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numero-33

L’arte del dissenso

Intervista di Nicoletta Grammatico a Laika

Dallo spazio nascono le opere di Laika, street artist e attacchina romana, e allo spazio puntano. Le pensiline degli autobus, le stazioni, i ponti, le mura delle città divengono il luogo prescelto per innestare una radicale critica al sistema contemporaneo, per esprimere il proprio disaccordo. Mordaci e irriverenti, audaci e profondamente critici, i poster dell’artista prendono le mosse dai luoghi che li accolgono per propagarsi ovunque. Lo scopo? Beh, ovviamente, puntare allo spazio. Da questa breve intervista ho cercato di approfondire la poetica alla base del lavoro della street artist, soffermandomi in particolare sul peculiare rapporto che viene istituendosi fra arte, attivismo e spazi della comunità.

«I muri puliti non mi piacciono così come non mi piacciono i popoli muti» – esordisce Laika durante la nostra chiacchierata – «se c’è qualcosa che mi terrorizza è l’indifferenza. Preferisco (a volte amo tantissimo) chi si arrabbia».

Visibilmente incuriosita dalle sue parole, le chiedo qualcosa di più sul progetto. «Laika è una street artist e un’attacchina. Il nome è un omaggio alla cagnetta sovietica, il primo essere vivente ad essere stato nello spazio. Puntare allo spazio significa essere ambiziosi e ambizioso è il progetto di diffondere i miei messaggi ovunque, il più lontano possibile, facendoli arrivare anche a persone non immediatamente vicine a me. Dallo spazio, ossia dall’alto, tutto viene distinto in maniera nitida, conferendomi una visione più completa dei temi che affronto. Temi che chiaramente approfondisco. Il progetto è nato quasi per scherzo: facevo solo stickers e poster ironici su politica e calcio. Poi ho compreso il reale potere che un pezzo di carta incollato a un muro potesse avere e ho continuato con l’intento di diffondere messaggi. Messaggi che parlano di diritti umani, sociali, civili. Cerco di arrivare a tutti: non solo a chi la pensa come me, non solo a chi ha il mio stesso background. È facile raccontarcela tra di noi e dirsi bravi. Voglio arrivare anche a chi non ha il minimo interesse per certi temi: e questa è forse la parte più ambiziosa del lavoro».

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Agricoltura 4.0 e nuovi OGM

Intervento del Collettivo Terra e libertà

Già da decenni l’agricoltura industriale e le sue tecnologie stanno spezzando il rapporto di equilibrio tra esseri umani, terra e territori. Evidentemente l’organico e il vivente sono di intralcio alla produzione scientificamente controllata, standardizzata e meccanizzata, gestita da tecnici che monitorano ogni parametro, senza più bisogno di contadini. Il cibo: una merce tra le altre. Un’altra produzione da ottimizzare. Oggi un ulteriore passo in avanti è alle porte: trattori digitali, sensori, droni applicati a un’agricoltura nemica della biodiversità vanno a braccetto con i “nuovi” OGM, che l’Italia e l’Europa stanno imponendo nel più generale silenzio. Quale strada vogliamo prendere? Quella irreversibile dell’agricoltura industriale, biotecnologica e brevettata, o quella che mantiene ancora possibile un’agricoltura collettiva e mutualistica? Su questi temi pubblichiamo la trascrizione di un intervento del Collettivo Terra e libertà di Rovereto a un incontro pubblico tenutosi nel febbraio 2024 a Casa Galeone (Potenza Picena-MC). Terra e libertà è un collettivo di critica teorica e pratica della società capitalistica nell’era della sua svolta tecno-totalitaria: ostinatamente terrestri, umani e libertari, per il recupero di pratiche e saperi a misura di individui e comunità, contro un sistema che inventa di tutto per privarci della nostra autonomia. Il testo è intervallato da alcuni brani dell’Atelier Paysan, cooperativa di auto-costruzione di macchinari agricoli a bassa tecnologia, che opera per la generalizzazione dell’agroecologia contadina anche attraverso la riappropriazione delle conoscenze tecniche e dei saper-fare, controcorrente rispetto alle tecnologie industriali.

Nei mesi di aprile e maggio si è dispiegata la mobilitazione nazionale “Contro i nuovi OGM”, con decine di iniziative locali e una manifestazione unitaria nelle campagne della lomellina, a Mezzana Bigli, nel sito che dovrebbe ospitare il primo campo sperimentale di riso TEA (cioè un riso OGM di nuovo tipo, ingegnerizzato nei laboratori dell’Università di Milano per renderlo resistente a un fungo patogeno). Mentre scriviamo queste righe non sappiamo come sia andata l’iniziativa, certo è che sarà solo l’inizio di una battaglia che siamo tutti/e chiamati a sostenere: la deregolamentazione dei “nuovi” OGM che sta passando in Europa comporterà l’abolizione degli obblighi di valutazione del rischio, di tracciabilità ed etichettatura, e alla fine, se restiamo inerti, ci ritroveremo costretti a cibarci di queste chimere artificiali, così come per i contadini sarà impossibile scegliere di non averli nel proprio campo, per via delle contaminazioni. Si avvicina un cambio radicale per l’agricoltura e per il cibo che mangiamo. Non resta che impugnare la falce, finché siamo in tempo.

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Mio padre è troppo palestinese

Intervista di Maria Laura Belloni a Sophie

Prosegue la nostra rubrica iniziata quest’anno, dove raccontiamo pezzi di vita e storie di accoglienza. Il tentativo non è solo di capire realmente come funziona, ascoltando le esperienze di chi ci lavora o vive il sistema dell’accoglienza, ma anche vedere come si sta “dall’altra parte”. Dunque, riprenderci quell’umanità che quotidianamente vediamo sgretolarsi ogni qualvolta tentano di disumanizzare il “nemico” di turno. In questo numero vi raccontiamo la storia di una ragazza palestinese. Nonostante il nome dei personaggi e di alcuni luoghi – che riprendono la storia del Castello errante di Howl di Hayao Miyazaki – i fatti raccontati sono tutti realmente accaduti. Così come il nostro incontro, di cui abbiamo fatto tesoro. La storia si dipana tra l’Italia e la sua città di origine. Una città della Valle desolata, con una fontana al centro. Dunque, c’era una volta…

…il Castello di Howl, dove mi ritrovai in compagnia di Calcifer e di Rapa, in un pomeriggio soleggiato di marzo. Ai suoi piedi, vidi Sophie: capelli color caffè e due occhi grandi, luminosi, da perdercisi dentro. Così radiosi che non li immagineresti – molte parole dopo – carichi di rabbia e lacrime mentre ci racconta la storia della sua famiglia e dei giorni trascorsi nel suo paese. Al collo, una Palestina color d’oro. Piacere di conoscerti, cosa fai nella vita, ti piace stare qui… qualche domanda per rompere il ghiaccio mentre ci fumiamo una sigaretta, ai piedi del castello. La porta si apre, le scale si mostrano e noi entriamo.

Fotografia di @un_periodista_independiente

Se vuoi raccontami di te, della tua famiglia, da quanti anni e perché sei qui…

Sono venuta qui per studiare, solo perché non volevo studiare in Israele. Ci sono tantissimi studenti della Palestina che vogliono studiare fuori e c’è tantissimi che conosco qui in Italia, per la maggior parte fanno Medicina o Architettura. Non so perché l’Italia, ma conosco tantissimi studenti che studiano o in Germania o in Italia…il tedesco è un po’ più difficile dell’italiano; quindi, l’Italia per me era una buona scelta

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Ma cosa vuoi che sia una canzone…

Di Luigi

La mattina del 7 settembre 1894, il delegato di polizia di Fano, Achille Riello, si siede alla sua scrivania, estrae dal cassetto un foglio di carta intestata al Regio ufficio di pubblica sicurezza, impugna la penna e redige una nota diretta al procuratore del Re. Oggetto: «manifestazioni sovversive». Da informazioni confidenziali ricevute qualche giorno addietro, risulterebbe che la sera di domenica 2 settembre, intorno alle ore 19.00, nell’osteria fuori porta Cavour, alcuni individui non ancora identificati ma descritti come «una comitiva di anarchici socialisti» abbiano intonato canzoni proibite dalla legge.

Appena ricevuta la segnalazione, l’ufficio di polizia si era subito messo in moto. L’indagine era partita con l’interrogatorio dei conduttori dell’osteria, i coniugi Laura Latini e Achille Pandolfi, i quali riferivano che quella domenica, nel cortile del loro esercizio, erano presenti circa settanta persone divise in vari gruppi, da uno dei quali – è vero – tra un bicchiere e l’altro si erano levate «alcune canzoni popolari». In prima battuta, Latini e Pandolfi affermano di aver riconosciuto tra i canti l’Inno dei lavoratori, ma poi confermano all’interrogante che le strofe udite contenevano le parole «bandiera rossa e nera». Pertanto, il delegato Riello non ha dubbi: non si tratterebbe dell’Inno dei lavoratori, ma del ben più famigerato Inno della canaglia.

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Apicoltura digitale e connessa

L’informatica salverà le api?

Di Robin Mugnier

Abbiamo ripreso e tradotto questo testo dal secondo volume del libro “Le monde en pièces. Pour une critique de la gestion” (edizioni la Lenteur, 2019) e lo abbiamo notevolmente ridotto per adattarlo alle pagine della nostra rivista; ci scuserà l’autore. Si parla di un campo molto specifico, quello dell’apicoltura, per vedere come anche qui, al pari di ogni settore della società, l’informatizzazione e la digitalizzazione stiano modificando radicalmente attività, abitudini e saper fare. I problemi complessi vengono ridotti a elementi quantificabili, monitorabili e tracciabili, in nome della razionalità e dell’efficienza. Ma quanto, realmente, affidarsi alle tecnologie informatiche può essere una soluzione ai crescenti problemi dell’apicoltura (legati al disastro ambientale) e quanto, invece, sono esse stesse parte del problema? Questo testo, pur partendo da un settore di nicchia, ci aiuta a vedere l’altro lato della medaglia dietro alla comodità e alla praticità veicolate dalle tecnologie digitali.

Know your bees

«Gli apicoltori devono conoscere le loro api». È serio pensare che un apicoltore non sappia nulla delle api con cui condivide le sue giornate? Eppure è questo il credo di una serie di start-up che stanno proponendo agli apicoltori nuovi modi di interagire con le loro colonie di api. Bilance connesse da posizionare sotto le arnie, sensori interni di temperatura e umidità, telecamere, connessioni di rete per il trasferimento dei dati e, naturalmente, un’applicazione per smartphone in cui registrare quanto osservato durante le visite di monitoraggio delle colonie. Visto da un computer, l’alveare appare sotto una nuova luce: grafici e curve rendono visibile da lontano ciò che prima si poteva vedere solo andando sul posto.

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