Recensione a: Sabotaggio mon amour, a cura di Carmine Mangone, Camerano, Gwynplaine, 2013.
Sabotaggio mon amour, Gwynplaine edizioni
Nella notte fra il 13 e il 14 maggio 2013 in un assalto contro il cantiere Tav di Chiomonte alcuni macchinari andarono in fiamme. Per quel sabotaggio sono stati arrestati e lungamente detenuti quattro compagni, per di più accusati di terrorismo. E così la categoria del “sabotaggio” è riapparsa sulla scena pubblica, in particolare da quando lo scrittore Erri De Luca l’ha sdoganata, esaltandone il “nobile significato” e la sua utilità nella lotta di una comunità minacciata. Per questo è finito sotto processo con l’accusa di istigazione a delinquere. E allora tutti giù a citare Gandhi e Mandela, compresi quei leaderini di movimento che fino a ieri avevano preso le distanze da tutto ciò che stonasse nel candido coro della valle e gettato la propria scomunica su ogni danneggiamento notturno o diurno – “violenza! violenza!” li sentivi starnazzare inorriditi – contro il Tav.
Ma c’è sabotaggio e sabotaggio, quello brutto e cattivo rimane da condannare. L’occasione per far rientrare Erri De Luca nei panni a lui più consoni è presto data: a novembre 2015 un sabotaggio a Bologna contro le linee ad alta velocità suscita questa volta l’indignazione dello scrittore distintosi, tra l’altro, per le sue lodi al lavoro dei servizi segreti e per la difesa dell’occupazione israeliana in Palestina. All’unisono con Salvini, definisce gli autori del sabotaggio nient’altro che teppisti, incontrollabili delinquenti che meritano il carcere.
Una mano per mettere a fuoco la categoria del sabotaggio, lasciate stare le piroette dello scrittore di cui sopra, viene invece da libro Sabotaggio mon amour, pubblicato dall’editore Gwynplaine e curato da Carmine Mangone, in cui sono raccolti quattro contributi sul sabotaggio rivoluzionario di ieri e di oggi.
Il punto di partenza è un testo che ha fatto epoca: Il sabotaggio dell’anarchico francese Émile Pouget, pubblicato a Parigi intorno al 1910, ora presentato in una nuova traduzione di Mangone. A cavallo tra Otto e Novecento Pouget ebbe un notevole ruolo nello sviluppo del sindacalismo rivoluzionario. Destando grave scandalo tra i benpensanti di ogni classe, riuscì a far diventare il sabotaggio da pratica personale di istintivo danneggiamento degli interessi del padrone a metodo di lotta cosciente e collettivo, facendolo adottare ufficialmente della Confédération générale du travail nel suo congresso del 1897. Il sabotaggio, tanto dei mezzi di produzione quanto delle merci prodotte, è la guerriglia del lavoratore contro il padrone che lo sfrutta ed è visto come logica conseguenza di un iniquo sistema economico: “a cattiva paga, cattivo lavoro”, diceva Pouget.
Il secondo pezzo si intitola Contratti o sabotaggio. Quando a stare a sentire certi uccellacci movimentisti pare che bisogni manifestare sempre sereni e composti per far vedere quanto si è bravi e ragionevoli, discutere amabilmente con politici e amministratori, parlare a mezza voce e non sbattere le porte per non disturbare, ci fa piacere che un editore coraggioso riproponga un testo di quei pazzi furiosi di Comontismo, che alle potenzialità rivoluzionarie della trash music avrebbero preferito quelle di una rapina all’ufficio postale (forza, “Uomo che ride”, ora aspettiamo la ripubblicazione di un altro loro audace libello: Verso l’abolizione di ogni codice presente e futuro!). Comontismo nasce nei primi anni ’70, sulla scia dei gruppi di critica radicale come Ludd e Organizzazione consiliare. In questo pamphlet viene delineata un’analisi dal punto di vista rivoluzionario dello sviluppo recente del capitalismo, delle lotte operaie e del loro recupero sindacale all’interno del sistema, nonché del ruolo tra il nefasto e il ridicolo dei gruppuscoli extraparlamentari. Niente da salvare, niente da riformare, ma tutto da distruggere in un capitalismo che non è solo sfruttamento economico della classe operaia ma attacco alle esigenze vitali dell’essere umano e che tende a insinuare la sua logica espropriativa in ogni piega del tempo di vita. Comontismo abbandona qualunque terreno di contrattazione con il capitale, rigetta le sue logiche di produzione, circolazione e consumo di merci e rivendica il rifiuto del lavoro e la ricerca del piacere, la rivoluzione portata nel vissuto quotidiano e la pratica dell’illegalità. Per non affondare nelle paludi melmose della militanza politica e del sindacalismo tradizionali, Comontismo sguazza nella spontaneità criminale, quale forza non addomesticabile: “criminali di tutto il mondo unitevi!”.
Il terzo scritto, Del sabotaggio come una delle belle arti, porta la firma dell’Istituto Asturiano di Vandalismo Comparato ed è una critica della società mercantile-spettacolare di chiare ascendenze situazioniste. Infine, chiude il volume l’Invito al sabotaggio ad uso dei ricchi di spirito, in cui Carmine Mangone riflette sul sabotaggio e la sua praticabilità, sulle modalità creative e ingovernabili del dissenso radicale oggi, sulle microinsurrezioni individuali sorrette da idee sovversive e sul loro collegamento attorno a un proposito collettivo, per una comunità umana senza capitale né padroni.
E allora raccogliamo l’invito. Posiamo il libro e corriamo in ferramenta: le vie del sabotaggio sono infinite!
Le operaie del calzaturificio Serafini, Fano, 1975 circa
Le organizzazioni della sinistra extraparlamentare degli anni ’70 presenti nella provincia di Pesaro e Urbino erano caratterizzate da una forte matrice operaista. Più o meno tutte avevano costituito una sorta di commissione operaia. Davanti alle fabbriche si appendevano in continuazione striscioni e tazebao (manifesti), ai cancelli si distribuivano volantini e s’improvvisavano comizi.
A Pesaro le fabbriche più organizzate erano le metalmeccaniche Benelli Moto e Morbidelli (macchine per il legno) e i cantieri navali Gennari. Quando la FIOM proclamava lo sciopero, al suono delle sirene migliaia di tute blu uscivano dai luoghi di lavoro per riempire piazza del Popolo e bloccare la città. A Fano era presente un’altra forza molto combattiva: i pescatori. Gli scioperi dei pescatori fanesi furono momenti memorabili della lotta di classe, l’ultimo avvenne nei primi anni ’80 e riguardava il rinnovo del contratto di lavoro, durò circa una quarantina di giorni e strappò agli armatori uno dei contatti della pesca ancora tra i più avanzati d’Italia. Alla proclamazione dello sciopero veniva tirata una catena o una calomba (altro non è che una grossa gomena con anima d’acciaio) tra i due moli in modo che nessun peschereccio potesse uscire e se qualche equipaggio di crumiri accendeva i motori per tentare di forzare il blocco, gli altri, con maniere alquanto spicce e qualche tuffo fuori stagione, costringevano i malcapitati a desistere.
Ci furono diverse lotte importanti, come quando nella seconda metà degli anni ’70 i padroni volevano chiudere la Cassese di Mondolfo. Lo sciopero e l’occupazione della fabbrica permisero a 250 operai di salvare il posto di lavoro. La madre di tutte le battaglie operaie fu però, senza dubbio, quella condotta in una fabbrica di dimensioni modeste, il calzaturificio Serafini, uno dei massimi esempi dell’affermarsi del “modello marchigiano” di frantumazione della grande industria e decentramento produttivo. All’interno del calzaturificio lavoravano circa un centinaio di operai, per la maggior parte donne, mentre gli uomini fungevano principalmente da capisquadra o da sorveglianti. I Serafini erano una vecchia famiglia fanese legata al fascismo dei bei tempi andati. Gestivano la fabbrica con il pugno di ferro. Fino alla fine degli anni ’60 gli operai erano pagati a cottimo, i turni erano di dieci ore ed erano costretti a lavorare anche il sabato fino a mezzogiorno. Inoltre erano in vigore le multe come nelle fabbriche dell’Ottocento: se durante la lavorazione un’operaia rovinava un pezzo di cuoio, il valore del pezzo le veniva decurtato dalla paga. Per modificare queste condizioni gli operai del calzaturificio, ma soprattutto le operaie, iniziarono a lottare fin d’allora.
Le operaie del calzaturificio Serafini, Fano, 1975 circa
Nella seconda metà degli anni ’70 per una mera speculazione edilizia, dato che la fabbrica si trovava dentro le mura della città, i proprietari decisero di chiudere, licenziare e vendere l’immobile. Gli operai si mobilitarono in massa contro quella chiusura. Fu innalzata una tenda in piazza XX Settembre, che divenne il centro della mobilitazione e della propaganda. Lo sciopero durò una cinquantina giorni ma si concluse con una sconfitta, la fabbrica chiuse e gli operai vennero licenziati. A dar manforte a quella lotta di resistenza si mobilitarono tutti i gruppi della sinistra allora presenti in città (Democrazia proletaria, Lotta continua, Organizzazione anarchica marchigiana e perfino la Comunità dei preti operai fanese).
Nonostante la sconfitta, quell’esperienza di lotta dura e senza quartiere rappresentò il momento più alto ed esaltante del conflitto di classe; la prima vera saldatura tra quelle donne e uomini che costituivano la base operaia più emancipata e i gruppi nati dalle lotte studentesche che da qualche tempo agivano in città.
Bellavita selvaggia. Potere ed economia nelle società primitive
Presentazione di Andrea Staid
Andrea Staid è docente di antropologia culturale, fa parte del collettivo redazionale delle edizioni Elèuthera ed è autore di diverse ricerche e pubblicazioni di storia ed etnografia, in particolare di etnografia dei migranti. Pubblichiamo la trascrizione della presentazione del suo libro “I senza Stato. Potere, economia e debito nelle società primitive” (Bèbert, 2015) tenuta dall’autore presso l’Archivio storico della FAI di Imola il 7 novembre 2015, compresa parte della discussione che ne è seguita. Questo testo ci porta a riflettere su come tutte le culture e le organizzazioni sociali siano relative e, soprattutto, su come lo Stato e l’economia di profitto non abbiano sempre caratterizzato la storia dell’uomo. Ci piace come Andrea parli di tutto ciò con parole chiare, semplici, ben documentate sulla scorta degli studi antropologici ma senza necessità di ricorrere a linguaggi specialistici. E come l’ottica da cui si pone non sia la ricostruzione di una mitica e ideale società primitiva, ma la possibilità di attualizzare nella società contemporanea gli spunti più interessanti che i racconti etnografici hanno disvelato sulla gestione del potere, l’economia e la vita comunitaria.
Tdzao, monti Sapa, Vietnam, 2012. Foto di Andrea Staid
Dagli Inuit ai No Tav
Vi ringrazio per avermi invitato a discutere con voi questo libro. Il mio principale ambito di ricerca riguarda il mondo dei migranti, mentre questa che presento oggi è una riflessione più filosofico-antropologica. Io non sono stato negli anni sessanta tra gli indios Guaranì, gli Inuit eschimesi o gli Irochesi in Nord America, però ho studiato queste cose e ho anche avuto occasione di insegnarle in ambito universitario. E così mi è nata la voglia di lavorare a questo libricino, volutamente breve, sfrondandolo dell’apparato accademico di lunghe note e citazioni per andare invece a cogliere l’essenziale. Vuol essere una specie di “antipasto” che vada a stimolare l’interesse attorno a queste tematiche; chi ne fosse incuriosito potrà poi andare ad affrontare libri “veri” come quelli di Pierre Clastres, Marshall Sahlins, David Graeber o altri antropologi.
Essendo io una persona da sempre attenta alle critiche e ai conflitti contro gli Stati nazione, mi interessava riflettere su quella che è stata l’esperienza delle società primitive senza Stato. Uso appositamente il plurale perché le società primitive sono tante e differenti e certamente non tutte avevano le caratteristiche che descriverò oggi. Voglio inoltre dirvi subito che io non sono un “primitivista” e questo non è un libro dove si inneggia al ritorno ad un’epoca d’oro, è piuttosto il tentativo di indagare su un archivio umano di esperienze reali, per poterne cogliere alcuni spunti attualizzabili nel mondo contemporaneo.
L’aspetto che principalmente mi interessa è demistificare l’idea che da sempre l’uomo abbia vissuto con lo Stato. Fare una critica allo Stato qui, in una sede anarchica, è una cosa abbastanza facile, ma spesso mi capita di presentare questo libro in situazioni diverse e di solito cito quanto dice Harold Barclay, un anziano antropologo libertario, che suscita sempre un attimo di scalpore: oggi ci sono all’incirca 196 Stati ufficialmente indipendenti che ricoprono l’intero pianeta, 158 di questi, cioè la gran parte, sono emersi dal dominio coloniale, quindi sono recenti e sono stati imposti con la forza. In altre parole: fino all’altro ieri non vivevamo in società statali. Ciò non significa che prima il mondo fosse perfetto, ma ci serve per smontare dal punto di vista antropologico l’assunto che vivere con uno Stato sia una cosa normale. Invece non è così, si tratta di un processo culturale e perciò relativo. Altri aspetti su cui mi soffermo sono quelli del potere e dell’economia. Anche il potere, inteso come dominio, sembra quasi che sia un dato naturale ma in realtà non è sempre stato così, non è un fatto naturale vivere in un mondo dove vige lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Molto importante è inoltre l’aspetto economico, perché dal mio punto vista l’istituzione degli Stati nazione e del potere coercitivo nasce proprio grazie alla creazione del surplus e di una concezione del lavoro legata al salario invece che alla comunità.
Nella parte introduttiva di questo libro ho cercato di legare l’interesse dell’antropologo sulle società primitive con l’oggi, andando a vedere quei movimenti a-statali che secondo me rappresentano esperienze interessanti nella società attuale. In primo luogo faccio riferimento al movimento No Tav. Lo cito non tanto per la lotta conflittuale contro il treno ad alta velocità (una causa che io sposo in pieno), quanto perché questo movimento ha rimesso in questione la democrazia parlamentare, la delega politica, quella che nel libro chiamo la “tirannia del numero”, cioè il fatto che una minoranza di italiani votino delle persone che vengono delegate a Roma e che deliberano su territori a chilometri di distanza, dove vive una comunità che invece non può decidere sulle sorti del proprio territorio. Altro esempio è quello del movimento siciliano No Muos, cioè delle lotte di vari gruppi contro il militarismo sovranazionale che ha deciso di installare in un determinato territorio delle antenne che molto probabilmente produrranno gravi danni, anche in termini di salute, per le comunità che vivono lì. Queste persone rifiutano di accettare tutto ciò, creano conflitto ed è interessante andare a vedere come nei momenti di lotta queste comunità comincino a produrre qualcosa di differente rispetto all’organizzazione sociale del potere che conosciamo.
Un ulteriore esempio che mi serve per spiegare perché ritengo utile guardare le esperienze delle società primitive senza Stato è quello del Rojava in Kurdistan. Abbiamo assistito a una vera e propria metamorfosi della lotta del popolo kurdo che fino alla fine degli anni novanta lottava per la creazione di uno stato nazionale kurdo, mentre oggi oltre ad alimentare la resistenza contro Daesh (lo Stato islamico) lotta per la liberazione ma soprattutto per creare il “confederalismo democratico” cioè delle zone autonome a-statali di democrazia diretta. Il senso di questa democrazia diretta, come lo ha analizzato anche David Graeber, si sovrappone con il concetto che io ho di anarchia, cioè con la gestione diretta della società da parte di chi abita un determinato territorio, di chi vive quotidianamente la comunità.
Tdzao, monti apa, Vietnam, 2012. Foto di Andrea Staid
Il capo amerindiano
Per quanto riguarda il “potere”, attraverso gli studi antropologici del Novecento analizzo la sua organizzazione nelle società amerindie. Per amerindiani o amerindi intendo le popolazioni autoctone delle Americhe, che possiamo considerare suddivise in due grandi gruppi: gli indiani nell’America settentrionale e gli indios in Messico e America centrale e meridionale.
La figura del capo amerindiano è in realtà la cosa più lontana possibile da quella che è la nostra concezione di “capo”. Il capo amerindiano è svuotato completamente della funzione comando-obbedienza. È piuttosto il paciere del gruppo, colui che ha il dovere e il diritto della parola, ma non può impartire ordini a nessuno. Una caratteristica del capo è di essere perennemente indebitato con la comunità, il che è esattamente il contrario di quello che succede oggi, visto che oggi siamo tutti indebitati con i “capi”, con le gerarchie economiche che ci comandano. Nelle società primitive era il contrario, come spiega in queste righe Pierre Clastres: “l’indebitamento del capo garantisce che rimanga esterno al potere, che non ne diventi l’organo separato. Prigioniero del suo desiderio di prestigio, il capo selvaggio accetta di sottomettersi al potere della società pagando il debito che costituisce ogni esercizio di potere. Intrappolando il capo nel suo desiderio, la tribù si assicura contro il rischio mortale di vedere il potere politico staccarsi e ritorcersi contro di essa: la società primitiva è una società contro lo Stato”[1].
Clastres in sostanza sostiene che queste non sono società senza Stato, ma contro lo Stato. Hanno cioè compreso il pericolo che può derivare dall’accentramento di potere nelle mani di pochi e fanno di tutto per delimitarlo. Come lo fanno? Gestendo il potere. Su quest’aspetto hanno scritto in molti, potremmo citare nomi illustri come Foucault o Derrida, ma a me piace citare persone che fanno parte del mondo libertario, oltre che personalmente della mia vita, come Amedeo Bertolo o Eduardo Colombo, attivisti libertari che hanno scritto passaggi fondamentali sul potere e che hanno capito come la funzione del potere tra esseri umani sia ineliminabile, nel senso che si può anche eliminare il potere-dominio ma non il potere relazionale. L’importante è distribuirlo a tutti. La distribuzione del potere determina un alto grado di uguaglianza in queste società e soprattutto un alto grado di libertà.
Lavoratori delle comunità indigene, risaie Vang Vieng, Laos, 2011. Foto di Andrea Staid
Quei selvaggi lavoravano tre ore al giorno…
Il discorso sul potere si rispecchia nel discorso relativo al lavoro. Credo che nelle nostre vite il potere coercitivo, cioè il potere comando-obbedienza, lo incontriamo facilmente quando andiamo a lavorare. Lì devi obbedire, perché ti viene dato un salario. Nelle società primitive di cui vi sto parlando le cose andavano diversamente. Non che fossero società senza economia, erano società economiche ma che sviluppavano un’economia senza profitto, cioè senza surplus. Spesso siamo portati a pensare, grazie a illustri economisti come Adam Smith i cui libri si sono imposti nelle scuole, che l’homo œconomicus sia sempre esistito. Questa è una cosa falsa e per fortuna non sono io a dirlo, ma tantissimi antropologi ed economisti del Novecento che si sono occupati di queste tematiche e hanno concluso che per la maggior parte della sua storia l’umanità non ha vissuto in un’economia di profitto. Se potessimo mettere la storia umana lungo una retta di mille metri vedremmo che soltanto gli ultimi centocinquanta sono popolati dall’economia del profitto, nella restante parte, in linea di massima, le comunità umane hanno sviluppato un’economia del dono.
L’economia del dono però non è una cosa semplice. Marcel Mauss negli anni venti del Novecento ha scritto un trattato molto interessante, in cui spiega come l’economia del dono regoli le relazioni e gli scambi fra gli esseri umani. Ciò significa che l’economia del dono è una vera e propria economia di scambio. Non ci riferiamo al “dono” come banalmente potremmo intenderlo oggi, per Natale o per il compleanno, ma il dono in queste società regola le relazioni, per cui io ti do una cosa adesso e so che tu mi darai qualcos’altro un domani. È un meccanismo che si basa sulla fiducia, che purtroppo oggi è difficile concepire perché abbiamo decostruito la solidarietà tra esseri umani. D’altra parte perfino nella società contemporanea possiamo rintracciare situazioni di economia del dono, penso agli spazi libertari e autogestiti dove non c’è scambio monetario, ma anche a situazioni più complesse come ad esempio la “banca del tempo” che è una trovata apprezzabile e in alcuni contesti soprattutto in periodi di crisi comincia a funzionare. La banca del tempo è di fatto economia del dono ma chiaramente, se la vediamo funzionare in paesi di montagna o di campagna, al di fuori di piccole realtà la cosa è più difficile.
A questo punto è necessario demistificare anche un’altra lettura che spesso viene riproposta, ovvero il presunto passaggio dall’epoca mitica del baratto alla moneta. In realtà l’epoca del baratto non è mai esistita. C’era invece il dono che è una cosa ben differente perché il dono, se l’individuo si riconosce nella comunità, funziona, mentre il baratto semplicemente non funziona. O meglio, può anche funzionare, ma giusto per divertimento. Se io produco il pane e tu le scarpe, tu il pane lo vuoi tutti i giorni e a me le scarpe durano due anni, come facciamo a barattare? Non è così funzionale a livello economico. Il dono invece lo è, il dono è funzionale perché quando io avrò bisogno delle scarpe so che tu me le darai. Ma per avere questa economia basata sul dono ci deve essere un riconoscimento dell’individuo nella comunità e della comunità nell’individuo.
Tra gli Inuit, una popolazione dell’Artico, il concetto di dono è addirittura più avanzato rispetto alla modalità che abbiamo descritto del dare, ricevere, restituire. Peter Freuchen, un osservatore occidentale, racconta di una battuta di caccia a cui aveva partecipato: lui non era riuscito a catturare nessuna preda, mentre al cacciatore locale era andata meglio. Una volta tornati al campo anche lui ha ricevuto una parte di cibo e per questo ha ringraziato. Al che gli è stato fatto seccamente notare che non avrebbe dovuto ringraziare: “Inuit” significa “umanità” e umanità significa condivisione, permettere come minimo che tutti possano sopravvivere in un territorio. Addirittura in molti racconti etnografici si legge che il miglior cacciatore era quello che mangiava meno di tutti, perché essere il migliore voleva dire dare di più agli altri, far sì che la comunità si accorgesse che c’era tanto da condividere.
Un altro aspetto interessante viene descritto tra i primi da Marshall Sahlins in un libro molto bello, Economia dell’età della pietra. Sahlins era un marxista, partiva con idee ben chiare sul mondo del lavoro, ma racconta di come andando a vedere negli anni settanta questi popoli ritenuti sottosviluppati e rimasti fermi nella storia si sia reso conto che il loro metodo di lavoro se lo sarebbero sognato i moderni operai sindacalizzati. Mentre quest’ultimi lottavano per le otto ore, quei selvaggi lavoravano tre o quattro ore al giorno. E non è vero che non avessero da mangiare o che vivessero in un’economia di sussistenza. Al contrario, erano economie dell’abbondanza che venivano mantenute volutamente sottoproduttive, questo per non creare quel surplus che avrebbe portato a divergenze interne alla comunità. È infatti attraverso il surplus che viene fuori il dominio, perché nel momento in cui si concentra nelle mani di qualcuno, il rischio è che venga fatto valere per creare sperequazione e diseguaglianza rispetto agli altri.
A questo proposito vi leggo un brevissimo brano sui Kapauko della Nuova Guinea, tratto proprio dal libro di Sahlins. Si tratta di un racconto etnografico degli anni settanta del Novecento, quindi di una situazione recentissima nella storia dell’umanità, seppur difficile da attualizzare: “avendo i Kapauko una concezione equilibrata della vita, pensano di dover lavorare soltanto a giorni alterni. Una giornata di lavoro è seguita da una di riposo allo scopo di riacquistare la forza e la salute perdute. Questo monotono alternarsi di lavoro e svago è reso più piacevole dall’inserimento nel loro calendario di periodi di vacanze più lunghi, trascorsi danzando, facendo visite, pescando o cacciando. Di conseguenza, generalmente si notano soltanto alcune persone avviarsi verso gli orti, le altre si prendono il loro giorno di riposo”[2]. Vediamo come ci sia una concezione del lavoro completamente diversa dalla nostra. Quando gli antropologi parlavano con questi indigeni facevano addirittura fatica a far loro capire la parola “lavoro”, visto che in quelle società il lavoro era semplicemente una parte della giornata, non era un tempo separato impiegato con la finalità di un salario.
Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid
Il debito
Dopo potere ed economia, l’ultimo capitolo del libro lo dedico alla questione del “debito”. Anche questo concetto, come ho già accennato prima parlando del comportamento del capo, era completamente diverso nelle società primitive rispetto ad oggi. Il fatto che uno solo, un capo ma privo di potere coercitivo, fosse continuamente indebitato con la comunità e che quindi fosse quello che lavorava di più e doveva sempre donare agli altri, garantiva la libertà degli eguali nelle società primitive. Quando invece hanno cominciato a stratificarsi le società statuali e l’economia del profitto basata sul surplus, il concetto di debito si è completamente ribaltato. Oggi tutti noi si può dire che siamo indebitati con un’oligarchia che ha i soldi e il potere coercitivo.
Così ce lo spiega Clastres: “nessuna divisione in una minoranza di dominanti (il capo e i suoi clienti) che comanderebbe a una maggioranza di dominati (il resto della comunità) che ubbidirebbe. Le società melanesiane ci offrono piuttosto lo spettacolo opposto. Per quanto si possa parlare di divisione, ci si accorge in effetti che, se divisione c’è, è solamente quella che separa una minoranza di lavoratori ricchi da una maggioranza di fannulloni poveri: ma, e qui si toccano i fondamenti stessi delle società primitive, i ricchi sono tali solo grazie al loro lavoro, i cui prodotti sono consumati dalla massa oziosa dei poveri. In altri termini, la società nel suo insieme sfrutta il lavoro della minoranza che circonda il big-man”[3]. In altre parole i capi, per essere tali, devono continuamente donare a quelli che non fanno niente. Ma quelli che non fanno niente non andranno la sera davanti al fuoco a raccontare le tradizioni della comunità. Noi siamo abituati a situazioni completamente diverse, anche se devo dire che io personalmente ho la fortuna di trovarmi a lavorare in una cooperativa libertaria dove il capo è effettivamente un capo amerindiano: è quello che lavora più di tutti, che non percepisce salario e che non ci pensa nemmeno a dare ordini sul lavoro, ma ha la sua autorevolezza.
Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid
Primitivo attuale
In conclusione, possiamo dire che questo libro presenta il punto di vista di un antropologo libertario che cerca di interpretare le esperienze delle società primitive e di ricodificarle nel contemporaneo. A me piacerebbe dar ragione ai primitivisti, costruire da domani un mondo dove si viva di nuovo di caccia e raccolta e dove siamo tutti liberi ed eguali. Ma, a parte il fatto che non tutte le società primitive erano perfette e credo che dei passi avanti l’umanità li abbia fatti, ritengo più stimolante attingere a quanto di interessante si trova in queste società per ricodificarlo nel tempo presente e cercare di mutare subito la nostra vita quotidiana. Ad esempio cercare di riprodurre negli spazi che frequentiamo la concezione del potere distribuito, non gerarchico. Oppure cominciare a pensare alle possibilità di vivere con un’economia di condivisione e dono. Chiaramente queste modalità di relazione sono più fattibili in piccoli centri, in piccole comunità, e d’altra parte io non voglio fare il politologo e dare risposte sui macrosistemi. Si può però sperimentare, perché siamo noi che dovremmo decidere come vivere, quali relazioni mettere in pratica nella nostra quotidianità. Anche se, va detto, la critica che fanno molti libertari all’organizzazione di queste società primitive, e che ritengo sensata, riguarda la forte pressione comunitaria sulle scelte individuali: la soggettività individuale, che per me rimane fondamentale, rischia infatti di venire compressa dalla comunità.
Un’ultima cosa che voglio dirvi su questo libro riguarda le illustrazioni. Sono disegni di Giulia Pellegrini. Con lei ho discusso molto su queste tematiche e abbiamo insieme cercato di ragionare sul modo di affrontarle artisticamente; le illustrazioni che trovate non sono quindi solo un contorno al testo, ma parte integrante del libro.
Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid
Qual è la collocazione spaziale e temporale di queste società primitive di cui ci hai parlato? A che luoghi e a quali epoche storiche fai riferimento? Esistono ancora oggi dei popoli indigeni che vivono con questo tipo di organizzazione sociale ed economica?
Prima di tutto spiego cosa intendo per “società primitive”, termine che a me non piace perché accomuna diverse singolarità tra loro differenti. Ci sono infatti i Guaranì, gli Inuit, i Kapauko e così via. Ma, generalizzando, possiamo intendere per primitive quelle società che presentano un livello minimo di stratificazione sociale, che in genere vivono di caccia, raccolta o praticano un’agricoltura limitata e, per usare parole di Clastres, nelle quali il corpo politico non è separato dal corpo sociale. Un grave errore sarebbe di ritenerle società immutabili nella storia. Si sono invece mosse, sono mutate dentro il flusso della storia e quindi non c’è un periodo fisso in cui collocarle; gli esempi che vi ho portato sono racconti etnografici degli anni sessanta e settanta del Novecento, ma quelle società esistevano da tempo immemorabile. Ovviamente sono anche diverse a seconda dei luoghi in cui si sviluppano.
Ancora oggi in Polinesia ci sono varie comunità che vivono su modelli simili a quelli di cui abbiamo parlato. Adriano Favole in La bussola dell’antropologo riporta etnografie da lui fatte in quelle zone tra il 2008 e il 2013 e racconta che ad esempio la maggior parte di queste comunità non vende i frutti della terra, farlo sarebbe un insulto al loro modo di vita, perché la terra è di tutti. Nella seconda metà del Novecento, quando in molte parti del mondo si sono sviluppate le lotte di liberazione dal colonialismo, in Polinesia gli antropologi trovavano comunità che, forse ingenuamente, sostenevano di non riconoscersi in questa necessità di liberazione nazionale visto che il mare è di tutti, la terrà è di tutti. Facevano piuttosto un altro tipo di lotta, che era una lotta di resistenza, di diserzione dai comandi dei colonialisti per continuare a vivere come avevano sempre vissuto. Questo ha prodotto una cosa interessante, cioè che in Polinesia ci sono ancora migliaia di persone che vivono con un’economia del dono e della condivisione, mentre se guardiamo a cosa è successo in Africa vediamo che la lotta anticolonialista ha finito per produrre la distruzione totale delle economie preesistenti e nuovi Stati nazione che hanno determinato condizioni ancora peggiori di quelle degli Stati nazione europei. Con questo non voglio dire che una strada sia stata migliore o peggiore dell’altra, non è mio interesse mettermi a giudicare su questo tipo di scelte.
Quelle che ho visto con i miei occhi sono le popolazioni Hmong, Tà Ôi, Dao, Giay, Tay, che ho conosciuto dal 2010 fino alla scorsa estate nei territori che noi chiamiamo Vietnam, Thailandia, Laos, Cina, ma loro in realtà non si riconoscono in nessuno di questi Stati, parlano una propria lingua e hanno una propria cultura. Sono comunità schiacciate dall’avanzata continua del capitalismo (anche se in Cina, Laos e Vietnam ci sarebbe il comunismo). Ora i regimi hanno quantomeno smesso di massacrarle ma i territori in cui vivono sono depredati e stanno diventando terreno per il turismo indigenista, che è una cosa terribile: arrivi a Bangkok e le agenzie turistiche ti propongono di fare il giro per andare a visitare gli indigeni. Una specie di zoo degli umani!
Vi consiglio anche di leggere l’antropologo James Scott. Al contrario di quanto ho fatto io che mi sono avvicinato a questi studi da attivista anarchico, lui non era un libertario ma capisce di esserlo proprio attraverso l’etnografia. Dopo trent’anni di studi etnografici in Asia scrive L’arte di non essere governati, Dominio e arte della resistenza ed Elogio dell’anarchismo. Secondo lui nel Sud-Est asiatico la maggior parte della popolazione, quindi non solo le piccole comunità, vive con l’arte di non essere governata. Sono società statali ma in realtà gli abitanti non si riconoscono affatto nello Stato. Non lo attaccano direttamente in maniera conflittuale ma più che altro non fanno quello che viene loro imposto di fare. Io mi sono reso conto abbastanza bene di questa cosa la scorsa estate quando sono stato in Nepal, dopo il terremoto; a Kathmandu a trenta giorni dal terremoto era evidente l’impossibilità totale di creare “zone rosse”. In Durbar square, la piazza principale con bellissime costruzioni antiche di templi, crollati o pericolanti, c’erano tutti i cartelli di “zona proibita” ma in realtà i motorini sfrecciavano ovunque, le signore vendevano gli ortaggi in strada ecc. Questo non vuol dire che sia una società più bella della nostra, ma mi è parso chiaro come nella quotidianità della gente ci sia veramente quest’arte di non essere governati.
Mi pare che nello sviluppo storico dell’umanità siano i criteri del dominio e della conquista ad aver maggiormente inciso, rispetto a quelle società primitive che invece vivevano in pace nelle loro comunità a-statali. Secondo te perché nella lunga storia umana alla fine sono riuscite ad imporsi la società statuale e l’economia del profitto?
Una risposta univoca non si può dare. Di certo, a mio parere, non ci sono stadi evolutivi nella storia della società umana, con passaggi necessari da un assetto a un altro come ci diceva la teoria marxista. Sul perché a un certo punto si introduca l’organizzazione di tipo statuale, con tutto ciò che ne consegue, gli antropologi hanno elaborato diverse ipotesi. Una di queste riguarda la figura del capo e il fatto che in caso di guerra detenesse il potere di tipo comando-obbedienza. Era un’eccezione legata alle necessità di un momento particolare, il momento dell’azione. Ma il prolungarsi delle battaglie deve aver determinato, a un certo punto, che questo potere diventasse stabile concentrandosi nelle mani di qualcuno. Un’altra lettura parte invece dal potere religioso. In queste società c’erano degli sciamani e probabilmente, a causa di calamità naturali o del prolungarsi di situazioni di carestia, un gran numero di persone ha sentito il bisogno di una protezione slegata dalla realtà quotidiana, portando in questo modo ad una cristallizzazione del potere religioso. In ogni caso, la formazione di gerarchie sociali è un processo che non si è compiuto dall’oggi al domani ma ha avuto bisogno di tempi molto lunghi.
Illustrazione di Giulia Pellegrini
Cosa ne pensi delle attuali pratiche di scambio e di condivisione rappresentate da tutto quello che gira attorno alla sharing economy?
Il capitalismo soprattutto in tempo di crisi è ben capace di sfruttare a suo vantaggio determinate tematiche come quella della condivisione, che è una buona economia, facendoci sopra il suo guadagno. Prima dicevo che la condivisione e il dono sono economie senza profitto, la sharing economy è una invece cosa differente ma che comunque rimane un passaggio perlomeno interessante. Se prendiamo l’esempio del car sharing e pensiamo all’abolizione in città di tutte le macchine private per lasciare solo macchine condivise, non sarebbe male. Ma qual è la differenza? È che nella sharing economy ci sono soldi che girano e c’è dietro qualcuno che fa profitti. Anche quello del coworking è un discorso stimolante, si lavora fianco a fianco con persone diverse, si crea uno scambio di saperi, si risparmia sulle bollette. A Milano negli ultimi anni c’è stato davvero un boom del coworking, ma anche qui la cosa pazzesca è che c’è qualcuno che lucra sui centimetri di tavolo che prendi in affitto. La sharing economy per come la conosciamo oggi è più che altro una soluzione per il capitalismo in crisi.
All’inizio della presentazione hai detto che ti occupi principalmente di etnografie dei migranti, qual è la tua visione sul fenomeno delle migrazioni oggi? Quali sono secondo te la strategie da adottare?
Partiamo dal dato di fatto che tutte le culture umane sono impure, tutte sono in transito. Ma fermarsi a quest’affermazione sarebbe semplicistico, è evidente che da dieci anni a questa parte stiamo affrontando un fenomeno che ha raggiunto una consistenza molto maggiore di quella a cui erano abituate le nostre società. Il perché, lo abbiamo sotto gli occhi. Non voglio far demagogia ma la colpa è dell’Occidente, è di quegli Stati che sono andati a colonizzare il mondo, che hanno depredato interi territori dove adesso è impossibile creare economie sostenibili, che hanno infine voluto esportare la democrazia. Avesse almeno garantito un minimo di vita degna e invece in certe zone adesso si sta molto peggio di prima e quindi le persone sono costrette ad andarsene. Ho raccolto molte testimonianze in questi anni di lavoro etnografico, molti migranti vengono qui perché scappano da una situazione economica impossibile, da guerre, da carestie.
Il discorso sarebbe lungo, ma andando proprio al nocciolo della questione io sono convinto che sia possibile creare un mondo che sappia accogliere e che sappia nutrirsi di questi fenomeni migratori, ma non c’è una via di mezzo: deve cambiare strutturalmente la società neoliberale che conosciamo. La soluzione non è al suo interno. A me ad esempio non piace parlare di “integrazione”, anche se il termine può essere usato con una valenza positiva, perché significa che qualcuno deve inserirsi nel mio corpo e io nel suo, mentre io più che integrare vorrei scambiare, vorrei trovare assieme la soluzione per la coabitazione e per un’intercultura reale. Anche il multiculturalismo non è un concetto che mi soddisfa, perché indica un separare le differenze e renderle poi omogenee in un insieme assurdo. Pensare di trovare una soluzione a tutto questo senza cambiare completamente lo stato delle cose nella fortezza Europa, nella fortezza Occidente, credo sia impossibile.
[1] Pierre Clastres, Archeologia della violenza, Milano, La Salamandra, 1982, p. 121.
[2] L. Pospisil, in Marshall Sahlins, L’economia dell’età della pietra: scarsità e abbondanza nelle società primitive, Milano, Bompiani, 1980, p. 67
[3] P. Clastres, Prefazione, in M. Sahlins, L’economia dell’età della pietra, cit., p. 11.
Resistenza e attualità eretiche. Gherardo Segarelli, Fra Dolcino e i Fraticelli marchigiani
Di Cristiano Ceccucci
Quando vedrete i frati procurare le cose temporali, al di là del quotidiano bisogno del loro corpo, e cercare pecunia o denaro per sé o per costruire i loro luoghi e le loro chiese, oppure ricevere da voi testamenti e legati, sotto qualsiasi specie o maniera, sappiate che allora sono ingannati e sedotti, perché i frati minori sono stati mandati da Cristo, per mostrare, più con le opere che con le parole, la somma umiltà e povertà.
Angelo Clareno
La storia che mi accingo a riportare (per sommi capi, perché vasta è la vicenda) parla di due eretici, da hairesis, eresia, cioè “scelta”: Gherardino Segarelli e Fra Dolcino. Il primo fu il fondatore, nell’anno 1260, del movimento dei Fratelli Apostolici e fu arso sul rogo il 18 luglio dell’anno del Signore 1300 in quel di Parma, per volere di papa Bonifacio VIII. Il movimento da lui fondato si definì dei Pauperis Christi, dei Poveri in Cristo, rifacendosi alla vita di Gesù e dei primi apostoli che nulla avevano posseduto e, in definitiva, a una chiesa povera, estranea alle ricchezze e alle pastoie del potere. Il secondo, Fra Dolcino, originario probabilmente di Prato Sesia nel novarese, fu il suo successore. Fu “capo” spirituale e militare del movimento durante la guerriglia che coinvolse le masse contadine della Valsesia e che si protrasse dal 1305 al 1307 quando, il 1 giugno, sotto papa Clemente V, anche lui fu arso sul rogo a Vercelli. Stessa sorte toccò alla sua compagna Margherita da Trento che fu arsa a Biella (o a Vercelli) e al suo luogotenente Longino da Bergamo, in quel di Biella.
Tra la seconda metà del XIII secolo e la prima metà del XIV si sviluppa in Italia (anche nelle Marche con le figure di Pietro da Macerata che cambiò nome in Fra Liberato e Pietro da Fossombrone, conosciuto come Angelo del Chiarino o Clareno, fondatori della congregazione dei Poveri eremiti di Celestino) un vasto movimento ereticale che mina alle radici il potere costituito, non solo quello religioso esercitato da una Chiesa e un clero corrotti, ma anche quello sociale e politico espresso dai vari signori e potentati locali. Nel “mare magnum” dello scenario politico, religioso e sociale del loro tempo, gli Apostolici interpretano in maniera pubblica e consapevole i principi di un egualitarismo comunistico e di una rivoluzionaria militanza che sconfessa la legittimità di ogni ordine religioso e politico costituito.
Spiritualismo, misticismo, nomadismo, egualitarismo, libertà sessuale furono i tratti salienti di questo movimento, che si tradussero nella scelta di assoluta povertà e nel rifiuto di qualsiasi gerarchia o compromesso con le autorità religiose e istituzionali. La sua critica radicale verso l’ordine costituito si salderà infine con le rivolte armate delle masse contadine e montanare dell’alta Valsesia, spinte dalla speranza nell’avvento di una nuova giustizia, una nuova Chiesa e una nuova società. L’epilogo sarà cruento. Le rivolte sedate, i Fratelli Apostolici massacrati e dispersi, Fra Dolcino arso al rogo assieme ai suoi compagni.
Fra Dolcino, litografia di Michel Doyen
Che cosa è rimasto, nel secolo appena trascorso e in quello da poco iniziato di questa esperienza radicale? Qual è l’attualità della loro Resistenza? Quale il loro messaggio? È rimasto molto, direi, se si vanno a vedere i richiami e gli accostamenti a questa vicenda nei secoli successivi.
11 agosto 1907: a seicento anni dal rogo del frate eretico (fratris dulcini heresiarche), su esplicita richiesta del movimento operaio socialista del biellese, richiesta fatta propria dal prof. Emanuele Sella, economista con trascorsi nel movimento socialista, viene eretto un obelisco di dodici metri sul monte Massaro alla presenza di oltre 10.000 persone per la maggior parte operai biellesi e della Valsesia. Nel 1927 l’obelisco viene abbattuto a cannonate dai clerico-fascisti. Più tardi, la vicenda degli Apostolici si lega fortemente anche alla storia della Resistenza partigiana che si svolge in quelle zone di montagna. Basta infatti leggere la “Dichiarazione di Chivasso” dei rappresentanti della Resistenza della Val d’Aosta e delle valli valdesi per ritrovare, nella lotta delle società alpine per salvare la propria identità, la stessa ispirazione delle vicende dolciniane. Nel 1974, a seicento anni dall’ultima condanna degli Apostolici (Sinodo di Narbona, 1374), viene inaugurato il cippo a Fra Dolcino sui ruderi dell’obelisco abbattuto. Partecipano all’iniziativa, tra gli altri, Cino Moscatelli, comandante partigiano, Dario Fo e Franca Rame; nasce in quell’occasione il Centro studi dolciniani. Nel 1988, la sinistra indipendente di Novara propone di erigere una statua a Fra Dolcino nella centralissima piazza Martiri al posto di quella a Vittorio Emanuele II. La proposta vuol essere una provocazione e un modo per contribuire a far conoscere le vicende dolciniane. Ma ancora più attuale è la ribellione valsesiana. Essa infatti ci parla della “sensibilità dei montanari non rassegnati ad accettare una montagna colonizzata, ridotta a squallida periferia per le seconde case di chi, nei grossi centri della pianura, detiene il potere politico ed economico; per questo quella rabbia remota dà voce anche alla nostra, alle soglie del terzo millennio” (Tavo Burat).
Quindi qualcosa del sogno utopico di Gherardino Segarelli e Fra Dolcino è rimasto e non va rigettato, tanto meno dimenticato. L’utopia dolciniana (“utopia” = non luogo) non ci parla di un “luogo che non c’è”, ma di un “luogo che non c’è ancora”. Nessuna disillusione deve indurci a rinunciare a credere che “un mondo migliore è possibile” e alla speranza di cambiare le cose e le regole del gioco. E perciò, nel grande marasma della modernità e di questo secolo, c’è chi pensa come unica possibilità dell’agire politico e sociale che occorra rovesciare la logica dei valori dati. Forse per queste persone, per gli illusi e i sognatori, la dispersione e la repressione degli Apostolici, i roghi di Segarelli e di Dolcino, di Margherita e Longino, avvenuti più di settecento anni fa, hanno ancora un significato e molto da dire.
Obelisco a Fra Dolcino del 1907
… alle Marche
Come ho accennato, anche nelle Marche tra la metà dei secoli XIII e XIV fioriscono i movimenti ereticali.
Alla morte di Francesco d’Assisi, l’ordine da lui fondato si divide sulla base di due posizioni estremiste, quella dei “conventuali” e quella degli “spirituali”. Il dualismo che le ispirava si incentrava sulla scelta tra povertà e non povertà. I primi volevano, per così dire, una “revisione” della regola dettata da Francesco per renderla meno severa e improntata a una maggiore apertura come, ad esempio, la possibilità di accettare le donazioni e di avere nel convento la propria dimora stabile. I secondi, rifacendosi a Gioacchino da Fiore, vedono in Francesco l’inizio di una nuova era dello Spirito, vivendo in estrema povertà e senza fissa dimora. Da questa crisi del francescanesimo discenderanno in linea diretta gli Apostolici di Gherardo Segarelli prima, e di Fra Dolcino poi.
Nel 1274 papa Gregorio X si era deciso a togliere il voto di povertà a tutti gli ordini mendicanti, con conseguente dispersione della corrente più radicalmente legata a “sorella povertà” e una riorganizzazione conventuale di tutto il movimento francescano all’interno dei centri urbani. La reazione degli “spirituali” fu inevitabile e scoppiò inizialmente proprio nelle Marche. La Regola dettata da Francesco, alla luce del suo testamento, doveva essere osservata alla lettera. Dal rifiuto della povertà sarebbero infatti nate tutte le insidie e la perdizione dell’anima. Questa concezione non poteva essere ben vista dall’ordine costituito, dal momento che minava alla radice tutto l’apparato gerarchico della Chiesa cattolica: papa, curia, vescovi, preti ecc. Iniziarono così le persecuzioni della frangia spirituale da parte dei papi restauratori del potere temporale della Chiesa: Bonifacio VIII (che farà condannare Segarelli al rogo), Clemente V (che condannerà Dolcino, Margherita e Longino) e Giovanni XXII.
La corrente più rigorista dell’ordine dei Frati Minori, i cosiddetti Fraticelli ribelli alle gerarchie ecclesiastiche e ferventi sostenitori della povertà evangelica, si diffonde nelle Marche ruotando attorno alle figure di Pietro da Macerata, che cambiò il suo nome in Fra Liberato, e Pietro da Fossombrone, meglio conosciuto come Angelo del Chiarino o Clareno. Molti sono i seguaci di quest’ordine che possiamo desumere da fonti agiografiche del Trecento: messer Bolognino da Mercatello sul Metauro, Corrado da Offida, Vincenzo da Camerino, Francesco da Mondavio e altri che completano la geografia della regione.
Tralasciando la vita e le opere di Angelo Clareno (per questo si rimanda ai testi citati in bibliografia e al Dizionario biografico degli italiani, v. 3), vorrei concentrarmi sul movimento degli “spirituali”. Un movimento, come afferma il Clareno stesso, costituito da seguaci poveri, con rituali più individuali che collettivi incentrati su libri piccoli e austeri in contrasto ai codici miniati con immagini e fregi sfavillanti. Il loro misticismo era vissuto in chiese povere e disadorne, frequentate dagli incolti villani del contado e da vagabondi.
La radicalità dei fraticelli marchigiani fu però un fenomeno di resistenza passiva, al contrario di quello che abbiamo visto negli Apostolici del periodo dolciniano. La moderazione fu il tratto che maggiormente caratterizzò questo movimento numericamente non troppo rilevante e piuttosto disperso nel territorio della Marca. Interessanti sono i modi con cui vengono dipinti dal potere della chiesa: pauperculos pediculosos (poveri pidocchiosi), eretici e lussuriosi, depravati, dediti a turpi riti, atti a compiere orge notturne; se nasceva qualche bambino era d’uso l’infanticidio, il corpo bruciato e le ceneri mischiate al vino da far bere ai seguaci.
Le Marche ospitarono quindi un movimento che anche se non contò grandi numeri ebbe molta importanza dal punto di vista spirituale e della radicalità delle scelte (uno dei due codici che ci consegnano alcune lettere del Clareno si trova oggi presso la biblioteca Oliveriana di Pesaro). Sulla base di fonti storiche, anche se molte ricerche devono ancora essere condotte, durante il XV secolo diversi luoghi continuarono a essere denominati con riferimento ai Fraticelli come, ad esempio, San Giovanni de’ Bichignani nei pressi di Casteldurante, l’odierna Urbania, che deve il suo nome ai poveri eremiti chiamati appunto Bichignani, cioè vestiti di pelli di becco. Non tutto quindi andò perduto se, nel XVI secolo e proprio nelle Marche, dalla corrente spirituale dei Fraticelli nascerà il movimento dei Frati Cappuccini, fondati dai fratelli Raffaele e Ludovico Tenaglia originari, guarda caso, proprio di Fossombrone, patria di Pietro, ovvero Angelo del Clareno.
Cippo a Fra Dolcino del 1974
Bibliografia
Dario Fo, Mistero buffo, 1969, spezzone dedicato a Fra Dolcino: https://youtu.be/XmB0KyljHLk (registrazione del 1977).
Luciano Canonici, Fra’ Angelo Clareno: un santo o un eretico?, Catanzaro, Ursini, 1996.
Francesco V. Lombardi, Misticismo e utopia nei “fraticelli” marchigiani alla luce degli scritti di Angelo Clareno, estratto da Il mondo delle passioni nell’immaginario utopico: giornate di studio sull’utopia, Macerata, 26-27 maggio 1995, Milano, Giuffrè, 1997, p. 156-173.
Corrado Mornese, Eresia dolciniana e resistenza montanara, Roma, DeriveApprodi, 2002.
Fra Dolcino e gli Apostolici tra eresia, rivolta e roghi, a cura di Corrado Mornese e Gustavo Buratti, Roma, DeriveApprodi, 2004.
Felice Accrocca, Un ribelle tranquillo. Angelo Clareno e gli spirituali francescani fra due e trecento, Assisi, Porziuncola, 2009.
Grado G. Merlo, Eretici ed eresie medievali, 2. ed., Bologna, Il Mulino, 2011.
Tavo Burat (Gustavo Buratti), Fra Dolcino e Margherita. Tra messianesimo egualitario e resistenza montanara, Tabor, 2013.
Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di ‘O Sarracino
L’amianto, o asbesto (dal greco “inestinguibile”) è stato un materiale largamente utilizzato in molti settori produttivi per via della sua facile lavorazione, della sua forte resistenza all’usura e al calore. Fin dagli anni trenta del ’900 è dimostrato che l’ingestione o l’inalazione delle sue fibre è altamente tossica e cancerogena, ma la proprietà del brevetto e le ditte produttrici hanno imposto il silenzio per difendere i profitti, di fatto esponendo a rischi mortali milioni di lavoratori e abitanti. La produzione di amianto in Italia è vietata dal 1992, tuttavia quantitativi enormi di questo materiale sono dispersi ovunque, utilizzati nell’edilizia (tetti, controsoffitti, serbatoi) e perfino nella costruzione delle reti di distribuzione dell’acqua potabile. Senigallia ha costruito una parte importante dell’identità della sua classe operaia attorno al grande stabilimento di produzione di cemento e amianto Sacelit. La dismissione della fabbrica ha lasciato dietro di sé una scia tossica, di inquinamento del territorio e del mare, di mortalità tra gli ex-lavoratori e di polemiche. La trasformazione del modello produttivo dominante dalla fabbrica inquinante alla speculazione edilizia e territoriale è evidente nella traiettoria di questo luogo simbolico nei primi anni 2000. Dopo una demolizione radicale e una bonifica approssimativa ecco la speculazione edilizia e infine il fallimento dell’immobiliare “Fortezza srl” di Pietro Lanari, legata a doppio filo con la gestione clientelare di Banca Marche. Oggi l’area è abbandonata: un labirinto di ferro e cemento che ci può fare riflettere su cosa accade quando progresso e sviluppo vengono solo dall’alto. Oggi come ieri i padroni della città, per arricchirsi, lasciano alle loro spalle una quantità intollerabile di danni all’uomo e all’ambiente. A noi spetta non perdere la memoria del passato per immaginare un altro presente.
Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di ‘O Sarracino
Lo stabilimento Sacelit-Italcementi di Senigallia venne aperto nel 1947. Il cementificio inizialmente era collocato vicino alla cava di San Gaudenzio (Borgo Bicchia di Senigallia) dove veniva estratto il gesso per la pasta cementizia, in seguito venne spostato al porto, dove riceveva i materiali provenienti da San Gaudenzio (un trenino partiva dalla cava e si fermava su uno scalo merci apposito, proprio dietro la Sacelit) e dalle navi che scaricavano l’amianto al porto. La fabbrica comprendeva anche una falegnameria, un’officina meccanica, un laboratorio chimico, un distributore di carburante. Tra il 1970 e il 1975 ci lavoravano all’incirca 380 dipendenti, di cui 14 impiegati (oggi solo 9 sono ancora vivi) e 90 donne, per lo più ragazzine sui 16-18 anni, operaie con contratti trimestrali che se venivano scoperte incinte o sposate erano licenziate in tronco. L’ambiente lavorativo era molto rigido: i turnisti lavoravano a ciclo continuo a gruppi di 40/50, gli impiegati si davano del “lei” anche dopo tanti anni e potevano telefonare o semplicemente cambiare una penna solo previa giustificazione scritta. C’era un registro per le entrate e ogni ritardo doveva essere giustificato dal dipendente direttamente al direttore. Gli operai venivano pagati con tre acconti durante il mese, perché li si considerava con poco cervello e capaci di spendere facilmente tutta la mensilità se gliel’avessero data in una volta sola. Per essere assunti c’erano una serie di procedure che iniziavano dalla compilazione di un questionario in cui bisognava specificare anche il proprio orientamento politico e l’estrazione sociale; veniva poi chiesto al parroco se le informazioni fornite erano attendibili o meno. La fabbrica cercava di tenere lontani i comunisti, tant’è che una strategia molto usata dai dipendenti era quella di iscriversi alla CISL e, una volta assunti, tornavano alla CGIL.
Gli operai non sapevano niente dei rischi che stavano correndo. I primi tempi l’amianto veniva trasportato a spalla in sacchi di yuta fino a una bilancia dove venivano pesati e aperti con un coltello. Inutile aggiungere la quantità di amianto in sospensione che si respirava. C’era chi ci consumava il pranzo su quei sacchi. L’amianto veniva poi versato in delle grandi vasche presenti nella sala chiamata Olandesi, il cemento arrivava invece tramite un cementodotto dalla vicina Italcementi. Quando il tutto era miscelato con l’acqua, i fumi venivano rilasciati verso la città con degli esaustori, mentre le acque reflue scendevano per un condotto fino al mare. Dove ora c’è la darsena, c’era una spiaggetta grigia di amianto dove i ragazzini andavano a fare il bagno. I controlli fatti dall’ENPI (Ente nazionale prevenzione infortuni) riguardavano i macchinari, che puntualmente venivano fermati prima dei controlli, non l’ambiente.
All’inizio molti operai si ammalarono di eczema alle braccia perché non avevano nemmeno dei guanti adeguati. Nel ’70 cominciavano ad esserci già i primi ammalati gravi: la prima lavoratrice che morì fu un’operaia con il mesotelioma al polmone. Quell’anno Bruno Malatesta, sindacalista CGIL, denunciò la situazione alla Medicina del Lavoro di Roma e riportò le notizie alla commissione interna della fabbrica. Circa 200 erano i lavoratori iscritti alla CGIL, 50 alla CISL e qualcuno dei restanti alla UIL, uno soltanto era tesserato CISNAL, i fascisti, e veniva preso in giro da tutti. A quanto pare, i rappresentanti dei sindacati si erano fatti mettere tutti a lavorare al piazzale di carico, nessuno in produzione dove c’era più rischio di ammalarsi. Gli operai erano stanchi di vivere in un ambiente così malsano e senza protezioni; in quel periodo ci furono molti scioperi, ma le rivendicazioni sindacali furono sempre e soprattutto di tipo economico. La commissione interna decise sempre di continuare a lavorare, stabilendo tutt’al più una convenzione con l’Asur per fare annualmente degli esami di accertamento agli operai (raggiometrie, spirometrie, radiografie al torace, elettrocardiogramma, visite mediche).
Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di Francesco Buontempi
Da quando a Senigallia venne vietato lo scarico in mare di sostanze, furono utilizzati dei silos in acciaio dentro i quali i prodotti di scarto venivano filtrati con un meccanismo a caduta, caricati in autocisterne e venduti a basso costo insieme ai rottami di amianto (quelli che non erano stati sotterrati nel piazzale dello stabilimento) che venivano usati per le fondamenta delle case, il sottofondo delle strade e in campagna. Tonnellate e tonnellate di rottami vennero anche trasportate fino alla cava di San Gaudenzio e gettate in una grande fossa cementata. Lo stabilimento Sacelit chiuse nel 1983. Fino agli ultimi anni di attività, i lavoratori non seppero praticamente nulla riguardo la nocività del materiale con cui lavoravano, né dai sindacati, né dai padroni. Dei 970 dipendenti al lavoro dal ’47 in poi, oggi ne rimangono vivi circa 200.
Nel 2005 venne istituito un forum all’interno del comune di Senigallia in cui l’ALA (Associazione lotta all’amianto) nella persona di alcuni rappresentanti, tra cui Carlo Montanari, delineò topograficamente i punti in cui erano sicuramente presenti le più grandi quantità di amianto all’interno dello stabilimento ormai dismesso. Parallelamente cominciarono le opere di demolizione della Sacelit. In quel periodo le inchieste fatte dall’ALA e da singoli cittadini dimostrarono come non vennero seguite le adeguate procedure di bonifica, rendendo la zona, se possibile, ancor più contaminata di quello che era: le case abitate lì vicino erano separate dal cantiere soltanto da un muretto alto pochi metri, l’ufficio del patrimonio di Senigallia diede in concessione ai bagnini uno spazio (tutt’ora presente) accanto al cantiere adibito a parcheggio per turisti, che non era stato nemmeno asfaltato. Su tutto quell’amianto si sono messi a costruire.
Dal 2005 fino ad ora tante sono state le segnalazioni fatte da privati e dall’ALA alle istituzioni, e i politici, come sempre, tanto ci hanno mangiato, scontrandosi gli uni con gli altri. Non è ancora chiara la pericolosità degli acquedotti, avendo parti costruite in cemento-amianto (stando ai documenti ufficiali non ci sarebbe da preoccuparsi…), ma soprattutto c’è profonda inconsapevolezza dei rischi da parte dei cittadini, così come delle istituzioni. Dieci anni fa Legambiente propose la costituzione di un’oasi nell’area della ex-cava di San Gaudenzio, ignorando completamente la presenza di tonnellate di amianto nel sottosuolo. Quando l’ALA denunciò il fatto, il progetto cadde subito nel silenzio. Nel maggio 2015 la lista Città Futura (Verdi, Sinistra ecologia e libertà, Rifondazione comunista) ha riproposto una riqualificazione urbana di San Gaudenzio, dichiarandola spontaneamente rinaturalizzata!
Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di ‘O Sarracino
E così ancora oggi il problema rimane, si sottovaluta la questione, si fa troppo affidamento sulle istituzioni che spesso falliscono nelle operazioni proposte, come il progetto di bonifica “Amianto Free” presentato a gran voce e mai decollato. Il 26 febbraio 2016 si è svolto a Senigallia un convegno istituzionale sul progetto di un Testo Unico di legge per le bonifiche. Tuttavia la legge arriva spesso tardi e i responsabili raramente pagano un prezzo. Il 13 febbraio 2012 il Tribunale di Torino ha condannato in primo grado Louis De Cartier de Marchienne, direttore dell’azienda, e Stephan Ernest Schmidheiny, amministratore delegato, a 16 anni di reclusione per “disastro ambientale doloso permanente” e per “omissione volontaria di cautele antinfortunistiche”, obbligandoli a risarcire circa 3.000 parti civili. Il 3 giugno 2013 la pena venne “parzialmente riformata” e aumentata a 18 anni. Il 19 novembre 2014 la Corte di Cassazione ha annullato la condanna dichiarando prescritto il reato.
È necessario dunque riacquistare una coscienza di base di dove e quali sono i materiali nocivi, del loro impatto sul lavoro, sull’ambiente, sulla vita. È a noi che fa male l’amianto: nei luoghi di lavoro, in città, a scuola. Non si tratta solo di chiedere incentivi, ma di ricominciare a organizzarsi per lo smaltimento e le bonifiche, per impedire ulteriori disastri. Se le iniziative non partono dal basso, non possiamo aspettarci altro che fallimenti… a nostro danno!
Fonti
Intervista a Carlo Montanari, presidente Associazione Lotta all’Amianto, gennaio 2016
Le prigioni andrebbero buttate via
Intervista di Sergio Sinigaglia ad Alessio Abram
Pubblichiamo una intervista raccolta a febbraio 2016 da Sergio Sinigaglia ad Alessio Abram, detenuto nella galera di Barcaglione ad Ancona. Alla sua storia abbiamo dedicato la copertina dello scorso numero #2 e questa volta siamo contenti di far parlare lui in prima persona. La repressione che ha subito ha costretto molti ad aprire gli occhi sulle reali condizioni delle carceri nelle Marche e ha reso visibile anche in provincia il fatto che una inimicizia insanabile separa i ribelli dai tutori dell’ordine della nostra società. Una vendetta legalizzata ha colpito Alessio perché da anni lotta nella strada, con lo sport popolare, a contatto con chi soffre lo sfruttamento e il razzismo sulla pelle. Le sue considerazioni sul carcere ci descrivono una realtà lontana da alcune posizioni radicali ma puramente teoriche che spesso aleggiano sul dibattito anti-carcerario e ci restituiscono un quadro inquietante delle mutazioni soggettive prodotte dalla repressione, dal razzismo e dall’isolamento sociale.
Antony Gormley, A case for an angel
Alessio Abram si trova in carcere dal 13 novembre 2015. Sulle spalle una condanna assurda a 5 anni e 2 mesi, poi ridotta a 3 anni e 4 mesi con una udienza tenutasi a metà dicembre. È bene specificare che si tratta di una pena definitiva. Il tutto per il mancato rispetto dell’obbligo di firma in questura per un provvedimento di DASPO che lo ha colpito una decina di anni fa. Si sta parlando di quattro, cinque casi in tutto. Una cosa abnorme da cui come già più volte sottolineato traspare una chiara volontà persecutoria per il suo impegno nei movimenti.
Alessio attualmente si trova da qualche settimana al carcere del Barcaglione dopo che ha passato i primi tre mesi di prigionia a Montacuto. È stato lui a chiedere il trasferimento visto che notoriamente Barcaglione è un carcere dove si sta meglio, o forse è più opportuno dire meno peggio dell’altro.
In questi mesi ha ricevuto e continua a ricevere lettere, messaggi di solidarietà e affetto da tutta Italia e anche dall’estero da parte di compagni, associazioni, gruppi di tifosi. Un sostegno fondamentale per aiutarlo a superare una prova così difficile.
Dal punto di vista dell’iter giudiziario il prossimo 18 maggio è stata fissata l’udienza per discutere la richiesta di affido ai servizi sociali, scelta che farebbe aprire le porte del carcere. Inoltre è in ballo anche il ricorso alla Cassazione per abbassare ulteriormente la condanna ridotta a 3 anni e 4 mesi.
Abbiamo inviato ad Alessio, via lettera, alcune domande per un’intervista incentrata inevitabilmente sulla condizione carceraria.
Ecco le sue risposte.
Antony Gormely, Learning to think
Come è stato l’impatto con il carcere e quali sono state le tue prime impressioni?
Il carcere è un luogo che non auguri a nessuno. L’impatto è terrificante. Una volta varcati i cancelli subisci subito la prima umiliazione. In piedi completamente nudo con tre appuntati che ti guardano e ti fanno fare le flessioni per vedere se non hai nascosto della droga nel culo. Dopo le foto segnaletiche ti consegnano lo stretto necessario: piatti e forchette, un rotolo di carta igienica, spazzolino, dentifricio, coperta, lenzuola, materasso, cuscini che trascini fino ad arrivare alla tua cella. Capisci subito a caldo che hai perso molto più della tua libertà.
Che tipo di composizione sociale hai trovato, chi sono i reclusi nel carcere di Montacuto e ora a Barcaglione?
Al Barcaglione sono arrivato solo da tre giorni quindi non posso dire nulla. In ogni caso il trasferimento è stato traumatico. A Montacuto ci sono tanti, tantissimi ragazzi stranieri, la maggior parte per reati legati alla droga. C’è molta ignoranza, troppo razzismo, la maggior parte è gente di destra con tanto di simbologia. Questo è il primo impatto. Per noi compagni diventa così ancora più difficile, più dura. Ma poi gradualmente si instaurano rapporti e capisci molte cose.
In passato nel carcere di Montacuto si sono verificati numerosi casi di suicidio per il sovraffollamento. Com’è ora la situazione? Il numero dei detenuti è stato notevolmente diminuito… che contesto hai trovato?
Dicono che sia un carcere con una mortalità alta. Di suicidi o presunti tali. Oggi ad essere sinceri non si vive uno stato di sovraffollamento. Le celle ospitano quattro persone, ma sono dignitose con bidet e doccia in stanza.
Un tempo il carcere era anche l’occasione per acquisire una coscienza politica, capire che alle origini della reclusione ci sono determinate condizioni sociali. Ora quanto è difficile comunicare ai detenuti questo messaggio, favorire una loro consapevolezza?
Oggi la popolazione carceraria è cambiata. Il primo impatto non è facile. Sin dall’inizio ti accorgi che noi compagni siamo troppo diversi, e non mi riferisco alla differenza dei reati. Il problema reale è che il carcere così com’è concepito non serve a niente. Le prigioni andrebbero buttate via. Ma nel frattempo gli stessi carcerati devono prendere coscienza che i protagonisti di questa battaglia sono loro, siamo noi. Questo risulta assai difficile farlo capire, così come risulta difficile farlo dall’esterno perché siamo e viviamo sotto scacco. Prima si pensa a sé stessi.
Nonostante questo, a Montacuto nei primi tre mesi ho visto qualcuno cambiare e prendere consapevolezza dei propri diritti. Abbiamo vinto una piccola battaglia per ottenere alcune cose per la stanza come un tavolino e il phon. Dopo aver inoltrato una lettera collettiva alla direttrice abbiamo ottenuto la possibilità di tenere 2/3 riunioni collettive. Ora, tramite il garante, abbiamo chiesto di rendere più a portata dei bambini la sala colloqui: togliere le reti vicino alle sbarre che sono di forte impatto traumatico, nonché di controllare i prezzi alti dei prodotti in vendita dentro il carcere.
Quali sono le problematiche maggiori che hai riscontrato e che risposta trovano dalle istituzioni interne?
Le istituzioni? Dove? E quali? Ci sono state delle visite, molto simili a quelle della gente che va allo zoo. Passano, ti guardano e se ne vanno. Il problema principale è capire a cosa dovrebbe servire il carcere.
Che tipo di attività è possibile svolgere e quanto sono utili per i detenuti?
Ci sono delle attività, corsi, ma poca cosa, con la scusa dei fondi sempre più scarsi servono al momento solo a svagarti qualche ora. Certo niente non è, ma ci pensate voi se dentro al carcere ci fossero davvero dei corsi di formazione con possibilità lavorative? Quando esce dalla prigione dopo dieci anni cosa dovrebbe fare un uomo senza soldi e con la fedina penale sporca? È chiaro che così concepito il carcere non serve a niente, come non serve a niente la visita dei parlamentari nelle modalità in cui oggi si svolge. Spero che questa mia testimonianza possa sollecitare chi di dovere per favorire un lavoro serio e costruttivo. Se in questa fase storica proprio non si può fare a meno dell’istituzione carceraria almeno ripensiamola profondamente, altrimenti è chiaro che una volta che ci entri nove volte su dieci ci ritorni.
Infine un’ultima domanda: nell’opinione pubblica è altamente diffusa una cultura securitaria. Cosa ti senti di dire in proposito? Che messaggio vuoi mandare?
Questa domanda meriterebbe davvero una intervista specifica. Si spendesse la metà dei soldi che attualmente si utilizzano per la sicurezza in favore di progetti sociali reali, sicuramente le nostre carceri sarebbero più vuote. In Italia abbiamo una giustizia, mi fa ridere chiamarla così, lenta e troppo arbitraria. Concludo salutando la terza sezione del carcere di Montacuto invitando tutti i ragazzi a continuare in quello che abbiamo iniziato perché siamo noi detenuti per primi che possiamo cambiare qualcosa. Infine un invito alle istituzioni: meno passerelle e più contatti con la popolazione carceraria.
La pedagogia del buonsenso alla scuola Serendipità di Osimo
Di Luigi
[si veda anche: “Serendipità: una scuola-comunità dinamica a Osimo” Intervista di Luigi a Emily Mignanelli e Federico Pierlorenzi, in Malamente #15, settembre 2019]
Serendipità – Osimo
A Osimo, in provincia di Ancona, abbiamo incontrato una bellissima realtà educativa basata su principi libertari, finora unica nelle Marche, avviata con il progetto sperimentale dell’associazione “Lilliput” per la fascia 0-3 e proseguita con l’apertura, tre anni fa, dell’esperienza di educazione libertaria “Serendipità” rivolta alla fascia prescolare e scolare, corrispondente alla scuola dell’infanzia e primaria. Una scuola che parte dai bambini e dalla loro voglia di esplorare il mondo per aiutarli a realizzare se stessi in libertà. È una risposta di buonsenso al sistema educativo e repressivo tradizionale a cui siamo abituati, ma non è una scuola d’élite come a volte lo sono le scuole alternative private, che siano montessoriane, steineriane o libertarie. Abbiamo intervistato Emily, che per prima si è messa in gioco nello sperimentare le possibilità di questo modello educativo, e Veronica che si è unita a lei per aprire “Serendipità”: due giovani donne con le idee chiare e un entusiasmo trascinante. Alla conversazione si è unita anche Federica, mamma di due bambini di 5 e 8 anni che frequentano la scuola. Speriamo che dalla loro esperienza possa diffondersi un sano contagio anche altrove.
Qual è stato il percorso che vi ha portato dal nido Lilliput alla creazione della scuola Serendipità?Continue reading →
Grande carnevale di Isola del Piano, IV edizione, 2016. Foto di Laura Rapone
Nasce nel cuore di un inverno che non è mai decollato questo nuovo numero di Malamente.
Si parte dal Gran carnevale di Isola del Piano, ai piedi delle colline delle Cesane tra Fossombrone e Urbino. Questo piccolo paese marchigiano è stato negli anni ottanta la culla della rinascita dell’agricoltura biologica e queste valli ospitano una comunità di eretici e allergici alla chimica e ai regolamenti. È infatti un collettivo chiamato “Infestanti” che ha animato per il quarto anno consecutivo una festa in maschera per le vie del paese, dal pomeriggio a notte fonda. Esistono rituali come quello del carnevale che quando riescono bene promettono una vita nuova, il rovesciamento di gerarchie e convenzioni, la strada per i bambini e le auto dimenticate chissà dove. Poi tutto finisce, ma le piccole resistenze quotidiane come quelle di chi coltiva la terra e la vita in qualche angolo di montagna o collina marchigiana servono a concimare la libertà, il gusto della festa senza il peso delle merci e dei soldi. Non erano lontani da qui, un pugno di secoli fa, Angelo Clareno e i frati ribelli alla gerarchia ecclesiastica di cui raccontiamo l’origine storica dimenticata.
Ma siccome non siamo fricchettoni, ci tiene a ricordare qualche redattore, l’obiettivo e la penna colpiscono dritto su tre contraddizioni gigantesche che dal Montefeltro alla costa di Senigallia e alla galera del Barcaglione di Ancona riguardano il nostro presente. La morte di Giulio Regeni ci ha motivati a tirare fuori un’inchiesta sulla Benelli Armi; pare infatti che il regime militare egiziano abbia beneficiato degli eccellenti prodotti dell’export locale. A Senigallia l’eredità velenosa della produzione di amianto riemerge invece come un passato rimosso, ma non tutti vogliono dimenticare. Infine, Alessio Abram è ancora detenuto e ci parla tramite un’intervista da dietro le sbarre lasciando poco all’immaginazione.
In risposta ai mostri industriali e al cinismo degli impresari arrivano in aiuto l’ormai classico articolo di Valerio sulle lotte operaie degli anni settanta e la pungente recensione di Morby sulla nobile arte del sabotaggio. E affinché possa essere carnevale tutti i giorni ci siamo messi a studiare l’antropologia pubblicando un intervento di Andrea Staid sul tema classico delle società senza Stato dal titolo eloquente: “bellavita selvaggia”. Siamo convinti che l’umano non sia mai qualcosa di fissato una volta per tutte, che ci siano ampi margini di cambiamento e di invenzione. Per questo abbiamo intervistato Emily e Veronica della scuola libertaria Serendipità di Osimo, che ci fanno chiudere questo editoriale con un’aria di speranza, davvero.
Grande carnevale di Isola del Piano, IV edizione, 2016. Foto di Laura Rapone
Trafficanti di armi nel Montefeltro: la Benelli di Urbino
Di Luigi
Il businness delle armi non è mai stato pulito. Da secoli si intreccia con la promozione di politiche repressive e reazionarie, con la cinica riproduzione e alimentazione di conflitti armati per aprire nuovi mercati e con intense amicizie nelle stanze del potere. Il crudele omicidio di Stato di Giulio Regeni al Cairo nell’anniversario della rivoluzione (sconfitta) del 25 gennaio 2011 ha rotto il velo dell’ipocrisia mostrando quanto il governo italiano sostenga in modo strutturale il regime militare egiziano. L’agitazione sguaiata dei nostri politici nel rassicurare l’opinione pubblica sulla volontà di verità delle istituzioni copre la cattiva coscienza di chi sostiene l’armamento e l’addestramento dei mastini egiziani. Il 20 dicembre 2014, il ministro Roberta Pinotti ha firmato un accordo di cooperazione militare con il ministro della Difesa egiziano, generale Sedki Sobhi, mentre le aziende italiane vendono armi che sostengono la repressione interna. Questa volta le contraddizioni cadono molto vicino a noi. L’OPAL di Brescia (Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa) a inizio febbraio 2016 ha reso pubblico che la Benelli Armi di Urbino (gruppo Beretta) tra maggio e giugno 2015 ha spedito 1.266 fucili nell’Egitto del regime militare di Al-Sisi. L’azienda di Urbino è produttrice del fucile antisommossa M4 S90, utilizzato dalle forze speciali e di sicurezza di numerosi paesi. Il cerchio si chiude facendoci sentire che il dolore per le vittime è legato a una catena di cause e di responsabilità che arriva fino a molto vicino a noi. Detto questo, la nostra opposizione all’industria delle armi non sposa le posizioni del pacifismo, essa è semplicemente parte del tentativo di restare umani, di sabotare la normalità della repressione brutale che colpisce i nostri fratelli e sorelle egiziane. La crudele tragedia di Giulio ci ha colpiti quando la stesura di questo articolo era già quasi completata, confermandoci purtroppo che stavamo guardando nella direzione giusta.
Benelli Armi – Urbino
Personalmente ho un paio di ricordi legati alla Benelli Armi di Urbino. Il primo è un po’ sfuocato, risale ai tempi delle scuole elementari: un giorno la nostra classe sale sullo scuolabus giallo e viene portata in “gita d’istruzione” a guardare la catena di montaggio dei fucili e una specie di poligono all’aperto dove venivano testati. Pare che oggi, con quel minimo di pudore che consiglia di evitare l’accostamento bambini-armi, queste esperienze formative non vengano più ripetute. Il secondo ricordo è più nitido, siamo verso gli inizi degli anni Duemila e all’osteria “La stazione”, un simpatico bar ricavato nell’ex stazione ferroviaria di Urbino, confinante con la fabbrica, suonano i Father Honey, gruppo cover dei Rage against the machine. Il concerto viene però disturbato dall’arrivo di alcune pattuglie di carabinieri, richiamate dal custode visto che qualche scalmanato sull’onda di Fuck you, I won’t do what you tell me, aveva preso a bersagliare i capannoni della Benelli con bottiglie e sassi dei binari.