura offre un respiro ampio, articolato e ricco di idee ed immagini che restituiscono la ricchezza di una esperienza di azione politica radicale che ha il mondo come orizzonte ma tante basi in luoghi concreti. È una lettura che mette in discussione certezze, che non dà soluzioni ma stimoli forti.

“Il compito rivoluzionario è divenuto parzialmente un compito di traduzione. Non esiste un esperanto della rivolta. Non sta ai ribelli imparare a parlare l’anarchico, ma agli anarchici divenire poliglotti”.

I nostri amici raccontano che hanno iniziato. C’è posto per tutti e tutte.

Pensare attaccare costruire. Fucina 62, Roma, 22 settembre 2015
Pensare attaccare costruire. Fucina 62, Roma, 22 settembre 2015

 

Calendario incontri, recensioni, testo scaricabile e altro:
https://ainostriamici.noblogs.org

 

Schegge di antifascismo militante (#2)

Schegge di antifascismo militante
Di Valerio

“Le forze per impedire il tentativo di rinascita del fascismo esistono purché agiscano e facciano sentire il loro peso. Non è sufficiente dire che la storia non si ripete. È vero, non si ripete mai nelle stesse forme, negli stessi modi, ma se si lasciasse fare e non si lottasse con la giustezza e la decisione necessarie, mirando a precisi obiettivi, potrebbe ripetersi anche in peggio”.
Pietro Secchia

Pesaro, 1975 circa
Pesaro, 1975 circa

 

Per noi che avevamo conosciuto i partigiani che operavano nella nostra zona, avevamo udito dalle loro voci i racconti della guerra ai nazifascisti, percorso le valli e i sentieri dove operavano le brigate leggendarie (la quinta Garibaldi e la Lugli), attraversato i luoghi delle grandi battaglie di Valpiano, Vilano e Monte dei Sospiri, per noi giovani comunisti, l’antifascismo non fu soltanto un valore ideale, fu anche un modello organizzativo.

In Italia, dopo la strage di piazza Fontana, vi furono anni di bombe e tentativi di colpi di stato a ripetizione. Per contrastare quella strategia, il Partito comunista mobilitò tutto il suo apparato, legale e non. Anche noi, seppur giovanissimi, collaborammo con l’apparato illegale del partito. Allora, nessuno immaginava che quell’esperienza avrebbe segnato in modo indelebile il nostro agire. Prima che il partito ci epurasse per estremismo e nell’attesa dell’arrivo dei carri armati, avevamo creato una sorta di struttura clandestina. Niente di straordinario per dei ragazzi di sedici anni: avevamo attrezzato la cantina della nonna di una nostra compagna che viveva altrove con una macchina per scrivere, un ciclostile, una cassetta per le medicazioni, lo schedario con le foto e le informazioni sui fascisti nostrani, le forze dell’ordine e le varie catene di comando. Infine vi avevamo nascosto l’immancabile piede di porco con cui regolarmente, quasi ogni notte, smontavamo la bacheca del Fronte della gioventù.

In quegli anni bui, si diceva che le Marche sotto il profilo dello squadrismo fascista erano tutto sommato una regione tranquilla. Si citavano gli episodi più clamorosi come casi isolati. I fascisti locali erano visti come incapaci di provocazioni di alto livello, perché erano pochi e non sufficientemente militarizzati. La nostra regione del resto, viste le amicizie, coperture e complicità, era spesso usata dai fascisti come retrovia, come un posto sicuro e tranquillo dove trascorrere la latitanza lontano da ricerche e sguardi indiscreti.

In realtà le provocazioni fasciste furono abbastanza numerose. Ad Ascoli, per esempio, nei primi anni ’70 vi fu tutta una serie di attentati al tritolo, vi fu poi l’incendio dell’Università di Urbino nel ’72, in quello stesso anno il ritrovamento di un arsenale Gladio a Camerino e l’anno successivo spedizioni punitive contro sindacalisti e operai di Ancona. Vi fu poi, sempre ad Ancona, l’attentato al plastico firmato Ordine Nero contro gli uffici dell’esattoria comunale, per finire con il ritrovamento nel gennaio 1974 dell’ordigno inesploso che avrebbe dovuto far saltare il treno di pendolari sulla linea Ancona-Pescara. L’imprevisto transito di un treno merci straordinario fece saltare i detonatori che per fortuna non riuscirono a innescare l’esplosione.

Libro inchiesta sul neofascismo marchigiano, 1975
Libro inchiesta sul neofascismo marchigiano, 1975

 

Nella provincia di Pesaro, l’impegno principale dei fascisti locali erano l’organizzazione di campi paramilitari durante l’addestramento estivo della brigata Folgore sul monte Carpegna, oltre alla gestione dell’aeroporto di Fano dove venivano insegnati ai camerati i rudimenti del paracadutismo. Gli episodi di provocazione più rilevanti furono senza dubbio il già ricordato incendio dell’Università di Urbino (anche se non fu mai chiarito se a provocare l’incendio furono i fascisti assediati o i compagni assedianti) e il lancio di un ordigno incendiario all’interno del Circolo ARCI di Fano situato nel seminterrato sotto la sede del PCI, in via De Petrucci 18.

Dal 1975, dopo l’assassino del compagno Claudio Varalli a Milano, l’aria cambiò: l’agibilità politica ai fascisti fu impedita con la “forza”. Gli episodi che più di altri contraddistinsero quel periodo di antifascismo militante furono il tentativo d’impedire il comizio del missino Rubinacci a Pesaro, da cui scaturirono scontri e tafferugli con la polizia e, nella primavera del 1976, l’occupazione di una televisione privata fanese (Tele Fano), quando un pugno di giovani compagni armati di sassi e manici di piccone impedì la registrazione dell’appello elettorale del segretario del MSI locale, che in quell’occasione si era presentato scortato da un gruppo di giovani camerati e dai celerini del battaglione Senigallia. A Fano, dove operava il gruppo di fascisti più numeroso e aggressivo dell’intera provincia, scontri e aggressioni furono numerosi. L’episodio principale rimane l’assalto da parte dei compagni al bar Beaurivage in zona Lido, abituale ritrovo estivo dei fascisti locali i quali, durante una festa studentesca, avevano violentato una giovane ragazza. Dopo quest’ultimo episodio di antifascismo militante, i camerati nostrani sparirono definitivamente dalla scena politica della città…

Oggi per essere antifascisti non basta avere in tasca la tessera dell’ANPI o andare con la memoria al ventennio del secolo scorso. L’orrore del fascismo non furono solo le leggi razziali e l’entrata in guerra come sembra indicare un devastante senso comune. Occorre per esempio avere ben chiaro l’obiettivo delle stragi degli anni ’70 e ’80, la strategia della tensione e la guerra a bassa intensità scatenata allora contro i partiti di sinistra, i sindacati e soprattutto i movimenti. Lo dimostra il filo nero che lega quegli anni ad oggi, ai “fascisti del terzo millennio” che ritroviamo sistematicamente connessi con le reti della criminalità organizzata. Oggi i fascisti sono spesso utilizzati come forza d’urto, lasciata pascolare in pace nel mondo degli affari sporchi, dai quartieri alle curve, utilizzando la leva del razzismo e della xenofobia per la penetrazione e il controllo del territorio.

In una situazione di crisi economica, sociale, morale, politica come quella in corso, la funzione dei fascisti può trovare delle accelerazioni improvvise ma non casuali. Se c’è il vuoto politico e ideologico nella società e il conflitto sociale stenta a delinearsi come fattore di emancipazione, aggregazione e indicazione di alternative, questo vuoto può essere riempito da chi ha più soldi, uomini svelti a menare le mani e slogan semplici ed efficaci. È per questo motivo che occorre, soprattutto oggi, concentrare l’intervento politico sul territorio, nelle scuole, nei quartieri, nelle pieghe più incattivite dell’esclusione sociale. Questo vuoto è uno spazio che deve assolutamente essere riempito dall’antagonismo sociale, per sottrarlo ai fascisti e trasformarlo in un progetto di emancipazione.

Sempre karo mi fu quest’ermo kolle! Dialogo aperto con alcuni/e artisti/e che vivono e lavorano nelle Marche (#2)

Sempre karo mi fu quest’ermo kolle!
Dialogo aperto con alcuni/e artisti/e che vivono e lavorano nelle Marche
Intervista di Vittorio con Alessio Ballerini, Giacomo Giovannetti, Fabrizio Carotti, Silvia Barchiesi, Federico Bomba

Giacomo Giovannetti - Senza titolo, novembre 2015
Giacomo Giovannetti – Senza titolo, novembre 2015

 

A partire dalla finestra aperta nello scorso numero con le immagini prodotte da Giacomo Giovannetti di Senigallia torniamo a parlare di arte contemporanea nelle Marche. A novembre 2015 abbiamo realizzato un’intervista collettiva ad un gruppo di artisti che hanno avviato delle collaborazioni grazie a Sineglossa Creative Ground, responsabile dell’agenzia Jes! di Jesi. Emergono le potenzialità ed i limiti della creazione artistica in un contesto provinciale come quello marchigiano, il rapporto con le istituzioni e con il mercato, la difficoltà ma anche il desiderio di connettersi con la società. E di cambiarla. Gli artisti intervistati sono fortemente orientati a innovare il lavoro creativo inteso come forma di professionalità e si trovano a dover fare i conti con le forze del mercato, il mondo imprenditoriale e la dipendenza dai fondi pubblici che impongono spesso i canoni estetici dominanti. Il rapporto con le lotte sociali e con gli spazi autogestiti è purtroppo debole ed episodico. Sicuramente la contaminazione culturale e la capacità di decostruire gli immaginari commerciali e mercificati che dominano il linguaggio anche nella comunicazione elettronica possono dare maggiore forza alle lotte sociali e ambientali. Serve infatti uno sforzo maggiore da parte di tutti e tutte, per rompere le vetrine della società dello spettacolo che ci impediscono di godere a pieno della bellezza anche in mezzo alla catastrofe del presente.

 

Raccontatemi il vostro lavoro a partire dal progetto “Bioculture” del 2014 che vi ha fatto conoscere.

 Alessio: Per Bioculture ho sviluppato un progetto che rispecchia il lavoro che faccio attualmente e che ho fatto anche in passato. Il mio lavoro si basa sul suono, tra sound art e sound design. Nel progetto Bioculture ho camminato insieme ad altri cinque artisti per 250 km ed ho registrato i suoni che ho incontrato lungo il percorso. Ho presentato un progetto la cui idea era quella di registrare i suoni della produzione del vino perché la promozione del prodotto biologico locale faceva parte degli obiettivi di chi ci ha finanziato. Ho pensato di registrare i suoni dei viticoltori e della produzione del vino, delle macchine ed anche della natura circostante ma non solo. Non ho registrato solo i suoni delle meccaniche e della natura ma anche quello che avevano da dire le persone che ho incontrato come i viticoltori ma non solo.

Foto di Fabrizio Carotti
Foto di Fabrizio Carotti

 

A questo tipo di progetto come ci sei arrivato?

Ho fondato una associazione che si chiama Archivio Italiano Paesaggi Sonori nata per valorizzare il paesaggio sonoro e per sostenere l’arte contemporanea e mix-media connessi al suono. L’associazione è nata a Roma insieme a Francesco Giannico, musicista che lavora con il paesaggio sonoro. Questa pratica nasce in Canada. Il progetto si chiama World Soundscape Project ed è stato avviato negli anni ’70. L’ecologia acustica è una parte importante del nostro lavoro, noi ci occupiamo del lato artistico piuttosto che scientifico. Creiamo musica non solo con strumenti tradizionali ma anche con le registrazioni che derivano dal paesaggio sonoro. E qui mi ricollego a Bioculture per cui l’obiettivo era creare delle soundscape composition, delle composizioni musicali dove oltre alle note ci sono anche registrazioni del paesaggio sonoro. Ho creato un album musicale con le registrazioni che ho fatto durante questa insolita residenza artistica.

Foto di Fabrizio Carotti
Foto di Fabrizio Carotti

 

Quando parli di paesaggio sonoro mi viene da fare un paragone con il paesaggio fisico: un paesaggio rovinato dallo sviluppo urbano che spesso deturpa il paesaggio delle campagne come dei luoghi già urbanizzati. Questo si nota a livello sonoro? Si può fare un parallelo tra la trasformazione del paesaggio visivo e la trasformazione del paesaggio sonoro?

Questa cosa non l’ho riscontrata nella camminata che si è svolta in un’area quasi incontaminata dove non c’era inquinamento acustico. Però questa relazione con il visivo esiste. Se vai a Roma o a Firenze, a Piazzale Michelangelo o al Pincio dove a livello visivo riesci a percepire tutti gli strati da decine di metri fino a due chilometri di distanza, a livello sonoro questa cosa non succede più perché hai il bordone del traffico che occlude tutto. Pensa cosa succedeva due secoli fa quando non c’era il traffico: riuscivi a sentire i rumori a chilometri di distanza. Perciò è vero che oggi è cambiato moltissimo l’aspetto uditivo rispetto a quello visivo. Ho realizzato progetti in tutta Italia e non solo, in città ed in ambiti anche rurali e quello che posso dire è che gli ambienti cittadini si assomigliano perché ci sono il traffico e tutto l’inquinamento sonoro urbano. Le città si assomigliano da questo punto di vista. Diventano interessanti quando cominci a riconoscere degli elementi che sono peculiari di un paesaggio. Ancona è una città abbastanza particolare perché c’è il porto, c’è il mare, i treni e le navi sono vicini e questo arricchisce il soundscape. Senti le sirene delle navi, il passaggio del treno e li senti vicini, in altre città non li senti, insomma non c’è solo il traffico che appiattisce tutto.

 

Adesso che paesaggi stai ascoltando?

Attualmente la mia ricerca è fortemente connessa al visivo. Mi occupo anche di video arte, e quindi tendo a voler sviluppare dei prodotti audiovisivi dove il suono è una componente molto forte. Il suono da solo è una cosa, il video da solo è una cosa, insieme creano l’audiovisivo che è un altro prodotto.

Nei tuoi panni - Foto di Flavia Eleonora Tullio
Nei tuoi panni – Foto di Flavia Eleonora Tullio

 

Come ti mantieni nella tua attività? Perché vivi e lavori basato nelle Marche?

Lavoro sia da solo come freelance che con l’associazione. Non faccio solo il sound designer e film-maker, scrivo progetti culturali e cerco di svilupparli. Il mio lavoro è a 360 gradi, suono dal vivo, compongo musiche per spot promozionali, sound-design per video e installazioni. Ho vissuto a Roma e Firenze. Sono tornato perché la realtà lavorativa era disastrosa mentre nelle Marche è migliore. C’è rispetto del lavoro che altrove non ho trovato. Non sto dicendo che qui sia facile sto dicendo che mi trovo meglio. Promesse non mantenute, pagamenti non evasi. Nelle Marche ho trovato più rispetto e contatto umano. Qua almeno il rispetto, il contatto umano li trovi. Pure qua c’è un alone nero però lo vedo molto meno.

Giacomo: Il lavoro che faccio io è un lavoro sull’immaginario. Sono interessato a velocizzare i processi che naturalmente avverrebbero in un’epoca di forte contaminazione. Quindi da un punto di vista poetico artistico quello che cerco di fare ormai da anni è ricucire la frammentazione visiva che sta attorno a noi. Creare una connessione forte tra i vari frammenti di società, tra i vari livelli di cultura e allo stesso tempo creare anche una connessione forte tra le dinamiche globali e la vita affettiva ed emotiva delle singole persone.

 

In questo senso il set di foto che hai pubblicato con l’artigiano del Niger che si chiama Boubacar ha colpito dritto nel segno.

Si perché è un gioco, per me è uno strumento per conoscere la realtà che ci mette di fronte a dei limiti sia emotivi sia di vergogna sociale che di abitudini. L’essenza creativa è quella dello sperimentare che passa anche attraverso il concetto di errore, di passi falsi dove le cose progettate non sono quelle che vengono fuori e con Boubacar avevo provato a vivere nel quotidiano questa sperimentazione del cambio di abito, il tentativo di mutare l’ordine del reale e trovare delle connessioni con lui che con il suo abbigliamento era così lontano da me. Nel lavoro che faccio cerco di sgretolare visivamente la società ed arrivare poco a poco a delle parti più essenziali quindi quello che ci viene detto dei migranti, degli sbarchi, mi fa piacere riportarlo ad un contesto emotivo personale, a un contesto sensoriale. Quello che ho fatto cambiandomi di abiti con Boubacar è stato di mettermi letteralmente nei suoi panni e far mettere lui nei miei. Senza scadere nella retorica politica, farlo veramente poi implica un gioco, comporta una esperienza. Quello che cerco di fare io con le mie immagini è destrutturare la società e allo stesso tempo rimetterla in mano alle persone con i suoi simboli con le sue forme creando nuovi equilibri estetici sicuramente ludici.

 

Il ruolo del creativo e dell’artista in provincia quale è?

 Sicuramente dobbiamo iniziare personalmente su di noi a fare questo lavoro e poi a livello sociale distruggere per ricostruire una nuova immagine di artista. Quello che sta chiuso a casa sua immaginando il mondo, producendo con un mecenate che arriva ogni tanto e tra una boccetta di oppio e un po’ di assenzio trova il tuo quadro e te lo rende importante e te lo mitizza è un qualcosa di superato e sbagliato, di svilente rispetto alla ricchezza e complessità di un essere umano. Quindi la prima cosa è superare il modello novecentesco e poi l’artista adesso deve essere una persona capace di rapportarsi con i diversi aspetti della contemporaneità. Non è qualcosa di facile comprensione per l’artista né per la società che lo circonda.

 

Tu hai scelto di produrre delle magliette e dei capi di abbigliamento che vendi in una bancarella, quindi hai spesso la strada come ambito di azione. Hai scelto questa come forma espressiva e di relazione o ci sei finito per necessità?

Chi mi vuole incontrare mi trova in strada con le magliette serigrafate, con i miei disegni e con la comunicazione che faccio in giro. Senza girarci intorno questa è una modalità per essere retribuito e per arrivare alla fine del mese lavorando in qualcosa che mi piace e mi appartiene ed è anche un modo di staccarsi da un modello di artista visivo che sta solo nella galleria e comunica solo con alcune persone. Lo sforzo che faccio io è quello di portare la mia estetica a volte anche fastidiosa e provocatoria a contatto con tutti. Lavorare per me significa scoprire. Più posso lavorare e più posso creare e più è possibile per me avere intuizioni, comprensioni e analisi della realtà. Quindi in questa traversata terrena della mia vita è possibile scoprire sempre di più facendo. Non è una idea che ho avuto dieci anni fa ed ora lavoro per portarla ad un livello altissimo lucidandola ma sono tante le idee, tanti insight che cerco di tenere tutti insieme. Chiedendomi spesso se la mia creatività può portarmi a incontrare nuova creatività.

Nei tuoi panni - Foto di Flavia Eleonora Tullio
Nei tuoi panni – Foto di Flavia Eleonora Tullio

 

Conoscete le esperienze di spazi collettivi per la creazione e per l’uso di attrezzature tecniche molto diversi tra loro come i co-working, i centri giovani o i centri sociali autogestiti? Pensate che possano essere uno strumento utile per chi si avvicina alla creazione artistica ma non ha strumenti?

 Alessio: Per quanto mi riguarda se hai i soldi la tecnologia te la compri se non li hai non te la compri. Se sei bravo e la tecnologia non ce l’hai non fai niente. Fatto sta che se faccio qualcosa oggi è perché ho avuto accesso alla tecnologia quando si sono abbassati i costi. Sono emerse altre realtà grazie alla diffusione della tecnologia, il video si è affermato e si sente sempre più parlare di storytelling.

Giacomo: Quando tu parli di spazi sociali e di possibilità bisogna vedere anche il ruolo dell’artista in un contesto alle volte ideologico o idealistico. Secondo me l’artista deve rimanere una figura che espande immaginario, allarga la percezione della realtà e cambia gli equilibri che ci sono, questo l’artista purtroppo o per fortuna lo deve fare in ogni contesto. Se c’è un artista che non ho mai apprezzato fino in fondo è Guttuso, quel tipo di arte appoggiata da un’idea con un collettivo di persone che ti rinforzano il tuo processo, a me non appartiene. Il ruolo dell’artista in questo momento visto che non si può ancora costruire un’estetica veramente interculturale è almeno quello di relativizzare tutto ciò che c’è che non sempre è comodo ad un processo politico o a un processo costruttivo. Negli spazi sociali l’artista è visto come anti-identitario, provocatorio, sovversivo e lo spazio sociale può offrire gli strumenti e condividere le esperienze fatte, creare dei link, degli spunti che rinforzano delle percezioni che vadano verso il fuori, eccentriche più che a rinforzare l’identità. Questa è la mia posizione.

Federico: Ieri mi è arrivata una mail dal Container Castelvecchio. A me una mail del genere arriva una volta al mese. Ogni mese uno spazio nuovo apre nelle Marche. Noi siamo una antenna rispetto a queste cose. Il problema è la qualità dei contenuti che si riescono a produrre in questi spazi. Infatti è molto difficile proporre interventi di qualità, perché c’è una grande attività di volontariato che dura sei mesi, un anno e poi finisce. Sicuramente non ci sono strumenti di alto livello tecnologico, non c’è una organizzazione strutturata che consenta di usufruire di alcuni servizi al meglio e quindi questi spazi nati dall’ottima volontà di persone si trovano privi di una prospettiva professionale di lungo termine. Rispetto ai percorsi artistici non basta l’aggregazione, ma servono un lavoro, una cultura del fare, serve qualcuno che ti indirizzi. L’autodidatta totale non esiste, manca un apparato che possa fare sì che l’arte possa svilupparsi, che nuovi processi artistici possano svilupparsi. Nel mondo anglosassone, agiscono come una squadra di calcio, hanno un vivaio che coltivano con una metodologia che gli consente nel lungo termine di superarci a livello artistico, sebbene i contenuti siano spesso meno convincenti. L’arte italiana risente di quello che gli europei non capiscono proprio o definiscono come provincialismo. Dipende dal fatto che noi viviamo quotidianamente dei conflitti che nel nord-europa non vivono. Non hanno i problemi che abbiamo noi e quindi non è facile per noi esportare prodotti artistici frutto del nostro genius loci, perché certe tematiche politiche non vengono comprese. Per questo molti artisti italiani si riducono, per avere una circuitazione internazionale, a proporre una versione slavata degli stilemi nordeuropei svuotati di carica conflittuale.

Alessio: A Roma senti il peso dell’Ara Pacis, del Colosseo, non riesci a fare contemporaneo. C’è un passato troppo pesante, è difficile fare contemporaneo. Il 90% di finanziamenti per la cultura sono per la conservazione dei beni, ci sono tre musei di arte contemporanea bellissimi a Roma ma fanno quello che fa la cultura italiana, portano dentro e non valorizzano quello che c’è qua, sono esterofili. Quindi c’è questo problema della esterofilia che è pesantissimo.

Nei tuoi panni - Foto di Flavia Eleonora Tullio
Nei tuoi panni – Foto di Flavia Eleonora Tullio

 

Giacomo: L’esterofilia è un modo di staccarsi da delle dinamiche fastidiose di cui l’arte potrebbe parlare se utilizzata come uno strumento di conoscenza. È più facile valorizzare performances un po’ asettiche, rispetto a un’opera che mette in crisi o cerca di modificare un assetto già esistente.

Federico: Se vai in Svizzera dove gli artisti sono mantenuti dal loro sussidio, non succede nulla a livello artistico. A Bruxelles non succede nulla se non è per gli stranieri che arrivano e hanno ancora quella carica, quella spinta forte di contrasto, prima di ricevere il sussidio di disoccupazione! Riescono a produrre delle cose che dal mio punto di vista sono molto più interessanti del piattume che vedi; che poi è quello che forma il gusto dominante e che ci viene rimandato indietro sotto forma di prodotti culturali. Per cui, se devi partecipare a dei progetti come Creative Europe, il programma europeo di finanziamento alla cultura, devi avere dei partner europei e ti devi rifare a dei paradigmi uniformanti, a dei format che hanno delle caratteristiche che sono prettamente nordeuropee. È la modalità di pensiero che sta dietro alla formulazione di un progetto che ti impone di rinunciare alle tue peculiarità, come se la mozzarella campana fosse uguale alla mozzarella prodotta in Germania, e io trovo che questo sia un problema molto serio. Il progetto Bioculture è partito dal vino, perché i viticoltori resistenti raccontati da Bioculture non accettano di piegarsi alle logiche imposte dagli importatori esteri che vogliono il vino dolce per andare incontro alle richieste del mercato USA. Questi stanno cercando di creare una dinamica di resistenza perché, coltivando pochi ettari, riescono a vendere a chi capisce questa qualità. Vendere il vino è più facile che vendere l’arte perché il vino crea una convivialità più immediata rispetto all’arte contemporanea. La filosofia di resistenza degli artisti è la stessa dei viticoltori che raccontavamo, c’era un dialogo naturale con gli artisti selezionati. Cerchiamo di fare in modo che l’arte possa continuare ad essere quello che è, che gli artisti non debbano fare marketing e comunicazione, mantenere una propria linea poetica che possa valorizzare un sistema produttivo economico come quello del turismo senza essere costretti a fare marchette. Dunque il ragionamento dietro il progetto Bioculture non nasce primariamente del desiderio di promuovere le Marche, ma dalla domanda su come si fa a far sopravvivere gli artisti attraverso la loro produzione.

Fabrizio: Mi occupo di fotografia e video e mi interessa tutto quello che concerne una riflessione sull’immagine. Per Bioculture ho realizzato una serie di video, anche se l’approccio è stato molto fotografico. In passato costruivo set fotografici di persone, lavorando sulla trasfigurazione del corpo; in questi anni mi sto concentrando su un approccio più simbolico alla realtà, cerco di non toccare niente fino all’editing. Il progetto di Bioculture mi ha visto coinvolto in una collaborazione per me nuovissima, con un’attrice di teatro fisico, Simona Sala. Mentre io filmavo paesaggi ed eseguivo video-ritratti alle persone che incontravo, Simona si inseriva nell’inquadratura improvvisando delle performance. Non sapevamo mai cosa sarebbe venuto fuori; a volte si sono create situazioni comiche, a volte poetiche; è stato il nostro modo di lasciare una traccia sul territorio. Stilisticamente questo lavoro si allontana moltissimo dal reportage classico, dalla concezione dell’istantanea che congela il momento decisivo; una fonte d’ispirazione è stato il reportage di ultima generazione, mi riferisco ai lavori di Alech Soth per esempio, che inserisce ritratti di posa ambientati all’interno della narrazione. Questo discorso della dilatazione del ritratto nel video, mi ha affascinato sin da subito, infatti il prolungamento del tempo di posa, che è tempo di ripresa, induce la persona a una serie di movimenti o micromovimenti molto interessanti. In queste riprese fatte di imprevedibilità è come se si aprissero nuove strade di contatto tra la fotografia come rappresentazione e la realtà nuda. L’intervento di Simona inoltre moltiplica i mondi possibili e a volte sembra di stare in territori immaginifici, mentre tutto è veramente spontaneo e reale. Durante la camminata ho riflettuto a lungo sull’estetica del paesaggio, su come è cambiato il linguaggio attraverso fotografi come Luigi Ghirri o Guido Guidi; di quanto ci stiamo avvicinando a modelli estetici europei e internazionali. Da tre anni insieme a Milo Montelli e Chiara Cecchetti, ho fondato Wishot, una scuola di fotografia che si occupa di formazione e diffusione della fotografia contemporanea e insieme a Milo, che ha una sua casa editrice che si chiama Skinnerboox. Collaboriamo nella realizzazione di libri fotografici d’autore che poi girano e incontrano i gusti di tutto il mondo. Ho avuto modo di constatare che in Italia, la maggior parte dei fotografi sono ancora legati a un certo pittorialismo, cioè concepiscono la fotografia come un quadro e cercano di avvicinarsi a quell’estetica classica che vede la composizione ben formata al centro di ogni riflessione. Una nicchia che si sta allargando, invece, è molto più in contatto con le estetiche europee e mette in primo piano la progettualità e la riflessione concettuale. Noi come associazione siamo più vicini a questo secondo approccio, anche se risulta molto difficile portarlo nel territorio. Anno dopo anno ci stiamo impegnando per portare i fotografi che seguono i nostri corsi a seguire un percorso più autoriale e che non si fermi, a livello estetico, alla pura ricerca del bello formale. Questo atteggiamento comprende una messa in discussione dei propri canoni e questo è molto difficile da accettare. Nonostante tutto rimaniamo coerenti a questa scelta, anche se poi, a livello professionale, bisogna scendere a compromessi. Se si vuole lavorare con il video e la fotografia nella provincia di Ancona, devi per forza mediare i linguaggi, per venire incontro ai gusti del cliente. Poi per progetti dove sei più libero, come per Bioculture, puoi portare avanti un discorso di ricerca, contribuendo in questo modo ad apportare modifiche al gusto. Un altro aspetto molto importante che noto in provincia, è che la gente non ha la coscienza di quello che sia il lavoro artistico, si tende infatti a pensare all’artista in modo romantico, come colui che crea dal nulla per talento visionario. Invece non si sa che ogni artista che lavora seriamente deve sviluppare progetti molto razionali alla base della sua espressione e questo comporta molto studio, capacità di programmazione, coerenza e progettualità.

 

Non pensi che si possa rompere la distanza tra il locale e il globale?

I mezzi che abbiamo a disposizione tutti come internet stanno velocizzando il processo, ma è molto importante che anche le istituzioni si diano da fare e comprendano il problema e aiutino chi cerca di portare i linguaggi contemporanei a livello locale. Spesso capita che alcuni progetti vengano approvati, ma poi difficilmente si riesce a dare continuità e rimangono episodi fine a se stessi. Invece è molto importante pianificare progetti a lunga scadenza, perché per mettere in discussione la propria estetica e le proprie concezioni non basta un anno di lavoro.

Nei tuoi panni - Foto di Flavia Eleonora Tullio
Nei tuoi panni – Foto di Flavia Eleonora Tullio

 

In questa formazione dell’estetica quale ruolo hanno le università come Urbino, Ancona e Macerata? Riescono a produrre trasformazioni sul territorio?

 Secondo me il centro più importante a livello di formazione è l’ISIA ad Urbino, non vedo Macerata o altre università in grado di stare al passo con quello che fa l’ISIA a Urbino con professori come Guidi o Sonnoli. È normale poi che molti alunni di questa scuola si ritrovino a lavorare anche nel territorio, portando il loro contributo e influenzando il linguaggio.

Silvia: La mia esperienza nel campo dell’arte è più breve. Ho partecipato a Bioculture come interprete di Rachel Ross Reid. Io traducevo per lei i racconti che incontravamo nel territorio, dai contadini, dalla gente, e poi ho scritto i testi per Bioculture. Con Giorgia Gagliardini faccio lavori di istallazioni di light art e partecipiamo a dei festival, non abbiamo ancora fatto lavori indipendenti da situazioni di questo tipo, organizziamo per i festival delle installazioni site specific. Io lavoro con il teatro ed ho fondato il Gruppo Boote. Credo che ci sia una percezione della cultura nella nostra zona molto provinciale molto diversa dalla realtà. Si ha la percezione che non accada nulla invece penso che ci sia un grandissimo fermento. L’arte è come la filosofia e ci saranno sempre artisti in ogni posto ed in ogni tempo e quello che le Marche hanno di molto bello e che può favorire una produzione artistica interessante è il fatto che gli artisti si possono incontrare facilmente e questo permette la creazione di rapporti di collaborazione molto autentici. Ho la sensazione che qui le persone riescano ad entrare in connessione da una zona all’altra con facilità non è come in una metropoli. Qui i contatti funzionano e se una persona vuole creare qualcosa e circondarsi di persone che hanno interessi comuni può farlo. La provincialità delle Marche è un punto di forza per questi aspetti ma ci sono sicuramente molte difficoltà economiche. Sta aumentando anche la coscienza riguardo al fatto che la luce può essere anche un’arte. Le opere più interessanti di light art si fondano su concetti molto scarni ma questo è il loro forte perché sono idee semplici realizzate con materiali e tecniche innovative.

 

L’estetica è un effetto del mercato e dell’egemonia economica. Quando parlo di autonomia è per capire se nonostante la situazione di subalternità culturale ed economica esistono iniziative che la contrastano. C’è la possibilità da parte degli artisti di spostare degli equilibri estetici e sociali in modo autonomo?

Alessio: Quando le istituzioni hanno visto che una cosa funzionava l’hanno fatta propria, il mainstream si nutre dell’underground. È anche un bene alla fine perché le cose un po’ cambiano, per esempio io credo che Bioculture sia stato fatto anche perché va di moda negli ultimi anni questa cosa del bio, prima non gliene fregava a nessuno del bio, però adesso è un mezzo per fare delle cose positive.

Federico: Io faccio parte di una associazione che si chiama Sineglossa Creative Ground e tutto quello che stiamo tentando di fare è di rendere gli artisti autonomi, consapevoli della loro professionalità e delle loro competenze per non dover dipendere, per quanto possibile, da dinamiche esterne. Il processo di autodeterminazione dell’artista è inevitabile se non si vuole stare dietro a tutta una serie di istituzioni che ti impongono il loro gusto, che ti dicono se sei bravo e non sei bravo etc. Bioculture è uno spinoff di Sineglossa Creative ground, che ha messo in rete 450 creativi della Regione.

Giacomo: Secondo me il processo creativo ha sempre una componente individuale ed autonoma. Poi sta alla volontà delle singole persone di riportarlo nelle esperienze concrete della quotidianità e capire fino a che punto quello che è stato creato invade la quotidianità, fino a che punto siamo pronti a portare l’estetica creativa nel quotidiano. Quello che ho apprezzato del progetto Nottenera è di aver creato un Nottenera junior valorizzando gli artisti negli ambiti scolastici. Una estetica lontana a volte da quella delle insegnanti influenza la scuola e l’arricchisce con i linguaggi dell’arte contemporanea.

Silvia: Chi lavora per l’arte ci lavora tanto, ma non è semplice. Ci sono interessi che si intrecciano e in un evento molto bello non so neanche quanto si riesca a prescindere dalla domanda del pubblico, da quello che vuole vedere. Anche questa è una scelta: in quanta percentuale vuoi stravolgere la visione di chi arriva? In teoria l’artista dovrebbe fare questo ma è complesso.

Fabrizio: Alla base di Bioculture c’è stata una filosofia d’aggregazione e di influenza reciproca tra gli artisti. La collaborazione tra saperi diversi, non solo aiuta il singolo a sostenere economicamente i suoi progetti, tramite l’aiuto dei collaboratori, ma crea un interscambio assolutamente necessario allo sviluppo di un progetto artistico. Io mi sento cambiato dopo Bioculture, capisco di aver assorbito i saperi degli altri, mi rendo conto che il mio lavoro è cambiato e con esso quello che adesso posso mostrare e condividere con il territorio.

Federico: Ho deciso di lavorare a livello politico per l’autodeterminazione degli artisti. Qualche anno fa sono tornato ad Ancona e con Alessia Tripaldi e Sabrina Maggiori, che è la direttrice di Nottenera, abbiamo iniziato a lavorare alla Scuola del Contemporaneo, un progetto di formazione per diffondere la cultura del contemporaneo destinato a chi non è artista. Avere qualcosa da dire e trovare una forma per poterlo dire è una cosa complessa. Ci interessava che gli allievi potessero rendersi conto di quanto è difficile la creazione. In questo modo quando torneranno a vedere un’opera d’arte contemporanea potranno mettersi all’interno del processo senza esprimere immediatamente un giudizio, ma dialogando con l’opera. Dalla Scuola del Contemporaneo è nato Jes! come un contenitore che ha l’obiettivo di rafforzare la presenza degli artisti nella nostra zona, perché se ne stanno andando tutti. All’inizio doveva essere un modo per animare la città di Jesi. Avevamo intuito che c’erano dei problemi nella creazione artistica ma non avevamo idee di come risolverli. Adesso realizziamo soluzioni creative per organizzazioni pubbliche e private. Se devi rifare la segnaletica del centro storico, invece di fare i cartelli marroni con il geometra, chiama un artista che ti fa i cartelli. Stiamo facendo indagini di mercato, interviste agli imprenditori per capire se il privato è interessato e a cosa e come lo possiamo convincere… È una strada lunga però ci stiamo investendo perché crediamo sia un’ottima opportunità sia per gli artisti che per le imprese.

 

Francesco Paci - Light art
Francesco Paci – Light art

 

E se invece degli imprenditori vi chiamasse un movimento come quello contro le trivelle?

Giacomo: Io volevo fare il progetto Si-Biglia invece di Sibilla [progetto di stoccaggio di CO2 sottomarino davanti alle coste di Senigallia N.d.R.] una pista di biglie che collega tutto il litorale marchigiano. Una cosa da guinness dei primati, bella gioiosa che facesse fermare le persone attraverso un’esperienza sensoriale. La sola trivellazione che desidera un bambino è quella di una pista da biglie. Ma sinceramente i compagni mi hanno mandato a cagare! (ride) Non credo che mi abbiano preso sul serio! Se davvero ti sta a cuore un tema devi imparare a comunicarlo bene. Se davvero voglio ottenere ciò che desidero devo ottenerlo con cura e rispetto, chiedendomi cosa arriva all’altra persona a prescindere dalla convinzione di essere dalla parte giusta.

Federico: Per il momento non ci è mai successo ma comunque noi percepiamo il nostro lavoro come lavoro politico: nelle scorse settimane Sabrina ad esempio si è molto appassionata alla lotta contro il TTIP [Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, in corso di discussione tra UE e USA, N.d.R.]. Non c’è mai stata una proposta seria da parte di un movimento fino ad ora e comunque dipende dall’entità dell’impegno. Io e Sabrina siamo molto attenti ai movimenti di pensiero, io provengo da realtà bolognesi impegnate politicamente, la mia tesi l’ho fatta sulla democrazia partecipativa che poi ho riversato nell’arte. Anche se quasi mai ho parlato direttamente di questioni politiche nei miei lavori, politico è stato sempre il modo di stare dentro le cose.

 

Links citati nell’articolo

 Beautiful Ground
http://www.alessioballerini.com/beautifulground/

Bioculture
www.bioculture.it

Container Castelvecchio
https://www.facebook.com/ContainerCastelvecchio

Jes!
http://www.jesplease.it/

Nottenera
http://www.nottenera.it/2015/

Skinnerboox editore indipendente di fotografia contemporanea
http://www.skinnerboox.com/it/

Upupa e Colibrì
http://www.upupaecolibri.com/

Weshot
http://www.wishotlab.it/

Da leggere
Valerio Cuccaroni, L’Arcatana: viaggio nelle Marche creative under 35, Camerano, Gwynplaine, 2013

 

Se Urbino è morta, noi no. Il Collettivo per l’autogestione, la città ducale e tutto il resto (#2)

Se Urbino è morta, noi no
Il Collettivo per l’autogestione, la città ducale e tutto il resto
Di Pimpi detto “il Sindaco”

Illustrazione di Leonardo Altieri
Illustrazione di Leonardo Altieri

Urbino non sta troppo bene. L’Università, sempre più azienda, riesce a far tutt’uno dei concetti di cultura, merce e spettacolo e dopo le lauree honoris causa ad Arrigo Sacchi, Oscar Farinetti e Valentino Rossi conferisce, a dicembre 2015, il Sigillo di ateneo niente meno che ad Albano Carrisi. Felicità! In Comune è insediata una destra neanche troppo camuffata dal grottesco avanzo di cabaret del sedicente “assessore alla rivoluzione”, Vittorio Sgarbi. Le iscrizioni all’Università sono in calo e la Lega in crescita, non è un bel periodo. Da sempre Urbino si specchia nei suoi studenti, ma spesso si gira dall’altra parte; da troppo tempo li sfrutta per i piccoli guadagni di bottega o per nutrire le miserie del potere accademico. E a chi non si adatta al rassicurante modello di studente con portafogli aperto e testa china sui libri ci pensano le ordinanze comunali e una piazza militarizzata. In assenza di forti movimenti sociali a livello nazionale è molto difficile coltivare uno spirito libero e critico nell’ambiente studentesco locale. Eppure c’è chi ci riesce, incredibilmente e con grande generosità.

Manifestazione studentesca a Urbino, 21 ottobre 2013
Manifestazione studentesca a Urbino, 21 ottobre 2013

 

Erano i primi di ottobre del 2012 quando sbarbato e deluso dai risultati del test d’ammissione a fisioterapia, approdai a Urbino. Un borgo bellissimo, surreale, quasi un campus universitario. In tutta quella bellezza mi saltarono subito all’occhio delle locandine appese ovunque: riportavano la scritta “waiting for…” sotto la celebre foto dell’anarcosindacalista arrestato descritta dal motto “Sarà una risata che vi seppellirà”. Una storia curiosa che conobbi meglio quando una mattina rividi il manifesto sotto un gazebo di studenti del collettivo dell’aula C1 autogestita. Al tempo era un collettivo in fase di scioglimento dopo lo sgombero dell’aula C1 e la diaspora militante, tipica dei collettivi caratterizzati da una composizione studentesca. Si trattava di una campagna contro la repressione, in risposta alle numerose denunce arrivate ai militanti del movimento studentesco urbinate.

Conobbi meglio quei ragazzi e quelle ragazze nei giorni successivi durante le varie assemblee. In quei giorni a Urbino diversi studenti e studentesse si avvicinarono alla campagna contro la repressione e si creò di conseguenza un nuovo collettivo, sulla linea politica del vecchio: il Collettivo per l’autogestione. Il nome venne scelto dopo una riflessione politica sull’esigenza prioritaria che legava tutti gli studenti e le studentesse del nuovo collettivo: quella di uno spazio sociale autogestito che da dieci mesi Urbino non aveva più, dopo lo sgombero della C1. La prima azione pubblica di protesta a cui partecipai fu l’occupazione dell’aula C2 di Magistero. Andò malissimo. Dopo cinque ore c’erano venti sbirri in Università, reparto DIGOS, questore e tutto l’apparato repressivo in funzione su di noi: decidemmo di uscire. Eravamo appena nati, insicuri e senza certezze sulla continuità e la tenuta del neonato collettivo. La risposta politica successiva però fu ottima. Decidemmo così di aprire una vera e propria campagna sugli spazi a Urbino: liberammo l’anfiteatro dello studentato Tridente con due giorni di autogestione e iniziammo a comunicare con la città – intesa come cittadini “autoctoni” e studenti – evidenziando il problema dell’assenza di spazi, tanto che perfino in paese avevano iniziato a parlarne. Nel frattempo, dal “fronte opposto”, l’Università con la compiacenza dei rappresentanti studenteschi varava un regolamento per l’utilizzo dell’aula C3 ad uso delle attività studentesche. Assurdo! Di fatto esisteva già un regolamento per le iniziative studentesche nelle aule, pieno di punti restrittivi fatti per tenere ben lontani gli studenti dalla pratica dell’autogestione delle strutture universitarie. Proprio a causa dei regolamenti gli studenti di fatto non avevano spazi per iniziative autonome nell’Università.

Occupazione degli uffici ERSU di Urbino, 5 novembre 2014
Occupazione degli uffici ERSU di Urbino, 5 novembre 2014

 

Viste le circostanze, il 15 maggio del 2013, con un buon numero di persone di diverse facoltà abbiamo occupato l’aula C3 di Magistero: la Libera Biblioteca De Carlo, in riferimento alla posizione politica e sociale del famoso “architetto partigiano” sulla gestione e l’utilizzo degli spazi. Era il primo traguardo per noi ma soprattutto il punto di partenza, lo zero. Avevamo uno spazio da riempire di politica e socialità. Il Collettivo per l’autogestione è riuscito a mantenere aperto uno spazio di contatto importante con gli abitanti di Urbino rappresentato da “(R)esistenze Anomale, festival delle resistenze d’oggi”. (R)esistenze Anomale è l’emblema del contributo in termini di partecipazione sociale e politica che gli studenti e le studentesse di Urbino possono dare contro l’ignoranza, la superficialità provinciale e il neofascismo. Il festival cerca infatti di attualizzare, attraverso iniziative e attività ludico culturali, l’importanza della resistenza partigiana, indicando ogni anno le nuove resistenze e i nuovi fascismi in una società fatta di individualismo sfrenato, profitti e repressione sociale. Nel 2013 era arrivato al quarto anno di attività, in programma come di consueto durante la settimana del 25 aprile. Quell’anno si parlava della resistenza dei popoli in lotta: un’analisi ad ampio raggio fra Palestina, Paesi Baschi, Chiapas e Val Susa, sottolineando e valorizzando alcuni particolari aspetti della resistenza partigiana. Ciliegina sulla torta del festival, senza ombra di dubbio, furono le due serate di concerti in Piazza della Repubblica, la piazza principale di Urbino. Tanta gente, tanta partecipazione, tanto movimento.

Il collettivo era ormai nato e rodato e nell’anno accademico 2012/2013 è riuscito a stare sulla politica territoriale in modo incisivo, mantenendo l’aula occupata e producendo contributi analitici e militanti anche in rapporto alle principali iniziative politiche nazionali di movimento. Negli anni successivi l’impegno fu quello di rilanciare in modo forte la Libera Biblioteca De Carlo e le attività politico culturali sul territorio provinciale, in particolar modo cercando di creare una piattaforma comune con le realtà politiche anticapitaliste di Pesaro e Fano. Partimmo in pompa magna verso due date, lo “sciopero sociale” del 18 ottobre 2013 costruito dalla “Rete lavoratori, precari, disoccupati, studenti” a Pesaro e la sollevazione generale del 19 ottobre 2013. Il primo andò benissimo: aderirono i sindacati di base, ci fu un’amplia composizione studentesca e i contenuti furono molto validi, particolarmente sentiti dalle tante persone presenti al corteo. Il 19 ottobre andò diversamente: 70 mila persone, concentramento del corteo in una gremita piazza San Giovanni a Roma, enorme la composizione popolare dei lavoratori, degli studenti e degli occupanti di case. Era un dato numerico e sociale davvero ottimo: da anni non si vedeva una piazza così! Alla fine della giornata però mancava qualcuno. Mancavano Rafael e Jei-Jei, due compagni che conoscevo ormai bene. Il primo militante del CSA Oltrefrontiera di Pesaro ma con alle spalle dieci anni di attivismo studentesco a Urbino, il secondo un giovane compagno del nostro collettivo. In serata gli avvocati di movimento ci comunicarono l’arresto. Eravamo distrutti. La carica della polizia era durata poco e aveva coinvolto lo spezzone in cui eravamo collocati… il corteo si era disperso, ma non avevamo pensato al peggio. Eravamo stati assieme fino a dieci minuti prima. E invece li avevano pescati nei viali adiacenti il Ministero dell’Economia, a random e senza tante spiegazioni come sempre.

Studenti di Urbino contro lo Sblocca Italia, Ancona, 12 dicembre 2014
Studenti di Urbino contro lo Sblocca Italia, Ancona, 12 dicembre 2014

 

Visto l’accaduto decidemmo di aprire una campagna per la liberazione di tutti i compagni arrestati in quella giornata. Restammo stupiti dalla solidarietà ricevuta in quei giorni. L’assemblea e il corteo spontaneo in centro a Urbino nei giorni successivi contarono centinaia di persone solidali con la causa e con i loro amici. La gioia più grande arrivò quattro giorni dopo con la liberazione improvvisa di tutti gli arrestati. Fu bellissimo. Così come fu speciale un altro corteo due giorni dopo: tanta gente dietro un unico striscione “sporchi, brutti e cattivi, tana libera tutti”. Il nostro slogan ironico e amareggiato era la risposta alle infamità del Resto del Carlino che attraverso lettere anonime e titoloni in prima pagina con i cognomi dei nostri compagni, aveva fatto una vera e propria campagna diffamatoria degna del titolo “pennivendoli dell’anno”.

Da quel momento in poi siamo riusciti a riprendere con più serenità i nostri percorsi quotidiani: la rete provinciale, con la questione “diritto alla casa” in testa, la Libera Biblioteca De Carlo e le attività culturali annesse, l’antifascismo militante, le lotte ambientali e tanta socialità… come sempre. Abbiamo creato relazioni con altre realtà politiche e studentesche sul territorio nazionale e abbiamo organizzato una nuova edizione di (R)esistenze Anomale, questa volta completamente dedicata all’abbattimento delle istituzioni totali: dalle carceri agli OPG. L’unica tematica su cui non eravamo riusciti a suscitare interesse e aggregazione era quella relativa all’Università stessa. Forse a causa del riflusso a livello nazionale, forse per nostri limiti e forse per una diversa composizione sociale degli studenti frequentanti dopo i tagli ai fondi per le borse di studio del DdL Gelmini. Sinceramente non saprei, ma sarebbe stata solo una questione di tempo. Infatti a settembre 2014 un’assemblea pubblica diede il via al percorso di lotta riguardante gli idonei non beneficiari. Questi ultimi sono studenti che pur essendo idonei ai criteri di assegnazione delle borse di studio, non rientrano nell’assegnazione delle stesse a causa dei tagli alle risorse per il diritto allo studio. Gli studenti e le studentesse “senza pane” hanno cercato immediatamente di organizzarsi per ottenere quello che spettava loro.

Urbino, studenti contro il Jobs Act, 14 novembre 2014. Foto di Miranda
Urbino, studenti contro il Jobs Act, 14 novembre 2014. Foto di Miranda

 

È nata così l’Assemblea per il diritto allo studio di Urbino, che attraverso cortei “rumorosi”, presidi, invasioni degli uffici della sede dell’ERSU (Ente per il diritto allo studio della Regione Marche) e solleciti formali è riuscita a ottenere il pagamento delle borse a febbraio 2015! Fu una lotta vinta, che ci diede un’enorme soddisfazione, perché si trattava di noi e dei nostri più cari amici e compagni, del loro studio e della loro permanenza a Urbino. Una battaglia che è continuata anche nei primi mesi del nuovo anno accademico 2015/2016. Infatti una parte della quota conquistata durante le lotte non era stata ancora erogata e il problema degli idonei si era riproposto di nuovo. L’Assemblea per il diritto allo studio ha ripreso il passo grazie a chi l’ha sempre seguita e a chi puntualmente è stato colpito dalla questione materiale riguardante la vertenza in atto. Noi “vecchi” nel frattempo abbiamo sperimentato la classica diaspora militante e ci chiedevamo sfiduciati: “il collettivo come farà? il collettivo andrà avanti?”. Il collettivo alla fine c’è ancora, lotta per le borse di studio e sta andando avanti su tutti i fronti possibili. Questo è un dato eccezionale: a Urbino, piccola città e piccolo ateneo, ogni anno un gruppo di studenti e studentesse antifascisti e anticapitalisti si organizza, dà contributi alle lotte e mette in gioco la propria testa, i propri cuori e i propri corpi cercando di riequilibrare la bilancia della diseguaglianza e dello sfruttamento. È una situazione particolare, paesana ma allo stesso tempo meticcia, su cui nessuno scommetterebbe ma che ogni anno esiste e ritaglia il suo posto nello scenario purtroppo resistenziale che caratterizza le lotte in tutto il paese.

Urbino è morta, perché da quando ci viviamo è cambiata in peggio e noi non siamo riusciti a farci molto. La vita degli studenti è sempre più precaria e la socialità libera è soffocata: è vietato bere alcolici in piazza e per strada, non esistono spazi sociali liberi all’esterno dell’Università e l’anfiteatro del Tridente, uno dei pochi spazi dei collegi universitari che era ancora utilizzabile per eventi ludici ricreativi, è serrato con un portellone antincendio dalle 19 in poi. Urbino è morta e continuerà a morire se continuerà questo andazzo. Ma noi siamo vivi e continuiamo ad essere in contrasto con la direzione che Urbino sta prendendo. Siamo ancora qui a lottare per una città ricca di socialità e di dignità.

 

Eneas, ucciso dal carcere (#2)

Eneas, ucciso dal carcere
Di Gianluca

La storia di Eneas non è finita. Dopo la sua tragica morte nel carcere di Villa Fastiggi il 25 settembre 2015, sua madre e sua sorella, i suoi amici e tanti compagni solidali hanno iniziato a promuovere azioni per denunciare le responsabilità del carcere di Pesaro in quanto accaduto. Un presidio si è svolto sotto le mura dell’istituto e un gruppo di solidali ha continuato a farsi sentire con volantinaggi durante gli orari dei colloqui e organizzando un gruppo di persone che vogliono seguire questo caso; un’inchiesta giudiziaria per “istigazione al suicidio” è in corso. Ad inizio dicembre è arrivata la notizia che la direttrice del carcere verrà trasferita. Noi vogliamo ricordare questa dolorosa storia perché anche nella nostra regione il carcere è un meccanismo di oppressione sociale spesso rimosso fino a quando qualche evento tragico non ci riporta alla realtà.

Sotto il carcere di Villa Fastiggi (Pesaro), 22 novembre 2015
Sotto il carcere di Villa Fastiggi (Pesaro), 22 novembre 2015

 

La storia che raccontiamo ha il suo epilogo nel carcere di Villa Fastiggi a Pesaro, ma potrebbe essersi svolta ovunque, in una delle tante prigioni sparse per il paese, ad una delle troppe persone che entrano in carcere, spesso per reati di lieve entità, e finiscono per non uscirne più.

Anas Zanzami, detto Eneas, di ventinove anni, è un uomo marocchino che ha vissuto in Italia dall’età di sei anni. Viene arrestato ad aprile 2015 con l’accusa di false generalità e resistenza a pubblico ufficiale, reato commesso nel 2011 e per il quale subisce una spropositata condanna ad un anno di detenzione. Proprio il giorno in cui viene denunciato, per ironia della sorte, era riuscito faticosamente a ottenere la cittadinanza italiana. In base al nostro ordinamento giuridico il periodo di condanna inflitto ad Eneas non giustifica una detenzione ma andrebbe scontato con misure alternative al carcere. Infatti, dopo cinque mesi di reclusione Eneas potrebbe ottenere, in teoria, gli arresti domiciliari. L’udienza, che non avrà mai luogo, è fissata per il 21 ottobre 2015. Il carcere di Pesaro, è bene chiarirlo, ha visto negli ultimi anni intensificarsi i problemi di sovraffollamento e le tensioni tra sorveglianti e detenuti, compreso il numero dei suicidi e conseguenti proteste, anche dure, come quella del 2013 seguita al suicidio in cella di un uomo di trentatré anni. Altrettanto nota è la direttrice, Armanda Rossi, conosciuta per i suoi metodi autoritari e discrezionali nella gestione dell’attuale struttura e di quella del suo passato incarico, ovvero il carcere di Campobasso.

Per Eneas l’impatto con la vita carceraria sembra essere stato complicato e tortuoso. Un litigio con il concellino, detenuto con cui divide la cella, e il successivo rapporto degli agenti di custodia contro cui fa ricorso al magistrato di sorveglianza, lo escludono dall’accesso al lavoro e dalla possibilità di un’uscita anticipata. Si inaspriscono i rapporti con i sorveglianti e tra provocazioni e intimidazioni il ragazzo non esce all’aria per parecchio tempo. Decide di farlo dopo più di quattro mesi, ma appena esce viene aggredito da altri due detenuti. La pressione comincia a farsi sentire, la situazione si esaspera. Aumentano i controlli e le minacce, la posta gli viene bloccata e consegnata con criteri arbitrari, una pressione psicologica continua: Eneas capisce e non ci sta, decide di difendersi, reagire, chiedere aiuto a chi gli è vicino. Entra in sciopero della fame, perde parecchi chili, incide sulla propria pelle la rabbia per l’ingiustizia che sta subendo. Viene successivamente trasferito al carcere di Ascoli Piceno sotto osservazione, etichettato come problematico e tossicodipendente.

Sotto il carcere di Villa Fastiggi (Pesaro), 22 novembre 2015
Sotto il carcere di Villa Fastiggi (Pesaro), 22 novembre 2015

 

Dopo circa un mese viene ricondotto a Pesaro, anche se lui non ha nessuna voglia di tornare a Villa Fastiggi. Riesce ad incontrare la madre a colloquio ma verrà trovato morto poche ore dopo, impiccato. Le autorità parlano di sucidio addebitandone tempestivamente le cause alla fragilità psico-fisica di Eneas e al suo carattere “problematico”. La storia suscita da subito sospetti e rabbia nella famiglia e tra gli amici del ragazzo. Troppe cose non tornano. Dall’esigenza di una carcerazione per simili reati al trattamento subito in carcere, fino alla pessima scelta del suo ultimo trasferimento a Villa Fastiggi. I suoi amici e compagni si mobilitano, si diffonde la solidarietà, si arriva a volantinare davanti al carcere durante le visite. Il 22 novembre 2015 si svolge infine un numeroso presidio sotto le mura della struttura. I solidali si fanno sentire, i detenuti rispondono dalle finestre con piccoli fuochi improvvisati e grida che raccontano altre ingiustizie subite. Sono i primi passi, di certo non gli ultimi, per ricordare Eneas perseverando nella lotta contro il carcere e ciò che rappresenta: l’annullamento delle persone attraverso l’isolamento dal mondo e dai loro affetti, il controllo totale della vita quotidiana, il mantenimento della disciplina attraverso una degradante logica di premi e punizioni.

Di carcere si muore e benché sia importante capire come, non dovremmo mai dimenticare che un suicidio o un omicidio da parte di qualche sorvegliante troppo zelante o una lunga malattia consumata nell’umido della cella, sono comunque il prodotto di una situazione, quella carceraria, che in quanto tale determina sofferenza, morte e vite mutilate. In fondo in carcere non dovrebbe morire nessuno, in carcere non ci si dovrebbe neanche vivere. La prigione va superata. Questa convinzione è il filo che prolunga questa storia al di fuori del carcere, nella lotta che potrà nascere e nei legami che saprà costruire.

Abbattiamo muri, costruiamo ponti (#2)

La Campagna anarchica di solidarietà internazionale “Tre ponti”
Di A. Soto

We tear down walls - We build bridges
We tear down walls – We build bridges

 

In questa epoca il terrorismo è stato assunto a nuova ragione di Stato e non a caso il nemico pubblico numero uno di turno si fregia anch’esso, in concorrenza con i suoi più antichi rivali, di questo certificato di oppressione. Di conseguenza si moltiplicano le frontiere che allontanano le persone e le culture producendo nuovi conflitti distruttivi. Per questo sono preziose le iniziative politiche che rompono le geografie consolidate, che uniscono territori separati dal potere ma uniti da storie di contaminazione culturale e solidarietà. I paesi dei Balcani e la Grecia ad esempio, così vicini e così lontani per le Marche, vengono descritti in genere come luoghi instabili e pericolosi da confinare e controllare o come territori di conquista per le piccole e medie imprese nostrane all’interno della Macroregione Adriatico-Ionica, di cui Ancona è capoluogo. La campagna “Tre ponti” ci consegna invece un punto di vista diverso, combattivo, critico e creativo. I volti di chi si affaccia su un mare che dobbiamo conoscere meglio.

La Campagna anarchica di solidarietà internazionale “Tre ponti” è nata diversi mesi fa su stimolo di numerosi gruppi libertari greci, tra i quali il Gruppo dei comunisti libertari di Atene, e con il supporto dell’Internazionale di Federazioni anarchiche. Continue reading

Il Parco nazionale del Catria, Nerone e Alpe della Luna: tutelare l’ambiente e sopravvivere allo sviluppo (#2)

Il Parco nazionale del Catria, Nerone e Alpe della Luna: tutelare l’ambiente e sopravvivere allo sviluppo
Intervista redazionale al collettivo Squola di Pergola

Raduno sul Monte Catria per 'Il Parco che non c'è', settembre 2014
Raduno sul Monte Catria per ‘Il Parco che non c’è’, settembre 2014

 

Da oltre dieci anni diversi soggetti hanno avviato una campagna di sensibilizzazione e si stanno battendo per la costituzione del Parco nazionale del Catria, Nerone e Alpe della Luna: una vasta area protetta a cavallo di Marche, Toscana e Umbria che racchiude gran parte dei massicci montuosi della provincia di Pesaro e Urbino. Si tratta di zone riconosciute come altamente significative dal punto di vista geologico, ambientale e della biodiversità. L’iniziativa è nata dal basso, grazie alla spinta generosa di tanti soggetti che hanno interesse a tutelare e valorizzare questo comprensorio montano e che in tutti questi anni hanno cercato di stimolare le comunità locali, di informarle, di far sì che la mobilitazione sia il più possibile partecipata e condivisa. Abbiamo deciso di intervistare i compagni e le compagne dello spazio autogestito Squola di Pergola che seguono questa campagna partecipandovi in prima persona e in prima fila, per farci raccontare la loro esperienza, le motivazioni che li hanno portati su questa strada, le loro aspettative, i passi in avanti fatti in questi anni, le difficoltà e le resistenze che il progetto incontra, ma anche per esporre e discutere con loro alcune nostre perplessità su progetti di questo tipo, riguardanti in particolare i risvolti gestionali, politici, burocratici ed economici che l’istituzionalizzazione di un Parco porta con sé.

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Fascisti al Furlo (#2)

Fascisti al Furlo
Di Luigi

Il profilo di Mussolini sul monte Pietralata in una vecchia cartolina

La gola del Furlo è un luogo di straordinaria bellezza naturalistica. Le pareti a strapiombo dei monti Pietralata e Paganuccio, scavate dalla forza del fiume Candigliano, si aprono inaspettate nel paesaggio dolcemente collinare dell’entroterra pesarese, proteggendo un piccolo ecosistema dal fascino unico, suggestivo e selvaggio (se non fosse violentato da un’orribile diga dell’Enel). Sul lato destro per chi proviene dal mare si snoda il percorso dell’antica via Flaminia che attraversa il “forulus” da cui la gola prende il nome, cioè le due antiche gallerie scavate in uno sperone di roccia, scheggia dopo scheggia, dagli scalpelli degli schiavi romani un paio di millenni fa.

Eppure questo scenario nasconde qualcosa di strano, come un’oscura presenza incombente. Se ci si ferma nel bar proprio sopra al parco fluviale, l’occhio cade sulla bacheca esterna dove tra immagini di fossili e inni al tartufo locale campeggia una vecchia foto, anni trenta, di un’autoblu antelitteram parcheggiata lì davanti. Il passeggero è sceso e sta guadagnando la porta, sopra la foto si legge: “entrata di Mussolini nella saletta”. Ah, ecco, è proprio Lui!

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