La fionda artigianale in legno
Di Captain Swing [QUI IL PDF]
La nascita della fionda così come la intendiamo oggi risale a non oltre l’invenzione della gomma vulcanizzata da parte di Charles Goodyear nel 1839 (brevettata nel 1844). Il primo modello prodotto commercialmente è la Zip-Zap in ghisa del 1918, ma l’aumento di popolarità e diffusione si ha solo nel secondo dopoguerra a partire dal modello Wham-O in legno di frassino e, soprattutto, grazie alle infinite varietà delle realizzazioni artigianali.
Fionda modello Zip-Zip, 1918Fionda modello Wham-O, 1948
L’antenato della fionda è la frombola, la cui origine è sconosciuta ma che certamente risale a tempi preistorici, costituita da due corde unite da una tasca contenente l’oggetto da lanciare. Tenendo un’estremità legata al dito, la frombola viene fatta roteare velocemente per poi aprire la mano e lasciare libera la seconda estremità, in modo che la forza centrifuga faccia partire il proiettile in velocità. Arma tipica delle società nomadi e pastorali, il più famoso esempio di utilizzo è la storia biblica di Davide e Golia, del X sec. a.C.: com’è noto, il piccoletto armato di un sasso, tanto coraggio e fede nel suo Dio ha la meglio sulla violenza bruta del gigante. In guerra era impiegata dai reparti di frombolieri, non direttamente arruolati nell’esercito romano ma presenti in truppe ausiliarie di soci o alleati. Talvolta le corde erano montate su lunghi bastoni (mazzafionda) che prolungando il braccio del lanciatore permettevano una maggiore gittata e consentivano di scagliare proiettili di piombo pesanti fino a 400 grammi.
Antico fromboliere
La frombola attraversa tutto il Medioevo: è un’arma “povera”, utilizzata come strumento da caccia e insieme agli attrezzi agricoli per la difesa da parte dei contadini, mentre le armi vere e proprie erano appannaggio delle classi sociali più abbienti. In età moderna compare incidentalmente anche sulle pagine di Galileo, per confutare le argomentazioni non scientifiche di un gesuita che coi giri di frombola sosteneva si potesse nientemeno che cuocere le uova[1]. Oggi fionde e frombole continuano a essere strumenti di semplice realizzazione e di discreta efficacia. Al di là dell’uso ludico, sono protagoniste di tutti quei contesti di rivolta popolare in cui volano pietre, amplificando i lanci. Le abbiamo viste nelle piazze occidentali e, in mano a giovani palestinesi, sono diventate nell’immaginario collettivo uno dei simboli dell’Intifada.
Palestinesi contro soldati israeliani, Beitunia-Ramallah, ottobre 2013
Le componenti
Il telaio di una fionda, detto “forcella”, è la parte rigida e biforcuta che si tiene in mano. Le forcelle possono essere di vari materiali: metallo, plastica, legno. Anche un semplice tondino di ferro opportunamente ripiegato per fargli assumere la classica forma ad Y può diventare un telaio da fionda. Le forcelle in legno possono venire ritagliate da tavole multistrato, con il vantaggio di poterne scegliere e disegnare la forma, oppure possono essere prese direttamente dai rami degli alberi. Quasi tutti i tipi di legno vanno bene, nelle nostre zone appenniniche tra i tagli più adatti abbiamo roverella (quercia), ciliegio, carpino, faggio, castagno, orniello (frassino). Anche l’olmo si presta bene per la sua flessibilità, tanto che la forcella può essere addirittura modellata direttamente sull’albero, posizionando per tempo dei tutori che faranno prendere al ramo in crescita la forma voluta. Per creare forcelle da legno naturale l’aspetto più importante è che il taglio venga effettuato al momento giusto: l’ideale è durante la luna vecchia di febbraio, in tal modo il ramo resterà privo, o quasi, di linfa.
Forcelle grezze
L’elastico è la componente più importante, è lui che immagazzina e rilascia energia e che fa la differenza in una fionda. Gli elastici possono essere tubolari oppure piatti, in lattice o gomma. I tubolari, nonostante vengano utilizzati per motivi di praticità in quasi tutte le fionde commerciali, hanno bisogno di un’elevata forza di trazione in rapporto alla potenza di uscita e garantiscono minore precisione rispetto a quelli piatti; nelle armerie o nei negozi di caccia e pesca si trovano, come pezzi di ricambio, già pronti e completi di toppa.
Elastico tubolare con toppa
Per quanto riguarda gli elastici piatti, vanno bene quelli semplici a fascetta, in gomma, che si trovano comunemente in cartoleria, mentre se si vuole andare sul lattice il miglior tipo è il Thera-Band, di solito utilizzato per esercizi di fitness e per fisioterapia. Thera-Band è reperibile in fasce elastiche di differenti lunghezze, larghe circa 15 cm, che andranno ritagliate per ricavarne strisce adatte al lancio. È disponibile in diversi colori, che indicano diverso spessore e resistenza: dal beige (“extra sottile”, 0,1 mm di spessore) al giallo, rosso, verde, blu, nero, argento, per finire con il colore oro (“massima resistenza”, 0,6 mm di spessore); con un allungamento del 100% della misura iniziale si esercita una forza che va dai 0,9 kg dell’elastico beige ai 9,8 kg dell’oro.
Fasce elastiche Thera-Band
La toppa portaproiettile deve essere morbida ma robusta, se è troppo fina rischia infatti di strapparsi ai lati dove è fissata all’elastico. Può essere in cuoio, pelle di canguro (leggerissima, robusta e morbida), ma anche in materiali di origine non animale. Le munizioni più comuni sono biglie di vetro o acciaio e sassi, tenendo presente che più il proiettile è sferico meglio seguirà la traiettoria impressa dal lancio. Altre componenti accessorie, non necessarie in una fionda di semplice realizzazione artigianale, sono il sostegno che si appoggia sull’avambraccio per impedire al polso di piegarsi, lo stabilizzatore centrale, le bande di mira tra i bracci della forcella e ulteriori diversi strumenti (una fionda dotata del supporto adeguato può, ad esempio, anche scoccare frecce).
La costruzione
Tenendo fermi i principi base della meccanica di una fionda e facendo sempre attenzione alle regole di sicurezza e buon senso, non c’è limite alla fantasia nella costruzione (su internet si possono trascorrere giornate intere a leggere e discutere sui forum specializzati, quasi tutti in inglese, in genere però frequentati da ambigui appassionati di armi e patiti di caccia). Vedremo qui di seguito i passaggi per la costruzione di un modello base di una semplice ed economica fionda in legno naturale.
Gli strumenti
Gli strumenti necessari sono: una sega per tagliare il ramo, un buon coltello, una raspa tonda e della carta vetrata. Servirà un taglierino per gli elastici piatti e un trapano nel caso si vogliano usare elastici tubolari; utile ma non indispensabile una pinza fustellatrice per praticare i buchi sulla toppa.
La scortecciatura della forcella
La forcella
Il punto di partenza è la scortecciatura e sgrossatura preliminare della forcella. I bracci vanno ridimensionati fino a renderli uguali tra loro, l’impugnatura può essere resa completamente liscia o con le scanalature per il posizionamento delle quattro dita. Una fionda di medie dimensioni ha bracci lunghi 10 cm, con una distanza tra le loro estremità sempre di 10 cm.
Sgrossatura preliminare della forcella
Una volta sagomata, la forcella andrà modellata (se si è scelto con cura il ramo adatto, questo passaggio potrebbe anche essere saltato). Prima di procedere a questa operazione è bene lasciarla qualche ora sopra una fonte di vapore, anche una semplice pentola con acqua bollente, in modo che il legno si ammorbidisca. La “messa in forma”, per la quale ci si può aiutare con dei morsetti, riguarda due aspetti. Il primo è il punto di biforcazione, che deve prendere la giusta curvatura, per questo vi si incastra un tondino o un’asticella di legno mentre un filo di ferro tiene in tiro le estremità dei bracci verso l’interno. Il secondo aspetto è l’asse di allineamento dei due bracci rispetto al piano dell’impugnatura. La forcella rimane in forma fino ad avvenuta asciugatura, la cui durata dipende dalle condizioni climatiche: se c’è vento caldo sarà sufficiente qualche giorno, altrimenti sono necessari anche un paio di mesi. Una scorciatoia per asciugare e togliere la linfa al legno è l’utilizzo del forno a microonde; avendo cura di avvolgere la forcella in uno scottex o in un canovaccio si imposta il programma defrost per quattro cicli di un minuto ciascuno, lasciando riposare il legno tra l’uno e l’altro. Va ricordato che se il legno è stato tagliato dalla pianta nel periodo della luna vecchia di febbraio l’operazione di asciugatura sarà ridotta al minimo.
Forcelle in asciugatura
Si passa poi a realizzare le guide per gli elastici. Se si monteranno elastici piatti va praticata con la raspa tonda un’incisione circolare profonda qualche millimetro a distanza di circa mezzo centimetro dalle estremità dei bracci. Se si useranno elastici tubolari vanno invece creati con il trapano due fori, prima con una punta piccola da 4 e poi ripassando il buco con una punta da 8; nei bracci della forcella dovranno rimanere almeno 5 mm di spessore per parte (quindi il diametro complessivo del braccio non deve essere inferiore ai 18 mm). Un’ulteriore variante consiste nel praticare un taglio verticale sulle cime dei bracci, profondo circa un paio di cm, su cui poi si potrà andare a fissare il comune elastico piatto di gomma.
Forcelle con guide per elastici in tre varianti
La fase seguente è la sfinatura, da fare con carta vetrata fine per rendere ben liscia la superficie del legno. Successivamente la forcella va messa a bagno in una soluzione antitarlo, poi passata con impregnante ad acqua e infine leggermente strofinata con carta vetrata finissima per togliere la patina superficiale. Se invece di far risaltare il legno naturale la si volesse decorare è possibile utilizzare in questa fase colori acrilici. Come ultimo passaggio, la forcella va trattata con cera d’api (o prodotti alternativi vegetali). È preferibile che il legno venga riscaldato prima di ricevere la cera, così da assorbirla meglio, quindi si procede a strofinare con un panno di lana per togliere l’eccesso e rifinire la forcella fino a lucidarla: queste operazioni riescono meglio se fatte al caldo, davanti al camino o a una stufa.
Gli elastici
La distanza tra il polso teso in avanti e il punto sulla guancia fino al quale si tende l’elastico, detto “punto di ancoraggio”, è in un adulto di circa 70-80 cm. Per garantire una vita abbastanza lunga all’elastico, senza sottoporlo a eccessive sollecitazioni, bisogna prevedere un allungamento di circa tre o quattro volte la sua misura iniziale. Pertanto, in linea di massima, possiamo utilizzare elastici di 23-25 cm., considerando che qualche centimetro andrà perso per i fissaggi alla forcella e alla toppa. Oltre alla lunghezza un altro fattore da considerare è la rastrematura o conicità. Un elastico più largo alla forcella e più sottile alla toppa sviluppa un’accelerazione maggiore, ma tende ad usurarsi più velocemente; è particolarmente utile tenere in considerazione questa caratteristica quando l’elastico viene ritagliato da fasce Thera-Band.
In rete si possono anche trovare dei fogli di calcolo che in base a una serie di parametri da impostare (apertura del tiratore, peso dei proiettili, tipo di bande elastiche e bilanciamento tra potenza sviluppata e loro durata) indicano lunghezza e fattore di rastrematura ideale dell’elastico, o degli elastici nel caso ne vada utilizzato più di uno per lato[2]. Per gli elastici tubolari si parla invece di pseudo-rastrematura, che può essere ottenuta in due modi: utilizzando, a partire dalla forcella, un tubolare con potenza maggiore seguito da un tubolare con potenza inferiore, legati da opportuna giunzione, oppure non fissando l’estremità dell’elastico alla forcella ma facendolo tornare indietro verso la toppa in modo che per una certa lunghezza risulti doppio.
Ritaglio delle bande elastiche da una fascia Thera-Band
L’elastico piatto va fissato alla forcella posizionandolo nella scanalatura già predisposta, facendo attenzione che tutte le parti del legno a contatto con l’elastico siano ben levigate. Per stringere e legare si può utilizzare un comune cordino o, meglio, striscioline di Thera-Band larghe 2-3 mm e lunghe 5-6 cm, da arrotolate attorno all’elastico mentre quest’ultimo viene mantenuto in tensione. Giunti a metà della strisciolina si pone uno spago ad asola, vengono fatti ulteriori giri e quindi va inserita l’estremità nell’asola, in modo che tirando lo spago l’estremità della strisciolina finisca sotto i giri precedentemente fatti, fissando in sicurezza l’elastico.
Nel caso di elastici tubolari, questi vanno inseriti nei buchi fatti con il trapano e fissati inserendovi una pallina di acciaio da 8, cioè dello stesso diametro del buco che, sommato allo spessore della gomma, terrà saldamente fermo l’elastico.
Elastico tubolare fissato alla forcella
La terza variante di fissaggio alla forcella riguarda i comuni elastici a fascetta che, se non vengono tagliati per ricavarne strisce singole, possono essere adoperati nella loro forma circolare. In tal caso si utilizza la forcella con taglio verticale sui bracci, in cui infilare l’elastico per poi rigirarlo su se stesso: ogni lato della fionda avrà così doppie fasce elastiche.
Elastici di gomma a fascetta fissati alla forcellaUlteriore modalità di fissaggio di elastici di gomma, con cordino annodato
Quando infine si fissano gli elastici alla toppa portaproiettile va tenuto conto che è di fondamentale importanza la simmetria della fionda, pertanto la lunghezza dell’elastico utile deve essere uguale in entrambi i lati. Anche in questo caso si possono utilizzare striscette di Thera-Band o un semplice cordino. Nel secondo caso è bene eseguire il nodo di tipo “constrictor knot”, che garantisce ottimo fissaggio e stabilità sotto tensione.
Fasi di realizzazione del constrictor knotTre tipologie di fionde in legno naturale costruite artigianalmente
Il tiro
Se usare una fionda è tutto sommato facile, molto meno lo è colpire il bersaglio. Come nel tiro con l’arco, il corpo va tenuto in posizione laterale, non frontale, rispetto alla traiettoria di mira. Lo sguardo va rivolto al bersaglio con un angolo di circa 40°. La posizione della forcella, a seconda delle abitudini, può essere con i bracci in verticale oppure paralleli al terreno.
Per prendere bene la mira bisogna conoscere qual è il proprio occhio dominante. Esattamente come per le mani, per cui si è destri o mancini, anche per gli occhi ce n’è uno che usiamo di preferenza. Un semplice test per sapere qual è l’occhio “migliore” consiste nell’allungare le braccia davanti a sé e avvicinare le mani lasciando un piccolo foro tra loro in cui inquadrare un oggetto a media distanza. Le mani dovrebbero diventare sfuocate, mentre l’oggetto rimanere chiaro e a fuoco. Ora basta chiudere alternativamente prima un occhio poi l’altro; quando è aperto uno dei due occhi l’oggetto esce dall’inquadratura, quando è aperto l’altro occhio l’oggetto rimane all’interno della finestra: quest’ultimo è il proprio occhio dominante, col quale prendere la mira.
Il punto di ancoraggio dove arriva la mano che tende l’elastico è sulla guancia, all’incirca all’angolo della bocca. Più si abbassa il punto di ancoraggio più la traiettoria del proiettile andrà verso l’alto, e viceversa.
Fionda umana utilizzata durante una rivolta a San Cristobal, Venezuela, febbraio 2014
Disclaimer
Una fionda non ben costruita è uno strumento pericoloso: ricevere l’elastico in velocità su un occhio o il proiettile su un dito non sono esperienze piacevoli! Ricordatevi sempre che una fionda non è un giocattolo e può esprimere potenze anche molto superiori ad armi che richiedono per l’acquisto licenze specifiche (come armi ad aria compressa con potenza maggiore di 7,5 joule) e, quindi, può procurare lesioni gravi a se stessi e ad altri. La legge, inoltre, non è affatto tenera verso chi gira per strada o, peggio, partecipa a manifestazioni pubbliche armato di fionda “senza giustificato motivo”. In nota trovate i riferimenti normativi[3]. Sapevatelo!
[1] Ne Il saggiatore Galileo confuta quanto affermato da Lotario Sarsi (sotto il cui nome si cela il gesuita Orazio Grassi) che, partendo dal moto delle comete, aveva finito per tirare in ballo anche antiche testimonianze sulle conseguenze della velocità di una frombola sulle uova: “io non posso non ritornare a meravigliarmi – scrive Galileo – che pur il Sarsi voglia persistere a provarmi per via di testimonii quello ch’io posso ad ogn’ora veder per via d’esperienze. […] Se il Sarsi vuole ch’io creda a Suida che i Babilonii cocesser l’uova col girarle velocemente nella fionda, io lo crederò; ma dirò bene, la cagione di tal effetto esser lontanissima da quella che gli viene attribuita, e per trovar la vera io discorrerò così: «Se a noi non succede un effetto che ad altri altra volta è riuscito, è necessario che noi nel nostro operare manchiamo di quello che fu causa della riuscita d’esso effetto, e che non mancando a noi altro che una cosa sola, questa sola cosa sia la vera causa: ora, a noi non mancano uova, né fionde, né uomini robusti che le girino, e pur non si cuocono, anzi, se fusser calde, si raffreddano più presto; e perché non ci manca altro che l’esser di Babilonia, adunque l’esser Babiloni è causa dell’indurirsi l’uova, e non l’attrizion dell’aria», ch’è quello ch’io volevo provare”. Per inciso: sulle caratteristiche delle comete, il gesuita aveva ragione.
[3] La legge 18 aprile 1975, n. 110, “Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi”, all’art. 4 “Porto di armi od oggetti atti ad offendere” (con le successive modifiche introdotte dal d. lgs. 26 ottobre 2010, n. 204), prescrive: “Senza giustificato motivo, non possono portarsi, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio atti ad offendere, mazze, tubi, catene, fionde, bulloni, sfere metalliche, nonché qualsiasi altro strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona […]. Il contravventore è punito con l’arresto da sei mesi a due anni e con l’ammenda da 1.000 euro a 10.000 euro. Nei casi di lieve entità, riferibili al porto dei soli oggetti atti ad offendere, può essere irrogata la sola pena dell’ammenda. La pena è aumentata se il fatto avviene nel corso o in occasione di manifestazioni sportive. […] Chiunque, all’infuori dei casi previsti nel comma precedente, porta in una riunione pubblica uno strumento ricompreso tra quelli indicati nel primo o nel secondo comma, è punito con l’arresto da sei a diciotto mesi e con l’ammenda da 2.000 euro a 20.000 euro”.
L’Adriatico delle frontiere
A cura della Redazione [QUI IL PDF]
Posto di frontiera tra Burkina Faso e Niger – Foto di Amadou
La frontiera dell’Adriatico, dal golfo di Kvarner fino al Salento, passando per le cartoline di Rimini e il porto di Ancona, è una linea che va e viene come le sue onde: è un confine che la storia e le lotte trasformano, abbattono e innalzano di continuo. Negli ultimi mesi è stata soprattutto la migrazione di massa dalla Siria in guerra a far tremare le frontiere dell’Europa. E improvvisamente anche le Marche hanno riscoperto di essere “ad est”. Riemerge in chi c’era in quei giorni la memoria dei conflitti degli anni ’90, gli sbarchi delle fughe di massa dall’Albania, la guerra in Croazia, in Bosnia, in Kosovo e le lunghe carovane dei rifugiati.
Nella seconda metà degli anni ’90 tante cittadine balneari della riviera hanno aperto le porte, spesso discretamente, con meno retorica di oggi, a chi fuggiva dalla pulizia etnica e dal servizio militare obbligatorio. Alberghi, pensioni, case private, si erano popolati di voci e sguardi nuovi. Oggi i profughi arrivano da un po’ più lontano, spinti da un vento di guerra che ogni tanto fa bruciare anche l’Europa. Le autorità prima chiudono dietro il filo spinato migliaia di persone in un nuovo agghiacciante sistema di campi di raccolta, poi diffondono la paura di nuove invasioni e rinforzano le frontiere interne: Brennero, Ventimiglia, Tarvisio, e così impariamo da capo la geografia dei passeurs e dei doganieri.
Il razzismo ha scavato in profondità anche nella provincia marchigiana, la popolazione invecchia, il senso del futuro è scomparso. E accade che ospitare venti ragazzi neri diventi un dramma per delle cittadine ancora piene di soldi e paure. Tuttavia anche in questi ultimi mesi c’è stato chi non ha accettato di restare davanti alla televisione a rosicare, chi si è organizzato da solo, chi lo ha fatto in collettivo, chi lo ha fatto senza i buoni consigli degli italiani. Dall’altra parte anche questa volta c’è chi costruisce muri, chi semina odio e si approfitta delle miserie e dei bisogni degli emigranti. Oggi l’Adriatico è ancora una frontiera mentre noi vorremmo che tornasse ad essere soltanto un mare. Abbiamo raccolto, come è nostro metodo, delle storie per raccontare quello che sta succedendo. Nelle Marche sono ospitati circa 1.700 rifugiati e richiedenti asilo, pochi nel sistema nazionale SPRAR e molti di più da una rete di cooperative e associazioni che dipendono direttamente dall’autorità e dai fondi statali erogati dalla Prefettura di Ancona. Questo sistema è fatto anche di sfruttamento del lavoro degli operatori sociali precari, improvvisazione, razzismo, noia, lavoro nero.
Ma è anche una porta aperta improvvisamente sul mondo, una storia diversa che racconta come…
Un gruppo di giovani senegalesi fermato dalla polizia del Burkina Faso – Foto di Amadou
Siamo tutti sulla stessa barca
Amadou, un nome di fantasia perché ci ha chiesto di rimanere anonimo, è appena tornato ad Ancona dopo un viaggio in Africa. Dopo tanti anni di precarietà estrema, sballottato tra campi di raccolta, centri di accoglienza e alberghi fatiscenti, dopo aver girato mille progetti fallimentari e tante associazioni, ha trovato finalmente un lavoro come mediatore culturale ed è riuscito a fare quello che tanti e tante devono rimandare per lunghi anni: tornare nella sua terra da persona che è riuscita a compiere almeno il primo passaggio cruciale dell’emigrazione, quello di ottenere un permesso per vivere in Europa.
Lui però non può tornare nel suo paese perché è perseguitato per motivi politici. Ha attraversato diverse frontiere per incontrare comunque la sua famiglia in un luogo segreto e in questo viaggio ha incontrato tanti gruppi di giovani che continuano a partire come aveva fatto lui anni prima, attraverso la pericolosa rotta del deserto fino alle coste libiche, per poi arrivare nei piccoli centri delle Marche dove vengono ospitati nel limbo della cosiddetta accoglienza.
Tu conosci bene la vita dei richiedenti asilo e dei rifugiati qui nelle Marche, perché è anche parte della tua storia. Che effetto ti ha fatto tornare indietro anche se per poco?
Amadou: È stato un viaggio lunghissimo, stancante. Ho attraversato tante frontiere, perché non posso tornare al mio paese con un aereo, sono dovuto andare a piedi, in autobus, su delle moto scassate, sopra un asino. E una cosa che fa impressione è che in Africa c’è sempre gente che si sposta, anche se le strade sono rotte e i mezzi vanno lenti. Lungo la strada, tu vedi sugli autobus, sui camion, dei gruppi di giovani, spesso quasi senza bagagli, che viaggiano verso Nord. Ho incontrato tanti giovani che vanno ad Agadez che è la parte nord del Niger, da lì si va in Libia. Qui si parla spesso del traffico degli esseri umani ma è lì che inizia questa storia, perché un africano per attraversare un’altra frontiera africana deve pagare dei soldi in nero alla polizia. E non sono pochi soldi. Deve dare una cifra che qua non è niente ma lì è qualcosa e se non li hai non passi. Io ho dovuto pagare sempre, non ti puoi rifiutare, la polizia ti picchia, ti sequestra anche per giorni. Dei ragazzi senegalesi che ho fotografato e con cui ho parlato erano fermi da giorni fuori da un posto di polizia. Non li lasciavano andare perché non avevano più soldi, già glieli avevano rubati tutti lungo la strada. Finché uno non ha chiamato a casa e con il money transfer si sono fatti mandare dei soldi.
Ci sono quelli che vendono tutti i vestiti per poter mangiare e continuare la strada. L’ultimo ragazzo che ho incontrato in Burkina Faso tornava dalla Libia, aveva perso tutto sulla strada e portava solo una t-shirt e un pantalone addosso. Mi ha detto: “fratello vedi quello che ho addosso? È tutto quello che mi resta. Io sto tornando a casa per fare una riunione nel mio quartiere. Perché quello che ho visto io non voglio che lo veda un altro mio fratello. Tutta la fatica del mondo e non sono neanche arrivato a destinazione, alla fine ho rinunciato”.
E la polizia ad ogni posto prende dei soldi, quando si ferma la macchina basta che non sei del paese, se ad esempio sei in Burkina e non sei del Burkina devi pagare… il traffico di esseri umani, questo è il traffico, il fatto che non puoi girare da una nazione all’altra senza pagare dei soldi. Pensa, è come se un italiano per passare dalla Francia dovesse pagare in questo modo, ma te lo immagini?!
Questo mi ha fatto arrabbiare.
Adesso si parla di chiudere le frontiere o altro. Ma per noi, per tanti la frontiera è già chiusa, anche se hai i documenti non puoi passare se non hai i soldi. In tanti fanno lo stesso tragitto, ivoriani, ghanesi, l’ultimo punto è Agadez in Niger dopo prendono i camion che vanno verso la frontiera libica ed entrano in Libia e anche lì non è finita. E anche se riesci ad arrivare in Italia non è ancora finita…
Manifestazione dei richiedenti asilo, Ancona, 21 maggio 2016
Il 7 aprile ad Ancona si è svolta una manifestazione di rifugiati provenienti da molti paesi dell’Africa e dal Pakistan che vivono in diverse strutture di accoglienza nelle Marche. Nel 2015 la nostra regione, secondo dati ufficiali, ha ospitato 1.732 persone, il 3,2% del totale in Italia, in strutture con una media di venti posti, mentre circa cento persone sono alloggiate nel Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo (CARA) di Arcevia. La protesta è nata da un’iniziativa autonoma per denunciare l’altissima percentuale di permessi di soggiorno negati dalla Commissione Territoriale di Ancona. Secondo i dati dello stesso Ministero degli Interni, nel capoluogo dorico il 73% delle richieste viene rifiutato. È un dato fra i più alti d’Italia insieme a quelli di Cagliari, Firenze e Caserta. Gli esiti positivi confermano che pochissimi, il 4,6%, si vedono riconosciuto lo status di rifugiato, il 4,9 % la protezione sussidiaria e il 17,4 % la protezione umanitaria.
Un mese dopo, il 21 maggio, i rifugiati sono tornati di nuovo in strada questa volta accompagnati da molti italiani solidali per continuare a fare pressione sulle istituzioni. Sullo sfondo rimangono però come un non detto tutte le contraddizioni del “sistema dell’accoglienza”, nel quale spesso cooperative e associazioni svolgono un ruolo di mediazione e controllo dei rifugiati che non rispetta la loro autonomia e i loro diritti. Iniziano a emergere anche storie di sfruttamento selvaggio del lavoro nero di troppi giovani che non trovano un’occupazione utile e dignitosa. La cronaca ci racconta anche di altri sciacalli, leghisti e fascisti miserabili in certi casi padroni e padroncini a loro volta, che provano a costruire carriere politiche con le campagne contro l’apertura di nuove strutture di accoglienza o contro quelle già esistenti.
La manifestazione dei rifugiati del 7 aprile ha sorpreso tutti: Questura, Prefettura, Comune, associazioni… come spesso accade nessuno si immagina che i neri, i rifugiati, persone etichettate e messe da una parte siano capaci di organizzarsi e rivendicare dei diritti. Come è andata?
Amadou: La Prefettura decide con le sue regole, c’è una convenzione che è stata firmata [tra le organizzazioni che ricevono i fondi per l’accoglienza e la Prefettura] ma dopo la convenzione ci sono delle nuove regole che escono di giorno in giorno e noi dobbiamo seguire queste regole se no per loro, per la Prefettura, non va bene. Noi cerchiamo di fare in modo che non ci siano problemi né per gli uni né per gli altri: noi siamo in mezzo, tra i rifugiati e la Prefettura, è così che funziona. Come associazione siamo in mezzo perché dobbiamo intervenire con la Prefettura per parlare e per discutere delle cose e dobbiamo anche parlare con i ragazzi cercando di farli stare calmi. Ma se il problema è più grande di noi lo portiamo a loro [alla Prefettura]. Ad esempio se una persona ha un problema che noi non possiamo risolvere, come un problema con la giustizia, noi siamo obbligati a fare riferimento a loro.
La protesta del 7 aprile come è nata?
Amadou: Questa protesta nasce dal fatto che i ragazzi non hanno accesso ai documenti. I cinque principi su cui si basa la richiesta per avere l’asilo non sono quasi per niente considerati dalla Prefettura e dalla Commissione di Ancona. Quei ragazzi hanno voluto manifestare per chiedere spiegazioni su quello che sta succedendo, perché la cosa strana è che a Napoli o a Bologna i permessi li stanno dando. A seconda della situazione ogni persona può avere un tipo di protezione diversa ma qua ad Ancona non è così: o si riceve il permesso per l’asilo politico o niente. Le altre quattro motivazioni non sono considerate. Ci sono dei ragazzi che stanno nelle Marche da due anni e non hanno nessuna risposta. Presentare ricorso poi non è più una strategia sicura come prima. Infatti quando una persona faceva ricorso alla fine riusciva a ricevere qualche tipo di documento, adesso il ricorso viene rifiutato ugualmente.
Quali sono le nazionalità che hanno i maggiori problemi?
Amadou: Tutti hanno dei problemi oggi. Solamente i siriani in questo momento ricevono i documenti, se riescono ad arrivare.
Secondo te perché ad Ancona e nelle Marche c’è questa situazione?
Amadou: Non te lo so dire, ma noi sappiamo che non dipende dalle associazioni che lavorano con i profughi ma dipende dalla Commissione. Se c’è qualcosa che non va nella Commissione lo dobbiamo sapere. Abbiamo capito che la Commissione di Ancona punta a considerare lo Stato da dove proviene la persona, ma se il mio Paese non è in guerra, comunque posso essere stato sottoposto a una persecuzione. I ragazzi con questa logica non trovano un accesso ai documenti neanche attraverso la protezione umanitaria. Per fare domanda di protezione umanitaria ci sono cinque motivi ma di cinque motivi ne viene considerato solo uno. [Secondo la legge italiana la persecuzione, per essere rilevante ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, deve essere riconducibile ai seguenti motivi, come definiti dall’art. 8, D.Lgs. 251/2007: razza, religione, nazionalità, particolare gruppo sociale, opinione politica]. Ad esempio un siriano che sbarca oggi ha subito accesso, invece un nigeriano, un gambiano, un maliano che sbarca oggi anche se non ha una storia di guerra può avere una storia legata agli altri quattro motivi ma per lui è difficile avere il permesso e questa cosa è più dura ad Ancona perché i ragazzi che si rivolgono alle altre Prefetture lo riescono a trovare, magari un permesso di protezione umanitaria. Qui al 95% vengono rifiutati. Il problema adesso è che c’è una scadenza per l’accoglienza e quando questa finirà cosa faranno i ragazzi? Non hanno un documento, non hanno niente.
Idomeni, marzo 2016 – Foto di Valeria Tinti
Quante persone sono in questa situazione ad Ancona?
Amadou: Il 95% dei rifugiati nelle Marche è in queste condizioni. Nei nostri servizi in città noi ospitiamo più di cento persone, ma tra queste ce ne saranno venti che hanno avuto accesso ai documenti. Poi sono stati presentati tanti ricorsi ma i ricorsi non sono una sicurezza perché il giudice può rifiutarli. Il problema di Ancona è che non si sa esattamente chi decide.
Abbiamo saputo che dopo la manifestazione del 7 aprile un gruppo è stato ricevuto dalla Prefettura, c’è un dialogo in corso?
Amadou: Ai cinque ragazzi che sono entrati dentro hanno detto: “cercate di calmare i ragazzi là fuori, ma noi non abbiamo un’alternativa sicura”. Allora sono usciti e hanno detto che tutto era stato risolto. Quando però la folla è andata via alcuni hanno ricevuto la vera informazione, perché la delegata della Prefettura che li ha ricevuti ha detto che non può fare niente perché non dipende da lei e che non sa come fare. Ha promesso che qualcosa verrà fatto. Insomma sono stati convinti a mandare via la folla senza avere ricevuto niente in cambio. Tutto questo però è stato organizzato dai ragazzi, in maniera autonoma, in questo caso le associazioni non hanno avuto niente da dire. I ragazzi si sono cercati, hanno fatto un passaparola e non dimenticare che molti sono amici tra loro. Funziona così, qualcuno fa una proposta e si va a manifestare insieme. Lo hanno fatto così davvero, l’aiuto che hanno avuto dalle associazioni è stato per chiedere il permesso per la manifestazione e basta. Non credo che qualcuno abbia messo bocca sui contenuti.
Perché qual è la posizione delle associazioni che lavorano con i profughi? Hanno una visione diversa dei loro problemi?
Amadou: Beh, questa è una cosa un po’ delicata, non ti posso rispondere.
Sappiamo di ragazzi, ospitati da cooperative nella provincia di Ancona, che hanno lavorato e non sono stati pagati.
Amadou: Secondo me c’è molto lavoro in nero però, nel caso nostro, con l’obiettivo dell’integrazione cerchiamo almeno di attivare un tirocinio per la persona, per fargli prendere qualche soldo, per fargli fare esperienza di lavoro, tutto qua. Questo da parte nostra. Invece in giro ci sono quelli che fanno dei lavori in nero, a volte non sono pagati e lo fanno ugualmente. Questo esiste, non so come la prendete voi ma è così.
Visto che le persone stanno qui a lungo senza documenti, in attesa, è normale che provino a fare qualcosa…
Amadou: L’idea è questa. Infatti se io non trovo i documenti per procurarmi un vero lavoro come devo fare? Voglio vivere, forse ho lasciato qualcuno dietro di me al mio paese che ha bisogno dei soldi, devo fare qualsiasi cosa per avere anche soltanto un poco, è così che funziona.
Idomeni, marzo 2016 – Foto di Valeria Tinti
Tu cosa pensi del lavoro gratis in cambio dell’accoglienza?
Amadou: Io rifiuto questa cosa, non la vedo una bella cosa. L’accoglienza è basata sul fatto che se tu associazione hai ottenuto la convenzione per svolgere questo lavoro la persona deve essere accolta, sia che lavori o che non lavori. La seconda cosa è che se una persona può dare una mano a fare qualcosa va bene, ma non sempre tutto gratis. Io ad esempio se lavoro con dei ragazzi che devono pulire la strada non lo facciamo gratis, cerchiamo sempre di ottenere qualcosa in cambio. Altre associazioni invece lo fanno, ma c’è una parte dei soldi che prendono dalla Prefettura che è destinata all’integrazione lavorativa e dove li spendono questi soldi? Cercano un Comune che abbia bisogno di un lavoro e lo fanno fare ai ragazzi gratis con la scusa di essere integrati, accolti o qualcosa del genere, ma poi chi si mangia questi soldi? Ho sentito delle storie dalle parti di Senigallia dove i ragazzi vanno a pulire le strade come volontari. Io penso che anche se si tratta di poche ore qualcosa si debba dare a chi lavora. Anche se non ti pago il giusto ti ho dato comunque qualcosa, questo è meglio di niente.
Si parla di sfruttamento sul lavoro e che cosa è questo? Questo sistema viene chiamato volontariato, io posso fare il volontario perché non ho niente da fare, ma non per sempre. Lo posso fare per aprirmi una strada che mi dia lavoro un domani. Un conto è se tu mi dici “vieni a pulire una biblioteca una volta alla settimana”; nella biblioteca io vengo a pulire e magari incontro anche altra gente, è un modo di integrarmi. Ma se vado in campagna a tagliare gli alberi [ride] chi devo conoscere, come dovrei integrarmi?
Come richiedente asilo, con i documenti in regola, la persona ha la possibilità di fare un tirocinio, non volontariato. Un tirocinante può essere preso ad esempio da un bar e può fare venti ore. Se il proprietario non paga, l’associazione versa una cifra al tirocinante per tirare avanti e poi magari alla fine il proprietario gli fa un contratto, ma è difficile che succeda. Per la maggior parte, il tirocinio serve solo per tenere occupata la persona, spesso ti dicono che alla fine ti assumeranno ma alla fine questo non succede e devi andartene.
Il problema principale sono i documenti perché se uno ha i documenti, l’Europa è grande, se non mi funziona qua vado a provare da un’altra parte. Non sono costretto ad andare in giro clandestinamente se ho un documento che mi permette di muovermi almeno per cercare qualcosa da un’altra parte. Poi come devo lavorare, se in nero o in regola è qualcosa che a quel punto riguarda me.
Idomeni, marzo 2016 – Foto di Valeria Tinti
Rifiutare i confini, aprire le frontiere
Idomeni, tra la Macedonia e la Grecia era un nome indecifrabile, come i tanti di un altrove che non trova posto nelle vetrine della società ricca. Poi grazie alla resistenza caparbia di migliaia di donne, uomini e bambini è diventato il simbolo di un movimento umano che combatte per la libertà. Idomeni è un piccolo centro al nord della Grecia, a pochi chilometri dal confine macedone, che è stato per un anno, fino al suo sgombero nel maggio 2016, il simbolo nell’immaginario collettivo di ciò che l’Europa riserva a chi scappa da guerra e miseria. Il campo, formatosi tra una stazione merci e un macello, ha ospitato fino a 10.000 persone in gran parte siriane ma provenienti anche da Pakistan, Afghanistan, Kurdistan. Per i viaggiatori la cittadina dovrebbe essere un luogo di passaggio di un lungo itinerario fino al Nord Europa, dove si sosta poche ore prima di attraversare il confine verso la cosiddetta rotta balcanica. Eppure per mesi quel campo è diventato un luogo sospeso nel tempo e nello spazio a causa della chiusura dei confini verso la Macedonia. La militarizzazione del campo era intensa e frustrante, le pressioni sui volontari provenienti da tutta Europa sempre più frequenti e sistemiche, l’angoscia e la frustrazione palpabili. La paura di tornare indietro e la disperazione per i famigliari che muoiono in Siria sotto i bombardamenti ha prodotto serie conseguenze psicologiche che si sono aggiunte alle già difficili condizioni igienico-sanitarie. Probabilmente, ciò che possiamo fare da qui è restituire una dimensione umana a tutto ciò: oltre le frontiere e il filo spinato, gli eserciti e gli accordi tra governi ci sono storie e persone, una marea umana ammassata ai confini di un’Europa che è direttamente responsabile di quanto sta accadendo. Accade a Ventimiglia, accade a Calais, accade al confine serbo-ungherese, accade a Idomeni. Attorno alle iniziative di solidarietà con gli abitanti del campo di Idomeni si è sviluppato a partire dai primi mesi del 2016 un nuovo impulso di solidarietà e complicità che ha mosso in varie forme molte persone a prendere l’iniziativa per costruire azioni concrete. Ilaria dello Spazio autogestito Grizzly di Fano ha partecipato alla campagna Over the fortress organizzata dai Centri sociali delle Marche per portare aiuti e solidarietà a Idomeni. Ci racconta come si è svolto il viaggio, che situazione ha trovato nel campo profughi e cosa le ha lasciato questa esperienza.
Ci racconti come si è svolto il tuo e vostro viaggio a Idomeni?
Ilaria: Il viaggio rientra in un percorso che si è sviluppato attraverso la collaborazione dei vari centri sociali italiani e poi si è ampliato, aprendosi a tante realtà dell’associazionismo. La prima esperienza a cui abbiamo partecipato anche noi del Grizzly di Fano è stata la Staffetta Over the fortress sull’isola greca di Samos, vicino alle coste turche, per aiutare i tanti migranti che vi approdavano. Poi l’attenzione si è spostata su Idomeni, che è un campo profughi al confine tra Grecia e Macedonia. L’organizzazione è stata lunga e complicata perché in pochi giorni sono arrivate tantissime adesioni, quasi trecento, parecchie delle quali esterne ai centri sociali, e quindi bisognava prepararsi a risolvere diversi problemi pratici, anche semplicemente il dove dormire e come spostarsi.
Siamo partiti quasi tutti insieme con un traghetto dal porto di Ancona. La nostra permanenza al campo è stata di tre giorni (altri due sono stati di viaggio) e in questo tempo siamo riusciti a distribuire tutto il materiale che avevamo raccolto nei mesi precedenti e caricato su ben cinque pullman. La distribuzione non è avvenuta solo nel campo principale di Idomeni, ma anche in altri campi relativamente più piccoli che si trovano lungo il confine e che non essendo sotto i riflettori mediatici non hanno neanche quella base di aiuti dell’associazionismo trovandosi quindi, se possibile, in condizioni ancora peggiori. Il secondo giorno quando ci stavamo di nuovo dirigendo verso il campo, la polizia si è schierata con le camionette a pochi metri dall’ingresso bloccandoci la strada e impedendoci di entrare. Abbiamo passato tutta la mattina lì, scaricando i pullman per costruire una sorta di “barricata” di aiuti umanitari, in faccia alla polizia del tanto democratico Tsipras che non ci permetteva di consegnarli all’interno del campo. La scusa usata dalle forze dell’ordine per il loro comportamento totalmente arbitrario è stata che i migranti stavano portando avanti una manifestazione per far pressione sul confine chiedendone l’apertura – cosa che in realtà avviene ogni giorno – e la presenza di noi occidentali avrebbe potuto creare tensioni. Solo dopo diverse ora siamo riusciti a passare. Abbiamo quindi distribuito aiuti, concentrandoci su scarpe e vestiario, mentre il giorno precedente avevamo portato prevalentemente generi di prima necessità per i bambini più piccoli.
Idomeni, marzo 2016 – Foto di Valeria Tinti
La distribuzione non è stata facile perché a Idomeni si vive in una situazione di nulla più totale e in questi casi, come si può immaginare, si creano anche situazioni difficili da gestire, con qualcuno che si vuole accaparrare vestiti per rivenderli o altri che vogliono prenderli per usarli come combustibile. Proprio così: nel campo non c’è più niente da bruciare e quindi queste persone anche solo per cucinare bruciano le scarpe, la plastica, producendo un odore terribile che si spande per tutto il campo. Il primo giorno, per evitare problemi nella distribuzione dei materiali per bambini, siamo andati noi stessi in giro con delle buste preparate, chiedendo cosa servisse e consegnandolo direttamente a chi ne aveva necessità. D’altra parte è anche vero che si è creata una certa autorganizzazione, cioè persone sconosciute fino al giorno prima, di culture e abitudini diverse, sono riuscite a mettersi insieme per migliorare le condizioni di vita nel campo, penso ad esempio ai Centri donna realizzati anche grazie all’aiuto di Over the fortress e gestiti da donne siriane.
Il terzo giorno, terminata la distribuzione dei beni, siamo andati a Salonicco per dar vita a una manifestazione di denuncia del vergognoso accordo tra Unione Europea e Turchia e per reclamare l’apertura dei confini. Il corteo è stato molto partecipato e visibile, è passato anche abbastanza vicino all’ambasciata turca e si è simbolicamente concluso al porto. Si sono unite a noi varie associazioni greche, anche una che il giorno precedente, mentre eravamo stati bloccati dalla polizia, era venuta a sostenerci e con la quale abbiamo stretto dei buoni rapporti. Va detto che a Idomeni le associazioni presenti stabilmente sono Medici senza frontiere e le cucine No border che riuscivano a garantire uno o due pasti durante la giornata. Abbiamo invece notato la totale assenza dell’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati. Assente sia in quel campo che negli altri in cui ci siamo recati, che sono campi militari dove stanno deportando queste persone (alcuni ci vanno volontariamente perché lo vedono quasi come una via d’uscita da quel limbo in cui si trovano ogni giorno senza sapere cosa li aspetterà). In questi campi gestiti dai militari è vietato l’accesso ai volontari di qualsiasi genere. Noi siamo riusciti a confrontarci con quei pochi migranti che uscivano all’esterno e volevano parlare con noi e ci hanno detto che la condizione è quasi peggiore di quella del campo profughi creato a Idomeni; l’unica cosa fatta è stata la raccolta dei dati personali, condotta tra l’altro in maniera molto approssimativa. Nei fogli che le autorità hanno rilasciato c’era scritto, per tutti, “final destination Germany”, cosa che ha creato molta inquietudine perché in realtà a nessuno era stato chiesto dove volesse andare.
Idomeni, marzo 2016 – Foto di Valeria Tinti
Personalmente cosa ti è rimasto di questa esperienza?
Ilaria: A volte quando si ascoltano i racconti di persone che tornano da esperienze di volontariato si sente mettere in luce l’utilità di queste pratiche. Io penso invece che da questo viaggio siamo tornati non proprio con un senso di inutilità, ma di sicuro con la chiara percezione di quanto sia difficile trovare un’efficace via d’uscita da quella situazione. Certamente a livello umano è stata un’esperienza che mi ha lasciato un segno e che senza dubbio rifarei, però la frustrazione ti sale quando vedi il poco che sei riuscito a fare, perché dare qualche paia di scarpe non è niente in confronto a quello che succede lì, ma soprattutto perché queste persone non hanno bisogno di un paio di scarpe in più e il nostro ruolo non deve ridursi a quello di abbellire il campo o renderne migliori le condizioni di sopravvivenza. Questo te lo facevano capire proprio le persone che erano nel campo, che ti ringraziavano per gli aiuti e allo stesso tempo ti dicevano che il loro vero bisogno è l’apertura di quel maledetto confine. Quando siamo partiti la nostra idea era di fare ciò che realmente fosse utile per loro e, soprattutto, ogni iniziativa sarebbe dovuta partire da loro stessi, ma il vero problema non è solo l’atto dell’apertura del confine, perché il punto è che una volta che il confine è aperto e loro sono passati li prende la polizia macedone e quindi è tutto inutile se non peggio di prima.
Penso comunque che dobbiamo continuare a combattere le politiche di chiusura dei confini, perché oltre ad essere libere di fuggire dalle guerre e dalla fame, le persone devono poter decidere dove portare avanti in maniera dignitosa la propria vita, ovunque vogliano. I confini vanno rifiutati e le frontiere vanno aperte, in un modo o nell’altro.
Idomeni, marzo 2016 – Foto di Valeria Tinti
Ho deciso di sabotare un ingranaggio
Valeria è una giovane psicologa che lavora in provincia di Ancona. Anche lei ha partecipato alla carovana di volontari promossa dai Centri sociali delle Marche durante le vacanze di Pasqua nel campo di Idomeni, al confine con la Macedonia. Ci tiene a precisare che non è una militante dei centri sociali e non ha esperienze precedenti di solidarietà internazionale, ma non poteva sopportare di restare comodamente a casa a guardare dallo schermo una ingiustizia in atto. Alcune delle foto che pubblichiamo in questo numero sono le sue.
Ci racconti perché sei andata a Idomeni con la carovana Over the fortress? In che modo hai saputo dell’iniziativa e perché hai deciso di partire?
Valeria: Sono venuta a conoscenza dell’iniziativa per caso, leggendo un post condiviso da un’amica su Facebook. Arrivata alla fine dell’articolo avevo già deciso di partire, il mio ragazzo è stato d’accordo e così abbiamo chiamato il numero indicato per formalizzare la nostra adesione. Sentivo che era la cosa giusta da fare al momento giusto. Negli ultimi anni ho sempre più l’impressione che la mia vita si stia scollando da tutto ciò che mi accade intorno. Credo che oggi non sia più possibile concepire il proprio “intorno” come limitato alla realtà più vicina, escludendo il resto del mondo, perché ciò equivarrebbe a ignorare che siamo parte di un unico sistema complesso, dove tutto ci condiziona e tutto condizioniamo. Ho l’impressione, dicevo, che sempre più la mia vita proceda su un binario parallelo rispetto al resto del mondo: ogni mattina mi alzo, faccio colazione, vado al lavoro e la giornata si risolve in sequenze di comportamenti più o meno automatizzati, seguendo il tempo circolare della routine quotidiana. Ogni tanto guardo un telegiornale e allora mi scorrono davanti le immagini di queste tragedie: interi popoli in fuga dalla fame e dalle guerre. Osservo le immagini, capisco il loro significato, ma non riesco a sentire quasi niente oppure l’emozione dura pochissimo, i pensieri mi sfuggono e non si trasformano in nessuna azione. Andare di persona a Idomeni ha voluto dire, come già intuivo nel momento in cui ho deciso, sabotare un ingranaggio. Ho visto coi miei occhi e soprattutto sono stata sopraffatta da emozioni che mi hanno impedito di rifiutare ciò che avevo davanti, quella realtà inaccettabile, relegandola nell’ambito dell’assurdo. Questo genere di consapevolezza, che ha anche una valenza affettiva e va al di là del semplice essere a conoscenza di qualcosa, è l’unica che a mio parere può spingere una persona a gridare a gran voce il proprio dissenso, perché non si possa dire, questa volta, che tutto è successo sotto occhi indifferenti.
Così, uno dei moventi principali della carovana solidale a cui ho partecipato era la volontà di riportare una testimonianza affettivizzata di quanto hanno passato e stanno passando le persone che sopravvivono tra il fango e la diossina nei campi autogestiti di Idomeni e delle zone limitrofe e in condizioni perfino peggiori nei campi gestiti dal governo greco. E ciò è stato possibile grazie agli eventi di sensibilizzazione che dopo il nostro ritorno sono stati organizzati nei centri sociali, nei circoli, nelle scuole, nelle università e in chissà quanti altri luoghi e grazie alle decine di racconti che ognuno di noi, ed eravamo tanti, ha condiviso con gli amici e con chiunque gli abbia domandato “che cos’hai fatto a Pasqua?”. Una risonanza importante insomma, che si deve al gran numero di persone che ha deciso di partecipare a questa azione collettiva, persone di ogni età, non necessariamente legate a centri sociali o associazioni, che hanno scelto di calarsi fino in fondo nella storia che si sta scrivendo e di affidarsi al proprio vissuto diretto, come baluardo estremo contro il processo di disumanizzazione in atto, a protezione di un progetto di vita in comune, dove l’incontro con l’altro è la linfa stessa e non l’elemento tossico.
Idomeni, marzo 2016 – Foto di Valeria Tinti
Quali sono i tuoi contatti con i rifugiati e le rifugiate nella tua vita quotidiana?
Valeria: Personalmente non incontro spesso persone migranti nella mia vita privata e, a differenza di molti miei colleghi, neppure nel lavoro. Tuttavia credo che le questioni in ballo ci riguardino intimamente anche se all’apparenza non ci toccano sul piano concreto, perché mettono in discussione la nostra stessa idea di esistenza e di relazione con l’altro, con il diverso da sé.
Cosa pensi dell’Europa e dell’attuale sistema di controllo e repressione delle migrazioni?
Valeria: Penso che l’Europa si stia muovendo in modo da cavalcare un meccanismo di scissione schizofrenica a cui ricorriamo per difenderci dal male e che ci porta a dividere l’umanità fra “noi” e “loro” e a sentirci perseguitati da qualcosa di esterno e di estraneo. I perché possono essere tanti e credo che abbiano comunque a che fare con logiche di potere e di profitto.
In futuro pensi di partecipare ad altre iniziative simili? Conosci persone che si stanno organizzando per fare qualcosa in concreto?
Valeria: Dopo il viaggio a Idomeni, ci sono state diverse persone che dalle Marche sono andate a una manifestazione al confine italo-austriaco e io sono andata a quella presso l’ambasciata turca a Roma il Primo maggio. So che stanno proseguendo diverse iniziative di raccolta fondi e una staffetta di volontari e volontarie al campo di Idomeni.
Idomeni, marzo 2016 – Foto di Valeria Tinti
Quella rabbia è anche la nostra
Abbiamo conosciuto M., ragazzo macedone che vive a Pesaro, partito ad aprile per Idomeni. La sua storia ci ha insegnato molto e vogliamo raccontarla, perché mostra come la solidarietà e la complicità tra simili possano arrivare ovunque. Ogni muro può essere buttato giù, ogni frontiera può essere attraversata, le politiche razziste possono essere boicottate, l’infamia che si sta consumando a pochi chilometri dalle nostre coste può essere mostrata al mondo intero nella sua cruda realtà. Siamo convinti che certe esperienze cessino di essere una scelta individuale laddove se ne vuole fare bagaglio per aspirazioni collettive. Il confine oggi è la linea del privilegio, ciò che determina chi ha diritti e chi non ne ha. E i confini si moltiplicano e si estendono secondo geografie in evoluzione. Schedature, centri di accoglienza, controlli della polizia, rimpatri forzati, politiche migratorie, retorica populista e razzista. Tutto questo va superato, confini e barriere vanno spazzati via.
La tua storia è stata raccontata sui giornali e persino dalle Tv locali, ma prima ancora è girata sulle reti sociali, catalizzando la voglia di tanti e tante di rompere la passività. Perché hai deciso di partire?
M.: Sono partito mercoledì 21 aprile, insieme ad un amico, Andrea, che si è offerto di aiutarmi in questa impresa. Organizzare il viaggio e assicurarsi di arrivare a destinazione è stata un’impresa, ed è forse questo uno dei paradossi di questa situazione: voler semplicemente aiutare gli altri sembra essere incomprensibile per l’enorme macchina burocratica dell’accoglienza. Tutto è iniziato molto tempo fa, quando mi è stato chiesto da amici e conoscenti come fare per portare il proprio contributo lì sul posto. Non avevo risposte, nonostante quel luogo fosse a pochi chilometri dal paese in cui sono nato, sembrava complicatissimo portare aiuti e beni di prima necessità. Ed ecco che, tra contatti sul posto, compagni/e, amici e associazioni che lavorano sul campo da tempo, quel senso di impotenza è scomparso lasciando il posto alla voglia di mettersi in gioco in prima persona. Questo dipende probabilmente dalla mia storia personale. Io, figlio di rifugiati slavi divenuti poi clandestini, non potevo più restare a guardare. Soprattutto non potevo non capire, avendo passato io stesso parte della mia infanzia in una tenda. Quindi abbiamo raccolto soldi, medicine, vestiti, coperte, impermeabili e siamo partiti.
Giunti sul posto abbiamo scaricato tutto tenda per tenda, di notte, con l’aiuto dei volontari presenti sul posto. Appena due giorni prima un anziano curdo era stato ucciso dalla polizia greca, falciato da una camionetta mentre fissava un paletto alla propria tenda. Ne sono seguiti violenti scontri e molti feriti. Frustrazione, rabbia e tensione erano palpabili. A Idomeni l’odore di plastica e vestiti bruciati lo senti appena arrivi, ti entra nelle narici e non ti lascia più. Te lo porti dietro per giorni l’odore di quei fuochi. Fuochi accesi ovunque, con qualsiasi cosa possa bruciare, per riscaldarsi e cucinare, o semplicemente sterilizzare l’acqua putrida. C’erano bambini, tanti bambini, bambini ovunque. Corrono per il campo, giocano, piangono, si ammalano. Dentro le tende restano i vecchi, stanchi, rassegnati, sofferenti. Mi è rimasta impressa la rabbia dei tanti ragazzi, giovanissimi, che girano spesso fuori dal campo. Tanta rabbia per aver perso la casa, la terra, il lavoro, per la guerra da cui sono scappati e per l’accoglienza che hanno ricevuto: un immenso campo agricolo pieno di buchi e fumo, con quell’odore acre tanto forte da darti la nausea, file interminabili per un piatto di lenticchie, la polizia che controlla e reprime ogni tentativo di spostarsi e organizzarsi. Reti, barriere e filo spinato. Chi non sarebbe arrabbiato al posto loro? Quella rabbia è anche la mia.
Idomeni, marzo 2016 – Foto di Valeria Tinti
Quale era il senso di fermarsi in quel luogo? Perché si è formato il campo?
M.: Idomeni mi è sembrato un grande esperimento, una massa di persone imbottigliate in mezzo al nulla che servano da esempio e scoraggino altre partenze. Da Idomeni non si passa, Idomeni rimane un lager del nostro tempo. È allucinante in questo senso il contrasto tra l’isolamento concreto in cui si trovano queste persone e il fatto che siano continuamente connessi tramite wi-fi e telefoni al resto del mondo. Devono saperlo tutti, non c’è alcuna vergogna, il messaggio è chiaro: non partite, non vi vogliamo, a costo di murare l’Europa intera. Scordatevi pure la favola di Schengen e del continente libero e democratico, qui liberamente circolano solo le merci. Vorrei andare avanti con questo impegno e cercare di coinvolgere ulteriormente la città di Pesaro. Vorrei tornare a Idomeni con gli amici e i compagni che mi hanno sostenuto. Sarebbe importante migliorare le condizioni di vita nel campo, non dimenticando mai che l’obiettivo è quello di garantire la libertà di movimento, affinché posti come questo non esistano mai più. Vi lascio con un’ultima immagine, forse la cartolina più emblematica di Idomeni. A circa 3 km dal campo c’è un enorme casinò di lusso. Da una parte i bambini giocano nel fango, dall’altra uomini e donne si godono il lusso più sfrenato. Da un lato la polizia in antisommossa reprime circa 10.000 persone tenendole sotto scacco, tra fango e malattie. Medici senza frontiere lo dice chiaramente in uno dei suoi ultimi report: chi non si ammala di epatite si fa del male pur di farsi ascoltare. Dall’altra parte l’opulenza e il menefreghismo della nostra bella civiltà occidentale fanno bella mostra di sé, del proprio benessere, della propria tranquillità.
Baldoni Romolo o Remolo, detto Remo. Muratore. Anarchico.
Di Federico Sora [QUI IL PDF]
Fano ha una lunga tradizione sovversiva e ribelle. La locale sezione dell’Internazionale, su posizioni antiautoritarie e antimarxiste, è una delle prima fondate nelle Marche, nel febbraio 1872, e da allora gli anarchici hanno messo radici in città. Questo articolo ci racconta la storia di uno di loro, a cavallo tra Ottocento e Novecento. È la storia antica di un “militante di base”, come si sarebbe detto in altri tempi, di uno di quelli che solitamente non finiscono nelle pagine dei libri di storia, ma la cui biografia è parte integrante e attiva dei percorsi collettivi “verso la vera giustizia sociale” (così recitava il sottotitolo di un giornale anarchico fanese dell’epoca). Pensiamo che gettare uno sguardo sulle grandi e piccole vicende delle generazioni che ci hanno preceduto, da quelle dei più noti rivoluzionari fino alle teste calde come Remo Baldoni, sia utile per affrontare con maggiore consapevolezza il nostro presente.
Baldoni Romolo – Foto segnaletica nel Casellario politico centrale
Remo Baldoni nasce a Fano il 2 luglio 1878 da Giuseppe e Teresa Gasperini. La scheda personale del Casellario politico centrale, compilata dal prefetto di Pesaro e Urbino nel 1898, lo descrive “di carattere vivace, con educazione limitata alle prime classi elementari; Baldoni si professa anarchico ed è uno tra i più attivi esponenti dell’anarchismo fanese, ma non ha grande influenza, non ha contatti con altri compagni al di fuori di Fano né mai ha collaborato con stampa e periodici…”.
Ancora diciottenne, nella notte tra il 31 luglio e il 1 agosto del 1897, viene sorpreso insieme a Romolo Casabianca, anch’esso muratore e anarchico, mentre disturbano la quiete pubblica cantando e gridando frasi sediziose per le vie della città. Baldoni si rifiuta in quell’occasione di fornire le proprie generalità agli agenti di pubblica sicurezza; al conseguente processo conferma tranquillamente il fatto senza dare alcun tipo di giustificazione e viene condannato a cinque giorni di detenzione.
Molto più rilevante la vicenda a cui partecipa la sera del 5 settembre 1897. Baldoni fa parte di una comitiva di una trentina di giovani tra i quali diversi noti esponenti anarchici che vanno schiamazzando per le vie di Fano, al suono delle chitarre suonate da Arturo Pensieri e Antonio Gennari. Giunta in piazza XX settembre, la comitiva disturba il concerto tenuto dalla banda cittadina, tanto da rendere necessario l’intervento di carabinieri e guardie. Probabilmente l’episodio non era casuale ma organizzato per creare disordini; il giorno precedente, infatti, il prefetto aveva inviato una comunicazione che preannunciava la possibilità di un’iniziativa contro il progetto di legge sul domicilio coatto, proibendo qualsiasi manifestazione. Il delegato di PS Achille Riello redarguisce quindi i giovani e ordina loro di sciogliere l’assembramento. Ma il gruppo oppone resistenza e l’anarchico Domenico Saltarelli, in particolare, invece di obbedire all’ordine prende a contestare platealmente l’operato del delegato, accusandolo di compiere un sopruso.
Vecchia Fano – Via San Francesco
Mentre Saltarelli viene tratto in arresto, il gruppo si fa più minaccioso e altre persone accorrono sul luogo dell’assembramento. I carabinieri iniziano a tradurre l’arrestato verso la caserma che si trova all’inizio di via Cavour, seguiti a distanza ravvicinata da una piccola folla che inveisce contro i militari e cerca di liberare il compagno. Raggiunto l’incrocio con via Garibaldi, a poca distanza dalla caserma inizia lo scontro più cruento. Qualcuno afferra le sedie di un locale e le scaglia contro i carabinieri, fatti oggetto anche di calci e pugni da parte di alcuni anarchici, fino all’arrivo di una pattuglia di rinforzo con le spade sguainate. Sopraggiunge infine il delegato Riello, che si era momentaneamente attardato, il quale tenta di pacificare gli animi promettendo di intervenire il giorno seguente per la liberazione di Saltarelli, che era stato nel frattempo rinchiuso in caserma. Il suo tentativo di mediazione risulta vano e quando cambia tono e ammonisce la folla di non compiere sciocchezze, per tutta risposta viene strattonato, gettato a terra, malmenato e colpito con diverse coltellate senza dargli modo di estrarre la pistola, mentre dalla folla diverse persone incitano “dategli forte!”, “dalli, dalli!” o l’apostrofano ironicamente “Ah, Riello, le prende tutte?”. Poi i carabinieri, che avevano lasciato il prigioniero in caserma, riescono revolver alla mano mettendo in fuga il gruppo che aggrediva il delegato. Riello è portato all’ospedale dove rimane per una trentina di giorni e, una volta guarite le ferite, gli viene fatta cambiare aria con il trasferimento a Grosseto.
Pochi giorni dopo l’episodio, Remo Baldoni viene arrestato presso la sua abitazione di via Tomassini 11, sulla base della testimonianza di Riello che, dal letto dell’ospedale, affermava di averlo riconosciuto tra gli aggressori. Baldoni ammette che la sera del 5 settembre si trovava in piazza XX settembre, ma era in compagnia della sorella per ascoltare il concerto della banda, al termine del quale se ne era andato senza essersi reso conto di nessun incidente. Dev’essere stato convincente… visto che il tribunale di Pesaro lo assolve per insufficienza di prove, mentre condanna buona parte degli altri imputati.
L’anno successivo Baldoni è protagonista di un nuovo episodio davanti alla caserma dei carabinieri di via Cavour, dove si presenta con un coltello in pugno verso le ore 19.00 del 14 ottobre 1898, urlando ripetutamente: “evviva l’anarchia! Evviva la rivoluzione sociale! È ora di finirla, abbasso i preti e la borghesia!”, aggiungendo “se vengono avanti questi vigliacchi dei carabinieri, dei quali non ho paura, gli darò un colpo sul muso!”. I militari assistono alla scena dalle finestre, ma appena escono dalla caserma Baldoni si è già dileguato. Questo episodio suscita un certo clamore, anche perché non si era ancora spenta l’eco dei moti popolari che in quell’anno avevano scosso l’intero paese e ogni scintilla avrebbe potuto accendere nuovamente le piazze. Baldoni viene poi arrestato ma anche questa volta riesce a cavarsela. Al processo dichiara che quel giorno era al lavoro presso il cantiere della Pretura a palazzo Marcolini sotto la direzione di Alessandro Verna, al termine della giornata si era recato in compagnia di altri all’osteria dell’Antonia di porta Cavour e da allora di non ricordare più nulla. Il pretore di Fano, che nelle cause discusse immediatamente prima aveva condannato gli anarchici Bruto Giovannini e Amedeo Calamandrei per contravvenzione alla vigilanza speciale, derubrica il reato da oltraggio e grida sediziose a ubriachezza molesta, con una pena di venti giorni di reclusione.
Vecchia Fano – Rocca Malatestiana
La frequentazione delle aule di giustizia non gli fa evidentemente mettere la testa a posto. Sempre nel 1898 Baldoni risulta denunciato per reato di danneggiamento, ma il giudice istruttore del tribunale di Pesaro lo assolve per insufficienza di prove. Nuova imputazione nel 1900, quando insieme ai compagni Giulio Tebaldi, Duilio Diambrini e Fortunato Dori è accusato di ingiurie, offese e lesioni ad alcuni soldati. Il fatto accade la sera del 13 maggio: in via Nolfi il sergente Francesco Achille è beffeggiato da alcuni giovani e seguito fin sotto la porta della caserma, all’uscita di altri militari il gruppo incrementa le offese e lancia dei sassi, uno dei quali colpisce alla testa un soldato. I giovani vengono quindi inseguiti e quasi raggiunti, ma alle loro grida di aiuto accorrono almeno una decina di persone, alcune armate di pistole, che a loro volta mettono in fuga i militari. Baldoni per l’ennesima volta viene identificato, ma i soldati non procedono con la querela e tutti gli imputati vanno prosciolti. Un anno dopo, il 4 febbraio 1901, si presenta in maschera presso il Teatro comunale di Fano, in occasione del veglione carnevalesco della Società dei barbieri, ma alcune solerti guardie municipali tentano di cacciarlo perché “indecentemente vestito”; Baldoni oppone resistenza e all’arrivo dei carabinieri grida “sono socialista anarchico rivoluzionario! Evviva l’anarchia! Io non ho paura!”: condanna a 4 mesi e 15 giorni di carcere (poi ridotta dalla corte d’assise di Ancona).
Nel giugno 1901 si reca a Roma in cerca di lavoro, dopo pochi giorni viene però rispedito a Fano perché rimasto senza mezzi e occupazione. Qualche mese più tardi, il 7 ottobre 1901, insieme ai calzolai Mario Chiari, Carlo Falconieri, Romolo Falcioni, al pescivendolo Dalmazio Falcioni, al decoratore Augusto Guidi e al cameriere Giuseppe Selvetti è accusato di oltraggio ai carabinieri: in piazza XX settembre, nella tarda serata, i carabinieri intervengono per il disturbo alla quiete pubblica arrecato da una ventina di giovani, che a quanto pare stavano invece solo discutendo animatamente di questioni politiche socialiste-anarchiche. Uno dei denunciati, Mario Chiari, aveva risposto: “sono anarchico e non rispetto le vostre leggi attuali ed è meglio che ve ne andate sennò succede qualcosa”.
Baldoni, a 23 anni, capisce che è il caso di lasciare Fano per cercar fortuna altrove. Nel 1902 prende residenza in Svizzera, a Vallorbe, nel 1903 è segnalato per l’opportuna vigilanza a Varzo in Piemonte, nei pressi del confine svizzero, impiegato presso la Società Mediterranea a posare le rotaie della linea verso il Sempione. Nel 1904 è di nuovo in Svizzera dove si fa arrestare ed espellere per mancanza di residenza; le autorità italiane lo fermano alla frontiera in quanto anarchico e pregiudicato e procedono al rimpatrio disposto per motivi di pubblica sicurezza. Successivamente, munito di regolare passaporto, parte alla volta di Trieste imbarcandosi sul piroscafo a Ravenna, ma nell’aprile del 1905 è di nuovo di ritorno a Fano; riparte verso Trieste nel successivo mese di maggio e da allora si perdono, almeno momentaneamente, le sue tracce. Nel 1908 il delegato di PS di Fano lo indica come emigrato negli Stati Uniti, senza però precisare la località. Nel 1911 è segnalato quale sottoscrittore del periodico anarchico «Cronaca Sovversiva» di Barre. Negli Stati Uniti risulta essere residente prima a Logansport (Indiana), poi a Woonsocket (Rhode Island) e dal 1907 a New Haven (Connecticut).
Vecchia Fano – Corso V. Emanuele
Rientra a Fano nel 1913 dove, per i suoi precedenti, viene attentamente vigilato. Non senza ragione, visto che Baldoni riprende il suo posto tra i più attivi anarchici fanesi. In agosto, durante lo sciopero proclamato dall’Unione sindacale italiana in solidarietà con le agitazioni operaie milanesi e senza l’appoggio della Confederazione generale del lavoro, è accusato di aver impedito insieme ad altri, con minacce e violenze, la libertà di commercio. Fano è l’unica località della provincia dove si tengono due giornate di agitazione, mentre altrove i dirigenti riformisti ignorano lo sciopero. Gruppi di dimostranti iniziano nelle prime ore del mattino il giro delle officine, dei cantieri, delle filande, del porto e degli stabilimenti annunciando lo sciopero che ben presto diventa completo. Durante la mattinata si verificano degli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine e un operaio è ferito gravemente alla testa da una sciabolata. Alcuni dimostranti sono arrestati, tra questi Baldoni con l’accusa di aver bloccato le vetture pubbliche. Nella relazione della polizia si legge che Baldoni esercitava un certo ascendente sugli altri, marciando in testa al gruppo di dimostranti e usando un contegno irriverente nei confronti della forza pubblica. Viene anche riportata la sua dichiarazione di “non riconoscere né legge né si crede obbligato a rispettarla”, aggiungendo con ironia che “alla promulgazione di essa non era stato chiesto il suo assenso”.
Non poteva mancare per Baldoni un ruolo attivo durante le manifestazioni della Settimana Rossa. Anche Fano, come gran parte delle Marche e della Romagna, tra il 7 e il 14 giugno 1914 è scossa da manifestazioni, picchetti e da uno sciopero che blocca interamente la città per diversi giorni, anche dopo la cessazione proclamata dalla CGdL. Tra i principali agitatori, oltre a Casimiro Accini, figurano tutti i principali esponenti anarchici. Con loro il nostro Romolo Baldoni, chiamato poi a rispondere del reato di inosservanza delle disposizioni di PS. Mentre lo sciopero minacciava di assumere caratteri pre-insurrezionali, il commissario di PS aveva infatti invitato nel suo ufficio Baldoni e Alfredo Armanni, ritenendoli i due “caporioni” dell’agitazione. Avrebbe voluto diffidarli dal continuare a fomentare gli animi consigliando di cessare i disordini che da alcuni giorni disturbavano i cittadini e impedivano ai negozianti di aprire i loro esercizi. I due, ovviamente, si guardarono bene dal presentarsi, continuando a “passeggiare spavaldamente” in città.
Spenti gli entusiasmi della Settimana Rossa, il 19 luglio 1914 Baldoni parte alla volta di Parigi, da dove passa a Londra e, stando ai rapporti di polizia, si incontra più volte con il “noto anarchico” Errico Malatesta. Poco dopo ritorna negli Stati Uniti e nel 1918 è dichiarato disertore per non essersi presentato alla chiamata alle armi. Nel 1921 sbarca a Genova proveniente da Philadelphia, subito viene fermato ma nell’agosto dello stesso anno il tribunale pronuncia il “non luogo a procedere” in quanto il reato di diserzione era già stato amnistiato. Trova occupazione come cameriere a bordo dei piroscafi che viaggiano tra l’Italia e l’America e, più tardi, come muratore alle dipendenze di un’impresa di impianti elettrici. Viene segnalato a Genova ancora nel 1933 ma su di lui cessa la vigilanza poliziesca. Si ignorano data e luogo di morte.
Baldoni Romolo – Fascicolo del Casellario politico centrale
FONTI: Archivio centrale dello Stato, Casellario politico centrale, b. 281, fascicolo ad nomen; «Il Gazzettino» 13/9/1897, 5/12/1897 e 31/12/1897; «Piccolo Corriere» 23/12/1897; «L’Agitazione» 16/9/1897; «Il Gazzettino» 13/11/1898, 20/5/1900, 10/2/1901 e 3/3/1901; «In Marcia», 1/3/1913, 6/4/1913 e 24/8/1913; «La Frusta» 15/4/1920; Pretura di Fano, Sentenze penali, 1897, n. 137 contro Baldoni Romolo e Casabianca Romolo; Pretura di Fano, Atti penali, 1898, n. 314 contro Baldoni Romolo; Tribunale di Pesaro, Atti penali, 1899, b. 753, n. 274 contro Saltarelli Domenico muratore 37 a., Falcioni Adolfo pescivendolo 22 a., Ferretti Gustavo muratore 20 a., Tarini Riccardo mediatore-facchino 29 a., Panzieri Arturo muratore 18 a., Gennari Antonio fabbro 17 a., Zandri Napoleone detto Bastia muratore 25 a., Verna Antonio falegname 20 a., Biscottini Vincenzo arrotino 23 a., Baldoni Romolo muratore 19 a., Valentini Alessandro tintore 20 a., Dori Fortunato scalpellino 17 a., Casabianca Romolo muratore 19 a., Montebelli Riccardo marinaio 16 a., Spallacci Augusto scalpellino 26 a., Biagioni Alberigo scalpellino 24 a., Simoncini Leandro muratore 17 a., Paci Luigi calzolaio 27 a., Lombardi Romolo tintore 23 a., Montebelli Erminio muratore 36 a., Falcioni Dalmazio 17 a., Talevi (o Tallevi) Giuseppe muratore 20 a.; Pretura di Fano, Atti penali, 1898, n. 314; Pretura di Fano, Atti penali, 1900, n. 113 contro Tebaldi Giulio, Baldoni Romolo, Diambrini Duilio, Dori Fortunato; Pretura di Fano, Atti penali, 1900, n. 112; Tribunale di Pesaro, Atti penali, 1901, b. 784, n. 320; Tribunale di Pesaro, Atti penali, 1902, n. 32 contro Chiari Mario; Tribunale di Pesaro, Sentenze penali, 1913, n. 128 contro Ciavaglia Giuseppe, Accini Casimiro, Falcioni Adolfo, Pigalarga Alfredo, Marini Augusto, Chiari Guglielmo, Dionisi Costantino, Apolloni Fortunato, Baldoni Romolo, Francolini Ugo, Libretti Alessio; Pretura di Fano, Atti penali, 1914, n. 269 contro Armanni Alfredo e Baldoni Romolo.
Fascicolo del Tribunale di Pesaro, Sentenze penali, 1913, n. 128 contro Ciavaglia Giuseppe et al.
Sui modi di combattere il dominio tecnologico: l’anti-industrialismo di Miguel Amorós
Di Luigi [QUI IL PDF]
Tutto sarebbe ordine e armonia, se non ci fosse ancora e sempre l’uomo. L’industria e l’economia, aiutate dalla scienza e dalla tecnica, hanno fatto del loro meglio per soddisfare i capricci stravaganti dei consumatori. Sono loro che, usando ed abusando in modo “irrazionale” di queste istituzioni, hanno messo il pianeta in questo stato. E adesso, ecco che non vogliono più i rifiuti che hanno prodotto!
Bertrand Louart
Blu. Street Art – Roma
Miguel Amorós è un teorico e militante rivoluzionario valenzano, già redattore della rivista di critica radicale «Encyclopédie des Nuisances», conosciuto in lingua italiana per diversi suoi saggi pubblicati in particolare dalle edizioni Nautilus di Torino. Proponiamo qui, in prima traduzione italiana, il suo intervento Cos’è e cosa vuole l’anti-industrialismo?, tenuto all’Incontro di difesa del territorio organizzato nel maggio 2014 dalla Libreria associativa Transitant a Palma di Maiorca.
La nostra epoca, l’epoca del capitalismo tecno-industriale, è profondamente differente da tutte quelle che l’hanno preceduta, se non altro per il suo correre testardamente verso la distruzione delle basi stesse della vita sul pianeta. Due secoli di progresso tecnologico hanno infatti ridotto il mondo in cui viviamo in una pattumiera, per cui uomini e donne sono costretti ad adattarsi ai veleni che infestano la terra, l’acqua, l’aria. Nonostante il manto dell’ideologia scientista e del progresso, è un dato di fatto che l’odierna civiltà provochi il disastro ecologico.
La tecnologia, non le sue presunte “derive”, è l’aspetto fondamentale del dominio contemporaneo. Essa nasce per scopi ben precisi, in sostanza accrescere potere e profitti, prendendo una determinata direzione e ignorando le mille altre possibili. D’altra parte non sono certo bisogni e aspettative di uomini e donne a guidare l’innovazione tecnologica, casomai è il contrario: è quest’ultima che crea i primi. La presunta neutralità della scienza non è infatti di questo mondo e se lo sguardo va oltre l’immediata applicazione pratica si deve riconoscere che è illusorio pensare di disporre liberamente della tecnologia e di impiegarla per i propri fini. Non diciamo nulla di nuovo. Lo sosteneva, ad esempio, il lungimirante filosofo tedesco Günther Anders già negli anni Sessanta: “non basta affermare che bisogna utilizzare la tecnica per scopi buoni invece che cattivi, per compiti costruttivi invece che distruttivi. Tale argomento, che si ode fino alla noia sulle bocche di tanti uomini di buona volontà è indiscutibilmente miope. Ciò che oggi dobbiamo chiederci è se disponiamo così liberamente della tecnica. Non ci si può limitare a sostenere questo potere discrezionale. In altre parole, può darsi benissimo che il pericolo che ci minaccia non consista nel cattivo uso della tecnica, ma sia implicito nell’essenza della tecnica in quanto tale”[1].
Testi come quelli di Amorós che qui proponiamo alla lettura invitano ad alzare lo sguardo dagli aspetti più immediati ed esteriori della tecnologia, dagli apparenti vantaggi di questa o quella applicazione, per cercare di comprendere nel più ampio contesto sociale e storico le nefaste ricadute del suo avanzamento. Ogni nuova tecnologia, infatti, non tende a integrarsi nel mondo preesistente, piuttosto fa sì che sia il mondo a doversi adattare ad essa, colonizzando ogni aspetto del vivente. In questo senso, l’introduzione dell’automobile non ha solamente permesso alle persone di spostarsi più velocemente da un posto all’altro – le distanze che l’automobile permette di percorrere, oggi si devono percorrere – ma ha prodotto una società completamente diversa, imponendo tra l’altro nuovi ritmi di lavoro e distruggendo la conformazione e la vivibilità degli agglomerati urbani. E la televisione? E internet?
Lo sviluppo della tecnica, o meglio delle tecniche, è connaturato al nostro stare al mondo, mentre il progresso tecnologico determina il regresso umano, rendendo antiquato l’uomo e le sue facoltà; ogni suo avanzamento è un colpo inferto all’autonomia e alla libertà dei viventi. Per “autonomia” si intende la possibilità per i singoli e le comunità di determinare le proprie condizioni di vita attraverso la propria attività: uno scenario che stiamo irrevocabilmente perdendo mentre la tecnica moderna impone condizioni di vita e si rende, essa sì, autonoma dall’intervento umano. In altre parole, non è più l’uomo a padroneggiare lo strumento ma è la macchina a tenere in pugno l’uomo, mentre il sistema tecno-industriale nel suo complesso mira a modellare un mondo in cui le attività umane non siano più d’intralcio alla circolazione delle merci. Così come nella produzione sono gli ingranaggi a dettare i ritmi alle mani, e non viceversa, anche al di fuori del lavoro possiamo illuderci di controllare l’automobile o il telefonino, mentre siamo del tutto asserviti al loro uso sociale.
Come accennato in apertura, “tecnologia” non è solo il moderno complesso industriale ma anche l’ideologia del progresso che lo accompagna. Un dogma che ha accomunato a lungo borghesia e proletariato, detentori del potere e movimenti rivoluzionari. Oggi è irragionevole pensare di contrastare l’ideologia del progresso appellandosi a una qualche forma di decrescita controllata, che ha lo scopo di tirare le briglie e cercare di governare un sistema andato fuori binario. Un’opposizione ecologista che si mantiene composta e rispettosa delle regole del gioco è quanto di meglio possa chiedere la perpetuazione del sistema di dominio, ben lieto di renderla compartecipe – illuminata – della gestione del disastro. Non sappiamo quindi che farcene delle litanie delle associazioni ecologiste, degli esperti, perfino degli industriali e degli uomini di Stato sulla necessità di uno sviluppo sostenibile per “salvare il pianeta”, che si guardano sempre bene dal mettere in discussione l’ideologia del progresso e dal rifiutare questo sistema tecno-industriale e la sua mortifera quotidianità. Nessuno nega che le battaglie quotidiane siano battaglie per obiettivi parziali, ma perdono il loro senso se non si è capaci di inserirle in un immaginario rivoluzionario radicalmente altro: “la società industriale – ha scritto Bertrand Louart – si è resa in gran parte indispensabile e i valori che la fondano, con le sue merci, hanno colonizzato gli spiriti al punto che più nessuno osa immaginare qualcos’altro che un diverso modo di gestione del macchinario, ma mai la sua rimessa in discussione radicale”[2].
L’anticapitalismo, quindi, non può prescindere da una prospettiva anti-industriale, di sabotaggio dello sviluppo, innanzitutto per preservare i territori in cui viviamo. Il cuore del discorso non è tanto lo sbarazzarsi delle cianfrusaglie tecnologiche prodotte nel secolo della plastica e dell’elettricità, quanto l’eliminazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura, che fa tutt’uno con lo sbarazzarsi di cui sopra. Ciò che serve, in fin dei conti, è quella necessaria lucidità critica che sia di indirizzo all’agire; un cambiamento radicale nei modi di pensare che guidi la messa in pratica di modelli alternativi, in conflitto e antagonisti alla civiltà che conosciamo. “Il pensiero anti-industriale – scrive Amorós – non rappresenta una nuova moda, una critica puramente negativa del pensiero scientifico e delle ideologie progressiste, né un volgare primitivismo che propone di tornare a un qualche momento della Storia. Non è neanche una semplice denuncia dell’addomesticamento del proletariato e del dispotismo del capitale. Ancor meno è un qualcosa di tanto mistificatore quanto una teoria unitaria della società, riserva di caccia dell’ultima delle avanguardie o dell’ultimo dei movimenti. Va al là di tutto questo. È lo stadio più avanzato della coscienza sociale e storica. È una determinata forma di coscienza, dalla cui generalizzazione dipende la salvezza dell’epoca”[3].
Miguel Amorós, Cos’è e cosa vuole l’anti-industrialismo?
La corrente anti-industriale emerge, da un lato, dal bilancio critico del periodo che si chiude con lo scacco del vecchio movimento operaio autonomo e con la ristrutturazione globale del capitalismo; nasce dunque tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo passato. Dall’altro lato, sorge dal nascente tentativo di ritorno alla terra di questa epoca e dalle rivolte popolari contro la presenza permanente di fabbriche inquinanti nei centri urbani e contro la costruzione di centrali nucleari, zone urbanizzate, autostrade e dighe. È al tempo stesso un’analisi teorica delle nuove condizioni sociali che tiene conto del contributo dell’ecologismo e una lotta contro le conseguenze dello sviluppo capitalista, anche se non sempre le due cose stanno insieme.
Possiamo definirlo come una teoria critica e una pratica antagonista nate dai conflitti provocati dallo sviluppo della fase ultima del regime capitalista, che corrisponde alla fusione dell’economia e della politica, del Capitale e dello Stato, dell’industria e della vita. A causa della sua novità, e anche per l’estensione della sottomissione e della rassegnazione tra le masse declassate, riflessione e lotta non sempre vanno mano nella mano; l’una postula obiettivi che l’altra non sempre vuole assumere; il pensiero anti-industrialista lotta per una strategia globale di conflitto, mentre la sola lotta si riduce a tatticismo, cosa che va a solo beneficio del dominio e dei suoi sostenitori. Le forze mobilitate non sono quasi mai coscienti del loro compito storico, mentre la lucidità della critica non arriva sempre a rischiarare le mobilitazioni.
Il mercato globale trasforma continuamente la società conformemente alle sue necessità e ai suoi desideri. Il dominio formale dell’economia nella vecchia società di classe si trasforma nel dominio reale e totale nella moderna società tecnologica di massa. I lavoratori oggi massificati sono prima di tutto consumatori. La principale attività economica non è industriale, ma amministrativa e logistica (terziaria). La principale forza produttiva non è il lavoro, ma la tecnologia. In compenso i salariati sono la principale forza di consumo. La tecnologia, la burocrazia e il consumo sono i tre pilasti dello sviluppo attuale. Il mondo della merce ha smesso di essere autogestibile. È impossibile umanizzarlo: bisogna prima smantellarlo.
Tutte le relazioni degli esseri umani tra loro e con la natura hanno perso il loro carattere diretto e si trovano mediate da cose, o meglio da immagini associate a cose. Una struttura separata, lo Stato, controlla e regola questa mediazione reificata. Così, dunque, lo spazio sociale e la vita che lo abita sono modellati in accordo con le leggi di queste cose (le merci, la tecnologia), quelle della circolazione e quelle della sicurezza, originando tutto un insieme di divisioni sociali: tra cittadini e rurali, dirigenti e diretti, ricchi e poveri, integrati ed esclusi, veloci e lenti, connessi e sconnessi, etc. Il territorio, una volta sgomberato dagli agricoltori, si converte in una nuova fonte di risorse (una nuova fonte di capitali, un decoro e un supporto delle macroinfrastrutture, un elemento strategico della circolazione). Questa frammentazione spaziale e questa disaggregazione sociale appaiono oggi sotto forma di una crisi che presenta diversi aspetti, tutti in relazione tra loro: demografici, politici, economici, culturali, ecologici, territoriali, sociali… Il capitalismo ha superato i suoi limiti strutturali, o detto in altra maniera, ha toccato il tetto.
La multiple crisi del nuovo capitalismo sono il risultato di due tipi di contraddizioni: quelle interne, che sono causa di forti ineguaglianze sociali, e quelle esterne, responsabili dell’inquinamento, del cambiamento climatico, dell’esaurimento delle risorse e della distruzione del territorio. Le prime non escono dall’ambito capitalista dove restano dissimulate come problemi del lavoro, affari di credito e deficit parlamentari. Le lotte sindacali e politiche non prospettano mai di uscire dal quadro che incornicia l’ordine stabilito; ancora meno si oppongono alla sua logica. Le contraddizioni principali sono quindi prodotte o dal contrasto tra l’esaurimento delle risorse planetarie e la domanda infinita che esige lo sviluppo, o dall’urto tra i limiti che impongono la devastazione e la distruzione illimitata che sono implicate nella continua crescita. Queste contraddizioni rivelano la natura terrorista dell’economia di mercato e di Stato nei confronti dell’ambiente e della vita della gente. L’autodifesa di fronte al terrorismo della merce e dello Stato si manifesta tanto sotto forma di lotte urbane che rifiutano l’industrializzazione del vivere – o come anti-industrialismo – che come difesa del territorio contro l’industrializzazione dello spazio. I rappresentanti del dominio, se non possono integrare queste lotte sotto gli abiti di un’opposizione “verde”, rispettosa delle loro regole del gioco, le presentano come un problema minoritario di ordine pubblico, per poterle così reprimere e schiacciare.
In un momento in cui la questione sociale tende a presentarsi come questione territoriale, solo la prospettiva anti-industriale è capace di considerarla correttamente. Di fatto, la critica allo sviluppo è la critica sociale per come esiste oggi; nessun’altra è veramente anticapitalista perché nessuna mette in causa la crescita o il progresso, i vecchi dogmi che la borghesia ha trasmesso al proletariato. D’altra parte, le lotte di difesa per la salvaguardia del territorio, sabotando lo sviluppo, fanno sì che l’ordine della classe dominante vacilli: nella misura in cui riusciranno a riformare un soggetto collettivo anticapitalista, queste lotte non saranno altro che la moderna lotta di classe.
La coscienza sociale anticapitalista emerge dall’unità della critica e della lotta, vale a dire della teoria e della pratica. La critica separata dalla lotta diviene ideologia (falsa coscienza); la lotta separata dalla critica diviene nichilismo e riformismo (falsa opposizione). L’ideologia difende spesso un ritorno impossibile al passato, fornendo un eccellente alibi all’inattività (o all’attività virtuale, che è la stessa cosa), anche se la sua forma più abituale si ritrova nella sfera economica del cooperativismo o nella sfera politica del cittadinismo (versione europea del populismo). La vera funzione della prassi ideologica è la gestione del disastro. Tanto l’ideologia quanto il riformismo separano l’economia dalla politica per proporre soluzioni all’interno del sistema dominante, che sia in un campo o nell’altro. E poiché i cambiamenti derivano dall’applicazione di formule economiche, giuridiche o politiche, entrambi negano l’azione, che sostituiscono con succedanei teatrali e simbolici. Rifuggono un confronto reale, dal momento che vogliono a tutti i costi rendere compatibili le loro pratiche con il dominio, o almeno approfittare delle sue lacune e delle sue crepe per sopravvivere e coesistere. Vogliono gestire degli spazi abbandonati e amministrare la catastrofe, invece di sopprimerla.
L’unione appena citata tra la critica e la lotta procurano all’anti-industrialismo un vantaggio che non possiede nessuna ideologia: sapere tutto ciò che vuole e conoscere gli strumenti necessari per raggiungere il suo scopo. Essa può presentare in maniera realista e credibile i tratti principali di un modello alternativo di società, società che diventerà palpabile appena sarà superato il livello tattico dei coordinamenti, delle associazioni e delle assemblee, per raggiungere il livello strategico delle comunità combattenti. Cioè appena la frattura sociale potrà esprimersi nel senso di “noi” contro “loro”. Chi sta in basso contro chi sta sopra.
Le crisi provocate dalla fuga in avanti del capitalismo non fanno nient’altro che affermare, per contro, la pertinenza del messaggio anti-industriale. I prodotti dell’attività umana – la merce, la scienza, la tecnologia, lo Stato, gli agglomerati urbani – si sono complicati rendendosi indipendenti dalla società e ergendosi contro di lei. L’umanità è stata schiavizzata dalle sue stesse creazioni incontrollate. In particolare, la distruzione del territorio dovuta a un’urbanizzazione cancerosa si rivela oggi come la distruzione della società stessa e degli individui che la compongono. Lo sviluppo, come il dio Giano, ha due facce: ora, le conseguenze iniziali della crisi energetica e del cambiamento climatico illustrate dall’estrema dipendenza e ignoranza della popolazione urbana, ci mostrano la seconda faccia, nascosta. La stagnazione della produzione di gas e petrolio annuncia un futuro in cui il prezzo dell’energia sarà sempre più alto, il che rincarerà il prezzo dei trasporti, provocherà crisi alimentari (accentuate ancor più dal riscaldamento globale) e causerà crolli produttivi. Nel medio termine, le metropoli saranno totalmente invivibili e i loro abitanti si troveranno nella situazione di scegliere tra ricostruire il loro mondo in modo diverso o scomparire.
L’anti-industrialismo vuole che il decadimento inevitabile della civiltà capitalista porti ad un periodo di smantellamento di industrie e infrastrutture, di ruralizzazione e decentramento, o per dirla in altro modo, che avvii una transizione verso una società giusta, egualitaria, equilibrata e libera e non verso un caos sociale di dittature e guerre. A tal fine, l’anti-industrialismo rende disponibili sufficienti armi teoriche e pratiche che possono sfruttare i nuovi gruppi e le comunità ribelli, semi di una civiltà diversa, liberata dal patriarcato, dall’industria, dal capitale e dallo Stato.
[1] Günther Anders, L’uomo è antiquato, v. 2: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 113.
[2] Bertrand Louart, Il nemico è l’uomo, Torino, Quattrocentoquindici, 1999, p. 71-72.
[3] Miguel Amorós, Noi, gli anti-industriali, «Nunatak», n. 19, estate 2000, p. 46 e «XXmila leghe sotto i mari» (catalogo Nautilus), n. 10, 2011, p. 6.
Il proletariato non ha nazione. Ricordi d’internazionalismo dalla provincia marchigiana
Di Valerio [QUI IL PDF]
No pasaran!, cartolina dal Nicaragua, 1979 circa
A forza di esportare la pace, gli Stati Uniti si sono ritrovati in guerra in 222 dei 239 anni della loro storia; per la maggior parte sono state guerre di aggressione o invasioni preparate dalla CIA. Tutti i presidenti degli Stai Uniti sono stati, in un modo o nell’altro, coinvolti almeno in una guerra. Fu soprattutto l’aggressione al Vietnam, con le immagini dei massacri e i villaggi bruciati dai bombardamenti al napalm, che contribuì a maturare nelle nostre coscienze quella sensibilità internazionalista che ci fece “sentire nostra qualunque ingiustizia commessa in qualunque parte del mondo”.
In Cile, l’11 settembre del 1973, il generale Pinochet filoguidato dagli americani attuò il colpo di Stato uccidendo il presidente Allende. Il golpe ebbe un’influenza politica ed emotiva enorme in tutto il mondo e l’eco di quell’avvenimento si fece sentire anche in Italia. In quei giorni il giornale «Lotta continua» lanciò una campagna di finanziamento denominata “Armi al MIR”, grazie a quella mobilitazione furono raccolte alcune centinaia di milioni che vennero girate agli uomini della resistenza cilena per continuare la lotta. Con l’appoggio a Pinochet, gli USA vollero mandare un monito a tutti i partiti socialisti del mondo: l’intendimento era quello di impedire la formazione di governi di ispirazione socialista, anche se democraticamente eletti e, con la cosiddetta “operazione Condor”, gli USA promossero la formazione di giunte militari e reazionarie in tutta l’America latina.
In Portogallo, nel 1974, una sollevazione attuata da militari dell’ala progressista delle forze armate, pose fine al regime fascista di António Salazar e del suo successore Marcelo Caetano. La dittatura aveva avuto origine dal golpe del 28 maggio 1926, durante la seconda guerra mondiale il Portogallo era rimasto neutrale poi, nel 1949, cessò l’isolamento politico del regime che per le sue posizioni anticomuniste diventò membro fondatore della NATO. Nel frattempo, la resistenza del Portogallo alla decolonizzazione provocò l’insorgere di un lungo conflitto tra le forze coloniali portoghesi e i movimenti di liberazione in Angola, Mozambico e Guinea-Bissau. All’inizio degli anni Settanta alcuni ufficiali con idee progressiste si riunirono nel Movimento delle forze armate (MFA) allo scopo di abbattere il regime e avviare il paese sulla strada della democrazia e della decolonizzazione. Il 25 aprile 1974 Radio Renascença trasmise la canzone Grândola Vila Morena: fu il segnale che dette inizio alle operazioni militari con l’arresto degli alti ufficiali fedeli al regime e l’occupazione di luoghi strategici, come l’aeroporto di Lisbona e la prigione politica di Peniche. Il colpo di mano dei soldati democratici ebbe l’immediato appoggio della popolazione. Il nome di Rivoluzione dei garofani deriva dal gesto di una fioraia, che in una piazza di Lisbona offrì garofani ai soldati; i fiori furono infilati nelle canne dei fucili diventando simbolo della rivoluzione. Poco dopo, venne sciolta la polizia politica e abolita la censura, le colonie ottennero l’indipendenza, i prigionieri politici uscirono dalle carceri e i politici in esilio tornarono nel paese. Il Primo maggio un milione di persone si ritrovò a Lisbona, per la prima volta legalmente, per la festa del lavoro.
Cile, da Allende alla resistenza proletaria. Ciclostilato, 1974
La Rivoluzione aprì un periodo di grande fermento politico in cui si contendevano il potere i partiti della sinistra progressista e rivoluzionaria contro i partiti moderati e liberali. Il fallimento di un colpo di coda reazionario sostenuto dagli Stati Uniti consentì di spingere ulteriormente per una transizione verso il socialismo. Nel 1975, banche, compagnie di assicurazione e numerose industrie furono nazionalizzate, il nuovo governo attuò una riforma agraria per abolire il latifondo e ridistribuire la terra ai contadini, per diversi mesi in tutto il paese si svolsero manifestazioni, occupazioni di case, fabbriche, terreni. Per difendere il processo rivoluzionario, durante quella “calda estate” accorsero compagni da tutta Europa e anche dalla provincia di Pesaro partirono in una decina con destinazione Lisbona.
In Nicaragua, il 19 luglio 1979, fu abbattuta la dittatura della famiglia Somoza che per decenni aveva tenuto il paese in un abisso di povertà, predando ogni bene disponibile per arricchirsi grazie alla protezione americana. La rivoluzione fu guidata da un gruppo armato che contava su un ampio appoggio popolare, i sandinisti, eredi delle imprese di Augusto Sandino che negli anni Trenta, insieme al suo “piccolo esercito pazzo”, sconfisse i marines che occupavano il paese. I sandinisti erano contadini, operai, studenti e intellettuali e godevano dell’appoggio di buona parte della Chiesa locale, cosa che permise di poter cominciare a governare un paese ridotto in cenere.
La rivoluzione sandinista riuscì a raggiungere mete mai sognate prima nell’istmo centroamericano. Vi furono processi innovativi come la nazionalizzazione dei beni strategici e la riforma agraria, con la restituzione di migliaia di ettari ai piccoli produttori. Una delle prime grandi imprese fu inoltre la Crociata nazionale di alfabetizzazione, attuata per portare l’istruzione a una popolazione che aveva più del 50% di analfabetismo e che riuscì a ridurlo a circa il 12%. Il processo per instaurare una politica di giustizia sociale ebbe luogo soprattutto grazie alla partecipazione di giovani compagni che fin dall’inizio aderirono al movimento guerrigliero; furono loro il vero motore dell’alfabetizzazione della popolazione, così come vennero impiegati nei processi di mobilitazione per le giornate produttive agricole, diventate il supporto economico del paese. Di grande importanza fu l’impegno della popolazione nel conflitto che venne sostenuto negli anni Ottanta contro i movimenti controrivoluzionari (Contras), una guerra apertamente finanziata e guidata dagli Stati Uniti di Reagan. Per continuare a garantire l’istruzione e le prestazioni sanitarie i sandinisti chiesero aiuto a tutti coloro che nel mondo si battevano contro lo strapotere dell’imperialismo americano. E così anche dalla nostra provincia partì per quel sperduto paese un consistente numero d’insegnanti, medici, infermieri e tecnici.
Rivoluzione dei garofani, Portogallo, 1974
Il 18 ottobre 1977, alle prime ore del mattino, Andreas Baader e Gudrun Ensslin furono suicidati nelle loro celle del carcere speciale di Stammheim in Germania. Il primo fu ucciso con un colpo di pistola alla nuca, la seconda impiccata a un filo elettrico; Jan Carl Raspe fu trovato agonizzante per un colpo alla testa e morì in ospedale, l’unica compagna che si salvò fu Irmgard Möller. Per vendicare in qualche modo quel suicidio di Stato, la sera dello stesso giorno una squadra partita da Fano partecipò all’assalto armato alla concessionaria italiana della BMW, in via Malaguti a Bologna. In quell’azione, mentre alcune squadre entrarono ed evacuarono l’edificio da clienti e dipendenti, una trentina di compagni bloccò completamente porta San Donato. Mentre la concessionaria veniva data alle fiamme, in fase di ripiegamento un agente di polizia fu intercettato e disarmato della sua arma d’ordinanza. La stessa notte furono fatte saltare in aria la sede della tedesca Kalle Infotec (materiali per ufficio) e la concessionaria bolognese della Volkswagen. Fu quello fu il modo per rendere un ultimo saluto ai compagni della RAF caduti a Stammheim.
Frontiere
Di Alessandro Pietropaoli (di Sassoferrato)
Idomeni. Frontiera greco-macedone.
Nel bagno di Luna e gelo
della spianata dolente,
incanalati in nude colonne,
i dannati della Storia vanno
solitari, con le loro costellazioni
verso l’intrico spinato
di un Limbo eterno.
Attraverso tende improvvisate e baracche
rovina sferzante il vento e
lacrime di pioggia impastano
il fango in un ammasso di putredine.
Sotto il dedalo dei salici
colme fino all’orlo sono le pozze
dei singhiozzi infetti
e contaminati della malinconia.
Soli restano dei piccoli fuochi rachitici
ad illuminare come pallida
onda infranta la riva del Buio.
In lontananza ipnotici suoni
di campane nel villaggio scandiscono
il tempo sospeso dell’attesa
che guardiani in uniforme di ferro
presidiano a difesa dell’odio.
E su tutto cala
l’oscura notte d’Europa.
A partire dal 9 marzo scorso, un movimento radicale di protesta si oppone tenacemente alla riforma del codice del lavoro francese. Dalle occupazioni di scuole e università si è passati a quella delle piazze, per giorni interi. La parola e la determinazione dei giovani hanno spinto anche i lavoratori più garantiti a radicalizzarsi fino ad aderire ai blocchi della circolazione ed estendere lo sciopero alle raffinerie e persino alle centrali nucleari, senza contare i numerosi sabotaggi alle reti informatiche e di comunicazione. Per chi vive nell’Italia imbambolata da Johnny Renzi sembra incomprensibile come un movimento al centro dell’Europa possa sfidare lo stato d’eccezione imposto dopo gli attacchi terroristici di novembre 2015 a Parigi ed allo stesso tempo mettere in discussione il modello economico esistente. In fondo, si pensa, non stanno mica nella merda come noi in Italia e il loro “jobs act” è acqua fresca in confronto a quello che qua abbiamo ingoiato senza troppo strepito. Ma se lasciamo da parte i luoghi comuni sui francesi “che si incazzano” anche i movimenti più imprevedibili si spiegano con le loro ragioni politiche e culturali. Pubblichiamo per questo la trascrizione della presentazione del libro “Ai nostri amici” del Comitato Invisibile, pubblicato per la prima volta in Francia nell’ottobre del 2014, che si è tenuta presso la libreria Il Catalogo di Pesaro nel gennaio 2016 sotto forma di dialogo.
Amandine Urruty, Disco ball
Da dove arriva questo libro? Chi è il Comitato Invisibile che lo firma? Perché in Italia è uscito in maniera semiclandestina, in forma di autoproduzione senza un riferimento editoriale riconoscibile?
Il libro nasce da un percorso politico e intellettuale che è quello del Comitato Invisibile che in Francia ha una storia di almeno dieci anni. Le pubblicazioni del Comitato Invisibile sono state tradotte in molte lingue, sono circolate in molti paesi, hanno creato una rete di contatti, di complicità e di condivisione. Facendo a ritroso una genealogia di questa iniziativa politica e culturale, alcuni si ricorderanno di «Tiqqun» che è stata una rivista uscita in tre volumi dal 1999 al 2001. Era una rivista politica che si definiva di “metafisica critica”, proponeva un discorso che rompeva con i codici della sinistra e dell’anarchismo ma anche con quello che era in quel momento il movimento della globalizzazione anticapitalista. Cercava una critica radicale dell’esistente, ma attraverso codici filosofici e politici leggermente spostati rispetto alla tradizione della sinistra e dei movimenti antagonisti. Si rifaceva al pensiero di Walter Benjamin, di Giorgio Agamben, di un’evoluzione del situazionismo francese e così via.
«Tiqqun» ha chiuso i suoi lavori nel 2001 e nel 2004-2005 in Francia ha cominciato a circolare un piccolo opuscolo che si chiamava Appel, che poi è stato tradotto anche in italiano e in altre lingue. In quel periodo in Francia c’è stato un movimento particolarmente importante per i movimenti sociali dell’epoca che è stato prima la rivolta delle banlieue del novembre 2005, poi il movimento contro il CPE del 2006 (contrat de premiere embauche, cioè contratto di primo impiego), un tentativo in parte riuscito del governo di allora di imporre maggiore precarietà nei contratti dei giovani, che scatenò un grande movimento universitario molto forte. All’epoca Appel circolò e cominciò in qualche maniera a emergere come posizione politica. Gli autori vennero chiamati “appellisti”, ci fu un po’ di discussione attorno a questa posizione che si definiva rivoluzionaria e anticapitalista ma in rottura con le tradizioni politiche del Novecento e soprattutto molto critica verso l’ambiente degli attivisti politici radicali dell’epoca.
Dopo la storia di Appel, nel 2007 esce L’insurrezione che viene, pubblicato dalla casa editrice La Fabrique, che è una casa editrice commerciale, seppur appartenente a una parte della sinistra francese. Questo libro ebbe un successo di vendite e di pubblico pazzesco per un pamphlet politico, vendette circa 8.000 copie nei primi mesi e poi ci fu un avvenimento che accese ancor di più i riflettori sul libro, cioè l’operazione “Taiga” dell’11 novembre 2009, con cui la Direzione antiterrorismo francese andò ad arrestare una decina di compagni e compagne nel paese di Tarnac, con l’accusa di far parte di un’associazione terroristica e di sabotaggi contro il treno ad alta velocità in diverse città della Francia. Il quadro dell’accusa contro questi attivisti è basato proprio sulla lettura del libro L’insurrezione che viene. Questo è stato descritto come il loro programma politico, come uno dei libri più pericolosi di quel periodo, come un libro altamente sovversivo da un noto criminologo che è Alain Bauer, che ha fatto scuola in Francia prima con Sarkozy e poi con Holland con le sue teorie sulla radicalizzazione. La repressione nei confronti degli autori del libro non ha avuto molto successo nel frenare la diffusione delle loro idee, visto che dopo il loro arresto il libro è arrivato a vendere 25.000 copie ed è diventato un caso editoriale.
Dopo quella vicenda, che ancora non si è conclusa da un punto di vista giudiziario, gli autori rimangono attivi, vengono organizzati seminari, incontri, il libro circola e c’è una discussione che viene riportata in parte nell’introduzione di Ai nostri amici. Qui si racconta come dopo L’insurrezione che viene e al fuoco vivo delle rivolte a cui gli autori e le autrici hanno partecipato, viene pensato questo nuovo libro che, se vogliamo, è una continuazione delle tesi precedenti, un’attualizzazione delle ipotesi su un’azione politica rivoluzionaria nel presente, una riflessione sulle rivolte e sulle insurrezioni che abbiamo visto dalle piazze arabe del 2011 a quelle europee e americane degli indignati nel 2011-2012. Dunque, il libro esce in Francia nel 2014 anche come una riflessione critica sul percorso proposto da L’insurrezione che viene e come il tentativo di attualizzare il dibattito politico con un invito all’autorganizzazione.
In Italia perché non viene pubblicato? Come ho detto prima le vicende sono varie, di fatto non si è trovato un editore che avesse il coraggio e la voglia di pubblicarlo, perché quelli che hanno una posizione politica definita in qualche maniera o sono di qualche parte o partito, lo sentono come non allineato alla loro visione, quelli commerciali hanno paura di sputtanarsi con un libro troppo radicale e quei pochi interessati hanno temuto di affrontare un investimento non previsto nei loro piani editoriali. Quindi, impazienti del fatto che questo libro non venisse pubblicato in italiano, c’è stata una specie di iniziativa dal basso che l’ha stampato a luglio dell’anno scorso e adesso viene presentato in tutti i posti dove c’è interesse a discuterne.
Amandine Urruty, Family Portrait I
Quello che si nota subito leggendo il libro è che il lessico, il linguaggio non somiglia al gergo classico della sinistra radicale. Allo stesso tempo il Comitato afferma nell’introduzione di voler costruire un dibattito per liberare “il Gulliver della rivoluzione”, ma un dibattito necessita di interlocutori. Chi sono questi “amici”? E a chi si riferisce la prima persona plurale “nostri” utilizzata dagli autori? Puoi spiegarci chi sono tutti questi soggetti chiamati in causa?
Effettivamente il termine “amici” a qualcuno un po’ più attempato suona come gergo democristiano. Questo libro rompe con la sinistra come concetto politico, è fortemente critico verso la sinistra e questa idea di amicizia non ha niente a che fare con l’amicizia pelosa dello scambio di favori, ma è un’amicizia politica, cioè è una riflessione che parte dall’idea che il politico è prima di tutto un terreno dove si definiscono l’amicizia e l’inimicizia, dove in qualche maniera la forza, il motore del conflitto e della trasformazione politica è proprio questa dicotomia tra amico e nemico. Il concetto viene da questa radice di riflessione politica e filosofica che attraversa la sinistra, attraversa i movimenti rivoluzionari ma è anche precedente alla modernità.
E soprattutto il “noi”. Esso è chiaramente un riferimento all’idea che è necessario, gli autori e le autrici propongono che è necessario organizzarsi con una forza politica, con una forza collettiva che agisca, quindi questo noi è un noi che invita e riconoscersi, a creare delle situazioni collettive. Ma in che modo farlo? Per rendere l’idea vi leggo proprio il passaggio dove si utilizza questa metafora del Gulliver della rivoluzione: “Organizzarsi non ha mai voluto dire affiliarsi alla stessa organizzazione. Organizzarsi significa agire secondo una percezione comune, a qualsiasi livello essa sia. Ora, quello che fa difetto alla situazione non è la «collera della gente» o il bisogno, non è la buona volontà dei militanti né la diffusione della coscienza critica e nemmeno la moltiplicazione del gesto anarchico. Quello che ci manca è una percezione condivisa della situazione. Senza questo legame i gesti si dissolvono nel nulla senza lasciare traccia, le vite hanno la consistenza dei sogni e le sollevazioni finiscono nei libri di scuola. La profusione quotidiana di informazioni, per gli uni allarmanti e per gli altri semplicemente scandalose, plasma la nostra comprensione di un mondo globalmente inintelligibile. Il suo aspetto caotico è la nebbia della guerra dietro la quale esso si rende inattaccabile. È grazie al suo aspetto ingovernabile che è realmente governabile. È questo il trucco. […] Una intelligenza condivisa della situazione non può nascere da un solo testo, ma da un dibattito internazionale. Ma perché un dibattito abbia luogo bisogna cominciare a mettere in circolo dei documenti. Eccone uno, quindi. Abbiamo sottoposto la tradizione e le posizioni rivoluzionarie al banco di prova della congiuntura storica e abbiamo provato a tranciare i mille fili ideali che tengono legato al suolo il Gulliver della rivoluzione”.
Quindi l’idea degli autori è quella di non proporre un’organizzazione politica come un luogo di identità nel quale cercare dei tesserati, ma proporre una riflessione più ampia su quelle che sono le forme dell’organizzazione sociale e del vivere collettivo, quindi “noi” fa riferimento a questa volontà di non creare un perimetro identitario per un’organizzazione con un’entrata e un’uscita ma attivare una riflessione più ampia.
Amandine Urruty, Family Portrait II
Destituire, bloccare, hackerare: sono le parole chiave del metodo che il Comitato Invisibile legge all’opera nelle insurrezioni succedutesi dal 2008 ad oggi, fuori e dentro l’Europa. Se queste sono delle buone strategie, perché non hanno vinto? Come si costruisce, se è possibile costruirla, una prospettiva rivoluzionaria a partire da queste fiammate insurrezionali?
Se qualcuno ha letto L’insurrezione che viene, un limite sicuramente di quel libro era un certo, detto volgarmente, volontarismo, cioè l’idea che una rottura radicale con questo sistema politico ed economico fosse anzitutto una posizione etica che potesse portare a questa rottura. Il problema dell’etica è che in qualche maniera si scontra quotidianamente con l’economia, quindi in Ai nostri amici si approfondisce un filone che c’era già nel libro precedente che è quello se vogliamo più materialista rispetto a quelle che sono le forze reali che governano la società e che fanno sì che appunto le rivolte che abbiamo visto dal 2011 in avanti non riescano a costruire una rivoluzione.
Dallo stadio di rivolta o di insurrezione anche particolarmente estesa come quelle avvenute in Tunisia o in Egitto e in tanti altri posti non si riesce a passare a quello che alcuni chiamerebbero un passaggio costituente. Ai nostri amici parla invece della necessità di un passaggio destituente, poiché gli autori non credono che si debba costituire un nuovo potere ma che lo sforzo principale sia quello di destituire il potere in quanto tale nella società. Per fare questo l’analisi si articola su quattro terreni su cui secondo loro si poggia il governo dell’esistente. Uno è appunto il tema del governo, ma governo inteso non solo come governo istituzionale, ma proprio come lo intenderebbe Foucault, come forma di far vivere, non tanto come istituzione che legifera ma come capacità di gestire la vita delle popolazioni. Da questo deriva la grande centralità della logistica come forza principale di riproduzione del capitalismo, che si riproduce soprattutto attraverso la circolazione che crea il valore delle merci. Qui il dissapore con i marxisti di varie scuole è molto forte, perché per i marxisti l’elemento principale di creazione del valore è lo sfruttamento del lavoro e tutta la dinamica del plusvalore, mentre secondo questa analisi è la sfera della circolazione, della logistica ad essere oggi centrale piuttosto che quella della produzione. La cibernetica che è la tecnica principale di governo, non è l’informatica ma utilizza anche l’informatica per controllare, normare, prevedere, modellizzare la società attraverso l’uso dei calcolatori e dell’economia. Sarebbe molto lungo parlare di cos’è l’economia secondo i “nostri amici” però sostanzialmente l’economia è l’opposto del comunismo. Il comunismo non come sistema politico sociale storico, ma il comunismo come forza di comunizzazione, condivisione e negazione della scarsità, critica radicale della logica economica. Se la logica economica è creazione della penuria, creazione del bisogno, il comunismo è l’opposto, è la negazione della penuria, la negazione della povertà attraverso la negazione di ogni proprietà, di ogni limitazione dei bisogni e della possibilità di condividere. Ecco queste sono le quattro gambe su cui si appoggia il potere e l’analisi del libro in qualche maniera, capitolo per capitolo, cerca di smontare l’articolazione di questo potere attraverso delle proposte e delle pratiche che vengono indicate come possibili.
Amandine Urruty, Family Portrait III
Attorno al libro sono esplose polemiche anche molte accese che hanno portato ad una sorta di boicottaggio e anche alla diffusione da parte di alcuni anarchici di un pamphlet intitolato Ai clienti in cui viene nettamente rifiutata la proposta del Comitato Invisibile che si può sintetizzare nella frase: “non esiste un esperanto della rivolta. Non spetta ai ribelli imparare a parlare anarchico, ma agli anarchici diventare poliglotti”. Qual è il problema?
Secondo me ci sono vari motivi, uno è legato alla scelta degli autori di non voler costruire esplicitamente un perimetro identitario preciso, ma allo stesso tempo di volersi organizzare in una forza politica. Questa ambivalenza viene vissuta in maniera scomoda e negativa da chi invece fa dell’identità politica, dell’ortodossia della propria visione un punto di forza. E qui già c’è un primo problema. L’altro è quello dell’etica, sicuramente cioè che accomuna alcuni anarchici e i “nostri amici” è sicuramente un primato dell’etica, un’idea etica molto forte dell’azione politica e di ciò che spinge all’adesione a una determinata scelta di vita. Se vogliamo, da una parte c’è un’etica puritana, contro un’altra che dal mio punto di vista è meno dogmatica.
Detto molto bruscamente, vedo in certe critiche una sorta di invidia, di preoccupazione che un pensiero prenda campo e invada dei territori che sono presidiati da altre iniziative, perché di fatto quello che è avvenuto è che queste idee sono circolate e secondo me hanno avuto il pregio di saper attraversare un momento storico complesso, come è stato la transizione dal movimento contro la globalizzazione capitalista dal 1999, 2001 e poi riuscire a interpretare quello che è successo in un altro ciclo di lotte, quello degli anni 2000 e poi quest’ultimo non ancora concluso delle insurrezioni nei primi anni del nuovo decennio del 2000. La forza dei “nostri amici” è la capacità, proprio perché non si chiudono in una posizione identitaria, di essere capaci di ascoltare e anche di contaminarsi con altre esperienze che avvengono e questo chiaramente da qualcuno viene etichettato come opportunismo, come marketing politico, come volontà di essere buoni per tutte le stagioni. Per qualcuno la circolazione e il successo di un’idea la squalificano per principio, se l’adesione a qualche idea politica supera un numero minimo di persone diventa necessariamente commerciale. Secondo me quando un pensiero, una riflessione diventano collettive, diventano ampie, diventano necessariamente anche plurali e a volte anche spurie. Se siamo diecimila a leggere questo libro forse daremo diecimila interpretazioni e se abbiamo dei luoghi collettivi dove discuterne potranno diventare cento, ma sicuramente non diventeranno mai una.
Amandine Urruty, Pear
Oggi non sembra che viviamo in una fase di crisi del capitalismo ma nel “capitalismo della crisi”, cioè è la crisi stessa (la sua gestione e il suo controllo) una forma di governo. In nome della “crisi” diventa tutto giustificabile. Al di là di prospettive rivoluzionarie, auspicabili ma forse difficilmente immaginabili nell’immediato, vedi possibilità di svolte alternative del capitalismo, cioè una uscita da questa crisi prolungata per mantenersi in piedi con altre strategie?
Quando si sente parlare di rivoluzione sembra una parola completamente fuori contesto, desueta e assurda, quando invece è stata una parola che è stata il motore della politica e della cultura in Europa per almeno due secoli. Perché questa parola è collassata e questo concetto è stato dato per morto. Invece è ancora vivo. Secondo me e secondo gli autori del libro un punto fondamentale è il tema dell’Apocalisse. Viviamo in un’epoca che si compiace e che costruisce il suo consenso sul governo e sull’economia della catastrofe, sulla riproduzione continua della crisi e sull’apocalisse come prospettiva, cioè un’epoca il cui governo si legittima sul fatto che ci dovrebbe in qualche modo difendere da un’apocalisse incombente. La crisi ecologica, la crisi economica, il crollo di tanti sistemi politici del Novecento piuttosto che indebolire il governo di questa società lo hanno rafforzato e questo è il grande problema. Questo ha anche in qualche maniera tagliato le gambe all’idea di rivoluzione almeno per come si era costruita nella cultura e nella politica del Novecento, in cui la rivoluzione era un’alternativa all’apocalisse, un’altra linea storica che aveva cercato di scalzare l’idea dell’apocalisse cristiana, cioè la fine dei tempi non attraverso una grande purificazione finale ma attraverso una grande trasformazione sociale.
Il pensiero rivoluzionario oggi sta ancora cercando il suo senso del tempo e della storia, ma continuare a lottare è fondamentale per continuare a capire il presente. Vi leggo a proposito questo passaggio: “Se questa epoca va matta per le messinscene apocalittiche, che costituiscono buona parte della produzione cinematografica, non è solo per il godimento estetico che questo genere di distrazione autorizza. Del resto, l’Apocalisse di Giovanni ha già tutto della fantasmagoria hollywoodiana, con i suoi attacchi aerei di angeli scatenati, i suoi inenarrabili diluvi e i suoi spettacolari flagelli. Solo la distruzione universale, la morte di tutto può lontanamente procurare all’impiegato che vive nelle villette a schiera il sentimento di esser vivo, lui che tra tutti è il meno vivo. «Che la si faccia finita!» e «Purché duri!» sono i due sospiri che alternativamente procurano un’eguale disperazione civilizzata. A ciò si mescola un vecchio gusto calvinista della mortificazione: la vita è un rinvio, mai una pienezza. Non si è parlato invano di «nichilismo europeo». Del resto è un articolo che si è esportato così bene che il mondo ne è ormai saturo. Infatti più che una «mondializzazione neoliberale» abbiamo avuto soprattutto la mondializzazione del nichilismo”. La rivoluzione, se vuole vincere di nuovo, deve affrontare questo compito immenso di critica radicale del nichilismo quale unica metafisica che è rimasta in piedi nelle nostre società.
Forza ragazzo! Campagna del Kentucky, settembre 1940
Si dice che il primo grosso scoglio per una rivista sia superare il terzo numero. “Malamente” è arrivata al quarto, che in realtà sarebbe il quinto se consideriamo anche il numero zero uscito poco più di un anno fa. Siamo ancora qui e la spinta iniziale non s’è affatto affievolita. Anzi siamo sempre più lanciati, sostenuti dall’interesse che vediamo crescere attorno a questo progetto editoriale. Sono già una decina le presentazioni che abbiamo fatto in giro per le Marche (e non solo): le ultime a Urbino, Senigallia, Corinaldo e Cesena e ogni serata è stata occasione di piacevoli discussioni su come, dove e perché aprire spiragli di aria fresca che possano incrinare le mura che imprigionano questo mondo. Lungo la strada abbiamo incontrato qualche faccia conosciuta, ma anche tanti volti per noi nuovi e di diverse generazioni, con cui abbiamo condiviso l’urgenza di capovolgere una società ingiusta e insostenibile. A partire dalle piccole e grandi storie che viviamo nei nostri territori e che andiamo a scoprire e approfondire numero dopo numero. Continue reading →