Elementi fondamentali di critica anti-industriale (#5)

Elementi fondamentali di critica anti-industriale
Di Miguel Amorós [QUI IL PDF]

Come abbiamo fatto nello scorso numero (Malamente #4), anche questa volta diamo spazio alla critica anti-industriale pubblicando la prima traduzione italiana di un contributo di Miguel Amorós, scritto in occasione del campeggio anti-industrialista dell’8 luglio 2010 a Fellines (Girona) e per le “Jornadas en defensa de la Tierra” del 20-22 agosto 2010 allo spazio sociale La Barajunda di Hervás (Cáceres). Quella portata da Amorós è una critica non solo e non tanto del settore industriale, ma della “società industriale” in cui ci troviamo a vivere, dove ogni aspetto dell’esistenza individuale e sociale (il lavoro, il tempo libero, l’alimentazione, la salute etc.) è colonizzato dalla logica totalizzante dell’industria, che marginalizza sempre più ogni possibilità di intervento diretto e autonomo sulle condizioni della propria vita, lasciate in mano a tecnici e specialisti dei vari settori. Tutto questo mentre il progresso, come ideologia sociale, maschera l’assalto che le ragioni dell’industria e dell’economia conducono sulla vita umana e sui territori, considerati un loro terreno di conquista. Nonostante la redazione non sia unanimemente concorde con questo tipo di lettura della società contemporanea (e delle possibilità del suo superamento), ritiene che siano temi importanti da conoscere e discutere per un agire consapevole.

Micheal Kerbow - Their Refinement of the Decline
Micheal Kerbow – Their Refinement of the Decline

Il proposito di questo contributo è di segnalare le linee maestre seguite dalla critica reale del capitalismo nella sua fase ultima, che abbiamo chiamato anti-industriale. La questione sociale è stata inizialmente sollevata a partire dallo sfruttamento dei lavoratori nelle officine, nelle fabbriche e nelle miniere. La critica sociale è stata prima di tutto una critica della società classista e dello Stato ma, in una fase successiva del capitalismo, la questione sociale è emersa dalla colonizzazione della vita e dallo sfruttamento del territorio. Intendendo per territorio non il paesaggio né l’“ambiente”, ma l’unità dello spazio e della storia, del luogo e di chi lo abita, della geografia e della cultura. La critica sociale passò ad essere critica della società di massa e dell’idea di progresso. Lungi dal respingere la precedente critica sociale, corrispondente a un tipo di capitalismo crollato, la ampliava e prolungava, inglobando aspetti nuovi come il consumismo, l’inquinamento, l’autonomia della tecnoscienza e l’apparenza democratica del totalitarismo. La critica anti-industriale non nega affatto la lotta di classe, ma la conserva e la supera; per di più, la lotta di classe non può esistere nei tempi che corrono se non come lotta anti-industriale. D’ora in poi, chi parla di lotta di classe senza riferirsi espressamente alla vita quotidiana e al territorio ha in bocca un cadavere.

Michael Kerbow - Diminishing Returns
Michael Kerbow – Diminishing Returns

Possiamo seguire il corso storico, tra gli anni Trenta e Novanta del secolo scorso, della comparsa dei primi elementi di critica anti-industriale, a cominciare dalla critica della burocrazia. La burocrazia è il risultato della complessità del processo produttivo, della necessità di controllo della popolazione e dell’ipertrofia dello Stato, del quale le organizzazioni “operaie” sono un’appendice. A un determinato livello di sviluppo, quello nel quale proprietà e gestione si separano e dove coloro che eseguono gli ordini restano totalmente subordinati a coloro che coordinano e decidono, gli strati superiori della burocrazia che operano nelle diverse sfere della vita sociale – la cultura, la politica, l’amministrazione, l’economia – sono realmente la classe dominante. La società capitalistica burocratizzata si trova divisa tra gestori ed esecutori, o meglio, tra dirigenti e diretti. Tale divisione ci riconduce a un’altra precedente, quella esistente tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, che è la base dello sviluppo burocratico. Il lavoro manuale perde la sua creatività e la sua autonomia a causa del sistema industriale che, favorendo la standardizzazione, la parcellizzazione e la specializzazione, lo riduce a una pura attività meccanica controllata da una gerarchia burocratica. Il beneficiario della meccanizzazione non è solamente il capitalista, è la macchina stessa. Per l’organizzazione del lavoro e della vita sociale che implica, chi ci rimette in primo luogo è il lavoratore, ma è tutta la popolazione che sarà sottomessa alle esigenze della macchina. La fabbrica, la macchina e la burocrazia sono i veri pilastri dell’oppressione capitalista. La critica della burocrazia e della macchina completa la critica dello Stato e del lavoro salariato e introduce la critica della tecnologia.

Lo sviluppo unilaterale della tecnologia, orientato verso il rendimento e il controllo, serve alla sottomissione, non alla libertà. Un’esistenza modellata da tecnocratici secondo standard di produzione è una forma di vita schiava. La scienza e la tecnica evolvono sotto il segno del dominio, che è dominio della natura e dell’essere umano. Ma una critica della scienza e della tecnologia non significa un rifiuto della conoscenza razionale e del metabolismo con la natura. Si tratta del rifiuto di un tipo di scienza e di un tipo di tecnologia che generano potere e oppressione. E accettazione di quelli che non alterano le condizioni di riproduzione di una società egualitaria e libera. Quelli che rispettano le necessità di una vita rurale e urbana equilibrata, a misura dei bisogni e dei desideri umani. In nome della Ragione. Ma se avanza sotto la tutela della conoscenza tecnificata, questa stessa ragione, sottomessa agli imperativi del potere, si autodistrugge. La fede nel miglioramento della condizione umana attraverso la conoscenza scientifica, l’innovazione tecnica e l’espansione economica, in altre parole, la fede nel progresso, resta messa in discussione. La critica della scienza, della tecnologia e del sistema industriale è una critica del progresso. Allo stesso modo è una critica delle ideologie scientiste e progressiste; in primo luogo dell’ideologia operaista, tanto nella sua versione riformista che in quella rivoluzionaria, basata sull’appropriazione, in nome del proletariato, del sistema industriale borghese e della sua tecnologia.

Michale Kerbow - A New Religion
Michale Kerbow – A New Religion

Il capitale non consiste solamente di denaro, mezzi di produzione o sapere accumulato; è il polo attivo di un rapporto sociale mediante il quale genera profitti a scapito del lavoro salariato. Quando questo rapporto cessa di limitarsi alla produzione e riguarda tutti gli aspetti della vita degli individui, lo sfruttamento capitalista cambia qualitativamente e il conflitto sociale si estende alla vita quotidiana, ora dominata dal veicolo privato e dalla frenesia del consumo, inquadrata in un’architettura miserabile. Alla critica del lavoro si aggiungono quella della società dei consumi e quella dell’urbanesimo e, soprattutto, quella della vita quotidiana che ne consegue, prima delineata come critica alla morale sessuale borghese e rivendicazione dei diritti delle donne. La costruzione di uno stile di vita libero deve sradicare dalla vita la logica alienante della merce. Il metodo per fare questo, l’autogestione, dev’essere messo in opera contro la logica capitalista, altrimenti non sarebbe altro che autogestione dell’alienazione. Il compito dei futuri organismi comunitari, che negli anni Sessanta alcuni identificarono con i Consigli operai e altri con le comuni o i municipi liberi, non può dunque consistere nella gestione dell’esistente, ma nella sua trasformazione rivoluzionaria. La sovranità reale degli individui emancipati non significa assolutamente la “umanizzazione” del lavoro o la “democratizzazione” del consumo, ma la soppressione di entrambi e la loro sostituzione con una nuovo tipo di attività unitaria liberata dai condizionamenti.

La crisi ecologica espulse dalla critica della vita quotidiana l’ottimismo tecnologico, la fiducia in un possibile uso liberatore della tecnologia, e condannò l’operaismo, la fede in un ruolo emancipatore del proletariato industriale e nel carattere potenzialmente rivoluzionario dei conflitti del lavoro. Fenomeni come l’inquinamento, le piogge acide, il consumo di combustibili fossili, l’utilizzo di additivi chimici e pesticidi, l’enorme accumulo di rifiuti, etc., dimostrarono che il regno della merce non solamente condannava la maggioranza della popolazione alla schiavitù salariata e all’alienazione consumista, ma in più minacciava la salute e metteva in pericolo la vita sulla Terra. La lotta contro il capitale non è dunque semplicemente una lotta per una vita libera, ma è una lotta per la sopravvivenza. L’abolizione del lavoro e del consumo non si possono effettuare dall’interno, attraverso una pretesa radicalizzazione dei conflitti per il salario e l’occupazione, visto che cioè che urge è lo smantellamento completo della produzione, diventata qualcosa d’avvelenato e inutilizzabile. La sua “autogestione” è più che alienante, tossica. La crisi ecologica rivela dunque i limiti della crescita produttiva e urbana, condizione sine qua non dell’accumulazione capitalista attuale, quando lo sviluppo economico si è trasformato nell’obiettivo unico della politica.

Michael Kerbow - Fool_s Gold
Michael Kerbow – Fool_s Gold

L’industrialismo incontrò il suo primo ostacolo nella cosiddetta “crisi del petrolio”, di fronte alla quale “il mercato” e lo Stato reagirono con la costruzione di centrali nucleari. I pericoli che la produzione di energia nucleare comportava per ampi settori della popolazione e soprattutto la militarizzazione sociale nascosta che portava con sé suscitarono una forte opposizione. Dall’unione tra la critica della vita quotidiana e la critica ambientalista, specialmente nel suo versante antinucleare, nacque durante gli anni Ottanta la critica anti-industriale. L’anti-industrialismo tenta di fondere gli elementi di critica sociale nuovi e precedenti: la sua negazione del capitalismo è allo stesso tempo antistatale, antipolitica, antiscientista, antiprogressista e anti-industriale.

I nuovi fronti di lotta aperti, inglobati nel concetto di “nocività”, erano difficilmente difendibili, poiché la fine del ciclo fordista del capitale, caratterizzato dalla sconfitta del movimento operaio tradizionale, l’industrializzazione della cultura e l’inizio della globalizzazione, comportavano un crollo della coscienza e un aumento dell’ecologismo neutro. Riducendo i problemi a delle questioni ambientali ed economiche e ignorando la critica sociale precedente, gli ambientalisti aspiravano a convertirsi in intermediari del mercato della degradazione, fissando con lo Stato i limiti di tolleranza delle nocività. In effetti, gli ambientalisti assunsero presto il ruolo di consulenti politici e imprenditoriali. D’altra parte, la distruzione del contesto operaio e la completa colonizzazione della vita quotidiana avevano aumentato notevolmente la capacità della popolazione di sopportare l’insopportabile. Le classi una volta pericolose si trasformavano in masse addomesticate. L’offuscamento della coscienza si tradusse rapidamente in declassamento, perdita d’esperienza, incapacità di vivere in società e ignoranza, ragione per la quale la conoscenza della verità non ha condotto alla rivolta. I legami sociali, dissolti dalla merce, facevano difetto. La critica anti-industrialista si ampliava fino a comprendere l’ambientalismo e la società massificata.

Michael Kerbow - Hollow Pursuits
Michael Kerbow – Hollow Pursuits

La mancanza di resistenza permise al capitalismo degli avanzamenti senza precedenti, esacerbando tutte le sue contraddizioni e peggiorando il livello di vivibilità del mondo. La convinzione industrialista della crescita come obiettivo primario della vita sul pianeta sfociava in una crisi biologica. Il riscaldamento globale, in un contesto di deterioramento generale, diede impulso al capitalismo “verde”, basato sullo “sviluppo sostenibile”, i cui frutti sono stati gli organismi transgenici, le automobili di lusso con motore a basso consumo, gli agro-combustibili e le energie rinnovabili industriali. Le aggressioni contro il territorio si sono moltiplicate: autostrade, treni ad alta velocità, linee ad altissima tensione, “parchi” eolici e “giardini” solari, urbanizzazione illimitata, inceneritori, discariche di sostanze tossiche e radioattive, regolazione dei bacini idrici, modifiche dei corsi d’acqua, antenne per la telefonia mobile, abbandono e trasformazione della campagna in banlieue… A tutto ciò bisogna aggiungere i progressi nell’artificializzazione dell’esistenza (di cui le nanotecnologie sono il punto culminante), il proliferare di comportamenti psicotici e il radicarsi di una società panottica e criptofascista come risposta istituzionale ai pericoli dell’anomia. Benché il principale nemico del capitalismo sia il capitalismo stesso e le maggiori minacce gli provengano dalla sua stessa natura, una resistenza minoritaria si è potuta sviluppare grazie a conflitti locali di diversa natura, principalmente contro le grandi infrastrutture, ed è così che la critica anti-industriale ha potuto avanzare in varie direzioni e sotto nomi diversi, incontrando, a seconda dei disastri, attivisti e propagandisti che denunciavano tanto i disastri riguardanti il territorio che l’addomesticamento e la rassegnazione dei suoi abitanti, persone che comprendevano che non si poteva porre rimedio ad alcun problema impantanandosi nella politica, persone che non separavano un’aggressione specifica dalla società che la causava.

La società industrialista è arrivata alla soglia al di là della quale la distruzione dell’habitat umano è irreversibile e, di conseguenza, il controllo assoluto della popolazione è obbligatorio. La difesa di una vita libera, a cominciare dalla libertà dalle protesi tecnologiche, ricca di relazioni, è come minimo una difesa del territorio e una lotta contro ogni condizionamento che provenga dal controllo sociale, dal lavoro, dalla motorizzazione o dal consumo. Ma questo non è che il suo momento difensivo. La fase offensiva è disurbanizzatrice, deindustrializzatrice, ruralizzatrice e decentralizzatrice. Deve riequilibrare il territorio e mettere il locale e il collettivo in testa alle sue preferenze. Si tratta inoltre di una lotta per la memoria e per la verità, per la coscienza libera e contro la manipolazione dei bisogni; è, quindi, una lotta contro le ideologie che tutto questo occultano e deformano come il cittadinismo, la decrescita o quelle che si trovano in dei manuali per adolescenti vergini del tipo “l’anarchia in dieci facili lezioni” (municipalismo, stirnerismo, bonannismo, etc.). Il capitalismo nella sua fase attuale è eminentemente distruttivo e, di conseguenza, è in guerra contro il territorio e le persone che lo abitano. L’autodifesa è legittima, ma costituisce solo un aspetto del conflitto territoriale. Questo è una battaglia per l’autonomia nell’alimentazione, nella mobilità, nell’educazione, nella salute, nell’abitare e nel modo di vestire; un darsi da fare per la solidarietà, per la comunità, per l’agorà e per l’assemblea; per il “comicio”, l’“ayuntamiento general” o il “concejo abierto”, che sono alcuni dei nomi usati nella Penisola iberica per designare la pratica della libertà politica durante le epoche precapitalistiche.

La critica anti-industrialista non arriva come una novità confezionata e a disposizione di chi voglia farne uso. Essa riassume e abbraccia tutti gli elementi della critica sociale precedente, ma non è un fenomeno intellettuale, una teoria speculativa frutto di menti privilegiate disposte a lunghe ore di studio e meditazione. È il riflesso di un’esperienza di lotta e di una pratica quotidiana. È presente un po’ ovunque, sotto una forma o l’altra, come intuizione o come abitudine, come mentalità o come convinzione. Nasce dalla pratica e torna costantemente ad essa. Non vive nei libri, negli articoli, nei circoli iniziatici o nelle torri d’avorio; è il frutto tanto del dibattito quanto dello scontro. In una parola: è figlia dell’azione, questo è il suo ambito e non può sopravvivere lontano da lui.

Michael Kerbow - Witching Hour
Michael Kerbow – Witching Hour

Storia di Gaetano Lombardozzi, anarchico, marinaio e fabbro (#5)

Storia di Gaetano Lombardozzi, anarchico, marinaio e fabbro
Di Federico Sora

Gaetano Lombardozzi era solito organizzare scherzi agli amici. Ma quella volta fu lui la vittima e a quanto pare non la prese troppo bene. A fine Ottocento era emigrato come tanti negli Stati Uniti in cerca di una vita più dignitosa, per rendersi conto che anche lì gli sfruttati rimanevano tali. Era quindi rientrato in Italia, subito dopo la Prima guerra mondiale, per “fare la rivoluzione” nel grande fermento sovversivo del Biennio rosso. Ma le speranze sfumano e s’impone il fascismo. Lombardozzi ormai anziano, pieno di acciacchi e privo di mezzi di sostentamento riceve ogni tanto il sostegno di qualche dollaro inviatogli dai compagni rimasti oltreoceano. Per ricambiare decide di inviare loro una foto e così prende appuntamento con un amico fotografo. Dopo il primo scatto il fotografo dice che la foto non era venuta granché bene e invita Lombardozzi a rifarla con indosso una giacca che si trovava nello studio. Nella giacca, per uno scherzo architettato dai suoi amici, era stato appuntato il distintivo fascista! Il fotografo quindi, ricevuti gli indirizzi americani, assicura che lui stesso avrebbe provveduto a spedire la foto. Qualche sera dopo, in osteria davanti a una numerosa compagnia accorsa per l’occasione, il fotografo comunica a Lombardozzi di aver effettuato le spedizioni e gli mostra la seconda foto, quella col distintivo… Tutti i presenti ebbero parecchio da fare per trattenere Gaetano dall’ammazzare l’amico fotografo e per assicurargli che la foto spedita non era quella col distintivo fascista! (L’episodio è tratto da: Gigin Sperandini, “Gent sa la grasia: aneddoti fanesi”, Fano, 1976).

Gaetano Lombardozzi - Foto segnaletica

Gaetano Lombardozzi – Foto segnaletica 

Gaetano Lombardozzi nasce a Loreto, in provincia di Ancona, il 24 maggio 1860 da Pietro e Michela Trebbi; coniugato e poi vedovo di Elvira Bartolini; marinaio e fabbro; anarchico.

La famiglia si trasferisce a Fano quando Gaetano ha due anni. Quasi tutti i Lombardozzi residenti a Fano provenienti dall’anconetano sono schedati come sovversivi nel Casellario politico centrale. Anche due figli di Gaetano diventeranno attivi militanti di sinistra: dopo la Prima guerra mondiale trovano lavoro nelle grandi fabbriche di Torino e aderiscono al Partito comunista; perseguitati dal fascismo emigrano in Francia, tra il 1936 ed il 1939 partecipano entrambi come volontari alle Brigate internazionali nella guerra civile spagnola e successivamente alla resistenza, Alipio in Francia e Sante in Italia.

Per Gaetano i guai con la giustizia iniziano già a quattordici anni, quando nel settembre del 1874 insieme ad alcuni compagni è coinvolto in un furto di grappoli d’uva, per il quale viene condannato a due giorni di arresto. Dieci anni dopo, nel 1884, insieme ad altri marinai di due imbarcazioni (il trabaccolo Guerino e il Ricardo) è accusato di oltraggio alla forza pubblica e contravvenzione alle leggi sulla sanità marittima. Il gruppo di tredici marinai era infatti giunti in porto la notte del 7 settembre dopo quattordici giorni di pesca, ma nonostante le disposizioni sanitarie prevedessero prima dello sbarco una visita preventiva, non volendo i marinai rimanere in attesa tutta la notte sulla barca se ne erano tranquillamente tornati alle loro case, oltraggiando le guardie doganali.

Il carattere irruento di Lombardozzi gli causa una discreta frequentazione delle aule dei tribunali: il 31 dicembre 1887 è accusato di aver ferito il marinaio Antonio Montanari durante un diverbio scoppiato presso l’osteria Piccinetti; viene però dichiarato non luogo a procedere. Nel novembre dell’anno successivo viene fermato mentre cerca di entrare all’interno della cinta daziaria della città con dieci litri di vino presi all’osteria di Filomena Biagioni senza pagare il dazio; spalleggiato da altri anarchici si oppone alle pretese delle guardia daziarie e toltosi uno zoccolo dai piedi ne colpisce una in testa. Sarà poi condannato a un mese di prigione.

Numeri unici anarchici stampati a Fano nel 1906
Numeri unici anarchici stampati a Fano nel 1906

 

Negli anni a cavallo tra Otto e Novecento Lombardozzi alterna periodi in Italia e negli Stati Uniti. Secondo i registri dell’emigrazione di Ellis Island risulta approdato negli Stati Uniti l’11 maggio 1896 (motonave Spaarndam partita da Boulogne-sur-Mer, Francia), il 15 maggio 1901 (motonave Hohenzollern partita da Genova, insieme ad altri fanesi) e, seppur registrato con un dato di residenza inesatto, il 21 agosto 1904 (piroscafo New York partito da Southampton, Inghilterra).

Durante uno dei suoi rientri in Italia, nel giugno del 1894 partecipa a una manifestazione antimilitarista che termina con un duro scontro con le forze di polizia: la sera del 3 giugno mentre in piazza suonava la banda militare un gruppo di una ventina di giovani aveva inneggiato alla rivoluzione e gridato le frasi sovversive “abbasso Crispi!” e “viva De Felice!” (De Felice era stato condannato e incarcerato come promotore dei Fasci siciliani). Era quindi intervenuto il colonnello comandante del presidio militare, il quale era riuscito a bloccare Romolo Falcioni detto Pece e a consegnarlo a una guardia comunale. Grazie al pronto intervento dei compagni e alla colluttazione che ne era seguita, Falcioni era poi riuscito a divincolarsi. In quest’occasione le guardie segnalano Lombardozzi come il più attivo dei dimostranti, ma il procedimento penale non avrà esiti.

Dal 1904 risiede a New Haven (Connecticut), al 108 di Bank Street; in città esercita un piccolo commercio di generi alimentari mentre la famiglia, con cui rimane in corrispondenza, era restata a Fano. Dagli Stati Uniti, insieme ad altri compagni emigrati, non fa mancare le sue sottoscrizioni alla stampa anarchica fanese, in particolare per la nuova serie del periodico «In marcia» e per il numero unico «Largo alla verità». Quando nel 1907 muore (in Italia) sua moglie Elvira lasciando quattro figli piccoli lontani dal padre, i compagni fanesi si stringono a lui offrendo la loro solidarietà. Nel frattempo la polizia apre la scheda personale nel Casellario politico centrale, dichiarando che pur godendo di “buon nome” è un pericoloso ed esaltato propagandista delle idee anarchiche.

Vecchia Fano - Piazza XX Settembre
Vecchia Fano – Piazza XX Settembre

 

Nel 1910 si trasferisce in Carmine Street a New York, dove lavora presso il noto anarchico Vittorio Blotto, ma dopo pochi mesi rientra nel Connecticut, a New London, trasferendosi nel quartiere degli italo-americani di Fort Trumbull. Viene segnalato come sottoscrittore della «Cronaca sovversiva» di Luigi Galleani, oltre a continuare il sostegno economico della stampa anarchica fanese.

Secondo le fonti di polizia rientra a Fano il 21 luglio 1919, in seguito a un infortunio sul lavoro per il quale perde l’uso dell’occhio destro. Partecipa attivamente alla vita dei gruppi anarchici del primo dopoguerra e alle tensioni sociali del Biennio rosso. Nel giugno del 1920, durante la “rivolta dei bersaglieri” di Ancona, Lombardozzi e gli anarchici sono tra i protagonisti delle dimostrazioni che investono anche Fano, in un clima di rivolta, scioperi, scontri e incidenti. La sommossa nata dall’ammutinamento di un gruppo di bersaglieri di stanza ad Ancona, con il sostegno dei quartieri popolari e dei gruppi anarchici e repubblicani si era infatti presto estesa in altre città del centro-nord.

A Fano la notte del 29 rimane ucciso il carabiniere Tani, ma le indagini non riusciranno a stabilire se lo scontro a fuoco avvenne tra militari e rivoltosi oppure tra militari stessi che avevano scambiato un loro camion per un mezzo carico di sovversivi.

Gaetano è coinvolto nel procedimento penale aperto in seguito all’aggressione e alla confisca delle armi a due carabinieri di scorta a un treno destinato ad Ancona, bloccato alla stazione ferroviaria di Fano da una cinquantina di rivoltosi la sera del 28 giugno. Secondo i rapporti delle forze dell’ordine i principali responsabili erano ritenuti i fratelli Bruno e Alcide Ceresani (poi trasmigrati nelle file fasciste) accompagnati da altri dodici soggetti individuati non tanto tramite testimonianze dirette ma solo in base alla loro attività anarchica e alla loro presunta capacità di compiere azioni eversive. Lombardozzi verrà scagionato grazie a dei testimoni che affermeranno di averlo visto nello stesso orario dell’aggressione in un altro luogo, cioè nei pressi della sede dell’Unione marinai, il sindacato anarcosindacalista dei pescatori di Fano collegato all’Unione sindacale italiana.

Nel settembre del 1923, a sessantadue anni, è ancora oggetto di perquisizione domiciliare perché sospettato di detenere stampe sovversive. Le stampe non vengono trovate ma al loro posto saltano fuori alcune cartucce di rivoltella; Lombardozzi è quindi arrestato e rimane in carcere per alcuni giorni, al successivo processo viene condannato a due mesi e mezzo di prigione.

Sotto il regime fascista rimane in contatto epistolare con Errico Malatesta, che aveva conosciuto durante il suo giro negli Stati Uniti. Nelle carte sequestrate dopo la morte del leader anarchico, il nominativo di Lombardozzi è presente in quaderni, rubriche e appunti. Per via dell’età avanzata viene radiato nel 1929 dal Casellario politico, ma la vigilanza è prontamente riattivata quando nel 1933 le autorità sequestrano una lettera a lui diretta inviata dagli Stati Uniti dal fanese emigrato Arturo Ghiandoni. Nella lettera Ghiandoni comunicava che durante una festa di sottoscrizione per la stampa, i compagni anarchici degli Stati Uniti avevano deciso di raccogliere anche una somma a favore di Lombardozzi, spedendogli un assegno da trenta dollari (anch’esso sequestrato). Un episodio simile accade nel 1934, tanto che il comando della Milizia fascista di Pesaro segnala, certamente esagerando, che al Lombardozzi pervenivano con cadenza mensile somme di denaro dagli Stati Uniti. Da indagini esperite dal console comandante Italo Ingaramo, sembra che tali somme siano inviate dal Comitato internazionale per il Soccorso Rosso, dietro interessamento del suo compagno di fede Sabino De Stefano, calzolaio anarchico di Fano.

Nel 1935, ormai vecchio, privo di un occhio, carico di malanni e senza mezzi di sostentamento (i suoi figli sono nel frattempo emigrati in Francia) rivolge una richiesta al Duce per il dissequestro dei due assegni inviati dagli Stati Uniti e non ancora consegnati. Non si conosce l’esito di questa petizione. Muore a Fano il 4 luglio del 1936.

Gaetano Lombardozzi - Fascicolo del Casellario politico centrale
Gaetano Lombardozzi – Fascicolo del Casellario politico centrale

 

Fonti

Archivio centrale dello Stato, CPC, b. 2823, ad nomen. Pretura di Fano, Atti penali, fascc. n. 1/1875; 27/1882; 179/1884; 38/1888; 140/1888; 146/1894; 248/1923. Archivio di Stato di Pesaro (ASP), Sottosezione di Fano, ACF, 1894, cat. 16, classe 5, fasc. 3. ASP, Tribunale di Pesaro, Atti penali 1921, b. 1148, fasc. 123. «L’Agitazione», 3/1/1901; «In Marcia», 7/7/1906; «Largo alla verità», 13/10/1906; «Cronaca sovversiva», 30/3/1907; «In Marcia», 15/9/1912; «Pensiero e volontà», 1/9/1924 e 1/10/1924. Gigin Sperandini, Gent sa la grasia: aneddoti fanesi, Fano, 1976, p. 86, 107-109.

Tutto fumo… niente arrosto. La controversia sui fumi all’ex cementificio di Sassoferrato (#5)

Tutto fumo… niente arrosto.
La controversia sui fumi all’ex cementificio di Sassoferrato
Di Alessandro Pietropaoli

Da Sassoferrato in provincia di Ancona ci arriva una storia di declino industriale e devastazione ambientale che ha molti punti in comune con la storia che abbiamo raccontato nel numero 3, quella dello stabilimento industriale Sacelit di Senigallia. Per giunta, questa vicenda mette in luce la situazione difficile delle aree appenniniche delle Marche, colpite oggi anche dal recente terremoto e da sempre oggetto di sfruttamento e controllo politico da parte dei potentati locali. Tuttavia ci piace anche ricordare che Sassoferrato fu per lungo tempo patria di briganti e repubblicani contro il Papa e poi di anarchici e altri resistenti contro il Re e il fascismo. E domani? Queste montagne ci riservano ancora storie e sorprese.

Sassoferrato, ex cementificio
Sassoferrato, ex cementificio

 

La vicenda che intendo ripercorrere in questo articolo è quella relativa alla situazione di attuale degrado e abbandono che coinvolge l’area dell’ex cementificio SACIC di Sassoferrato, nell’entroterra sub-appenninico della provincia di Ancona. Una storia, a mio avviso, che assume particolare significato per quanto riguarda la lunga controversia sui fumi di scarico che ha coinvolto la popolazione per più di vent’anni segnando all’epoca una vera e propria frattura culturale. Sono nati cioè in quegli anni temi come l’attenzione alla trasparenza, il rifiuto della monetizzazione della salute, il coinvolgimento di ampi strati della cittadinanza e una nuova concezione dell’ambiente che non separa l’interno dall’esterno della fabbrica. Temi sensibili qui a Sassoferrato che hanno portato poi in tempi più recenti ad opporsi (era il 2009) al progetto di creazione di un termovalorizzatore affidato alla locale filiale della multinazionale Ritrama Spa creando un apposito comitato di tutela ambientale e ai giorni nostri, ad ostacolare la creazione di un impianto mini-eolico da 60 Kwp che l’attuale amministrazione ha deciso di installare sopra la frazione di Montelago nonostante l’opposizione della comunità locale guidata da varie associazioni ambientaliste istituzionali tra cui Italia Nostra e Wwf.

Ma andiamo con ordine e cerchiamo di ripercorrere le fasi e le alterne vicissitudini affrontate dallo stabilimento con una particolare attenzione al tema dell’inquinamento e al rapporto creatosi tra vertici della fabbrica, popolazione e autorità competenti.

La nostra storia inizia nel lontano 1909 con la creazione della società facente capo ai f.lli Stella per lo sfruttamento della cava di calcare in prossimità del fiume Sentino per ricavare cemento, calce e gesso. Le fasi di cottura avvenivano in tre forni verticali mod. Dietzch (i cui camini di scarico sono ancora visibili). In quel periodo la produzione giornaliera è di circa 80 t/g con l’impiego di 60 operai. I primi problemi produttivi, però, non tardano ad arrivare. Già nel ’14, causa la modesta entità del giacimento calcareo, si è costretti ad importare da Scheggia il materiale tramite carri trainati da buoi in assenza della linea ferroviaria. Più tardi, nel 1931, dopo un periodo di crisi dovuto a vari fattori (crisi economica mondiale del ’29, bassa produttività dello stabilimento rispetto a quello di Magione-Perugia di proprietà della stessa ditta) cessa l’attività e viene dichiarato il fallimento.

Sassoferrato, ex cementificio
Sassoferrato, ex cementificio

 

È significativo notare come in tale periodo la chiusura del cementificio sia tra le cause che trascinano con sé anche il fallimento del maggiore istituto di credito locale: la Banca Popolare di Sassoferrato il cui presidente è Ermogaste Stella, Podestà fascista del Comune e cugino dei f.lli Stella del cementificio. Quando viene scoperto che ha concesso tramite la banca “prestiti allegri” allo stabilimento e mai più rientrati, viene espulso dalla sezione locale del partito fascista e il Comune viene commissariato. Dopo la cessazione della produzione, autorità locali e sindacati cercano di coinvolgere altri attori per ripartire e decidono di affidare in affitto la gestione in più riprese a due diversi cementifici che però, ben prima della scadenza naturale del contratto, si sganciano dall’impresa causa scarsa produttività dello stabilimento e crollo sul mercato del prezzo di vendita del cemento. Alla fine subentra la Ditta Papini e poco dopo la società prende il nome di “Società Anonima Cementi Portland Italia Centrale” (SACIC). Alcuni ammodernamenti portano la produzione a 100 t/g e nel ’53 la ditta diviene società per azioni.

Arriviamo così alla fase che ci interessa maggiormente, che è possibile ricostruire tappa per tappa grazie alla corrispondenza presente nel Fondo Albertino Castellucci presso l’Istituto di Storia di Ancona. Le prime rimostranze iniziano nel 1954 (anno in cui viene messo in funzione il nuovo forno verticale automatico) sia da parte degli abitanti delle zone limitrofe che della dirigenza di un vicino pastificio preoccupata della qualità dell’aria esterna da immettere negli essiccatoi per la pasta. Il sindaco dell’epoca, Albertino Castellucci, causa la dispersione di grosse quantità di pulviscolo nell’atmosfera, aggravata anche dall’ubicazione a fondo valle dello stabilimento, si vede allora costretto a sollecitare il direttore del cementificio a prendere, nel minor tempo possibile, provvedimenti per limitare il fenomeno. Da qui prende il via tutta una serie di botta e risposta tra i protagonisti in campo che durerà decenni.

Per Castellucci, pedigree da democristiano di razza con studi medi dai salesiani, diploma da agrimensore e laurea economica, impegnato nelle Acli, in Coldiretti (fondatore sez. Ancona e Sassoferrato) e in Azione Cattolica, la vicenda è particolarmente delicata essendo al primo mandato da sindaco dopo l’elezione del ’51 (rimarrà in carica quasi ininterrottamente fino al ’75 intrecciando la sua biografia politica alla vicenda del cementificio) ed essendo a capo di una giunta mista Dc-Repubblicani abbastanza rissosa. Riuscirà comunque a districarsi nella situazione in maniera egregia con una tattica attendista che gli permetterà addirittura di rafforzare la propria posizione politica di dominio incontrastato grazie anche alle amicizie influenti nel Vaticano e a Roma (dove nel ’58 inizierà l’avventura da deputato divenendo anche sottosegretario).

Sassoferrato, ex cementificio
Sassoferrato, ex cementificio

 

Nella risposta al sollecito il cementificio si difende dicendo che il pulviscolo è quello tipico di tutti gli altri stabilimenti analoghi e che al momento non può permettersi, per il costo proibitivo, l’acquisto di apparecchiature filtranti ma che anzi è cosa che il vicino pastificio dovrebbe eseguire essendo il cementificio sorto prima. Passa un anno e mezzo e il sindaco, sempre più in difficoltà (si dimetterà da lì a breve), scrive al prefetto per chiedere un intervento risolutivo. Dopo meno di un anno, Castellucci è di nuovo in sella, stavolta con un’alleanza più stabile con i socialdemocratici. La situazione dei fumi intanto rimane irrisolta. Dal ’58, forte della sua presenza al governo nazionale, inizia a drenare fondi da Roma verso il territorio sentinate in anni di veloce ricostruzione e qui, con una forte politica di sussidiarietà e creazione clientelare, crea un saldo consenso. Si parla di più di un miliardo di lire in opere pubbliche. Sono anni di boom industriale per Sassoferrato che all’epoca soffriva di cronici problemi di emigrazione e disoccupazione (basti pensare che nel decennio 1951-1961 la popolazione ha subito un calo del 35%, Fonte Istat).

Dal ’60 al ’64 entrano così in funzione a Sassoferrato otto nuovi stabilimenti tra cui due calzaturifici e la fabbrica Ariston di Aristide Merloni, altro uomo potente della Democrazia Cristian in grado di piegare ai propri interessi imprenditoriali un intero comprensorio da sempre sotto ricatto lavorativo.

Ma torniamo alla nostra vicenda. Nel novembre 1960 un esposto di 150 famiglie tira in ballo il Ministero della Sanità e il competente Ufficio di Medicina della provincia di Ancona che, a seguito di tempestivo sopralluogo, certifica l’irregolarità della situazione e la noncuranza dell’amministrazione del cementificio nel predisporre idonei filtri. La risposta piccata e arrogante del direttore non tarda ad arrivare. Egli mette in dubbio il metodo di rilevamento delle polveri, afferma che se 150 famiglie hanno firmato l’esposto, almeno 1.000 (le restanti) non lamentano problema alcuno e invia una frecciatina al sindaco consigliandogli di rivedere il futuro sviluppo edilizio cittadino che è troppo vicino alla fabbrica. Nel settembre 1961 partono un secondo esposto e nuovi solleciti. Nel Fondo spunta anche una lettera personale di auguri dell’amministratore unico del cementificio al sindaco che viene ringraziato per la partecipazione ad una cena privata organizzata dall’azienda a fine anno, il tutto con un registro di pacifico accordo e con un tono estremamente conciliatorio. Negli stessi giorni, infatti, si tiene la seduta del consiglio comunale (27/12/1961) in cui sono verbalizzate le seguenti frasi pronunciate dal sindaco: “Ho già spiegato che un’azione violenta di rottura con la società non è opportuna; bisogna fare le cose di comune accordo […] sia ai fini della pubblica salute che del turismo; facendo cioè le cose con la massima discrezione possibile per non destare allarme né qui né fuori di qui. […] Dico io di fare un’azione serrata e forte, ma tra di noi e continuiamo a dire che a Sassoferrato si sta bene e non si muore affatto a causa della polvere della cementeria […]”.

Sassoferrato, ex cementificio
Sassoferrato, ex cementificio

 

Da questo breve estratto si evince tutta la cautela con cui si muove l’amministrazione comunale che intende tacitare l’eco che il caso potrebbe assumere anche fuori dei confini del territorio. In altre parole, quello che preme al sindaco è la difesa del “buon nome” del territorio e non alzare troppo i toni per non accendere eventuali riflettori su una situazione “ambigua” che potrebbe penalizzare l’“afflusso turistico” (peraltro sempre con numeri molto bassi essendo costituito per lo più dal ritorno estivo degli ex emigrati nelle case d’origine) e creare turbative all’equilibrio sociale azzerando il possibile conflitto che cova sempre dietro l’ipocrita facciata piccolo-borghese di presunta tranquillità provinciale.

Intanto passa il tempo… Se ne avvantaggiano giunta e cementificio a discapito della salute della popolazione. Siamo ormai al 1965. Arrivano (con quattro anni di ritardo!) i rilevamenti del ’61 di un altro istituto di analisi che sembrano certificare valori nella norma. Castellucci è rieletto stavolta addirittura con una giunta monocolore Dc (grazie agli innumerevoli aiuti governativi, alla fase di sviluppo economico e alla politica “distributiva” a ridosso delle scadenze elettorali).

Un altro sopralluogo, stavolta dell’Ente Nazionale Protezione Ambiente certifica la non attendibilità delle precedenti raccolte di campioni perché fatte solo in pochi punti senza interessarsi delle diverse granulometrie a parità di luogo di prelievo e consiglia anche di fare un’indagine sull’incidenza di lesioni polmonari.

Una data importante per la nostra storia è quella del 18 giugno 1966 ovvero il giorno di costituzione, ad opera di circa venti cittadini “illuminati”, del Comitato Aria Pulita. Questa circostanza porta inevitabilmente ad alzare i toni e il cementificio minaccia un’azione legale con una lettera di diffida in cui insinua che l’amministrazione comunale agevoli l’azione del Comitato e inizia, neanche tanto velatamente, ad usare il ricatto lavorativo di chiusura dello stabilimento se vi saranno ulteriori intralci. Il Comitato inizia subito un forte pressing sul sindaco affermando che negli ultimi cinque anni i casi di tumore polmonare nel territorio sono stati una quindicina a differenza dei due o tre del precedente decennio.

Finalmente nell’ottobre ’69 una convenzione viene stipulata tra Ministero, Comune e cementeria cui seguono ammodernamenti e un nuovo impianto di filtraggio. Ma la problematica della costante nube che avvolge la parte bassa della cittadina non si risolve anzi, peggiora perché intanto la società aveva costruito un secondo forno verticale automatico (modello particolarmente inquinante ma produttivo; ora il livello di produzione è pari a 200 t/g con soli 30 addetti). Allora nel ’71 la SACIC costruisce un meno impattante forno rotante orizzontale. Poi nel ’73, a seguito di un altro esposto del Comitato, una nuova perizia rileva emissioni nocive notevoli (fino a tre volte i limiti di legge) e irregolarità nel funzionamento dei filtri. Ormai la situazione, dopo venti anni, arriva ad una svolta: il 31/12/1974 la società decide di cessare la produzione spegnendo i forni e trasformando lo stabilimento in sito di deposito con ancora problema di polvere, però, dovuto alle fasi di carico/scarico, fino all’83 quando avviene la vendita degli stabili. Nel 1988 il fabbricato senza i macchinari è acquistato dall’Officina meccanica Pacetti che vi installa un mini-impianto idroelettrico per produzione di energia ad uso proprio e tuttora la situazione è rimasta invariata.

Sassoferrato, ex cementificio
Sassoferrato, ex cementificio

 

Diversi progetti di riqualificazione e recupero dell’area sono stati presentati negli anni sulla base della L.R. n. 16 del 23/02/2005 che disciplina tali interventi ma né investitori pubblici né privati finora hanno mostrato interesse alcuno come invece avvenuto in altre parti d’Italia dove la possibilità di attrarre capitali in tal senso è più elevata. E lo scheletro fatiscente del complesso attuale, posizionato in zona semicentrale del rione Borgo, non è certo un buon biglietto da visita per l’attuale amministrazione comunale che, consapevole di un ritardo decennale nello sviluppo turistico della zona, sta tentando in questo secondo mandato del sindaco Pesciarelli una forte campagna di promozione turistica con l’aiuto di una società di marketing appositamente creata. Un approccio, però, che vede la valorizzazione turistica necessaria solo se subordinata alla finalizzazione economica del bene archeologico e che non esita a mostrare ai potenziali forestieri solo la facciata “lustrata” per l’occasione del territorio, glissando su fenomeni di disagio, degrado e criticità amplificatisi negli ultimi anni che vengono artatamente occultati e non esitando a rivolgere accuse di disfattismo a coloro che evidenziano tali aspetti.

Infine due considerazioni finali. La prima riguarda l’opportunismo tipico dei “capitani coraggiosi” dell’industria italiana i quali, fino a che esistono fondi, sussidi, sgravi fiscali, politiche di sostegno pubblico all’impresa privata e in fasi di congiuntura economica favorevole, mantengono la produzione e macinano profitti mentre quando questo flusso di denaro si arresta o insorgono complicazioni che richiedono magari investimenti o ricapitalizzazioni spiccano il volo con estrema solerzia verso lidi più “appetitosi”.

La seconda riguarda il titolo dell’articolo. Sentendo un po’ in giro la popolazione locale e visionando foto d’epoca (in cui Sassoferrato in certi giorni era avvolta da una vera e propria nube nera) sono giunto alla conclusione di come sia stata messa in pericolo la salute di decine e decine di cittadini per mantenere in piedi una fabbrica che fin dagli inizi è risultata obsoleta e che ha sempre generato bassi livelli di occupazione. Tant’è che nessuna delle persone che ho avuto modo di ascoltare la ricorda con rammarico, anzi. Qui invece è ancora molto viva e scottante la chiusura per fallimento del calzaturificio Vainer (fabbrica che a metà anni Settanta produceva 2,6 milioni di scarpe e occupava 1.000 operai tra Sassoferrato, Cagli, Gubbio e San Severino Marche), dove fino al 2008 lavoravano 250 dipendenti e salito alla ribalta delle cronache giudiziarie anche per reati di bancarotta fraudolenta, distruzione di scritture contabili e per il licenziamento selvaggio di 41 dipendenti (di cui una trentina donne) nello stabilimento di Serra Sant’Abbondio che aveva riaperto dopo la chiusura di quello sassoferratese con personale ridotto.

 

Per saperne di più

Per ripercorrere le fasi storiche, il contesto e la cronologia del cementificio, l’opera da consultare è l’ottima Storia del cementificio di Sassoferrato (1909-75) di Renzo Franciolini, gennaio 2016, dispensa autoprodotta. Utile per la controversia fumi è la corrispondenza tratta dal Fondo Albertino Castellucci, presso l’Istituto Storia di Ancona. Per saperne di più sul licenziamento alla Vainer di Serra Sant’Abbondio e sulla sortita notturna natalizia della proprietà per portare via i macchinari, leggere l’articolo del 20/01/2012 tratto da «Rassegna sindacale».

Per ripercorrere la biografia di uno dei protagonisti, ovvero Castellucci, consultare la voce wikipedia e la pagina <http://www.sassoferratomia.it/castellucci.pdf>.

Sassoferrato, ex calzaturificio Vainer
Sassoferrato, ex calzaturificio Vainer

 

Fusioni aziendali
Di Alessandro Pietropaoli
(ad Arthur Scargill)

«Puntiamo all’espansione nel mercato
anche se
il problema della sovrapposizione di figure professionali…
Abbiamo pronto un nuovo piano di rilancio
anche se
il costo del lavoro resta ancora troppo alto…
Facciamo della solidità finanziaria
un nostro segno distintivo
anche se
di questi tempi è bene che
tutti si faccia un po’ di sacrifici…
Vogliamo che le relazioni coi sindacati siano serene
e che la nostra sia una fabbrica di lavoratori felici
anche se
per i primi tempi i ritmi produttivi
non potranno subire alcun rallentamento…».
Mio padre,
operaio specializzato ora in mobilità,
come tanti altri suoi colleghi,
legge tutti i giorni il dizionario.
Dice che la vita di un uomo
dipende
dal modo in cui padroneggia le parole.

Costruire stando in mezzo alle api (#5)

Costruire stando in mezzo alle api
Intervista a Tommaso di Apicoltura Corbecco

L’apicoltura Corbecco è presente da parecchi anni sulle nostre colline. Fa parte del circuito Genuino Clandestino ed è una realtà che riesce a “funzionare” basandosi su una mentalità e un modello organizzativo ben distanti dalla tipica impresa aziendale. Il suo percorso e le sue prospettive si inseriscono nelle sperimentazioni di un modello di economia alternativa al sistema economico dominante, un modello fatto di relazioni orizzontali, reti territoriali e partecipazione. In questa intervista Tommaso ci racconta la sua storia, il legame con il territorio e il mondo agricolo, le difficoltà superate e da superare, la lotta costante ai condizionamenti che il mercato vorrebbe imporre, il concetto di “garanzia partecipata”, i limiti della certificazione biologica e tanto altro.

Tommaso e le api - Foto di Andrea Simonetti
Tommaso e le api – Foto di Andrea Simonetti

 

Ci racconti come e quando hai iniziato la tua attività di apicoltore?

Appena quindicenne, dopo aver rubato un saggio sulle api dei primi del Novecento in un banco di libri usati, vengo travolto da un forte interesse e curiosità appassionanti. Io e Alessandra ci cimentiamo con i primi sciami naturali intorno al 2001, dopo che ci era morto il primo alveare acquistato in un impeto di fascinazione. La nostra attività si sviluppa nel contesto del gruppo di acquisto solidale di Pesaro, che è stato uno dei primi Gas della nostra zona. In quell’ambito ho avuto la possibilità di vendere i primi barattoli, che all’epoca erano più che clandestini, e questo mi ha permesso di cominciare a far esperienza e sperimentare il mondo dell’apicoltura senza alcun tipo di ansia imprenditoriale e senza dovermi porre troppi problemi, soprattutto quelli che derivano dall’aprire una partita iva sostenendo costi ingiustificati in quello che, se non si è figli d’arte, costituisce un salto nel buio. Questo fu possibile solo perché ero inserito in una piccola comunità che proteggeva questa mia ricerca personale. Nel frattempo per campare facevo altri mestieri: lavoravo come operaio, poi come imbianchino e poi nei cantieri in bioedilizia.

In seguito questa passione per le api è diventata una cosa importante e richiedeva un sacco di tempo. A un certo punto ci siamo resi conto che se volevamo portarla avanti bene dovevamo dedicarci a pieno. Con grande tranquillità e senza aver idea se fosse un mestiere remunerativo, ho quindi deciso di abbandonare i cantieri per fare dell’apicoltura la mia attività prevalente. Solo più tardi abbiamo aperto l’azienda agricola e abbiamo aumentato i volumi della produzione, sempre un passo alla volta. Non abbiamo mai comprato api ma sempre riprodotto i nostri alveari dandoci il tempo di crescere con loro. Esiste un rapporto tra il volume di miele e il numero di alveari che un singolo apicoltore riesce a produrre e a gestire. Penso che facendo apicoltura biologica il livello a cui siamo noi oggi rappresenta circa questo limite. Questo equilibrio fatto di attitudini e compromessi con il mercato ci consente di tirare fuori un reddito dalla nostra attività, cosa che non è affatto scontata. Un’altra volta magari parleremo delle ore di lavoro necessarie a far quadrare il cerchio e come affrontiamo il problema dell’autosfruttamento…

Su che territorio sono presenti le arnie e che tipologie di miele producete?

Il modo in cui gestiamo gli alveari sul territorio è legato alle modalità con cui abbiamo avviato l’attività. All’epoca abitavamo in affitto in una casa alle Cesane, la zona collinare vicino a Urbino, senza terra e senza possibilità di installare un laboratorio. Infatti lavoravamo il miele in condizioni molto precarie, praticamente in una camera da letto. Non avendo terreni di proprietà e d’altra parte non essendo le Cesane un posto particolarmente produttivo, una nostra caratteristica è stata fin da subito quella di cercare di allargare l’areale. Ci siamo ritrovati a spargere in giro gli alveari presso case di amici e aziende affini praticando un po’ di nomadismo. Questo ci ha dato la possibilità di entrare in profondità nelle caratteristiche dei territori esplorandoli attraverso le api. Ora le sensazioni che mi evocano un bosco, un frutteto o una brughiera arsa sono fortemente condizionate da questa specie di lente deformante che porta occhi compositi come un’ape e da cui dipendono anche gli interessi legati alla botanica.

In particolare abbiamo iniziato a sperimentare i mieli monoflora, in un periodo in cui ancora nelle nostre zone la produzione era quasi esclusivamente concentrata su acacia e millefiori. La scelta di puntare sui monoflora è stata per noi una scelta importante e non casuale in una realtà in cui fino a dieci o quindici anni fa il miele era per tutti quello liquido, tipo Ambrosoli, sempre uguale a se stesso in tutta Italia e in tutte le stagioni. Parlare di monoflora e di differenti cristallizzazioni ci permette invece di veicolare tante informazioni, di mostrare come il miele è un prodotto della biodiversità e profondamente legato al territorio. Noi stessi abbiamo con il tempo scoperto questo mondo e vendendo miele cerchiamo di trasmettere questa esperienza. Oggi mi muovo in un raggio di una cinquantina di chilometri da casa, con una quindicina di postazioni diverse, generalmente presso amici e in aziende agricole biologiche. Non nascondiamo alcune piccole “follie” come un apiario stanziale in Toscana e alcune postazioni in Basilicata, che giustifichiamo perché fanno parte di questa ricerca di sapori.

Louis Masai, street art - Londra, Whitecross Street, particolare
Louis Masai, street art – Londra, Whitecross Street, particolare

 

Quali sono le differenze principali tra il tuo miele e quello delle grandi aziende industriali che troviamo in vendita nella grande distribuzione?

Le differenze sono tante, a partire dalla qualità del miele e dal trattamento degli alveari. Di recente si è ricominciato a parlare in modo massiccio di frodi e adulterazioni del prodotto ma, al di là di questi casi estremi, quando si lavora su grandi quantitativi i compromessi sono all’ordine del giorno per massimizzare tempi e profitti. Nella logica industriale questo è del tutto normale; tuttavia sono pratiche insensate dal punto di vista della qualità del prodotto. Per la grande distribuzione si lavora acquistando delle partite e, mettendole insieme per fare dei miscugli il più possibile simili a se stessi, si perde qualunque specificità. Tutto viene omogeneizzato e pastorizzato, per cui si guadagna in stabilità del prodotto ma tantissime proprietà se ne vanno via. Poi c’è tutta la gestione degli alveari. L’apicoltura industriale è un’apicoltura che spreme al massimo la produzione dell’alveare. Io non ho una visione vegana, ma riconosco che per ottimizzare al massimo, l’industria mette in opera un vero e proprio sfruttamento, con costi ambientali anche importanti. Inoltre, come tutta l’agricoltura “convenzionale” anche l’apicoltura vive di chimica, di trattamenti per controllare i parassiti. Soprattutto negli anni Ottanta e Novanta alle api hanno dato veramente di tutto portando alla situazione difficile che abbiamo oggi, perché il risultato è stato selezionare parassiti e problematiche sempre più virulente e aggressive e, d’altra parte, api sempre più deboli, molto produttive ma anche molto fragili, sempre più dipendenti dall’intervento dell’uomo. Sostanzialmente una catastrofe per l’ecosistema, come tutta l’agricoltura intensiva.

Va però detto che sul nostro territorio l’apicoltura industriale non ha raggiunto livelli come quella statunitense, dove le grandi aziende possono avere anche quindicimila alveari. Da noi si ragiona nell’ordine dei mille al massimo perché l’apicoltura ha, anche storicamente, una tradizione tra virgolette sana. Esiste cioè una costellazione di medi e piccoli produttori che comunque hanno un senso, una storia, che affondano le radici in tradizioni locali. Spesso, quindi, il miele che viene venduto all’ingrosso non è il prodotto di grandi aziende industriali, ma proviene da tante realtà medio-piccole e di partenza avrebbe anche una certa qualità. Poi però il grossista lo rovina lavorandolo e standardizzandolo per commercializzarlo sugli scaffali della grande distribuzione. Anche qui nelle Marche la situazione è principalmente questa. Da un punto di vista esclusivamente economico, visto l’aumento costante del prezzo del miele (la domanda aumenta ed è sempre più difficile produrlo) e i quantitativi importanti che produciamo, a un’azienda come la nostra converrebbe sicuramente lavorare con i grossisti. Tuttavia la scelta di produrre cibo per la gente è obiettivo ben più gratificante dell’incasso di fine stagione o di qualche giorno di ferie in più, per cui ad oggi invasettiamo direttamente per la vendita al dettaglio lasciando al grossista solo le eccedenze. È raro trovare un’azienda delle nostre dimensioni che invasetta così tanto prodotto.

Q Cassetti, Robbing The Hive
Q Cassetti, Robbing The Hive

 

Una domanda a bruciapelo: ti consideri un “piccolo imprenditore”?

La mia apicoltura è di tipo artigianale ma può essere assimilabile anche a un’idea di realtà contadina, che va un po’ oltre; l’apicoltore non si limita infatti ad avere delle api e produrre del miele, ma è una persona che è inserita in un contesto di campagna e ha un rapporto diretto con l’ambiente circostante. Detto questo, per forza di cose mi sono trovato a dover fare l’imprenditore, cioè ad essere all’altezza di tutta una serie di richieste e questa situazione la vivo quotidianamente come un importante conflitto interiore. Questo senso di inadeguatezza e una certa consapevolezza sono indispensabili per non caderci dentro. Dentro quella mentalità imprenditoriale che poi porta a fare una serie di scelte che diventano concorrenziali, arroganti, arriviste. In questo è fondamentale non essere soli e circondarsi di un contesto fatto di una socialità vasta, rifiutando di affidarsi ai classici “consulenti” di sistema. Questo aiuta nelle piccole o grandi scelte che ci si trova ad affrontare e che determinano lo spartiacque tra cosa sono e cosa non voglio essere come realtà produttiva.

L’apicoltura inoltre richiede precisione, tempi serrati e una presenza continuativa. La misura è data semplicemente dall’osservazione e dall’imitazione delle api nella loro metodicità e nel loro ritmo di lavoro instancabile. Questo significa ripetizione, ottimizzazione, automatismi, quantità. Potrebbe costituire il seme marcio di una visione eccessivamente intensiva. È indispensabile mettere dei limiti alla crescita e allo sviluppo di un’attività, sostituendo l’industrializzazione con la diversificazione. Siamo anche noi agricoltori biologici e ci occupiamo dell’ecosistema come della persona nel suo insieme. Nella mia vita ho dovuto fare un percorso di decrescita per capire qual è la direzione che voglio dare al mio lavoro e questo, secondo me, fa la differenza con la mentalità dell’imprenditore. In questo ovviamente il passo è stato stabilito con chiarezza dalla presenza costante della mia compagna Alessandra e dalla sua visione femminile nel lavoro. Queste consapevolezze sono diventate concrete grazie all’incontro con Genuino Clandestino, proprio mentre mi stavo chiedendo dove mi avrebbe potuto condurre una logica di tipo imprenditoriale e cosa si può fare concretamente in direzione ostinata e contraria. Ed è stato il momento per capire che il castello che avevo costruito non sarebbe dovuto rimanere esclusivamente una mia proprietà, ma poteva essere rimesso in gioco all’interno di un circuito e diventare volano di altre iniziative.

Così l’apicoltura Corbecco è diventata una società di fatto a cui ognuno contribuisce con il proprio lavoro e con una cassa comune da cui attingere in base ai bisogni individuali. È stato semplice perché per ora siamo soltanto in tre. Il nostro nuovo socio è un compagno con cui abbiamo sempre fatto a metà di tutto, anche quando in tempi più duri non c’era niente da dividere. Abbiamo bisogni simili, 2+3 figli a carico e la musica, lo studio e l’attività politica valgono come le ore di lavoro. Come recita il nostro documento di garanzia siamo una società a sentimento. I lavori di cura, i turni per i pasti piuttosto che l’orto di casa sono parte integrante della nostra piccola economia. Questa impostazione è mutuata dalla vita contadina cui assomigliamo pur rimanendo a cavallo (o in bilico) tra l’essenza rurale e la realtà aziendale. Speriamo a breve di liberare risorse per far partire nuove iniziative e diversificare il nostro lavoro. Formalmente utilizziamo quella che si potrebbe definire una partita iva collettiva che è la forma meno costosa di essere in regola da un punto di vista assicurativo e contributivo. Un salto di qualità determinante sarebbe riuscire a costituire una cooperativa che possa raggruppare e tutelare le attività produttive affini del nostro territorio, mantenendo contabilità separate per quanto riguarda il lavoro e proprietà collettiva dei mezzi di produzione.

Q. Cassetti - Under the golden light
Q. Cassetti – Under the golden light

 

Prima hai fatto un riferimento a una visione vegana, che non ti appartiene, ma come ben sai negli ultimi anni è emersa con forza una sensibilità antispecista all’interno dei movimenti. L’apicoltura è una forma di allevamento, quindi anche se non raggiunge livelli macroscopici di sfruttamento come nell’allevamento di animali da carne o nella produzione di latte, da un certo punto di vista è comunque una forma di dominio dell’uomo su un’altra specie. Per noi, in redazione, questo è un discorso aperto e con molti punti interrogativi. Tu cosa ne pensi? Quando sei nei mercati hai mai dovuto affrontare le rimostranze degli antispecisti?

Il miele è ancora un prodotto che sta su un confine. Se troppo spesso il vegano, ma soprattutto l’antispecista che non lo fa per scelta personale ma in modo militante, diventa violento nei confronti di chi non la pensa allo stesso modo, verso il miele questa violenza è mitigata. C’è sempre un margine di dialogo e di ragionamento. Se invece fossi un allevatore di altri animali con certe persone non potrei neanche parlare e già questo fa capire che in certi atteggiamenti c’è qualcosa che non va.

Il discorso sullo sfruttamento dell’alveare è un discorso davvero molto complesso. A mio parere non si tratta di una pratica di dominio e non soltanto perché non si pratica l’apicidio ma perché noi, facendo apicoltura, in realtà non facciamo altro che creare le condizioni perché le api possano dare il meglio, cosa che si verifica anche naturalmente in determinate circostanze. Mi spiego: ad una famiglia di api bastano 12 chili di miele per svernare, ma in stagione ne può raccogliere anche 50 o 60. L’apicoltore, con il suo lavoro, contribuisce a fare in modo che questa situazione si verifichi non solo in qualche caso ma che la gran parte delle famiglie di api possa produrre molto più miele di quanto in realtà le serve. In sostanza, si tratta di creare le condizioni per poter prelevare un di più.

L’utilizzo di tecniche particolarmente invasive da noi non esiste, anche se ci sono forme di contenimento tipo la “gabbietta” per le api regine, che è una pratica dal mio punto di vista pesante ma a cui in situazioni di emergenza non escludo di ricorrere. In ogni caso non mi sottraggo a un confronto su questi argomenti che credo andrebbe sviluppato in dei gruppi misti, con la partecipazione anche di vegani o antispecisti, perché non si risolve la cosa con un atteggiamento dogmatico per cui tutti quelli che si occupano di animali sono dei nemici.

Q. Cassetti - Hive Alive
Q. Cassetti – Hive Alive

 

Sui tuoi barattoli di miele c’è il marchio della certificazione biologica. Come ci sei arrivato e che valore gli attribuisci?

Quello è stato un passaggio per me molto importante e molto combattuto. Eravamo in una fase in cui non c’era ancora Genuino Clandestino ma capivamo che i Gas non bastavano più. Bisognava uscire fuori delle assemblee di nicchia in cui si parlava di produzioni virtuose e trovare il modo di proporre un paniere serio e completo, che potesse comunicare con tutti. Da questa esigenza è nata l’esperienza dei negozi a gestione partecipata. Gli empori di Fano e Urbino sono nati dopo tre anni di riunioni in cui un gruppo di produttori, insieme a delle figure che avevano interesse ad investirci, si confrontavano e scontravano immaginando come sarebbe dovuto essere il negozio dell’“altra economia”, rispettoso del produttore, del consumatore e del territorio. L’idea che potessero nascere dei negozi eticamente vicini al mio modo di vedere le cose e di produrre era una prospettiva decisamente attraente.

È stato quindi un percorso stimolante anche se, purtroppo, l’interesse privato alla fine ha prevalso sull’interesse collettivo. Nonostante la prodigiosa buona volontà di chi si è messo in gioco, questi ambienti della cosiddetta economia solidale non hanno assolutamente gli anticorpi sufficienti a isolare le logiche del profitto utilitaristico e quindi di fatto non sono stati in grado di portare avanti quelle che erano le istanze etiche dell’operazione. Questo è accaduto sotto vari aspetti. Uno dei fronti su cui abbiamo perso riguarda proprio la certificazione biologica. All’epoca delle assemblee costitutive io ero in un gruppo di lavoro che cercava di elaborare alternative alla certificazione biologica ufficiale. Ci sono piccoli produttori che lavorano bene ma non hanno le forze di certificarsi e d’altra parte sappiamo che le certificazioni vengono date da società pagate dagli stessi produttori, che fanno le porcate che vogliono. Spingevo invece per far passare una prima forma ancora embrionale di “garanzia partecipata”, proponendo una commissione interna al negozio che valutasse autonomamente i produttori. Al mio fianco c’erano però soggetti che avevano anche loro tutto l’interesse a non voler un negozio con certificazioni bio, ma per motivi opposti ai miei: perché tacitamente lavoravano con metodi convenzionali, con diserbanti nei campi e antibiotici nelle stalle. Alla fine la decisione non è venuta dai gruppi di lavoro, ma è stata la cooperativa che ci metteva i soldi e il rischio d’impresa a stabilire che il negozio sarebbe stato certificato biologico. Per questo sono stato in certo senso costretto a intraprendere anche la strada della certificazione biologica. Quando ho registrato l’etichetta ho messo la fogliolina del marchio bio, ma con a fianco la scritta “aderisce alla campagna Genuino Clandestino”. È una dicotomia stridente, che racconta le contraddizioni e gli sforzi del mio percorso.

Q. Cassetti - Sweet Twins
Q. Cassetti – Sweet Twins

 

Intravedi il rischio che anche Genuino Clandestino possa diventare un brand che va ad imporsi su una certa fetta di mercato?

È innegabile che Genuino Clandestino sia un logo incredibilmente attraente e non manca chi ha provato ad avvicinarsi perché aveva interesse a utilizzarlo come un marchio. Io come ho detto vengo dal percorso dei Gas, le mie scelte produttive non sono mai state dettate dalla ricerca del profitto in quanto tale. C’era di fatto e c’è tutt’ora una comunità a cui devo rendere conto, ci sono cioè persone che in me ripongono fiducia. E la fiducia è una cosa seria. Se io adesso penso di aver trovato un compromesso positivo tra la necessità di avere un reddito e le scelte lavorative è grazie al fatto che sono cresciuto in questo mondo. Nel mio percorso, e in quello che sarà di Genuino Clandestino, è assolutamente centrale il sistema di garanzia partecipata, di cui si era già iniziato a parlare nel circuito dei Gas. Citando dal manifesto di Genuino Clandestino: “i sistemi di garanzia partecipata sono lo strumento fondamentale per tessere relazioni fra città e campagna e sperimentare reti economiche alternative”.

Quando parli di una comunità a cui rendere conto il riferimento va a un contesto di nicchia, mentre l’agricoltura di massa è guidata da altre logiche ed è stata colonizzata anche nell’immaginario dal capitalismo più spinto e dal marketing più aggressivo, basti pensare a quello che è stato l’Expo di Milano. Un movimento come Genuino Clandestino tende a trasformare l’agricoltura dominante o, almeno in questo momento, punta a una specie di secessione, a collocarsi cioè in un ambito dove ci si possa garantire un proprio equilibrio sperando di non essere travolti dalla retorica dell’agricoltura mainstream?

Posto che è difficile per ora capire dove stiamo andando, il desiderio di fondo è creare delle realtà che sperimentino un’autonomia dal sistema, sviluppate su una base territoriale forte e su relazioni quotidiane partendo da bisogni primari come quello del fare la spesa. Sono piccoli embrioni di relazioni economiche alternative, che si basano su regole differenti da quelle del mercato. Posso essere solidale e sentirmi vicino con altri produttori che pur provenendo dal mio stesso percorso hanno fatto un salto grande, indebitandosi e sacrificandosi alle richieste del mercato. Questa di fatto è una sconfitta perché molte avanguardie sono state puntualmente riassorbite dal sistema, per cui alla fine ci si ritrova dentro le contraddizioni da cui si stava scappando. Questa consapevolezza secondo me è un po’ più matura dentro Genuino Clandestino che altrove. Se in ambito RES [Rete di economia solidale] parlare di anticapitalismo è diventato quasi un tabù, viene da chiedersi che fine hanno fatto i nostri alternativi e pionieri del primo biologico.

La realtà dei mercati di Genuino Clandestino che vedo qui in zona fa ancora fatica a ricollegarsi con il mondo agricolo del territorio. Il nostro è un collettivo di compagni con una certa idea dello stare insieme, molto legato anche all’aver fatto delle scelte al di fuori dell’economia ordinaria. In prospettiva c’è il desiderio che il nostro mercato diventi un vero e proprio mercato dei contadini del territorio che sono disposti al confronto e ad autogestire i propri progetti con pratiche assembleari. Non si richiede nessuna appartenenza. Per noi fare politica è esclusivamente la partecipazione. Non abbiamo alcun interesse a farlo diventare un mercato in regola gestito da un qualche organizzatore, perché perderemmo il valore dell’autogestione, dell’assemblea di mercato che elabora un messaggio politico da trasmettere. In questo siamo profondamente diversi da tutti gli altri mercati in città.

Oltre a questo, va detto che un progetto di costruzione di un’economia alternativa non può basarsi solo sul prodotto biologico ed etico ma deve saper conquistare anche gli altri piani autorganizzando il soddisfacimento di sempre più bisogni di beni e servizi. Per fare questo stiamo sperimentando dei rapporti economici fatti di scambi e il meno possibile legati all’euro. Oltremercato ha avviato un laboratorio a livello provinciale che punta a riscoprire le monete sociali con la finalità di tiraci fuori dall’euro in un’ottica mutualistica. Abbiamo delle reti sul territorio che già esistono e che possiamo pensare di tirare fuori dal sistema economico dominante per ricondurle al semplice e diretto incontro tra i bisogni di qualcuno e l’offerta di servizi e prodotti da parte di qualcun altro, in modo multireciproco. Si tratta di chiudere dei piccoli cerchi e almeno provare a fare ragionamenti di questo tipo guardando alle possibilità di un modo di vita che non sia per forza collegato all’economia del debito in cui viviamo oggi.

Per quanto riguarda la realtà di Expo non mi va di entrare in merito. È stato un baraccone mediatico di slogan svuotati di senso a sostegno del modello agroindustriale che combattiamo; ma la vera macchia nera è piuttosto l’Expo dei popoli che ci ha fatto vedere come siano state riassorbite totalmente delle istanze che erano invece nate dalla base. In questo senso dobbiamo fornirci di strumenti adeguati, per non lavorare inutilmente e non regalare le nostre conquiste culturali al potere.

Q. Cassetti - Love Bee Hive
Q. Cassetti – Love Bee Hive

 

In questo quadro virtuoso di economia alternativa riesce però difficile collocare il modello insostenibile della metropoli moderna. D’altra parte, però, anche il solo fatto di costruire un’economia che seppur circoscritta ha una base resistente è già un passo avanti, è quanto meno un punto su cui appoggiare una leva per tentare una trasformazione radicale della società. Vi siete posti questo problema del rapporto tra campagna e città?

Per l’approvvigionamento anche solo dal punto di vista alimentare della metropoli non abbiamo risposte in questo momento, ma sicuramente è un problema che ci poniamo. Teniamo presente che l’agricoltura industriale, finalizzata al profitto, non solo non è il modo migliore ma è un pessimo modo per produrre cibo, basti pensare al consumo di energia e agli sprechi che genera. Un sistema diverso di produrre e distribuire non è detto che non sia applicabile su larga scala, soprattutto in un territorio come l’Italia dove forse è più attuabile che altrove.

Genuino Clandestino nasce proprio come alleanza tra movimenti contadini e movimenti urbani. Il nostro collettivo, come ognuno dei nodi della rete, nasce tra un gruppo di contadini resistenti e degli attivisti di un centro sociale di città, intorno a dei progetti da una parte legati all’agricoltura e dall’altra all’attività politica sul territorio. Non è una problematica ma il nostro punto di forza, la centralità del rapporto tra campagna e città è stata ben presente fin da subito. Accanto a Genuino Clandestino, c’è una realtà come Ri-Maflow di Milano e il progetto “Fuorimercato” che stanno cercando di mettere in piedi: una piattaforma di logistica per risolvere il problema dell’approvvigionamento di cibo in città. Questo significa che ci si sta provando anche in contesti metropolitani e che anzi questi costituiscono uno stimolo ad organizzarsi per i nodi più periferici.

Se noi pensiamo di voler nutrire il mondo con l’agricoltura contadina bisogna che iniziamo a darci questi strumenti. Rifiutando la delega e il controllo, attraverso l’autodeterminazione dei territori cominciare a riorganizzare strati di società in un’ottica integrale[1] e autogestionaria.

Q. Cassetti - Lemniscatic Dance
Q. Cassetti – Lemniscatic Dance

 

[1] Il concetto di cooperazione integrale è stato sviluppato inizialmente da una parte del movimento cooperativo e autogestionario catalano in questi termini: “una cooperativa integrale è uno strumento per costruire un contro-potere di base autogestito, auto-organizzato e con democrazia diretta. Questo strumento può aiutare a superare l’attuale stato di totale dipendenza dalle strutture dei sistemi e degli stati, attraverso uno scenario di totale libertà e in cui ciascun individuo può svilupparsi con condizioni paritetiche e pari opportunità”. Dal sito <http://cooperativa.cat/it/che-cose-la-cic>.

Da Pesaro a Salonicco: complici e solidali contro ogni frontiera (#5)

Da Pesaro a Salonicco: complici e solidali contro ogni frontiera
Di Gianluca

Salonicco, campo profughi, agosto 2016
Salonicco, campo profughi, agosto 2016

 

Dei campi profughi, nella coscienza collettiva occidentale, si ha un’idea abbastanza astratta. La percezione di precise responsabilità storiche è falsata da una presunta estraneità della nostra cultura da simili barbarie. Se ne parla solo in riferimento a paesi altri, ovviamente più poveri e conflittuali, ovviamente fuori dai confini continentali. Proprio non ci si ricorda, purtroppo, di quanto la storia di questa Europa sia densa di accampamenti di disperati fuggiti da guerra e devastazione. E quando non c’è memoria la storia si ripete implacabile, incurante della sofferenza che produce. Tuttavia la questione dei profughi provenienti dai conflitti scatenati in Medio Oriente negli ultimi anni ha assunto dimensioni impressionanti, segno tangibile di quanto le guerre di “pacificazione” a firma NATO abbiano stravolto paesi come l’Iraq e l’Afghanistan. Lo stesso vale per un certo interventismo indiretto, che si muove tra complicità diplomatiche ed esasperazione dei conflitti locali, che nel caso della Siria ha prodotto il massacro di cui quotidianamente siamo spettatori impotenti. Questo senso di impotenza, tuttavia, è stato progressivamente scalfito dalle storie di chi ha deciso di schierarsi, mettendo in gioco il proprio corpo e in alcuni casi la propria vita. Qui vogliamo raccontare una di queste esperienze. La storia di un viaggio, da Pesaro a Salonicco. Il luogo dove si consuma la vergogna di un’Europa fallita, crollata sotto il peso dei muri e strozzata dal filo spinato.

Salonicco, campo profughi, agosto 2016
Salonicco, campo profughi, agosto 2016

 

Circa venti persone provenienti un po’ da tutto il paese si sono incontrate a Pesaro, il 29 luglio 2016, allo Spazio popolare MalArlevèt, ospitate e supportate in questa esperienza dai compagni e dalle compagne del posto. Obiettivo dichiarato del viaggio, oltre la consegna degli aiuti, è il monitoraggio e la documentazione della situazione. Affinché nessuno dica non lo sapevo, mai più. La Carovana per Salonicco, partita il 30 luglio dal porto di Ancona, composta da individualità provenienti dalle esperienze più diverse, ha stretto contatti con gli abitanti dei campi, distribuito aiuti, documentato giorno per giorno le spaventose condizioni di vita, raccolto un’enorme quantità di foto, video, interviste. Attualmente si lavora alla produzione di una mostra e di un documentario, strumenti con i quali si vuole collettivizzare questa esperienza.

Ci siamo incontrati e confrontati con alcuni attivisti della carovana durante un’iniziativa sul tema allo Spazio popolare MalArlevèt di Pesaro. Ci hanno parlato del loro viaggio e chi di noi non è riuscito a partire ne ha compreso a fondo il senso. Ci hanno raccontato dei campi visitati, dei loro orribili nomi. Nea Kavala, Oroekastro “Cimitery”, Softex, Vasilika, Sindos. Vecchie fabbriche abbandonate, luoghi sperduti nel nulla agli estremi margini della città, concerie che emanano in continuazione un tanfo orribile a cui non ci si abitua mai, enormi distese di pietre e di polvere. Luoghi in cui la vita è dura a partire dalla terra su cui sorgono. Torridi sotto il sole rovente dell’estate greca, allagati e immersi nel fango alla prima pioggia. Salonicco ospita più di 47.000 richiedenti asilo. Ogni dieci persone ci sono ben quattro minori non accompagnati, esposti dunque ai rischi più disparati, fatto confermato di recente anche dall’«Observer» che citando fonti dell’ONU ha confermato l’esistenza di episodi di abusi sessuali su minori nei campi greci. La Grecia, con Salonicco in testa, è divenuta il cuore della vergogna europea. Se altrove si erigono muri e filo spinato, è proprio in questo paese colpito dalla crisi che si è creata un’enorme bolla in cui i migranti vengono parcheggiati in attesa dello status di rifugiati, il che richiede tempi lunghissimi.

Salonicco, campo profughi, agosto 2016
Salonicco, campo profughi, agosto 2016

 

A produrre questa situazione sono molti fattori. Lo sgombero di Idomeni, gli accordi UE-Turchia sull’immigrazione, la chiusura a macchia di leopardo di gran parte della rotta balcanica, gli enormi rischi dei viaggi in mare che inducono molti a viaggiare via terra. In maggioranza siriani e curdi, ma anche irakeni e afghani, chi non vive per strada è abbandonato a se stesso nei campi governativi. In queste strutture la miseria materiale si mischia a condizioni di vita degradanti in cui la dignità umana è messa a dura prova. L’assistenza medica è sporadica e insufficiente nei mezzi e nel personale a disposizione, il cibo che viene distribuito è spesso avariato o comunque di pessima qualità, la carenza d’acqua potabile non fa che aggravare la situazione tra l’infiacchimento della popolazione e le pesanti ricadute igienico-sanitarie, le continue tensioni tra i vari gruppi etnici contribuiscono infine a rendere ancora più insostenibile una situazione esplosiva.

A tal proposito ci ha molto colpito la storia degli yazidi, che hanno abbandonato in massa il campo in cui erano ospitati dopo forti tensioni con alcune comunità islamiche. 400 persone che si sono trasferite nel bel mezzo del nulla, senza tende né coperte, senza cibo né acqua. Il tutto per essere poi trasferiti in maniera coatta in un altro campo, sotto controllo militare. Ancora bloccati, ammassati e messi da parte. Molte altre sono le minoranze che subiscono le particolari dinamiche di sopraffazione che sovente proliferano in situazioni di questo genere. La violenza e il pregiudizio non fanno che riprodurre violenza e pregiudizio, come nel caso di una coppia di ragazzi siriani omosessuali, determinati a condurre insieme e senza vergogna il proprio viaggio nonostante il retroterra culturale con cui si confrontano sia molto ostico e complicato. Questi ragazzi, così come la comunità yazida, costituiscono probabilmente quelle categorie in un certo senso protette, perché particolarmente attenzionate dalle varie organizzazioni umanitarie operanti sul campo, comprese le agenzie dipendenti dall’ONU. Decine di migliaia di altre persone, invece, sopravvivono a stento nei campi e nel peggiore dei casi addirittura in strada. Ci viene raccontato, infatti, di un’intera famiglia afghana, con una donna in procinto di partorire, accampata sull’asfalto. Isolamento e guerra ai poveri, questo succede nel cuore dell’Europa.

I movimenti sociali ovviamente non stanno a guardare. Nel corso delle interviste viene ribadito che la società greca ha risposto all’emergenza aprendo le proprie case, impegnandosi in prima persona in percorsi di supporto e solidarietà attiva. Sono fiorite nel corso degli ultimi anni le occupazioni abitative, gli ambulatori popolari, gli spacci alimentari, diverse raccolte di aiuti e beni di prima necessità, momenti importanti di lotta al fianco dei migranti in transito nel paese. La risposta repressiva è stata ovviamente brutale e proprio nei giorni in cui la Carovana era a Salonicco si sono svolti due importanti processi a carico di alcuni attivisti (greci e internazionali) arrestati a seguito del No Border Camp e di diversi sgomberi coatti di storiche occupazioni abitative in sostegno ai rifugiati. I compagni e le compagne provenienti dall’Italia hanno così colto l’occasione per portare la propria solidarietà davanti al tribunale di Salonicco, per ribadire ancora una volta la complicità contro chi combatte le politiche razziste dell’UE.

Salonicco, campo profughi, agosto 2016
Salonicco, campo profughi, agosto 2016

 

La progettualità politica dei movimenti sociali e le pratiche assistenzialiste per forza di cosa cozzano e coesistono al contempo. Le esperienze di autogestione sono soffocate sul nascere perché partono dal basso, producono autonomia e partecipazione, soprattutto non alimentano il sistema dei bandi di concorso e il circuito dei progetti europei che danno carta bianca alle ONG accreditate. Una costellazione complessa che si alimenta del volontariato, soprattutto giovanile.

Tuttavia il protagonismo dell’enorme massa di persone bloccate a Salonicco non ha tardato ad emergere. Proprio nei giorni in cui la Carovana monitorava la situazione sul territorio e si interfacciava con le diverse comunità esistenti ci sono stati diversi momenti di mobilitazione, anche abbastanza tesi. L’incendio di alcune strutture nel campo di Softex, sit-in, assemblee e marce pacifiche si sono alternate per alcuni giorni. I motivi di maggiore malcontento restano la carenza di acqua, la pessima qualità del cibo che benché sigillato arriva già avariato, l’assenza di assistenza medica, lo spaccio di eroina che dilaga sotto gli sguardi indifferenti delle autorità. In questo contesto basta un piccolo episodio per esasperare una situazione già di per sé al limite. Si muore di parto, le condizioni psicologiche sono al limite. Da tutto ciò sporadicamente queste persone provano ad emanciparsi dando vita a momenti di rivendicazione anche importanti, ma fortemente indeboliti dall’isolamento e dalla dura repressione che ha colpito i movimenti sociali di supporto.

Salonicco, campo profughi, agosto 2016
Salonicco, campo profughi, agosto 2016

 

Terminato l’incontro ci guardiamo basiti. Cerchiamo una strada praticabile, una via di uscita percorribile. Il problema resta la frontiera, le politiche migratorie dell’UE, l’isolamento politico di queste persone, la mistificazione mediatica dei fatti, la complicità delle ONG in una gestione dei campi ai limiti della barbarie. Penso ai video di propaganda del governo greco in cui i campi vengono spacciati per strutture all’avanguardia. Penso ai ragazzini che si litigavano a spinte un po’ di affetto intorno ai nostri compagni che distribuivano giochi. Penso a Save the Children e alla monopolizzazione dei campi loro assegnati, tanto da impedire al “personale non qualificato” la consegna di fogli di carta e pennarelli colorati. Penso ai leghisti da bar e a quelli che sostengono di aiutare i siriani a casa loro. Poi realizzo ancora una volta che casa loro non esiste più. Penso all’intervista di un ragazzino appena sedicenne, solo in Europa dopo aver lasciato la propria casa in macerie con sotto l’intera famiglia. Era uscito a comprare il pane.

Salgono la rabbia e il senso di impotenza. Cresce la consapevolezza di un’urgenza. Raccontare la vita e le aspirazioni di queste persone, disumanizzate dall’enorme macchina mediatica che tutto fagocita nel suo resoconto generalista. Non una massa di disperati, ma un popolo in cammino. Questa mi sembra la chiave giusta, la presa di posizione che può scardinare il pietismo e l’assistenza che dura il tempo dell’emergenza. Un popolo in cammino va sostenuto nel proprio diritto a muoversi liberamente. La complicità e la solidarietà attiva, ancora una volta, sembrano essere l’unico vero martello capace di distruggere le frontiere e le sofferenze che generano in milioni di persone in tutto il mondo.

 

Zona rossa (#5)

Zona rossa
Di Redazione

Amatrice, settembre 2016 [4]
Amatrice, settembre 2016 [4]

Non è facile prendere parola su quanto accaduto alla fine dello scorso agosto in quel lembo di dorsale appenninica ai confini tra Marche, Lazio e Umbria, quando un terremoto di magnitudo 6.2 alle 3.36 di notte, seguito da altre scosse, ha sconvolto la tranquilla quotidianità di paesi e frazioni montane, appartate e silenziose. Accumoli, Amatrice, Arquata, Pescara del Tronto e gli altri piccoli borghi non esistono più per come li conoscevamo. La scossa li ha quasi letteralmente rasi al suolo, lasciando sotto le macerie oltre trecento morti. Non c’è residente che non abbia perso almeno un familiare o un amico. Ogni parola rischia di suonare vana di fronte al lutto e al dolore.

Nei giorni successivi alla tragedia l’Appennino si è riempito di sciacalli. Bestie che si nutrono di animali uccisi da altri predatori. Frotte di giornalisti da tutta Italia e anche dall’estero, in posa davanti a case sbriciolate e in cerca di dolore fresco da succhiare con i loro microfoni per confezionare il “servizio”. Quale sia lo sguardo di un terremotato ce lo mostrano invece i fotografi con le loro gallery e fotoracconti della tragedia: per il grande pubblico è questa l’informazione che conta. Serie di scatti che senza alcun pudore violano l’intimità e la dignità di persone che in un attimo hanno perso la casa e gli affetti, per mostrare al pubblico quello che già tutti sanno.

Amatrice, settembre 2016 [2]
Amatrice, settembre 2016 [2]

E poi c’è l’apparato dei soccorsi. Competenze che non tutti possiedono, indispensabili, da un certo punto di vista, per estrarre corpi intrappolati, salvare vite umane, garantire assistenza immediata. “Grazie” è, a ragione, una delle parole più pronunciate in simili scenari. Poi però un mare di pettorine di tutti i colori prende ad affollare strade e sentieri di questi paesi di montagna, ognuno a prendere ordini da qualcun altro, ognuno a organizzare qualcosa, “soprattutto – è stato scritto – la loro stessa permanenza nel luogo”. Quanto abbiamo visto succedere a L’Aquila pochi anni fa ce lo ha insegnato: la macchina dell’emergenza si muove come un esercito di occupazione. Considera gli sfollati persone a ridotta capacità d’intendere e volere, materia inerme da accudire, rifocillare, tranquillizzare.

Ma questa volta abbiamo visto anche esempi positivi di come ci si possa muovere nell’emergenza. Le Brigate di solidarietà attiva, gli anarchici abruzzesi del Campetto occupato e altri compagni e compagne da tutta Italia, con impostazioni e modalità operative diverse, ci hanno fatto riscoprire il significato profondamente umano delle parole solidarietà e condivisione. Hanno ricordato a tutti, e in primo luogo a loro stessi, che i sopravvissuti sono in grado di prendere decisioni e di autodeterminare il proprio presente.

Il momento immediato della catastrofe non è un buon momento per far leva sulle capacità di autorganizzazione delle comunità colpite, soprattutto in una società in cui il concetto di “comunità” di persone che abitano lo stesso territorio è assai indefinito. Presto, però, bisogna pur riprendere in mano le proprie vite, per non rimanere in balia di decisioni prese dagli stessi che, come abbiamo già visto altrove, recintano le tendopoli e – “per la vostra sicurezza” – chiedono di esibire i documenti all’ingresso e ostacolano la formazione di qualunque comitato spontaneo. Sul lungo periodo però, per la messa in sicurezza e la ricostruzione ci vogliono soldi. Tanti soldi. Che li tiri fuori lo Stato, senza tante storie. Chi volesse personalmente anche tramite del denaro far giungere la propria vicinanza alle popolazioni colpite si risparmi gli sms e dimentichi l’iban della Protezione civile, ma lo faccia attraverso i canali diretti che sono stati attivati.

Amatrice, settembre 2016 [3]
Amatrice, settembre 2016 [3]

La brutalità del terremoto ci ha messo sotto gli occhi l’estrema fragilità di questi paesi appenninici. Borghi montani di grande suggestione che da troppo tempo fanno i conti con lo spopolamento e ritrovano un po’ di vita giusto in estate, quando le tante seconde case accolgono gli abitanti delle città e i nipoti vanno in vacanza dai nonni. La proporzione tra morti e abitanti, anche al netto dei turisti presenti nel luogo sbagliato al momento sbagliato, fa impressione. I comuni di Amatrice e Accumoli in provincia di Rieti, contano circa 2.650 e 650 abitanti. Nel versante marchigiano, Arquata del Tronto ne ha 1.200, con tutta una serie di piccole e piccolissime frazioni (Pescara del Tronto, Colle, Pretare ecc.) abitate da un pugno di residenti. La popolazione già in allerta ha reagito con prontezza e lucidità alle successive scosse di ottobre e novembre, evitando così per ora nuove vittime. Ma alla mappa dei crolli si aggiungono altri punti chiave della geografia appenninica: Camerino, Visso, Ussita, Norcia per citarne solo alcuni.

L’autunno è già arrivato, le prime nevicate sono alle porte. Si prospettano mesi difficili, soprattutto per coloro che stanno resistendo alla tentazione di un parcheggio in qualche lontano albergo. Confidiamo nella tenacia che sappiamo caratterizzare questi paesi di montagna, auspicando che quanti hanno lì cuore, legami e radici prendano davvero in considerazione l’idea di tornare a rivitalizzare un territorio che non ha nulla da invidiare alle grandi città o alle coste, per riprendere il filo che il terremoto ha momentaneamente spezzato. Stiamo seguendo l’evolversi della situazione, ne daremo conto sui nostri canali online e sul prossimo numero della rivista.

Amatrice, settembre 2016 [1]
Amatrice, settembre 2016 [1]

Non finisce qui (#5)

Non finisce qui
Di Redazione

Pergola, 24 settembre 2016, amichevole locals-refugees, diamo un calcio al razzismo. Foto di Laura Rapone
Pergola, 24 settembre 2016, amichevole locals-refugees, diamo un calcio al razzismo. Foto di Laura Rapone

 

Il tempo non smussa la rabbia che abbiamo provato nelle calde giornate di inizio luglio, quando un fascista ha ucciso a pugni un uomo perché aveva la pelle di un colore diverso a Fermo, nell’ombelico della provincia italiana, sotto casa nostra. Il tempo passa e un po’ dappertutto l’impazienza cresce per delle condizioni di vita che non cambiano, anzi la disuguaglianza tra ricchezza e povertà, tra futuro e mancanza di opportunità aumenta anche nelle nostre terre che in anni già lontani venivano vendute con lo slogan “tranquillamente Marche”. I fascisti cercano di raccogliere il malcontento e nel caso di Fermo sembra che ci stiano riuscendo, ma la loro strada sarà piena di ostacoli come quello rappresentato dagli amici di Pergola del nuovo Coordinamento antirazzista della Valcesano ritratti in copertina, che hanno rotto la parete invisibile della diffidenza e hanno coinvolto i rifugiati in uno spazio di azione e riflessione comune.

Questo numero di Malamente si apre con una finestra sul terremoto che dal 24 agosto ha iniziato a colpire le zone appenniniche della nostra regione e di Abruzzo, Umbria e Lazio. La solidarietà dal basso che si è mossa ci ha sorpresi, ci ha visti coinvolti e ha aperto delle domande sul senso e sulle prospettive dell’auto-organizzazione nei disastri, di oggi e di domani, che dovrebbero trovarci maggiormente preparati e meno dipendenti dagli specialisti dello Stato. Poi siamo ritornati a Fermo per raccogliere il primo tassello di un’inchiesta sul neofascismo nella nostra regione che è sempre più urgente. Noi proviamo a fare la nostra parte e speriamo che altri si muovano nella stessa direzione, di certo non è più tempo di cullarsi nel pacifismo e nella troppa tolleranza del passato recente.

All’opposto della grettezza provinciale di alcuni c’è però la generosità internazionalista di altri uomini e donne che da Pesaro sono arrivati fino a Salonicco, per documentare le condizioni di vita dei respinti dai muri alle frontiere dell’Unione Europea e per provare a prendere a calci le reti che li rinchiudono. Facciamo poi tappa sulle montagne e sulle colline in cui convivono storie di decadenza e sfruttamento con storie di vita e di liberazione. La parabola dell’industria pesante a Sassoferrato ci parla della fragilità delle cosiddette “aree interne”, usate e poi gettate via dai democristiani di ieri e di oggi, mentre la storia dell’apicoltura Corbecco, tra Urbino e Fossombrone, ci illumina con la speranza di una nuova vita per l’agricoltura e per la condivisione nelle campagne.

Ci sono ancora pagine anche per condividere la nostra riflessione sullo sfruttamento della terra e sui danni della tecnologia come strumento di potere, che si concretizza, passata l’estate e i suoi tormentoni, in un’inchiesta sullo stato del litorale adriatico consumato dall’industria del turismo e in una traduzione inedita in italiano di uno scritto di Miguel Amorós sulle basi dell’anti-industrialismo. In conclusione proponiamo come di consueto un contributo sulla storia delle lotte sociali del territorio con una scheda biografica che sa farci anche sorridere e, infine, spazio alla recensione.

La rovina del litorale adriatico, ovvero Del turismo balneare (#5)

La rovina del litorale adriatico, ovvero Del turismo balneare

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Di Luigi

Sul litorale marchigiano, così come altrove, lo sviluppo del turismo balneare di massa ha profondamente compromesso nel giro di qualche decennio il sottile equilibrio che da sempre regolava la linea di confine tra terra e acqua. Con questo articolo cerchiamo di capire alcuni aspetti dell’avanzata del cemento e della gestione economica privata che hanno fatto delle spiagge dei luoghi sempre più invivibili. Ma speriamo che non tutto sia perduto e che ci sia spazio per la difesa delle ultime spiagge ancora libere e “selvagge”, come Mezzavalle sulla riviera del Conero e, nonostante il recente incendio, Fiorenzuola di Focara sotto il Monte San Bartolo.

Senigallia. L'invasione degli ombrelloni
Senigallia. L’invasione degli ombrelloni

Pressione antropica e fragilità delle coste marchigiane

Alcuni dati tratti dal dossier di Legambiente Spiagge indifese del maggio 2015 tornano utili per incrinare un po’ la beata immagine delle Marche baciate dal mare, con le sue trovate di marketing turistico come la “spiaggia di velluto” di Senigallia o la “riviera delle palme” di San Benedetto del Tronto. In Italia su 7.465 km di costa le spiagge ne occupano circa la metà, cioè 3.950 km; 1.661 di questi, vale a dire il 42%, sono colpiti da fenomeni di erosione. Nelle Marche la situazione è ancora più critica e la percentuale di spiagge in erosione supera il 54% (78 su 144 km, a cui si aggiungono altri 28 km di coste alte e aree portuali)[1].

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