Settecento anni di rivolte occitane
Di Luigi
Recensione a: Gérard de Sède, Settecento anni di rivolte occitane, Tabor, 2016.
Nella misura in cui contempleremo la bellezza di questa epoca con attenzione e amore, in quella stessa misura la sua ispirazione discenderà in noi e renderà a poco a poco impossibile almeno una parte delle bassezze che compongono l’aria che respiriamo. Simone Weil, “L’ispirazione occitana”
Settecento anni di rivolte occitane, edizioni Tabor
Se è la storia dei vincitori quella che ci insegnano a scuola, un libro come questo di Gérard de Sède serve a non farci dimenticare, o a farci riscoprire, la tradizione rivoluzionaria degli oppressi. Uscito in prima edizione nel 1982 e più volte ristampato in francese, è disponibile da pochi mesi in traduzione italiana grazie alle valsusine edizioni Tabor.
Giornalista e scrittore, membro negli anni Quaranta di gruppi surrealisti, de Sède è forse più noto per le sue fantasiose opere su misteri, Templari e affini che hanno ispirato una vasta letteratura esoterica internazionale, fino ad arrivare al Codice da Vinci di Dan Brown. Settecento anni di rivolte occitane non ha però nulla a che vedere con questa letteratura di genere. Seppur misconosciuta quando non mistificata, siamo infatti di fronte a una storia solida e documentata, anche sulla scorta della storiografia occitanista prodotta nella prima metà degli anni Settanta da un’esigua compagine di storici-scrittori-agitatori culturali. Se la narrazione non è infarcita di note e riferimenti bibliografici, che storcano pure il naso gli storici professionisti, specialisti del loro piccolo mondo accademico. Il suo intento non è parlare alle ombre grigie che solcano i dipartimenti universitari, ma alle donne e agli uomini non rassegnati di oggi, che siano occitani o meno.
L’Occitania è il territorio di diffusione della lingua d’oc, nota per essere la lingua dei poeti trovatori, contrapposta alla lingua d’oïl, madre del francese ufficiale. È uno spazio culturale e linguistico che non si identifica con dei confini amministrativi ma abbraccia diverse province della Francia meridionale, estendendosi dalle Alpi ai Pirenei al Massiccio centrale, dalle coste atlantiche a quelle mediterranee, sconfinando per brevi tratti in Spagna e nelle montagne piemontesi. Si tratta di un territorio storicamente disseminato di autonomie locali, che non ha mai conosciuto una durevole unificazione attorno a un potere centrale. Gérard de Sède ne traccia una storia complessiva lunga settecento anni, dalla metà del XIII secolo al secondo Novecento, ripercorrendo il susseguirsi dei movimenti popolari di rivolta che l’hanno attraversata.
Perché ci interessa questo libro? Non certo come contributo all’occitanismo in sé, né tantomeno come una leva su cui possano poggiare istanze indipendentiste che vedono un presunto “popolo” unito da valori identitari comuni ribellarsi all’oppressione proveniente, secolo dopo secolo, dal dispotico Nord. Viene da chiedersi se esista davvero quella precisa identità occitana difesa da de Sède, persistente sul lungo periodo e, soprattutto, che trova nell’attitudine alla rivolta uno dei propri tratti distintivi. Quello dell’identità nazionale è da sempre un terreno scivoloso su cui avventurarsi, perfino in quei contesti in cui ha cercato esplicitamente una sintesi con l’internazionalismo della lotta di classe. Nemmeno ci interessa attardarci nella contemplazione di un suggestivo passato ricco di indomiti ribelli e impenitenti eretici, quanto, piuttosto, conoscere la loro storia, perché per chi la sa leggere con la giusta disposizione aiuta a comprendere come si sia arrivati aïci e ara – qui e ora – e trasmette la consapevolezza di come affrontare questo presente che per non sprofondare nel proprio fango ha quanto mai bisogno di moderni ribelli ed eretici in grado di raccogliere quell’antico testimone.
La crociata contro i catari (1180-1255) pone fine in Occitania a un modello politico-economico aperto, fatto di autonomie locali e tolleranza religiosa. Roma e Parigi si uniscono nello sterminio di una setta eretica pericolosa, che contestava sia la degenerazione del cristianesimo traditore dell’insegnamento di Cristo sia il potere dell’autorità secolare. La crociata religiosa è infatti allo stesso tempo guerra di conquista del Midi, il Mezzogiorno francese, e cancellazione di una società che con la sua stessa esistenza minava le fondamenta dell’impalcatura feudale: le lotte religiose, scrive l’autore, “non sono, in fin dei conti, che lotte politico-sociali condotte sulla terra in nome del cielo” (p. 153).
Nel 1209 cade la roccaforte Bézier e ogni anima viva è passata a fil di spada. Almeno ventimila uomini e donne vengono uccisi, tanto che è rimasta leggendaria la frase del legato papale Amaury: «Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi». Qualche decennio più tardi viene espugnato l’ultimo baluardo di Montségur e poi il castello di Quéribus; le strade si riempiono ancora di cadaveri e appena fuori le mura si alzano a centinaia i roghi. Eppure, “sotto la cenere, le braci non avevano smesso di ardere, e i nuclei ereticali sopravvissuti, rifugiandosi nei boschi e sui monti, appoggiati dalle reti di case amiche, ripresero a tessere le fila dell’organizzazione” (Introduzione, p. 20). Parte da qui la storia dei settecento anni raccontata da de Sède, una storia di continue rivolte contro il potere centrale dello Stato e i suoi luogotenenti.
Paul Klee – Angelus Novus
Ad aprirla sono i Tuchini del XIV secolo. Contadini, artigiani, commercianti che rifiutano di sottomettersi al sopruso del diritto feudale sulle tradizioni comunitarie e al grido di «Rei de Fransa, rei de figas, rei de merda!» (Re di Francia, re da ridere, re di merda!) danno filo da torcere al potere di Re e signori, scatenando un’ondata di guerra contro il giogo francese. Il tuchinaggio, represso in Occitania, non scomparirà dalla scena e lo vedremo riemergere tra i montanari delle alpi piemontesi: un’altra pagina nella storia delle rivolte sociali per la quale rimandiamo senz’altro a Gustavo Buratti e alla sua avvincente Breve storia del tuchinaggio occitano e piemontese. Più tardi la crescita del carico fiscale e la presenza nemica dell’esercito nelle campagne fa insorgere i cosiddetti Croquants (soprannome dispregiativo dato a poveri e contadini), il loro nome aleggerà su questi territori per ancora un paio di secoli, riproponendo a più riprese il metodo dell’insurrezione di popolo.
Tra XVII e XVIII secolo, di fronte a un piano sistematico di terrore ed espropri per sradicare il protestantesimo dalla Francia, signori e borghesi per lo più abiurano o emigrano, mentre artigiani e contadini sulle montagne delle Cévennes diventano Camisards, guerriglieri e profeti. “Ho a che fare con dei pazzi”, si lamentava il maresciallo incaricato della loro repressione. E ancora, nel XIX secolo, de Sède racconta l’epopea delle Demoiselles, ovvero di quei montanari che in spirito carnevalesco si travestivano da signore per affermare la rivincita degli umili sui potenti, ingaggiando una guerriglia in difesa dei diritti consuetudinari delle comunità rurali contro le esigenze predatorie della società industriale che strappava loro i boschi, le acque, i pascoli: “una strana interazione tra folklore e lotta sociale e politica, dove non è facile capire quale delle due componenti sia di supporto all’altra” (p. 205).
La storia prosegue con il colpo di Stato di Napoleone III. Già pochi giorni dopo quel 2 dicembre 1851 pare che la pace sociale dominasse il paese, con l’eccezione di qualche dipartimento più agitato, teatro di tentativi di resistenza armata e in certi casi di vere e proprie insurrezioni. Sui ventidue dipartimenti interessati dai disordini, guarda caso ben sedici sono occitani. I manuali di storia passano poi alla Comune di Parigi del 1871, tralasciando i suoi diretti antecedenti che de Sède rintraccia nei comitati rivoluzionari di Marsiglia e Narbonne, attivi qualche mese prima della sollevazione della capitale. Il Novecento, a cui sono dedicati gli ultimi due capitoli, si apre con l’estesa rivolta del Midi vitivinicolo contro i grandi produttori del Nord, annacquatori e contraffattori, che sfruttando una crisi contingente del settore si andavano arricchendo lasciando miseria – e collera – al Sud. Abbiamo poi la guerra antinazista e insieme sociale del maquis occitano nel 1941-1944 e, in conclusione, ancora il connubio di conflitti e identità occitana negli anni Sessanta e Settanta.
La storia degli oppressi, in Occitania come altrove, non è solamente la successione delle crepe aperte nel continuum della storia del potere e nemmeno una marcia carsica, ora sotterranea ora riaffiorante, diretta al sole dell’avvenire, ma una scia di possibilità che si aprono. Il cambiamento futuro dipende anche dal passato, dalla storia delle lotte che ci hanno preceduto, che non sono solo vago ricordo di lontane battaglie, ma la cui presenza attuale è ben concreta in ogni occasione di rivincita. Gli oppressi di oggi combattono anche nel nome e nel solco dei ribelli di ieri, allo stesso modo in cui gli oppressi di ieri lo hanno fatto rispetto ai vinti dell’altro ieri. Come ha scritto Walter Benjamin: “non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiamo ascolto, un’eco di voci ora mute? Se è cosi, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto”.
La forza è debole perché la situazione è disperata. Difficile dire se sia più disperata oggi rispetto al passato recente e remoto. In ogni tempo il potere ha saputo reprimere le spinte rivoluzionarie o riassorbirle, prima o poi, nella cornice autoritaria. Eppure quella tensione individuale e collettiva alla solidarietà e giustizia sociale, incapace di sottomettersi alla logica paralizzante dei rapporti di forza, non è mai venuta meno. Ogni vittoria del potere non si è mai potuta dire definitiva, perché quel testimone che ogni generazione riceve dalle precedenti porta con sé non tanto il peso della sconfitta quanto la volontà di riscatto. Una chance rivoluzionaria da cogliere e declinare nel proprio presente. In conclusione, con quale sensazione si rimane dopo la lettura di questo libro? Con la voglia di rimboccarsi le maniche e alimentare quel fuoco che ancora cova sotto le macerie della storia.
La morte della falegnameria nell’epoca della produzione industriale
Di Bertrand Louart, falegname-ebanista
Immagini da: Die Hausbücher der Nürnberger Zwölfbrüderstiftungen
Anche partendo da uno specifico aspetto si può comprendere la portata complessiva dell’attacco alle condizioni di vita condotto dalla società industriale, che con il suo sviluppo tecnologico ha in realtà causato il regresso e la perdita di abilità e saperi millenari. L’umanità “civilizzata” appare oggi sempre meno capace di gestire autonomamente le proprie necessità e sempre più dipendente dalla produzione industriale, che la circonda di merci a rapido deperimento, inquinanti e prodotte in condizioni di lavoro a cui le antiche botteghe artigiane non hanno nulla da invidiare. Accettando di delegare senza riserve al sistema industriale il compito di approvvigionarli di tutto ciò di cui – spesso apparentemente – necessitano, individui e collettività del mondo contemporaneo hanno smarrito la possibilità di intervenire in prima persona sugli oggetti del vivere quotidiano e sarebbe ora di chiedersi che cosa ogni pur piccolo progresso tecnologico abbia fatto perdere in termini di autonomia, creatività, soddisfazione ed equilibrio sociale.
Nello specifico, boschi, alberi e legna hanno da sempre accompagnato lo sviluppo umano fino alle trasformazioni introdotte dalla meccanizzazione industriale, nella cui logica un materiale “vivo”, com’è appunto il legno, non è che di ostacolo all’efficienza economica. Nelle Marche conosciamo bene il settore. Il distretto del mobile di Pesaro, sviluppatosi dal boom del dopoguerra, raccoglie tante piccole aziende e alcune grandi realtà che sfornano a ciclo continuo surrogati di mobili per case neomoderne. Gli operai sono addetti alla movimentazione e al controllo macchine, mentre i falegnami, con la propria abilità e il proprio orgoglio, sono diventati una specie rara che produce pezzi su misura per l’alta fascia di mercato, oppure si limita a piccoli ritocchi, a produrre accessori o, al massimo, a coprire fasi marginali del ciclo produttivo.
Con piena consapevolezza che l’opposizione alla tecnologia industriale non deve guardare a un nostalgico ritorno al passato, né limitarsi a una sua gestione più “sostenibile”, ma tendere alla riappropriazione del pieno controllo sulle nostre vite e al superamento radicale delle condizioni esistenti di sfruttamento dell’uomo e dell’ambiente, pubblichiamo in prima traduzione italiana una serie di estratti dal testo di Bertrand Louart, “La menuiserie et l’ébénisterie à l’époque de la production industrielle”, uscito in «Notes & morceaux choisis. Bulletin critique des sciences, des technologies et de la société industrielle», n. 6, ottobre 2004[1]. L’auspicio è che, a partire dalla ricerca di condizioni di autonomia e libertà in ogni aspetto della vita quotidiana, si riescano a sperimentare e trovare le strade giuste per elaborare altri rapporti sociali, alternativi e conflittuali rispetto al totalitarismo del modo di vita industriale.
Fino alla metà del XIX secolo tutte le opere di falegnameria ed ebanisteria sono state realizzate a mano da cima a fondo, cioè mettendo in opera la forza muscolare degli uomini, la loro abilità manuale e la loro pazienza – si potrebbe anche dire la loro abnegazione. Non è facile oggi nei paesi industrializzati – dove le macchine sono onnipresenti e “facilitano la vita” al punto talvolta di svuotarla del suo sale – immaginarsi la notevole quantità di lavoro che necessitava la più modesta opera di falegnameria in un tempo in cui bisognava fare tutto, ma assolutamente tutto, con utensili manuali.
Senza parlare dell’abbattimento degli alberi né del taglio dei tronchi, il taglio delle tavole, la piallatura e il dimensionamento dei pezzi, gli assemblaggi, le modanature, la levigatura e altre finiture, l’insieme di queste operazioni richiedeva un lavoro paziente e lungo, un’abilità manuale sviluppata a forza di ripetere gli stessi gesti. Così, gli apprendisti delle botteghe di falegnameria ed ebanisteria, insieme alla manutenzione e all’affilatura degli attrezzi, durante gli anni imparavano a piallare correttamente dei pezzi di legno e, in base alla loro abilità, erano promossi a delle mansioni sempre più elaborate. Oggi, con una piallatrice combinata un apprendista prepara un pezzo di legno in pochi minuti e la sua messa al lavoro necessita di un apprendistato di appena qualche giorno.
Senza negare i notevoli contributi di una certa meccanizzazione – i macchinari permettono agli artigiani di liberarsi dai compiti in cui si tratta di dare al materiale le sue caratteristiche fisiche e tecniche (dimensioni, stato di superficie dei pezzi, etc.) – sono queste condizioni che hanno generato le belle opere (e anche i begli utensili) che possiamo ancora vedere.
Il legno è un materiale vivente e questa particolare qualità entra in risonanza con la nostra sensibilità: ecco cosa rende questo mestiere ancora così attraente e piacevole, malgrado quello che gli è accaduto. In effetti si è soliti opporre il lavoro manuale (sporco e penoso, delle fabbriche) al lavoro intellettuale (pulito e gratificante, degli uffici), ma questa separazione non è assolutamente “naturale”, è piuttosto il prodotto di una divisione sociale generale del lavoro che implica da un lato dei dirigenti e dall’altro degli esecutori. Un mestiere come la falegnameria – e ancor di più l’ebanisteria – mostra che, nella sua dimensione artigianale, il lavoro vivente necessita al contrario della combinazione di un insieme vario di competenze e qualità.
C’è evidentemente tutta la parte economica e tecnica in cui si dispiega l’aspetto razionale e “scientifico” dell’attività: costruzione, disegno tecnico, valutazione delle quantità, uso dei macchinari, etc. Ma questo aspetto non è in realtà assolutamente separabile da quello, molto più soggettivo e delicato, della concezione generale e della realizzazione dell’opera. È infatti proprio l’aspetto sensibile che dirige l’esecuzione dell’opera, mentre il lato razionale non serve che a organizzarla e a fare in modo che il lavoro sia condotto a buon fine. In effetti solo l’esperienza del lavoro e dell’utilizzo dei differenti tipi di legno può permettere di concepire l’opera utilizzandone al meglio sia le proprietà meccaniche che estetiche.
In particolare nell’ebanisteria, dove la costruzione è più elaborata, è importante sapere quali tipi di legno sono duri o fragili, se “lavorano” molto e come, qual è la loro durezza, etc.; in breve, tutto un insieme di dati fisici che, combinati, permetteranno di assicurare la robustezza e la durata dell’opera. È altrettanto importante conoscere che tipo di taglio farà apparire una certa venatura, se valorizzerà la specchiatura o al contrario dissimulerà i nodi. A partire dalla progettazione, bisogna pensare al tipo di finitura da effettuare in funzione delle specie di legno impiegate; visto che, seguendo la tessitura del legno, la finitura non ha necessariamente lo stesso aspetto. Dalle prime fasi dell’esecuzione – la scelta delle lastre segate ancora grezze, il disegno e il taglio dei pezzi in queste lastre – è necessario pensare all’aspetto finale dell’opera poiché sono le parti visibili che andranno a determinare il suo aspetto generale. Così come non ci sono due alberi identici, c’è anche un numero considerevole di sottigliezze che talvolta si scoprono durante l’avanzamento della lavorazione…
Il lavoro artigianale fa dunque appello sia all’intelligenza pratica che all’abilità manuale, nella misura in cui si adopera alla progettazione e all’esecuzione di un’opera nella sua totalità e si inserisce nelle relazioni sociali che questa implica. Purtroppo, il sentimento dell’indipendenza – essere il proprio maestro – e di nobiltà del lavoro artigianale – fare belle cose con le proprie mani – tendono a scomparire dal momento che numerosi falegnami da una parte lavorano in fabbrica, come salariati, dall’altra sono considerati come “artigiani” dagli uffici fiscali, quando in realtà fanno essenzialmente dell’Ikea su misura. In entrambi i casi, si realizza una sorta d’inversione della direzione del mestiere: è l’aspetto economico e tecnico che determina le opere e non più la sensibilità umana né le caratteristiche vive del legno.
In confronto a ciò che si faceva circa cinquant’anni fa, la falegnameria ha subito delle profonde trasformazioni con l’invenzione di nuovi materiali, di macchine leggere facili da mettere in opera e di procedimenti tecnici combinati gli uni agli altri. Lungi dall’arricchire il mestiere, dal variare il lavoro e dal rinnovare le forme – senza parlare d’inventare uno stile – questi prodotti non hanno fatto che impoverirli tutti insieme. La falegnameria è l’esempio tipo di una “modernizzazione” del mestiere che non è venuta direttamente da parte delle macchine utilizzate nell’esecuzione delle opere. Agli inizi degli anni Trenta, tutti i perfezionamenti auspicabili erano già più o meno realizzati grazie alle macchine-utensili, e l’automazione della produzione non era allora tecnicamente realizzabile – andremo a vedere perché. L’industrializzazione è arrivata sul versante del “materiale legnoso”, come si dice oggi.
La grande invenzione sono i pannelli in legno cosiddetto “ristrutturato”; una bella inversione pubblicitaria del linguaggio, visto che si tratta precisamente di materiali che non hanno più la struttura del legno, o che non hanno proprio, per quanto riguarda i più recenti, più nessuna struttura. Ne esiste una grande varietà, tanto per composizione che per qualità, mi limiterò dunque a citare i più conosciuti, come il compensato-melaminico (a quest’ultimo, meglio conosciuto con il nome commerciale di Formica, dobbiamo i magnifici mobili degli anni Cinquanta e Sessanta ed è l’antenato del melaminico attuale) e ultimamente l’M.D.F. (Medium Density Fiberboard, pannello di fibre di media densità, chiamato anche “medio”), che sono fatti di segatura e polvere di legno legate con della colla. Con la ferramenta che è loro associata e i macchinari elettrici, costituiscono un insieme tecnologico che si sostituisce in gran parte, se non nella totalità, al saper fare dell’artigiano e in questo modo annientano – nel senso letterale del termine: riducono a niente – il mestiere.
Il problema che comporta l’industrializzazione di un mestiere come la falegnameria è che il suo materiale di base non è assolutamente adeguato, non tanto a un trattamento meccanico, bensì a una catena più o meno automatizzata di trattamenti meccanici. Perché il legno è un materiale vivente. Anche se tagliato, segato ed essiccato, cioè quando non presenta più alcuna attività biologica, resta un materiale vivente le cui qualità specifiche – esattamente quelle per le quali è impiegato – sono fuori dalla portata delle macchine.
I nodi, le fibre, i disegni delle venature, la tessitura; la varietà di tipologie e la diversità delle loro proprietà; le deformazioni e dilatazioni che fanno dire che il legno lavora; le composizioni, la costruzione e le finiture che valorizzano o al contrario dissimulano i suoi “difetti” (termine usato qui nel senso generale di mancanza di uniformità del materiale); tutto questo è troppo complicato. In qualunque pezzo di legno c’è ancora troppa vita, troppi parametri incerti per le macchine. Peggio ancora: l’uso che per millenni si è fatto del legno è spesso estetico, serve ad abbellire e arricchire il quadro della vita umana. In altre parole, solo la sensibilità umana può affrontare la sua complessità e coordinare le diverse qualità e proprietà specifiche del legno per farne veramente un’opera. In breve, la messa in opera del legno implica una gran parte di lavoro vivente.
Ma l’industria e l’economia mercantile si preoccupano innanzitutto di produzione e di vendita; queste preoccupazioni implicano di ricondurre tutte le operazioni a delle procedure standardizzate che permettono delle lavorazioni meccaniche; razionalizzazione indispensabile a una produzione in serie che può assicurare, essa sola, un buon “rendimento degli investimenti”. Per il commercio e l’industria, il legno è il nodo del problema. Bisogna dunque conservare del legno le caratteristiche fisiche e tecniche che gli ingegneri possono quantificare, conoscere scientificamente e manipolare grazie alle macchine, sopprimendo il legno stesso. Se è troppo complesso, dopo la riduzione del problema che esso pone, tramite la decomposizione della sua struttura in elementi semplici e uniformi, non ne resteranno che trucioli, segatura o polvere.
Infatti, nella ristretta visione dell’industria, la segatura è infinitamente più gestibile del legno. In primo luogo, cresce più velocemente. Così, dal 1946, la creazione del Fondo Forestale Nazionale (FFN) è accompagnata da disposizioni volte ad aumentare la disponibilità di legno di conifere tramite ambiziosi imboschimenti e rimboschimenti, anche di specie scomparse dopo l’ultima glaciazione. Questa proliferazione di conifere nei boschi – nei paesi tropicali l’eucalipto gioca lo stesso ruolo – rappresenta una regressione dal punto di vista biologico: la monocoltura di conifere comporta una perdita di biodiversità, l’acidificazione dei suoli e altre modificazioni idrologiche dovute al minor radicamento degli alberi.
Poi, contrariamente al legno massello, la segatura è omogenea: mischiata a delle colle, pressata a caldo, forma delle piastre di grandi dimensioni, regolari nella composizione, uniformi nello spessore, stabili e indeformabili; ed ecco il pannello di trucioli o di fibre. Incollando su ciascuna faccia un foglio di Formica, di melaminico o adesso un semplice foglio di carta cerata sulla quale sarà stata stampata una foto di “decorazione legno” – preferibilmente di quelle latifoglie che appunto scompaiono dai nostri boschi o di quelle preziose specie che stanno diventando rare – si avranno tutti i vantaggi del legno senza nessuno degli inconvenienti: vale a dire una povera cosa, un surrogato, uno spettacolo.
L’idea di partenza era dunque molto semplice in apparenza: utilizzare gli scarti di segheria o di piallatura mescolati a della colla per ricostruire un materiale simile al legno e che pertanto potrebbe essere direttamente sagomato piuttosto che modellato. Ma nella realtà la messa in pratica di questa idea si è rivelata molto complicata. La principale difficoltà risiede nell’incollaggio dei trucioli: è necessario che la colla ricopra di una fine pellicola la superficie dei trucioli e niente più, in modo che durante la messa sotto pressione, le connessioni tra i trucioli assicurino la coesione del pannello nel suo insieme. Non basta dunque, come con del cemento o del gesso (dove i legami tra gli elementi si fanno su scala molecolare, per cristallizzazione di certi componenti), prendere un secchio di colla e mescolarlo a cinque secchi di segatura, stendere il tutto sotto una pressa e attendere che la colla secchi per ottenere un composto la cui solidità e resistenza siano vagamente paragonabili a quelle del legno.
Ciò precisato, si capisce che la fabbricazione di pannelli di trucioli implica un insieme di compiti sottili e delicati che non sono assolutamente alla portata della pazienza e dell’abilità di un essere umano, anche se eccezionalmente dotato. Solo una macchina può realizzare tali risultati, solo delle colle ottenute dalla chimica di sintesi possono avere le proprietà richieste. E, dunque, è attorno a questi problemi che si costruisce la strumentazione estremamente complessa che va a mettere in pratica quella che inizialmente era un’idea molto semplice. Perché si potrebbe credere che niente assomigli di più a un mucchio di segatura che un altro mucchio di segatura. Ma in realtà, per questi macchinari più sensibili e delicati di qualunque essere umano, non è così: perché ciascun truciolo sia correttamente incollato, bisogna che abbiano tutti la stessa dimensione, perché è solamente così che si può calcolare con precisione e iniettare nel soffiatore che realizzerà l’incollaggio l’adeguata quantità di colla. In altre parole, la stessa segatura è ancora troppo irregolare: ci vuole del cippato calibrato. È dunque a partire da qui che tutto un insieme di problemi tecnici si pongono e si incatenano gli uni di seguito agli altri, giustificando dei trattamenti e dei dispositivi particolari.
Il risultato sono delle gigantesche macchine-impianti nelle quali, ad ogni stadio della produzione, c’è una regolazione estremamente precisa della temperatura, della pressione, della densità e dell’umidità dei trucioli o delle polveri in sospensione nell’aria; della dimensione delle goccioline d’aerosol, della viscosità e della diffusione delle resine e altre sostanze chimiche che daranno al pannello le sue proprietà finali; una valutazione dell’usura del materiale in funzione dei prodotti che manipola la macchina. Tutto è verificato e analizzato di continuo da centinaia di sensori; registrato, calcolato, previsto dai computer che pilotano il processo in tempo reale. Gli ingegneri hanno attentamente determinato le “condizioni limite”, cioè gli eventi che possono causare l’ostruzione dei condotti, l’intasamento dei meccanismi, l’incendio o l’esplosione dei composti; hanno risolto tutti i problemi legati alla diffusione del vapore, alla polimerizzazione delle resine e all’interazione tra gli aspetti meccanici e termodinamici dei procedimenti. Niente, assolutamente niente può essere lasciato al caso, e ancora meno all’iniziativa umana, in un tale automatismo.
Il lettore vorrà scusarmi di questa, molto succinta, spiegazione della fabbricazione dei pannelli, ma mi sembrava indispensabile per fare ben comprendere a cosa ci riferiamo di preciso con questi materiali. E non ho citato qui che l’essenziale di questo procedimento […]. Vengono i brividi nel vedere a qual punto gli ingegneri hanno sviluppato dei tesori d’ingegnosità per distruggere il legno. Perché, non c’è da avere alcun dubbio a riguardo, è proprio per questo che sono state impiegate tanta scienza, intelligenza e inventività: a rendere morta, con l’aiuto di un procedimento industriale e di un’organizzazione economica, qualcosa di vivente e che in quanto tale partecipava alla vita quotidiana e alla vita sociale.
L’intero procedimento di produzione dei pannelli è stato concepito razionalmente e dall’inizio alla fine da ingegneri sulla base delle loro conoscenze scientifiche e delle loro analisi delle proprietà e del comportamento dei materiali. Nessun lavoro vivente ha il suo posto in questo procedimento e ciò non è dovuto alla presenza di macchine, ma è inerente alla natura della produzione stessa che non può essere effettuata se non da tali macchine. In effetti, fintanto che l’automatizzazione necessaria per effettuare questo lavoro non esisteva, ricostruire del legno a partire dalla segatura era semplicemente assurdo dal solo punto di vista tecnico ed economico: sarebbe stato molto più complicato e costoso per un risultato che sarebbe stato più mediocre dei procedimenti conosciuti fino allora, cioè i pannelli di legno in compensato o in lamellare incollato. Si sarebbe dovuto, per fare concorrenza a questi prodotti ricostituiti, raggiungere subito una perfezione tecnica che nessun procedimento integrante lavoro vivente avrebbe potuto realizzare.
Siamo dunque di fronte a un sistema tecnico radicalmente diverso da quello che si è sviluppato sulla base empirica e tradizionale dei mestieri o di quello che si fonda sulla conoscenza e la padronanza scientifica della materia, permettendo così di realizzare parzialmente l’industrializzazione delle pratiche e la meccanizzazione dei procedimenti derivanti dai mestieri. Non ci si accontenta più di utilizzare al meglio le proprietà conosciute della materia mediando con i suoi “difetti” o i suoi “inconvenienti” – che nell’ideazione dell’opera segnano l’alleanza tra l’uomo e la natura –, ma si creano appositamente dei materiali specifici aventi proprietà meccaniche e fisiche determinate, precise e senza ambiguità. È un rovesciamento completo di prospettiva nell’ordine della produzione: le capacità d’indagine della scienza, alleate alla potenza dell’industria, cercano di sottomettere totalmente la natura e gli uomini per creare un mondo manipolabile tecnicamente.
Si rimprovera alla nostra epoca di essere povera di grandi realizzazioni artistiche, ma il fatto è che non le si vede: le cattedrali dei nostri tempi, le realizzazioni in cui gli uomini hanno messo tutto il loro cuore, sono queste fabbriche automatiche (poco importa che producano dei pannelli, dei computer o delle automobili) che divorano la sostanza del mondo e la riducono in polvere agglomerata, in oggetti inutili e anche nocivi, effimeri perché destinati a trasformarsi rapidamente in rifiuti e in fin dei conti ingombranti – essi invadono la vita, li si incontra ovunque e la loro circolazione paralizza tutti, annienta le condizioni della nostra autonomia e della nostra libertà.
Questa distruzione dell’attività vivente è appena cominciata…
È evidente che i pannelli in legno ristrutturato non sono pannelli in legno massello e il cambiamento delle pratiche legate alla loro realizzazione su larga scala è radicale. Con l’eliminazione degli assemblaggi e della preparazione dei pezzi di legno è tutto il mestiere che viene sconvolto. Non si possono realizzare assemblaggi di compensato o di M.D.F., la cui resistenza meccanica è troppo debole per questo, e così l’allestimento dei pezzi è ridotto al semplice taglio dei pannelli. La realizzazione delle “opere” risulta fortemente semplificata: non sono più oggetto di una costruzione – assemblaggio di diversi parti progettate per costituire un insieme coerente – ma più semplicemente di un montaggio – legame di diversi elementi di superficie con l’aiuto di tutto un sistema di giunzioni metalliche o plastiche. L’utilizzo dei pannelli impone un tipo di costruzione e una forma specifica: il suo principio generale è la scatoletta.
Mentre la falegnameria e l’ebanisteria tradizionali consideravano una sorta di punto d’onore limitare l’utilizzo di metallo nelle opere (anche perché è stato a lungo molto costoso), riservandolo a quella ferramenta indispensabile alle parti mobili o meccaniche (porte, battenti, etc.) o alla decorazione (bronzi, intarsi), la concezione del mobilio industriale è al contrario interamente fondata sull’uso intensivo di tutta una serie di chiusure e ferramenta appositamente studiate per sopperire all’impossibilità di realizzare degli assemblaggi tra i materiali ristrutturati. Inoltre si fa un grande uso della chimica di sintesi: i solventi, le resine, le colle, le vernici, i melaminici, etc. permettono di ottenere rapidamente degli stati di superficie e di effettuare delle finiture tecnicamente impeccabili, riducendole spesso e volentieri alla posa di una decorazione.
La perfezione tecnica dei materiali così realizzati è tale che ogni intervento umano presenta il rischio di alterarla, che si tratti della produzione stessa o, più ancora, della manutenzione, del trasporto o del montaggio. Tutta l’abilità del lavoratore durante le differenti operazioni sta allora nel proteggere e valorizzare questa perfezione tecnica che non ammette alcuna fantasia né iniziative estemporanee: in realtà questa perfezione astratta e fredda annienta il lavoro vivente, lo riduce a un puro e semplice bricolage, qualcosa in effetti di piuttosto vergognoso, che soprattutto non deve apparire nel prodotto finito. Ma l’automatizzazione e l’integrazione tecnologica non sono ancora arrivate al punto di poter fare a meno del lavoro umano, in particolare per il montaggio e la posa in opera. Malgrado i progressi nelle costruzioni ci sono dei muri che persistono a non essere dritti e ad angolo retto e c’è dunque ancora bisogno d’effettuare qualche ultimo ritocco e aggiustamento. Questi lavoretti dell’ultimo minuto, destinati a rimediare agli inevitabili errori, saranno sempre necessari; ma in tutto ciò si vede a che punto la perfezione tecnica consacri finalmente la svalutazione completa del lavoro umano, l’obsolescenza dell’uomo di fronte alla macchina e di fronte ai suoi prodotti, i materiali ristrutturati.
In effetti, attraverso questo insieme di procedimenti, gli ingegneri e gli uffici studi hanno standardizzato e razionalizzato tutto quello che era precedentemente competenza dell’intelligenza pratica dell’operaio, che si sviluppava al contatto con un materiale vivente e con le varie circostanze della sua messa in opera. Le operazioni di preparazione del legno, in cui l’operaio poteva dispiegare la sua abilità ed eventualmente apportare il suo tocco personale, sono ridotte a nulla, a favore di un montaggio di elementi prefabbricati, di giunzione tra prodotti quasi finiti. La forma del lavoro è fissata, nel senso quasi fotografico del termine, attraverso questi procedimenti, materiali e macchine e questo lavoro si ritrova così completamente dequalificato e svuotato di ogni contenuto: tutta l’ingegnosità è così cristallizzata nella neo-materia prodotta, l’attività dell’uomo non consiste in altro che nel combinare logicamente questi elementi secondo le necessità del momento. Il risultato è certamente perfetto da un punto di vista tecnico, ma senza interesse dal punto di vista umano, tanto per quello che riguarda l’esecuzione che per l’opera stessa.
In breve, la falegnameria d’arredo è oggi veramente ridotta a non essere altro che delle sequenze di banali operazioni materiali, consacrando così la divisione radicale tra lavoro manuale e intellettuale.
Tutto dimostra che è impossibile avere allo stesso tempo una produzione di massa, a maggior ragione automatizzata, e dei prodotti di qualità. Più precisamente, la produzione industriale può realizzare dei prodotti perfetti dal punto di vista tecnico che le è specifico, ma senza valore e senza anima dal punto di vista umano. La ricerca di “qualità” di cui le nuove tecniche di management non smettono di parlare (circoli di qualità, controllo di qualità, norme ISO, etc.) non è nient’altro che questa perfezione tecnica i cui parametri sono rigorosamente quantificati e controllati in tutti gli stadi della produzione: si tratta di una razionalizzazione tecnica della produzione che non ha niente a che vedere con un miglioramento dei prodotti di tipo culturale o sociale.
Al contrario, questa produzione funzionale, abbondante e a buon mercato non può che corrompere tutto il resto. Non si ricorderà mai abbastanza che una tale produzione si fonda sullo sfruttamento a grande scala e sullo spreco gigantesco di risorse vitali e viventi provenienti da tutto il pianeta. A questo punto, è l’insieme dei valori umani che fondano una società a ritrovarsi a poco a poco distrutto dall’eccesso tecnologico che rende possibile ed effettivo un tale disprezzo della vita, diventando la base materiale, e di conseguenza il principio unificatore, di questa organizzazione sociale (secondo il principio “un crimine commesso in comune fonda una comunità”). È per prima cosa l’attività umana vivente nel suo insieme, le arti e i mestieri, che sono distrutti tramite i condizionamenti economici e tecnici indotti al ribasso, come abbiamo visto. In seguito, nella misura in cui non è un settore isolato della produzione ad essere in tal modo industrializzato ma l’insieme delle attività produttive, il gusto e il giudizio sono progressivamente alterati in tutti i membri della società.
L’estetica industriale, fredda e funzionale, geometrica e spogliata di ogni ornamento diventa la norma; avendo invaso tutto lo spazio sociale, si finisce per trovarla “bella” per mancanza di punti di paragone, ma anche e soprattutto per delle ragioni ideologiche, perché essa è il simbolo della “Modernità” e del “Progresso” che niente può fermare, come si sa, e al quale bisogna dunque sottomettersi (Ikea è stata storicamente all’avanguardia di questa tendenza dell’arredamento). Ora che ha occupato tutto lo spazio sociale, che ciascuno nella sua vita ne dipende, sono rari coloro che osano semplicemente esercitare il proprio giudizio su altro che non siano le qualità economiche e tecniche di quello che la mega-macchina industriale produce per noi (in realtà contro di noi).
Si può dunque constatare che man mano che la produzione industriale si fa carico di nuovi aspetti della vita quotidiana e della vita sociale (dall’alimentazione all’urbanistica) si assiste alla predominanza dei valori d’efficacia tecnico-economica a discapito dei valori umani, estetici, culturali e socio-politici. Imprimendo su questa base materiale i suoi propri valori, l’industrializzazione svaluta ed elimina ogni attività autonoma, estranea al suo sistema di valori. La forza del sistema industriale è oggi tale che se ci sono persone che pretendono di contestare dei prodotti industriali o l’imposizione di falsi bisogni, lo fanno mettendo in risalto l’efficacia ecologica, tecnica o economica delle loro pratiche alternative – di certo importante – e solo in secondo piano i valori di ordine umano, sociale o estetico, ancor più raramente politico. Così concepiscono la soluzione della crisi ecologica essenzialmente nei termini stessi del sistema che ne è all’origine. Vogliono “salvare il pianeta”, sono disposti a farsi carico delle misure tecnico-ecolocratiche che vanno nella direzione di una “migliore gestione” e che in realtà rinforzano il dominio del sistema industriale sulle risorse vitali. È pertanto questa visione amministrativa, questa strumentalizzazione della natura e del comportamento umano per dei fini opposti al rinnovamento e all’arricchimento di queste risorse che è il cuore del problema.
Con i pannelli e gli altri elementi tecnici che contribuiscono alla loro realizzazione, siamo in presenza di un sistema tecnico completamente nuovo, che non ha più niente a che vedere con i mestieri nella loro forma tradizionale e persino nella loro forma industrializzata per come si è sviluppata nel XX secolo. Si può senza dubbio legittimamente qualificare questo sistema come tecnologico: poiché è il prodotto di un’alleanza tra conoscenze tecniche e scientifiche (in greco antico tekhnê e logos) molto elaborate, che hanno permesso attraverso studi e analisi puramente quantitative e astratte la realizzazione di un macchinario che effettua un lavoro, produce dei materiali e dei beni che nessun essere umano potrebbe altrimenti realizzare.
Non è questo il luogo per soffermarsi su un’analisi generale e più approfondita di questo sistema tecnologico, delle sue cause e origini storiche. Ma mi sembrava necessario segnalare questo notevole cambiamento – generalmente inosservato – che inaugura l’era nella quale viviamo ancora. Il suo significato politico e sociale resta ancora largamente incompreso: si tratta soprattutto di una nuova economia politica, in cui la scienza e la tecnologia diventano poco a poco i fattori dominanti di organizzazione e produzione e tendono a subordinare a sé i fattori sociali e politici, mentre il modo di produzione industriale si fa carico di aspetti sempre più numerosi della vita sociale e della vita quotidiana. In questo modo, progressivamente, esso riformula i problemi sociali e politici nei termini e nei valori che gli sono propri, cioè in termini di efficacia tecnica, di flessibilità funzionale e di redditività economica, dando luogo a quella che si può giustamente chiamare società industriale.
“La questione, quindi, non consiste tanto nel vedere se siamo i padroni o gli schiavi delle nostre macchine, ma se le macchine servono ancora il mondo e le sue cose, o se, al contrario, con l’automatismo dei loro processi abbiano cominciato a dominare e anche a distruggere il mondo e le cose”[2]. Allo stesso modo, la complessità tecnica e l’integrazione nelle reti economiche che tutte queste macchine implicano, oltrepassando ogni misura umana, rende impossibile la riappropriazione e il riorientamento della loro produzione verso degli scopi definiti socialmente, contrariamente alle macchine-utensili degli inizi del XX secolo. È nella misura stessa in cui la tecnologia è diventata una forza politica, superando e travolgendo le forze sociali, che un progetto di emancipazione è diventato oggi letteralmente inconcepibile. Da tutti i punti di vista, questa evoluzione storica costituisce un vicolo cieco, ed è, purtroppo, poco probabile che l’umanità possa uscirne fintanto che il dominio tecnologico non si allenterà.
Questa constatazione disillusa non deve però impedire di continuare a fare finché possibile delle belle opere “in vero legno d’albero”. È questa la condizione per mantenere vivo, malgrado tutto, questo mestiere. E come diceva William Morris: “trovate quello che vi piace e praticatelo, non sarete isolati e troverete senza fatica dell’aiuto per realizzare i vostri desideri. Sviluppando i vostri gusti personali svilupperete la vita sociale”[3].
[1] Traduzione di Bertrand Louart, La menuiserie et l’impasse industrielle, «Cadmos», n. 11, aut. 2007, p. 37-53; https://sniadecki.wordpress.com/2012/02/05/louart-menuiserie.
[2] Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 2018, p. 107-108.
[3] William Morris, La société de l’avenir [1887], in L’âge de l’ersatz et autres textes contre la civilisation moderne, EdN, 1996
“Essendo poi anche cosa purtroppo molto contagiosa una ribellione”. Fano, 1917: non vogliamo partire!
Di Luigi
Sotto l’acqua che cadeva a rovescio grandinavano le palle nemiche; su quei monti, colline e gran valli si moriva dicendo così: O Gorizia, tu sei maledetta per ogni cuore che sente coscienza; dolorosa ci fu la partenza e il ritorno per molti non fu.
Anonimo, “O Gorizia, tu sei maledetta”
Blu – Street art, Campobasso
Soldato Angeli Enrico da S. Angelo in Vado, soldato Arcangeli Guerino da Auditore, soldato Amadei Domenico da Auditore… e così via. L’elenco dei “gloriosi caduti” del 94° reggimento durante il primo conflitto mondiale conta oltre un migliaio di nomi: 1.565 uomini di truppa e 54 ufficiali, per la precisione, oltre a 1.887 soldati e 67 graduati feriti. Tra il 1915 e il 1918 circa 6 milioni di uomini vengono arruolati nell’esercito regio, 600 mila di questi non tornano a casa, altri 500 mila ci tornano feriti nel corpo, tutti i sopravvissuti portano segni nell’animo. Dalle Marche partono in 174.197. Ne muoiono undici su cento, come se d’improvviso un rastrellamento con conseguente decimazione avesse travolto le città e soprattutto le campagne marchigiane, portandosi via ventenni e trentenni. A conti fatti, la guerra entra direttamente nelle case di otto famiglie marchigiane su dieci, per strappare e condurre al fronte o nei servizi connessi almeno un loro membro.
Tra i soldati del 94° fanteria che non ci hanno rimesso le penne, c’è chi si gode le 2 patacche d’oro, 151 d’argento e 219 di bronzo al valor militare. Ma né in questo elenco né in quello dei caduti troviamo i nomi di Enrico Cabiati, nato a Vignole Monferrato il 15 ottobre 1894, Sante Cicognani, nato a Faenza il 1 novembre 1878 e Giovanni Casadei, nato a Ravenna il 15 agosto 1878. Loro la guerra non l’hanno fatta. Privati di fucile e divisa, condannati per rivolta, invece che al fronte stavano dietro le sbarre a scontare lunghe pene detentive “perché le sera del 21 aprile 1917, essendo il drappello di cui facevano parte schierato in armi nel cortile della caserma del 94° fanteria in Fano, in procinto d’andare a raggiungere i corpi mobilitati in zona di guerra, si rifiutavano, insieme con altri militari rimasti sconosciuti, di partire, gridavano ad alta voce «abbasso la guerra, vogliamo la pace, non vogliamo partire» ed insistevano in tale rifiuto, malgrado gli ufficiali presenti avessero ordinato più volte di fare silenzio”. Il primo, Cabiati, era accusato anche di rifiuto di obbedienza, “perché giunto il drappello alla stazione ferroviaria avendo gli ufficiali presenti ordinato a tutti di fare silenzio, gridava ancora una volta «abbasso la guerra, vogliamo la pace» ed a richiesta del capitano Coppolino Francesco rispondeva dando false generalità”. Gli altri due, Cicognani e Casadei, anche di insubordinazione con vie di fatto verso superiore ufficiale, “perché nelle medesime circostanze di cui sopra il Cicognani vibrava un colpo di baionetta al maggiore Giannini Ismaele, senza però raggiungerlo, essendo l’altro riuscito a scansarsi. Il Casadei inveiva con il proprio fucile contro l’aspirante ufficiale Vigliardi Carlo per costringerlo a rilasciare il Barbieri, che veniva da lui condotto alla prigione”[1].
Blu – Street art, Campobasso, particolare
La guerra era una sventura presentata come sacro dovere. In tanti non si potevano rassegnare al triste destino di mettere in gioco le proprie vite per la grandezza di qualcosa che quelli con i gradi sulla divisa chiamavano “Patria”. I nostri tre erano infatti in buona compagnia, a giudicare dalle 870 mila denunce depositate nel ’15-’18: 470 mila per diserzione (di cui 370 mila riguardavano italiani già emigrati all’estero) e 400 mila per reati commessi “sotto le armi”.
Le forme del rifiuto potevano essere diverse, sia a carattere di insubordinazione individuale che di rivolta collettiva. A partire dalla renitenza alla leva, una pratica ben conosciuta, soprattutto nel mondo contadino, fin dai tempi del dominio napoleonico che aveva introdotto la coscrizione obbligatoria, ma di non facile attuazione perché la fuga all’estero con lo scoppio della guerra era di fatto impraticabile e nemmeno era semplice darsi alla macchia per lunghi periodi. Le Marche presentano un quadro a due tinte, con le province settentrionali che registrano un tasso di renitenza tra il 5 e l’11% e quelle meridionali tra l’11 e il 17%. Una volta arruolati c’era invece la possibilità di disertare, con o senza “passaggio al nemico”. Anche questa era una scelta difficile, non solo perché se riacciuffati c’era il plotone d’esecuzione, ma anche per le ritorsioni economiche e sociali nei confronti della famiglia. In realtà, a ben guardare, nella maggior parte dei casi non si trattava di gesti di aperto rifiuto della guerra, ma di episodi di breve durata che si concludevano con il rientro spontaneo nei ranghi, dettati dal desiderio di soccorrere la famiglia nel lavoro dei campi, dalla protesta per una licenza negata o, se concessa, dalla volontà di trattenersi qualche giorno in più con i propri cari. Un’ulteriore via di fuga era l’autolesionismo, cioè la pratica di infliggersi mutilazioni, che per sottrarsi ai sospetti dei maledetti medici militari, più attenti a smascherare quei poveri disgraziati che a curare i feriti, veniva messa in atto in maniera sempre più estrema e dalle gravissime conseguenze. Infine, si aveva l’estremo rifugio della vera o simulata “pazzia”: la guerra è piena di soldai sbroccati, ammutoliti, allucinati, smemorati.
Oltre agli atti individuali, non mancavano i gesti di rivolta collettiva, giudicati un fenomeno contagioso e quindi estremamente pericoloso, da condannare severamente anche qualora si tratti, in fin dei conti, solo di aver gridato insieme il proprio “abbasso la guerra”. Frase terribile nella quale, annotano i giudici in un processo simile a quello fanese, “i peggiori soldati compendiano tutta la loro avversità alla disciplina e all’alto dovere che stanno compiendo”[2]. Secondo il codice penale militare, art. 114, “sono considerati rei di rivolta i militari che, in numero di quattro o più, rifiuteranno, essendo sotto le armi, di obbedire alla prima intimazione dei loro superiori, ovvero prenderanno le armi senza essere autorizzati ed agiranno contro gli ordini dei loro capi. Gli agenti principali saranno puniti con la pena di morte e i loro complici andranno soggetti alla pena della reclusione militare da tre a dieci anni”.
Blu – Street art, Campobasso, particolare
La storia di Cabiati, Cicognani e Casadei ha inizio la sera del 21 aprile 1917, ore 19.00 circa, nel cortile della caserma Francesco Palazzi di Fano. Un gruppo di 410 militari schierati in armi stava attendendo le ultime disposizioni per la partenza verso la zona di guerra Vertoiba-Merna, a est di Gorizia, poco sotto l’Isonzo, dove avrebbe partecipato a una delle tante avanzate per la conquista di un fazzoletto di terra. Le loro mostrine sono quelle del 94° reggimento della brigata “Messina”. Come scriverà qualche settimana più tardi il generale Cadorna, tutto fiero, nel «Bollettino di guerra»: “nella zona ad oriente di Gorizia, la Brigata Messina (93° e 94° reggimento), conquistava l’altura di quota 174 a Nord di Tivoli, poderosamente rafforzata e accanitamente difesa dal nemico, ributtandone poi gli insistenti controattacchi”[3].
Sulla ricostruzione dei fatti avvenuti alla caserma e alla stazione ferroviaria di Fano prendiamo per buona l’unica fonte disponibile, cioè la sentenza del tribunale militare il cui dispositivo abbiamo già citato, D’altra parte immaginiamo che i giudici non abbiano perso troppo tempo a raccogliere incartamenti o ascoltare testimoni, né che i difensori, militari anch’essi, abbiano fatto altro rispetto a quanto facevano abitualmente in questi casi: rimettersi alla clemenza della corte. I giudici non hanno ombra di dubbio che quella sera si sia consumata una vera e propria rivolta, una rivolta perfetta: “infatti 410 militari protestarono con clamorose grida di non voler partire urlando ed imprecando cose insensate e indegne. Erano tutti sotto le armi. Non obbedirono alla intimazione di smettere, di star calmi. Elementi questi tutti chiari, incontrovertibili, integratori del gravissimo reato. E di più v’era stato anche il concerto. Prova non dubbia, il sentore avutone dalla P.S., che, contro il solito in occasione di partenze, aveva offerto i suoi servigi al comandante del deposito. Prova, ancora, la presenza di donne e bambini venuti a dare un addio ai partenti; presenza che avrà certo costituito la determinante occasionale. Rivolta pertanto perfetta in tutti i suoi estremi”.
Da queste righe emergono due elementi particolarmente interessanti. Il sentore di una certa premeditazione della protesta da parte dei soldati e la presenza di civili radunatisi per un saluto ai partenti. Donne e bambini di certo non erano andati a sventolare bandierine tricolori né a intonare inni patriottici. Nel 1917 l’insofferenza popolare nei confronti della guerra, non contenuta dalla rassegnazione, si andava traducendo in sempre più frequenti episodi di ribellione. Le manifestazioni di protesta sociale si estendevano di pari passo al crescente logoramento provocato da una guerra di cui non si vedeva la fine, originando una serie di agitazioni, tumulti ed episodi di lotta culminati nell’insurrezione di popolo, scaturita dalla mancanza di pane e farina, che sconvolse Torino nell’agosto 1917. Alle difficoltà oggettive delle condizioni di vita e di lavoro si sommava la netta sensazione di stare subendo un’ingiustizia, visto che chi sopportava i disagi e pagava i costi umani della guerra “patriottica” erano, come sempre ed esclusivamente, le classi popolari.
Caserma Francesco Palazzi, Fano, 1912
Anche nelle Marche si segnalano in quell’anno numerosi episodi di ribellione. Non nella forma dei classici scioperi a guida sindacale, ma come agitazioni spontanee che spesso hanno per protagoniste le donne. Il saluto ai contingenti di richiamati nel giorno della partenza verso il fronte era una delle occasioni per scendere in piazza, così come il pubblico rifiuto, come gesto di protesta antibellica, del sussidio economico spettante alle famiglie dei mobilitati; episodi di questo genere si verificano nell’urbinate e nell’anconetano, a S. Agata Feltria, Urbania, Ostra e a Montecarotto dove sono ben quattrocento le donne che rifiutano il vile denaro ribadendo il proprio unico desiderio: il ritorno a casa dei congiunti. Circa cinquecento filandaie unite a cento contadine manifestano a maggio a Osimo e ancora decine di donne si danno appuntamento a luglio a Sassocorvaro per reclamare la pace e il ritorno di mariti, figli e fratelli; sempre a luglio le setaiole di Jesi si scontrano al mercato con i commercianti “speculatori”; qualche mese più tardi a Cerreto d’Esi centocinquanta donne e ragazzi tentano di impedire la partenza di un camion carico di grano requisito ai contadini[4].
Notizie di tutto ciò, comprese quella sulla rivolta fanese, difficilmente sfiorano le colonne dei giornali locali, impegnate a cercare di sollevare il morale patriottico del fronte interno. A leggere le cronache, sui campi di battaglia le cose sembrano andare per il meglio e in città la raccolta dell’oro per la patria procede a gonfie vele: “si nota con compiacenza – scrive senza ritegno alcuno il quotidiano marchigiano «L’Ordine» – che nelle offerte hanno larghissima parte le classi meno agiate, le quali si privano senza rimpianto di oggetti cari”[5]. Mentre in Austria e Germania la gente starebbe morendo d’inedia – si legge ancora sui giornali locali – da noi il Commissario generale dei consumi emana il divieto di vendita e somministrazione delle fave fresche, così da accumulare come brave formiche scorte di prodotto secco, e sarebbe tutto perfetto se quei furbastri dei contadini, da colpire con fermezza, non sbocconcellassero impunemente la fava fresca nel campo.
Tornando ai fatti dei nostri eroi, l’11 settembre 1917 Calbiati, Cicognani e Casadei compaiono in tribunale. Dopo la breve ricostruzione dei fatti arriva la conclusione lapalissiana: se tutti tumultuavano, “essendo poi anche cosa purtroppo molto contagiosa una ribellione”, questi tre non possono escludersi dai tutti. Con un altro ragionamento giuridicamente alquanto bizzarro la corte riconosce negli imputati i principali istigatori della rivolta: se il Cabiati protestava e gridava una volta giunto alla stazione, vuol dire che il suo spirito era sovraeccitato e quindi “non può esserci dubbio” che anche precedentemente, nel cortile della caserma, fosse uno dei più esagitati. Discorso simile per gli altri due.
La condanna è alla pena di morte, ma grazie al riconoscimento delle attenuanti generiche si traduce in ventidue anni di carcere per Enrico Calbiati, venti per Sante Cicognani e venticinque per Giovanni Casadei. Andò loro bene, in due sensi. Da una parte, una pena inferiore ai sette anni sarebbe stata sospesa sino alla cessazione della guerra e pertanto si sarebbero ritrovati comunque al fronte; dall’altra, la pena di morte non era un’ipotesi così infondata, visto che i tribunali militari ne emisero in quegli anni oltre 4 mila (senza contare le fucilazioni sommarie al fronte e le pallottole nella schiena ricevute da chi non voleva saperne dell’Avanti Savoia!).
A guerra finita, con i regi decreti di amnistia e condono del settembre 1919 i tre ex-soldati saranno amnistiati per il rifiuto d’obbedienza e l’insubordinazione, mentre per il reato di rivolta la loro pena sarà ridotta della metà e commutata in condizionale. Lieto fine: escono dal carcere e tornano alle loro case.
Théophile-Alexandre Steinle – Les deux amis, 1917
Bibliografia Memorie storiche del 94. Fanteria, Roma, Stabilimento poligrafico per l’amministrazione della guerra, 1922.
Ministero della guerra, Stato maggiore centrale, Ufficio storico, Brigate di fanteria: riassunti storici dei corpi e comandi nella guerra 1915-1918, v. 4, Roma, Libreria dello Stato, 1926.
Enzo Forcella, Alberto Monticone, Plotone di esecuzione: i processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza, 1968 [la sentenza della rivolta di Fano, con titolo Molla, molla…, a p. 162-165]. 94° Reggimento fanteria, “impetuosa messanensis legio”, 1884-1945, [a cura del Comitato ex combattenti 94° Rgt. Ftr.], Fano, 1970.
Giovanna Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta: mentalità e comportamenti popolari nella grande guerra, Roma, Bulzoni, 1999.
Bruna Bianchi, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano (1915-1918), Roma, Bulzoni, 2001.
Luca Gorgolini, Emozioni di guerra. Le Marche di fronte ai grandi conflitti del Novecento, Roma, Carocci, 2008.
Marco Rossi, Gli ammutinati delle trincee: dalla guerra di Libia al Primo conflitto mondiale, 1911-1918, Pisa, BFS, 2014.
Eugenio Colmo (Golia) – Chi s’alza perde il posto, 1915-1918 ca.
[1] Archivio centrale dello Stato (ACS), Tribunale supremo, Tribunali di guerra e territoriali, b. 138, f. 246/II, sent. 521 [2] Enzo Forcella, Alberto Monticone, Plotone di esecuzione: i processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza, 1968, p. 69. [3]Brigata Messina in Ministero della guerra, Stato maggiore centrale, Ufficio storico, Brigate di fanteria: riassunti storici dei corpi e comandi nella guerra 1915-1918, v. 4, Roma, Libreria dello Stato, 1926, p. 217-240. <http://www.cimeetrincee.it/messina.pdf>. Il «Bollettino di guerra» citato è del 16 maggio 1917. [4] Su questi episodi si veda Luca Gorgolini, Emozioni di guerra. Le Marche di fronte ai grandi conflitti del Novecento, Roma, Carocci, 2008, p. 74-78. [5]La raccolta dell’oro, «L’Ordine», 21 aprile 1917.
Lo Spaccio popolare autogestito (Spa). Un’esperienza di autogestione a Bologna
Intervista a due partecipanti dello Spa a cura di A. Soto
Eat the Rich
Che cosa è lo Spaccio popolare autogestito (Spa)?
Un luogo in cui diffondere e condividere le pratiche e i temi inerenti alla sovranità alimentare. Lo spazio trova collocazione fisica all’interno del circolo anarchico Berneri di Bologna. È un lungo banchetto di legno in cui vengono spacciati prodotti alimentari (pasta, riso, vino, cereali, caffè, farine, friselle, olio, zucchero, tisane, miele, legumi, passate di pomodoro, mandorle, cipolle, patate, aglio etc.) al prezzo che ci viene fatto dal produttore, senza alcun ricarico.
Quando e perché è nato lo Spa?
Nel febbraio del 2016 come forma di esperimento. Da subito si è fondato su due cardini: mantenere i prezzi il più possibile popolari, rispettare e valorizzare sia i lavoratori e le lavoratrici sia l’ambiente. E si è dato alcuni fondamentali obiettivi: allargare e approfondire le dinamiche autogestite di produzione e consumo fuori da qualsivoglia logica speculativa; rafforzare i legami e le reti già esistenti tra produzione e consumo in un’ottica di mutuo aiuto e di relazioni umane e sociali liberate e in continua liberazione; supportare e dare visibilità alla rete dei produttori libertari e alle esperienze di lotta e autogestione.
Spaccio popolare autogestito
Con che modalità si svolge?
È aperto tutti i lunedì dalle 18.30 alle 21.00 in modo da avvicinare a questo nuovo progetto i compagni e le compagne che arrivano per un appuntamento, quello della cena popolare del lunedì, già da tempo consolidato e partecipato.
In cosa si differenzia da un mercato?
Nell’assenza di un profitto, nella divulgazione di tutte le informazioni necessarie a rendere l’avventore consapevole attraverso schede dettagliate dei produttori e dei prodotti e nella ricerca del minimo impatto ambientale, attraverso la distribuzione di prodotti sfusi o con un imballaggio minimo.
Alcuni degli organizzatori dello Spa fanno anche parte del Gruppo informale di acquisto zapatista (Giaz): mi spieghi cos’è?
È il frutto dell’esperienza decennale di un manipolo di compagni che ha esperito le contraddizioni del gruppo di acquisto e se ne è voluto emancipare dando vita a una comunità.
Lo Spaccio popolare autogestito presso il Circolo anarchico Berneri di Bologna
Che rapporti ha con lo Spa? Perché “informale”? Perché “zapatista”?
Aver partecipato attivamente alla vita di vari Gas bolognesi ha dato la possibilità a un gruppo di compagne e compagni di mettere a fattor comune un bagaglio di esperienze che è stata la base per formulare i criteri di scelta condivisa dei prodotti da avere nello spaccio. Informale perché non ci riconosciamo nel gruppo di acquisto ormai soggetto istituzionalizzato, zapatista per la continua tensione nella ricerca della creazione di una comunità, perché decliniamo “io” in “noi” e perché siamo sicuri che il capitalismo sia il nemico da combattere sempre e ovunque si annidi.
Giaz e Spa fanno parte di una rete più larga, la rete Eat the Rich, che coinvolge, tra l’altro, mense e realtà di autoproduzione: quale è il ragionamento dietro tutto ciò?
La rete nasce dall’esigenza di legare le storie dei singoli gruppi senza negare ad ogni realtà la propria identità e specificità, nell’intento di render più efficaci le forme di lotta. Essa vuole essere una risposta pratica e politica ai ricatti delle istituzioni cittadine con l’organizzazione di mense, cene sociali, gruppi di acquisto e distribuzione, mercati biologici e a km0, laboratori di autoproduzione. A partire dal cibo inteso come accesso a un pasto di qualità e a misura delle tasche di tutti, la rete costruisce possibilità di resistenza e attacco alla miseria diffusa. È impegno dei “mangiatori di ricchi” estendere questa rete nell’ottica di associare produttori e consumatori che fanno dell’autogestione e della critica pratica alle leggi mercantili la loro caratteristica, perché credono strategica la creazione di reti cittadine attorno a nodi e bisogni centrali per una “buona vita”. La sfida che pone la rete è scatenare processi politici e allargare l’autogestione a ogni aspetto della vita, proprio a partire da un bisogno come “un buon pasto” e dalla organizzazione di questo bisogno.
Che ruolo ha giocato e gioca Campi Aperti (associazione di agricoltori e consumatori che sostiene l’agricoltura biologica e contadina) in queste dinamiche? Una realtà radicata e di stimolo, mi verrebbe da dire, condividi?
Certo, all’interno dei mercati di Campi Aperti è possibile sperimentare la sovranità alimentare nelle città, cioè la difesa della piccola agricoltura contadina nelle campagne attraverso la creazione di una relazione diretta tra produttore e coproduttore (non più solo consumatore). Sono i compagni di viaggio ideali nella costruzione di un’alternativa al sistema economico dominante.
Lo Spa utilizza il più possibile una logistica partecipata. Cos’è?
È la presa di coscienza che la logistica è l’anello debole nella catena della distribuzione dei prodotti. È la spinta all’autorganizzazione nel trasporto e nello stoccaggio di tutto ciò che transita nello spaccio. È la partecipazione attiva della comunità che mette a disposizione il proprio mezzo, sia esso automobile o bicicletta, e lo trasforma da individuale a collettivo per il trasporto dei prodotti da portare allo spaccio.
Lo Spaccio popolare autogestito presso il Circolo anarchico Berneri di Bologna
E i magazzini diffusi cosa sono?
I magazzini diffusi sono la terminazione naturale di questo processo: chi dispone di un luogo adeguato in cui stoccare le merci lo mette a disposizione per lo spaccio. Un garage, una cantina, una dispensa diventano magazzino da cui lo spaccio può approvvigionarsi quando ne ha necessità.
Possiamo dire che lo Spa è una modalità per allargare e rafforzare, o approfondire, le dinamiche di autogestione in molteplici ambiti: produzione, consumo, trasporto, tra gli altri. Si dà così forma a “un mondo” altro, caratterizzato da rapporti sociali e umani scevri dallo sfruttamento e dal comando, all’interno di una visione coscientemente ecologica: dico bene?
Assolutamente sì e inoltre diventa luogo fisico in cui condividere saperi ed esperienze legati alla sovranità alimentare.
Lo Spa distribuisce prodotti di determinate realtà e collettivi di autoproduzione: quali? Che caratteristiche hanno?
Si passa da produttori locali che partecipano ai mercati di Campi Aperti, ma che per scelta di non competizione evitano di portare determinati prodotti in questi mercati in quanto già distribuiti da altri (vedi le farine), attraverso realtà libertarie come quelle della torrefazione Malatesta (Lecco) o della comune Urupia (Salento), fino ad arrivare a finanziare, attraverso l’acquisto di saponi, la riappropriazioni da parte degli operai di fabbriche fallite in Grecia (Viome di Salonicco); senza dimenticare le autoproduzioni come le passate di pomodoro che vengono distribuite seguendo i criteri della trasparenza nella formazione del prezzo, evidenziando ogni singolo passaggio e conseguente costo.
Breve guida all’IVG nelle Marche Tuo il corpo. Tua la vita. Tua e soltanto tua la scelta di portare avanti una gravidanza oppure decidere di abortire!
I TEMPI
In Italia la legge 194/1978 garantisce ad ogni donna (cittadina maggiorenne e minorenne, neo-comunitaria e extracomunitaria, anche senza il permesso di soggiorno) il diritto di praticare l’interruzione volontaria di gravidanza IVG. La legge prevede che questo sia fatto entro i primi 90 giorni con il metodo chirurgico e entro i primi 49 giorni con il metodo farmacologico, tutti contati a partire dall’ultima mestruazione. Inoltre, all’interno di questi due lassi di tempo, vanno conteggiati sette giorni, obbligatori, che devono intercorrere tra la data di rilascio del certificato medico per l’interruzione e il giorno in cui ci si presenta in ospedale per l’IVG.
Quindi nel momento in cui ti rendi conto di essere incinta(solitamente a partire dalla quinta settimana, cioè dal 35° giorno) e di voler abortire, è importante che calcoli bene i tempi e organizzi l’interruzione entro i 49 o 90 giorni, dopo dei quali la legge ti permetterebbe di farlo soltanto nel caso di grave pericolo per la vita o per la salute psichica e fisica della madre.
Se hai un ritardo del ciclo quindi, la prima cosa da fare è comperare subito un test di gravidanza, in farmacia o al supermercato (il costo va dai 9 ai 30 euro) e verificare la situazione: nel caso risultasse positivo, per poter interrompere la gravidanza devi subito cominciare ad organizzarti.
Se sei minorenne, ti serve il consenso di entrambi i genitori. Nel caso in cui tu non voglia coinvolgerli o siano contrari, il medico deve inoltrare, entro 7 giorni, la richiesta a un giudice tutelare, con il quale dovrai affrontare un colloquio in cui il giudice verifica le tue ragioni per poi autorizzarti a procedere con l’interruzione, con un atto non soggetto a reclamo.
Nessuno, né il medico, né il giudice, ha il diritto di informare i tuoi genitori senza il tuo consenso!
Nel caso in cui tu sia extracomunitaria, se non hai il permesso di soggiorno, al posto del tesserino sanitario puoi richiedere il codice STP presso i consultori familiari o le ASL del territorio e poi procedere come descritto di seguito.
Nessuno ha il diritto di denunciarti alle autorità!
I METODI
I metodi abortivi sono essenzialmente due: quello farmacologico e quello chirurgico.
Metodo farmacologico: PILLOLA ABORTIVA RU486
Nella regione Marche è attualmente in fase di sperimentazione gestionale presso l’ASUR – Distretto n. 2 di Senigallia, Jesi, Ancona e Fabriano ed esclusivamente in associazione al consultorio familiare: per usufruirne quindi è necessario recarsi in consultorio, munita di documento d’identità e tesserino sanitario (o STP per le extracomunitarie).
La RU486 può essere somministrata soltanto entro il 49° giorno di gravidanza; inoltre la procedura, che nelle strutture pubbliche è totalmente gratuita, viene eseguita in regime di Day Hospital, secondo il seguente iter:
GIORNO 0: primo accesso al consultorio familiare. Viene effettuata una prima ecografia per verificare il periodo di gestazione e l’assenza di controindicazioni. Vengono poi fornite alla donna tutte le informazioni e la documentazione necessarie (consenso informato e certificato per l’IVG), i numeri di telefono per le urgenze e infine viene prenotato il Day Hospital.
Il medico, dopo averti elencato anche le altre possibili soluzioni, è tenuto a rispettare la tua libertà di scelta e a fornirti il certificato per l’interruzione!
GIORNO 1: primo accesso in Day Hospital. Successivamente alla firma del consenso informato e al prelievo del sangue, viene somministrata la prima compressa (mifepristone/RU486 600 mg) per via orale e vengono consegnati i consigli per il comportamento da tenere a casa nei giorni successivi.
GIORNO 3: secondo accesso in Day Hospital (48 ore dopo il primo). Visita ecografica per verificare se l’aborto è già stato completato, in caso contrario si procede con la somministrazione della seconda compressa (misoprostolo 400 microgrammi) sempre per via orale, cui segue un periodo di osservazione di 3 ore, durante il quale nel 50% dei casi avviene l’espulsione del materiale abortivo. Se questo non succede, viene somministrata una terza compressa (misoprostolo 400mg) per via orale, cui segue un ulteriore periodo di osservazione di 3 ore e vengono somministrati degli antidolorifici.
GIORNO 14: secondo accesso presso il consultorio familiare (dopo 15 giorni). Viene effettuata una visita di controllo e un’ecografia per verificare che il materiale abortivo sia stato espulso. In caso contrario, si dovrà procedere chirurgicamente.
Metodo chirurgico: INTERVENTO CHIRURGICO
FASE 1: Se si è superato il 49° giorno di gravidanza, bisognerà invece ricorrere al metodo chirurgico, entro il 90° giorno di gestazione. In questo caso è innanzitutto necessario procurarsi un certificato per l’IVG. Devi recarti dal tuo ginecologo, oppure dal ginecologo di un consultorio, munita di documento d’identità e tessera sanitaria (o STP per le extracomunitarie). Se vuoi puoi rivolgerti anche al tuo medico di base, in questo caso però, oltre al documento d’identità e tesserino sanitario, dovrai procurarti anche un test di gravidanza certificato (stampato), che puoi ottenere nelle farmacie che svolgono il servizio portandoti dietro una provetta con le urine del mattino, oppure presso un laboratorio analisi. I risultati vengono rilasciati al massimo in un paio di giorni. Il costo varia dai circa 20 euro nelle farmacie, al pagamento del ticket nei laboratori pubblici.
Ricorda che il medico, dopo averti elencato anche le altre possibili soluzioni, è tenuto a rispettare la tua libertà di scelta e a fornirti il certificato per l’interruzione.
FASE 2: A questo punto, una volta ottenuto il certificato per l’IGV (firmato da te e dal medico), devi lasciar passare i sette giorni cui accennavamo sopra, prima di recarti in ospedale per abortire. Nell’attesa, per guadagnare tempo, puoi intanto contattare l’ospedale in cui eseguirai l’intervento e fissare l’appuntamento (se sei neo-comunitaria, è consigliabile comunicarlo all’ospedale per avere la lista dettagliata della documentazione che ti serve).
Ricorda sempre che gli ospedali pubblici devono garantirti l’intervento di interruzione oppure metterti in contatto con la struttura più vicina che possa farlo.
FASE 3: Passati i sette giorni, devi recarti presso la struttura ospedaliera in cui hai prenotato l’intervento, munita di certificato per l’IVG. Solitamente la procedura è eseguita in regime di Day Hospital, ma può anche prevedere il ricovero di un paio di giorni.
Il tutto si svolge in pochi giorni:
GIORNO 0: primo accesso in ospedale. Vengono effettuati un colloquio con un ginecologo e degli esami preliminari: prelievo del sangue, elettrocardiogramma e visita anestesiologica.
GIORNO 1/2: secondo accesso in ospedale. La paziente deve per prima cosa, firmare il consenso informato. Dopodiché viene eseguita la procedura chirurgica e la paziente può essere rilasciata nel giro di poche ore o venire ricoverata per un paio di giorni, a seconda dell’ospedale. L’intervento prevede l’aspirazione del contenuto uterino (cui può seguire la pulizia delle pareti dell’utero) e può essere eseguito in anestesia locale o totale, sempre a seconda delle strutture.
I LUOGHI
Pubblichiamo di seguito una lista dei consultori familiari e ospedali marchigiani con i rispettivi recapiti. Data la presenza sempre più massiccia di ginecologi, anestesisti e personale ospedaliero che praticano obiezione di coscienza, consigliamo sempre di telefonare, per avere conferma delle procedure e della documentazione necessaria.
Consultori pubblici nelle Marche
Provincia di PESARO-URBINO:
CAGLI, Via Flaminia, 98 – Tel: 0721792650
FANO, Via IV novembre, 63 – Tel: 0721882800
FOSSOMBRONE, Via Kennedy, 21 – Tel: 0721721204
GABICCE MARE, Via Berlinguer, 14 – Tel: 0541960344
MACERATA FELTRIA, Via Penserini, 9 – Tel: 0722301299
MONDAVIO, Corso Roma, 36 – Tel: 072197120
PERGOLA, Via G. di Vittorio, 2 – Tel: 0721892029
PESARO, LARGO VOLONTARI DEL SANGUE – Tel: 0721424604
SALTARA, Via Carducci – Tel: 0721895276
URBANIA, Via Roma – Tel: 0722301799
URBINO, Via Guida Da Montefeltro – Tel: 07223011
VALLEFOGLIA (MONTECCHIO), Via Pio La Torre – Tel: 0721497594
Provincia di ANCONA:
ANCONA, Viale Della Vittoria, 9 – Tel: 07187051
ANCONA, Via Cristoforo Colombo, 106 – Tel: 07187051
ARCEVIA, Via Marconi, 7 – Tel: 0719215
CAMERANO, Via Marinelli, 3 – Tel: 071730321
CASTELFIDARDO, Via XXV aprile, 61 – Tel: 07171301
CHIARAVALLE, Via Fratelli Rosselli, 176 – Tel: 07174901
CORINALDO, Via Degli Eroi, 7 – Tel: 07167034
CUPRAMONTANA, Via M. Ferranti, 51 – Tel: 0731786711
FABRIANO, Via Brodolini, 127 – Tel: 07327071
FALCONARA MARITTIMA, Via Rosselli – Tel: 07191781
FILOTTRANO, Via Don Minzoni, 16 – Tel: 0717227911
JESI, Via Guerri, 2 – Tel: 0731534712
LORETO, Via San Francesco, 1- Tel: 07179051
MAIOLATI SPONTINI, Viale Trieste, 80 – Tel: 0731706811
MONTECAROTTO, Via San Francesco, 18 – Tel: 0731889411
MONTEMARCIANO, Via Pierozzi – Tel: 0717490728
OSIMO, Piazza Del Comune, 4 – Tel: 07171301
OSTRA, Via Del Teatro – Tel: 07168033
POLVERIGI, Via D. Alighieri – Tel: 071906270
SASSOFERRATO, Viale Marconi 1 – Tel: 0732707514
SENIGALLIA, Via Campo Boario, 4 – Tel: 07179092281
SERRA SAN QUIRICO, Via Martiri della libertà, 4/6 – Tel: 073186103
Provincia di ASCOLI PICENO:
ASCOLI PICENO, Viale Rimembranza – Tel: 0736358910
CASTEL DI LAMA, Via Indipendenza, 3 – Tel: 0736887938
COMUNANZA, Via G. Bruno Comunanza – Tel: 0736844413
CUPRA MARITTIMA, Via Ruzzi, 13 – Tel: 0736777373
FOLIGNANO, Via Roma, 46 – Tel: 0736491290
GROTTAMMARE, Via Crucioli, 149 – Tel: 07357937428
MONTALTO DELLE MARCHE, Viale dei Tigli, 6 – Tel: 0736829460
MONTEFIORE DELL’ASO, Piazzale Antognozzi – Tel: 07347112
MONTEPRANDONE, Via 2 Giugno, 34 – Tel: 0735701560
OFFIDA, Garibaldi, 3 – Tel: 0736880207
RIPATRANSONE, Via Malavolta, 11 – Tel: 07357116
ROCCAFLUVIONE, Piazza Aldo Moro, 4 – Tel: 0736365131
SAN BENEDETTO DEL TRONTO, Viale dello Sport, 14 – Tel: 07357937423
Provincia di FERMO
AMANDOLA, Largo Plebani, 6 – Tel: 07368491
MONTEGIORGIO, Via Dell’ospedale – Tel: 07346255011
MONTEGRANARO, Contrada Santa Maria – Tel: 07346255399
PEDASO, Via Spuntini, 16 – Tel: 800185454
PETRITOLI, Via Pacifico Marini, 46 – Tel: 07346255438
PORTO SAN GIORGIO, Via Misericordia – Tel: 0734625111
PORTO SANT’ELPIDIO, Via Della Montagnola – Tel: 07346257062
SANT’ELPIDIO A MARE, Via Murri – Tel: 07346257299
Provincia di MACERATA
CAMERINO, Località Caselle – Tel: 0737639307
CINGOLI, Viale Della Carita`,11 – Tel: 0733601761
CIVITANOVA MARCHE, Via Abruzzo – Tel: 0733823454
CORRIDONIA, Viale Italia – Tel: 0733257910
MACERATA, Largo Belvedere Sanzio, 1 – Tel: 0733257056
MATELICA, Viale Europa, 16 – Tel: 0737781422
MONTE SAN GIUSTO, VIA Monti Sala, 1 – Tel: 0733539808
MORROVALLE, Via Tiziano – Tel: 0733225100
PORTO RECANATI, Via Borgo Marinaro – Tel: 0717595332
POTENZA PICENA, Via Delle Fonti – Tel: 0733675158
RECANATI, Via Madonna Cupa Da Varano, 1 – Tel: 0717583637
SAN SEVERINO MARCHE, Via Del Glorioso, 8 – Tel: 0733642344
SANT’ANGELO IN PONTANO, Contrada Passo S. Angelo, 1 – Tel: 0733663140
SARNANO, Via Rimembranze, 51 – Tel: 0733657526
TOLENTINO, Viale Della Repubblica, 18 – Tel: 0733900299
TREIA, Piazza Leopardi, 2 – Tel: 0733218511
Aziende ospedaliere nelle Marche
Azienda Ospedaliera Universitaria OSPEDALI RIUNITI DI ANCONA, Via Conca, 71 – TORRETTE/ANCONA – Tel: 0715961
Azienda Ospedaliera OSPEDALI RIUNITI MARCHE NORD: presidio S. Salvatore – PESARO, Via Calcinelli, 1 – Tel: 07213611
Azienda Ospedaliera OSPEDALI RIUNITI MARCHE NORD: presidio Santa Croce – FANO – Viale Veneto, 2 – Tel: 07218821
Aziende sanitarie locali
ANCONA, Via Cristoforo Colombo, 106 – Tel: 0715961. www.asurzona7.marche.it
ASCOLI PICENO, Via Degli Iris – Tel: 07363581. www.asl13.marche.it
CAMERINO, Viale Emilio Betti, 15/A – Tel: 07376381. www.asl10.marche.it
CIVITANOVA MARCHE, Piazza Garibaldi, 8 – Tel: 07338231. www.asl8.marche.it
FABRIANO, Via Stelluti Scala, 26 – Tel: 07327071. www.asurzona6.marche.it
FANO, Via Ceccarini, 38 – Tel: 07218821. www.asurzona3.marche.it
FERMO, Via Zeppilli, 18 – Tel: 0734215141. www.asl11.marche.it
JESI, Via Gallodoro, 68 – Tel: 0731534111. asl5.salute.regione.marche.it
MACERATA, Via Belvedere Sanzio, 1 – Tel: 07332571. www.asl9.marche.it
PESARO, Via Sabbatini, 22 – Tel: 07213611. www.asurzona3.marche.it
BENEDETTO DEL TRONTO, Via Manara, 7 – Tel: 073583039. www.asl12.marche.it
SENIGALLIA, Via B. Cellini, 13 – Tel: 0717924141. www.asl4.marche.it
URBINO, Via Puccinotti, 33 – Tel: 07222797. www.asurzona3.marche.it
“Czarny protest”, “Ni una menos”, “Non una di meno”. Nell’ultimo periodo hanno acquistato popolarità mediatica molte proteste in difesa dell’autodeterminazione del corpo della donna.
Le organizzazioni cattoliche più radicali parlano di genocidio silenzioso. Allarmata dal numero di aborti eseguiti nel mondo (56 milioni l’anno secondo l’OMS) la Chiesa ha recentemente concesso la possibilità a tutti i sacerdoti di assolvere le donne e i medici “pentiti”, ma l’aborto resta per loro un abominio, un grave peccato, che nelle culture permeate di valori cattolici (come ad esempio negli stati latino-americani) si traduce in atteggiamenti bigotti e patriarcali che si scontrano con problemi concreti: in Colombia l’aborto è proibito, di conseguenza si procede in modo clandestino, tant’è che una delle cause più frequenti di mortalità materna è data da interruzioni volontarie di gravidanza in condizioni igieniche precarie (Human Rights Watch). Anche in Bolivia, Brasile, Barbados, Repubblica Dominicana, Ecuador, El Salvador, Guadalupa. Guatemala, Haiti, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Suriname, Venezuela, Argentina, Perù, Cile, Nicaragua, Costa Rica, Bahamas l’Interruzione volontaria di gravidanza è per lo più considerata un reato, anche se a volte è consentito (o depenalizzato) in caso di stupro, incesto o malformazione del feto, e in alcune zone per interrompere una gravidanza serve anche il consenso dei genitori. Inoltre bisogna considerare che in questi paesi molti abusi e stupri sono fatti da agenti di polizia e militari e forse è proprio per questo che il movimento “Ni una menos” (iniziato in Argentina e poi esteso in Cile, Uruguay e Perù) possiede correnti antigerarchiche al suo interno.
Czarny Protest, Varsavia, 3 ottobre 2016
Passando dal Sud-America all’Europa, le cose non migliorano di certo nei paesi non solo di cultura cattolica: in Turchia, l’AKP (partito dell’attuale presidente Erdogan) continua a promuovere e sostenere cambiamenti politici e culturali in favore dell’islam e dell’industrializzazione, una sorta di connubio tra conservatorismo religioso e capitalismo occidentale, il tutto condito dal rafforzamento del patriarcato. L’aborto nei fatti non viene concepito come ammissibile, gli stupri vengono depenalizzati se la vittima sposa il carnefice e molti femminicidi vengono commessi come estrema ratio per non concedere il divorzio alle proprie mogli. In Polonia, manifestazioni e scioperi di massa sono stati una risposta popolare alla proposta di legge frutto di una petizione firmata da 450 mila persone e sostenuta dalla Chiesa cattolica locale, che, se fosse stata approvata, avrebbe reso l’aborto sempre illegale tranne nel caso di immediato pericolo per la vita della madre. Alla fine le proteste sono riuscite nell’intento contingente. È rimasta quindi immutata l’attuale legge vigente che è comunque molto limitativa e infatti consente di abortire solo nei casi di stupro, incesto o malformazione del feto.
Anche nell’Eire le leggi sono molto restrittive, nella Repubblica d’Irlanda solo nel 2013 è passato un disegno di legge per consentire l’aborto nel caso di grave pericolo o di possibile suicidio della donna, quindi di fatto non esiste ancora la condizione legale di interrompere volontariamente una gravidanza; mentre in Irlanda del Nord nel 2015 è stata bocciata (perché considerata come violazione dei diritti umani) una legge che avrebbe previsto l’aborto solo come estrema soluzione a gravi problemi della donna in gravidanza, ma ancora rimane il reato di IVG punibile con l’ergastolo. Alla cultura conservatrice e reazionaria non si sfugge e ovviamente chi ci rimette maggiormente sono le donne appartenenti ai ceti più bassi, perché abortire in modo sicuro e senza incorrere in problemi legali spesso significa uscire dai confini per usufruire del servizio sanitario di una nazione più permissiva rispetto alla propria. Ma ciò comporta un costo notevole, non affrontabile da chi non vuole un bambino magari proprio per motivi economici, senza considerare le difficoltà in cui incappano le minorenni.
Czarny Protest, Varsavia, 3 ottobre 2016
In Italia, sull’onda delle contestazioni degli anni Settanta, nel 1978 viene promulgata una legge, la famosa e tanto contestata 194, che sancisce la possibilità dell’Interruzione volontaria di gravidanza in un percorso medico seguito dai consultori familiari, strutture nate nel ’75 e adibite, almeno sulla carta, a informare e promuovere iniziative sulla conoscenza del proprio corpo, dei metodi anticoncezionali, delle malattie sessualmente trasmissibili e dei rapporti interfamiliari. In realtà l’efficienza di queste istituzioni sarà poi fortemente ostacolata dalla poca disponibilità di fondi, dalla grande confusione amministrativa e dal rimpallo di responsabilità da parte degli enti regionali e nazionali, senza contare che le lotte di genere sono andate scemando col passare del tempo con poche eccezioni esauritesi velocemente.
Al giorno d’oggi sulla spinta latino-americana si è andato creando un movimento trasversale a diverse aree politiche che è sceso in piazza lo scorso 26 novembre a Roma in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulla donna (200.000 circa i/le partecipanti); il giorno successivo sono stati organizzati tavoli tematici di discussione e s si è anche stabilito che “Non una di meno” (così si chiama il movimento) aderirà allo sciopero internazionale l’8 marzo 2017. Non si lotta soltanto contro la violenza sulle donne, ma anche per la riaffermazione di diritti acquisiti troppo spesso non rispettati o persi, come la parità dei sessi in ambito lavorativo o la possibilità di essere seguiti per abortire senza rischi e complicazioni, cosa che invece risulta difficoltosa a causa dei numerosi tagli sui fondi della sanità pubblica e della pratica di obiezione di coscienza da parte di medici, anestesisti e altro personale non medico sia per motivi etici che per guadagno: infatti alcuni si astengono dal praticare aborti nelle strutture pubbliche salvo poi operare in quelle private dietro lauto compenso.
Il problema dell’obiezione in Italia e nelle Marche
Sin dalla promulgazione della legge 194 il numero di IVG legali sale fino a 235.000 circa nel 1981, anno in cui fra alcuni quesiti referendari ne figura uno antiabortista, bocciato con una schiacciante maggioranza di voti a sfavore. Da quel momento il numero di interruzioni subisce un calo, mentre aumentano in modo spropositato i medici obiettori. Una resistenza passiva da parte del mondo cattolico uscito perdente dal referendum, che si protrae nel tempo: nel 2013 il numero di obiettori è stimato al 70% fra i ginecologi, 49,3% fra gli anestesisti e 46,5% fra il personale non medico.
Sempre nel 2013 la CGIL si rivolge al Comitato europeo dei diritti sociali (CEDS) contro il governo italiano in merito alla violazione di alcuni articoli della Carta sociale europea. Il ricorso viene parzialmente accolto ma nel 2016 il governo, affermando di avere dati aggiornati, fa riesaminare la sentenza dal Gruppo affari sociali (Concilio d’Europa), il quale si esprime a favore del governo giudicando che essendo le IVG diminuite notevolmente il personale non-obiettore basterebbe per rispondere al carico di lavoro. Queste stesse considerazioni erano state sollevate anche al CEDS e puntualmente smontate dalla CGIL, ricordando che i due fenomeni non sono strettamente correlabili e, anzi, nei calcoli si sovrastimava il numero di non-obiettori (non si è tenuti a comunicare all’ospedale in cui si lavora se si è obiettori di coscienza) né si teneva conto della possibilità che il calo delle IVG potesse essere legato a una ripresa dell’aborto clandestino, una pratica che non è possibile correttamente calcolare in termini di statistica. Infine questi famigerati dati aggiornati portati al CdE che avrebbero stravolto le conclusioni del CEDS riguardano soltanto l’andamento delle interruzioni volontarie di gravidanza fino al 2014 e tutt’ora il resto delle statistiche rimangono ferme al 2013, anche se gli stessi dati sono stati riutilizzati nelle relazioni ministeriali del 2015-2016.
Ni Una Menos, Buenos Aires, 3 giugno 2016
Ma al di là di tutti questi numeri i problemi restano, perché quello che una media statistica non può rappresentare è l’atteggiamento assunto dal personale obiettore sia nei confronti delle pazienti ricoverate per IVG, sia verso il personale non-obiettore. Quindi, anche se le strutture consultoriali del territorio marchigiano, nonostante la presenza di un 80% di personale obiettore, riescono ancora a garantire la presenza di almeno un medico non-obiettore ricorrendo anche a medici privati, non è detto che si riesca a ottenere un servizio adeguato, perché si può facilmente andare incontro a ritardi e rallentamenti causati anche volutamente dagli obiettori, ritrovandosi a correre contro il tempo in cerca di una struttura in cui poter abortire, bussando a molte porte per essere spesso giudicate male, disprezzate, col rischio di non poter più interrompere la gravidanza a causa dello stato avanzato della stessa.
In conclusione, in Italia e nelle Marche, la difficoltà di abortire in strutture pubbliche senza costi e tempi aggiuntivi resta ancora un buon argomento su cui dibattere per riorganizzarsi, ricominciare a lottare per i propri diritti di genere e di classe, ma prima ancora riteniamo importante fornire una guida all’Interruzione volontaria di gravidanza che possa essere una base utile per chi si trova ad affrontare il peso di una decisione che non dovrebbe essere ostacolata almeno dalla mancanza di informazioni.
Hip hop Marche Nord Intervista redazionale alla scena hip hop del nord delle Marche
Esiste una scena hip hop delle Marche Nord? Come si è formata, quali sono i suoi riferimenti culturali, la sua originalità e i suoi progetti? A ottobre 2016, in occasione della freestyle battle Ready to Spit 4.0 presso lo Spazio pubblico autogestito Squola di Pergola, prima di lasciare spazio al “contrasto” sul palco abbiamo raccolto un’intervista collettiva con alcuni di questi moderni poeti in ottava rima. Tra loro Edoardo, Federico e Matthijs di Ready to Spit, Edoardo, Marco e Tommaso dei Lyrical Mass, Simone dei Freak Family e Luca Coccione. Auguriamo ai gruppi di continuare la loro collaborazione e di pubblicare il primo mixtape collettivo, ma anche di coinvolgere qualche voce femminile, di cui si avverte la mancanza.
Ready to Spit – Freestye battle 4.0
Come avete cominciato a fare musica e come si è formato il vostro gruppo?
Federico: Io ho sempre suonato la chitarra e mi sono sempre piaciuti anche il rock e il metal. Poi una sera, era agosto dell’anno scorso, i Lyrical Mass avevano organizzato qui a Squola un concerto con i K-Maiuscola, un gruppo abbastanza grosso e io, un po’ per scherzo, ho fatto da dj. Lo scratch l’avevo già mezzo imparato da mio cugino e mi piaceva parecchio, però fino ad allora non mi ero mai messo alla consolle. Da quella sera è partito un po’ il tutto e piano piano mi sono sempre più interessato a quello che facevano i Lyrical Mass, anche se non sono nel loro gruppo il loro stile mi piace molto. Sempre da lì è nato il progetto Ready to Spit, che è stata una bella svolta nella zona per noi e per parecchi ragazzi. Io faccio l’università, ma per metà dell’anno scorso non sono andato a lezione perché c’era Ready to Spit da organizzare, è una cosa che mi ha preso anima e corpo.
Matthijs: Ready to Spit non è solo l’evento di freestyle, come questa sera, è un progetto più vasto che comprende diverse cose. Noi facciamo video, produciamo basi, organizziamo eventi, adesso stiamo costruendo uno studio di registrazione dove vorremmo produrre anche il primo Marche Nord mixtape. Insomma, ci stiamo dando da fare per qualcosa che ci piace, ovvero la musica.
Tommaso: Lyrical Mass nasce il 25 aprile del 2013. Qui a Squola, nel pomeriggio, avevamo il palco a disposizione e da lì è cominciata. Con Marco ed Edoardo avevamo già un gruppo dove io suonavo la batteria, loro il basso e la chitarra, però era arrivata una fase di stanca in cui ci stavamo accorgendo che in realtà anche se continuavamo a suonare, quello che però ascoltavamo e ci piaceva non era il rock, ma il rap. Quindi abbiamo cominciato a scrivere pezzi e qualche mese dopo abbiamo fatto un primo mixtape, con le basi americane prese da youtube, diciamo pure “ladrate”… Nel 2014 ne abbiamo fatto un altro, ISDC, ci siamo messi a organizzare qualche concertino e così s’è un po’ mossa la situazione. Lyrical Mass eravamo comunque solo noi tre che rappavamo, niente di più, niente di meno, poi è stato importante l’incontro con loro [Ready to Spit] che ci hanno messo un bell’impegno a radunare anche gli esponenti delle zone vicine. Abbiamo cominciato a beccarci tutti insieme ed è nata la prima gara di freestyle, che è venuta fuori una figata e allora ci siamo detti: bene continuiamo su questa strada!
Edoardo: Ora abbiamo iniziato a prendere le basi e scrivere per un nuovo disco, il terzo mixtape di Lyrical Mass. E intanto abbiamo anche finito di girare un video, manca solo il montaggio.
Lyrical Mass
Potete descrivere una geografia del rap a livello locale? Dalla costa all’entroterra quali situazioni e gruppi sono presenti e in che relazioni siete tra voi?
Federico: Sulla costa queste cose ci sono un po’ di più, mentre qui a Pergola e un po’ in tutto l’entroterra non è che ci sia tantissimo giro, anche se qualcosa si muove e qualcosa stiamo cercando di costruire. A Cantiano c’è Coccione, che ha qualche anno più di noi altri ed è stato il primo a partire col rap da queste parti; a Fermignano c’è la Strani elementi crew, a Fossombrone c’è il Puma. E ancora gente ad Acqualagna, a Fabriano. Ci conosciamo un po’ tutti, certo la rivalità c’è ma è una rivalità positiva anche perché la maggior parte di noi tiene molto al proprio stile personale, a far qualcosa che esprima il proprio modo di essere. Poi a guardare in giro c’è però un po’ di tutto, magari trovi anche chi lo fa con l’idea di farci i soldi e su questo gli insulti piovono!
Simone: A Pesaro quella dell’hip hop è una cultura abbastanza viva, c’è proprio una “scuola”. Soprattutto ci sono i K-maiuscola che sono dei giganti in questa cultura. E anche il writing è parecchio diffuso, su una parte delle fogne che escono a cielo aperto vengono a disegnare writer di livello nazionale. Quindi posso dire che è parecchio sentita questa cosa. Come gruppi ci siamo noi [i Freak Family] e almeno altri due e per una città come Pesaro avere tre gruppi attivi, con già qualche anno e dei cd alle spalle non è da poco.
Questa cultura nasce dalla strada, dai ghetti metropolitani, come la vivete qui nella periferia diffusa del “ghetto sub-appenninico”?
Marco: Qui è più difficile. Qui ci devi avere più passione. Una grande città è piena di eventi, basta dare un’occhiata in giro e trovi dove andare, trovi l’artista internazionale che ti fa il concerto. Nella provincia ci devi mettere più sbattimento perché non hai tutto sotto casa. Devi avere più “fame” se vuoi andare avanti. Ma è proprio quella “fame” della provincia che ti spinge di più.
Lyrical Mass, murales. Squola spa, Pergola
Come scrivete i vostri pezzi?
Marco: Noi in genere partiamo da un mood. Se trovi una base che ti piace, senti l’andamento che ha e vedi che pezzo ci puoi fare. Per quanto mi riguarda, quando scrivo lo faccio perché è una cosa mia, per dire quello che ho dentro, non penso alla persona che ascolterà. Se poi avviene l’incontro tra quello che esprimo e quello che anche gli altri sentono come cosa propria allora è fatta, ma io scrivo perché mi piace e mi va di farlo. L’attitudine nostra è questa: non facciamo pezzi perché poi ci possono portare in discoteca o queste robe qua…
Simone: A me a volte capita anche di scrivere senza avere fin dall’inizio un’idea troppo chiara di quello di cui sto parlando, solo andando avanti mi si forma una visione d’insieme e allora riesco a capire da dove mi sono venute certe cose. È una specie di flusso di coscienza, tipo lo stream of consciousness di Joyce. Ci può essere all’inizio una sola frase e a partire da lì esce fuori tutto.
Federico: Io non scrivo testi. Nell’hip hop oltre a chi scrive testi c’è anche chi fa le basi, chi fa la campionatura. Io e Matthijs siamo due chitarristi (anzi lui non è solo chitarrista è un polistrumentista, ha fatto pure il Conservatorio), quando troviamo un buon giro di accordi lo campioniamo, lo registriamo e da lì creiamo qualcosa. Inoltre ho tirato fuori parecchi campioni presi da vecchi cd, da cose che mi piaceva ascoltare, anche da musiche dei Police, per dire. Bastano solo un paio di secondi, che puoi trasformare in un loop continuo aggiungendoci qualcosa. Puoi “rubare” ovunque!
Marco: La cosa bella è che in qualsiasi altro genere musicale se si sente un giro di accordi che assomiglia a un’altra canzone, subito tutti a dire: “gliel’hai rubata”! Invece nell’hip hop rubi dove ti pare!
Lyrical Mass, murales. Squola spa, Pergola
E per quanto riguarda i contenuti? Il rap è antifascista e antirazzista per definizione?
Marco: Certo. L’hip hop è nato così. È nato come una cosa che deve unire. C’è anche qualcuno che fa rap razzista, ma sta relegato in un angolino.
Simone: Il presupposto da cui si parte è quello dell’espressione libera. Il rapporto è tra te e il foglio e puoi scrivere di tutto, ma è anche vero che la cultura che muove le basi è una cultura di unione e di aggregazione, non una cultura razzista, di esclusione.
Sul maschilismo e il sessismo (penso a certi video e a certi contenuti di rapper nordamericani), come la pensate?
Federico: Quello è un altro mondo. Nel nostro ambiente queste cose non hanno proprio senso.
Ready to Spit – Freestye battle 2.0
Che musica ascoltate di solito e quali altri artisti italiani e internazionali vi sono di ispirazione?
Edoardo: Posso dire che non siamo i tipi che ascoltano solo rap, io tuttora ascolto anche metal. Noi siamo partiti con un gruppo in cui suonavamo rock, sul palco più o meno siamo sempre stati insieme e abbiamo ascoltato insieme tanta musica di diversi generi. A partire anche dai gruppi più classici come Doors o Black Sabbath, siamo poi andati avanti con tanto rock, fino a che a un certo punto è arrivato l’hip hop, con Neffa e altri artisti.
Gruppi della prima scena hip hop italiana, come Onda Rossa Posse, Lou X, Isola Posse All Stars e tanti altri che spesso nascevano in centri sociali come questo di Pergola dove voi in qualche modo siete arrivati dopo (anche per un fatto banalmente anagrafico), sono ancora dei riferimenti per il vostro mondo?
Edoardo: Sì, certo, quella è la base.
Simone: Se non conosci quello sei proprio denigrato anche dal resto del nostro giro, certi riferimenti li devi conoscere.
Marco: Secondo me fino a qualche anno fa quando partivi ad ascoltare hip hop magari iniziavi dai Sangue Misto dei primi anni Novanta, adesso con tutta la roba che c’è in giro chi si affaccia a questa musica è difficile che parta proprio dalle origini.
Simone: Però puoi fare il viaggio a ritroso. Io per esempio sono partito ascoltando Fabri Fibra nel 2006 e quello che c’era stato prima di lui l’ho scoperto in un secondo momento. Fino ad arrivare a Batti il tuo tempo. Oggi in fondo non è difficile farsi una cultura in questo ambiente, anche solo girando su youtube, non è più come prima quando la gente doveva andarsi a cercare i dischi nelle fiere o nei negozietti. Altra cosa che ho fatto all’inizio è stato ascoltare e tradurre i pezzi rap americani, mi è servito molto per capire le pause e gli schemi metrici.
Ready to Spit – Freestyle battle. Foto di Laura Rapone
Vi piacerebbe essere scritturati da una major, avere successo e vendere tanti dischi?
Federico: Sì. Io ti parlo spontaneamente. Come tanti altri qui dentro, siamo cresciuti da bambini senza soldi e con tanti sogni, penso che chiunque abbia il desiderio di svoltare e di diventare qualcuno un giorno. Vorrebbe dire che quello che fai, che quello che ti piace fare, ti riesce bene e viene apprezzato.
Per avere successo partecipereste anche alle selezioni di programmi televisivi come The Voice o X Factor?
Federico: No. Zero. Ci devi mettere il sangue, poi se diventi famoso è solo perché te lo sei guadagnato un pezzo alla volta.
Simone: Per noi conta il successo che hai strappato con le tue forze, il fatto di essere sempre in contatto con altri rapper, di andare ai live, alle battles: il riconoscimento più prezioso te lo danno le altre persone che fanno le stesse cose che fai tu. Quando uno che spacca ti fa i complimenti, quelli sì che valgono qualcosa, non quelli di Álvaro Soler a X Factor!
Ready to Spit – Freestyle battle. Foto di Laura Rapone
L’obiettivo del vostro fare musica è solo per una soddisfazione individuale, per il successo personale, oppure sperate che la vostra musica possa contribuire a una trasformazione collettiva?
Federico: Penso che oggi il rap si sia un pochino allontanato da un contesto puramente politicizzato, forse perché è proprio la mia generazione ad essere distaccata dalla politica, o almeno da certa politica. Se ne parla di meno nei termini in cui ne potevano parlare i gruppi degli anni Novanta e, se questa è la situazione, il rap in fondo racconta quello che viviamo. Ma è anche vero che raccontare la vita quotidiana, raccontare le storie che viviamo è fare naturalmente “politica”. E poi anche solo il fatto che noi frequentiamo e ci sentiamo a casa in un posto come questo [lo spazio Squola], che non è solo un palco su cui rappare ma in cui entra in gioco tutta un’altra serie di discorsi, è indicativo di come la vediamo. Questo è un contesto che da subito ci ha saputo ascoltare, come noi abbiamo da subito condiviso il concetto di base, che è l’autogestione.
Marco: Il rap di adesso, come genere, è forse meno impegnato socialmente. Ma con l’attitudine che abbiamo tutti noi, sicuramente non andiamo sul foglio a scrivere cazzate. Nessuno di noi usa contenuti stupidi: questo è certo.
Edoardo: Anche il fatto di aver qualcosa da dire e di poterlo dire senza freni, senza nessuno che ti impone niente, è una forma di libertà che possiamo anche considerare, tra virgolette, una forma di ribellione a tutto quello che invece ci viene imposto fuori.
Ready to Spit – Freestyle battle. Foto di Laura Rapone
[Arriva Luca Coccione, special guest della serata]
Luca, puoi raccontare come e quando hai cominciato a fare rap?
Luca: Il primo gruppo che ho avuto, nel 2009, è stata la Cantiano Bastard Sound. Eravamo proprio dei bastardi di Cantiano, non ci calcolava nessuno, ma eravamo quello che ancora non c’era. Gli altri due erano dei chitarristi metal, mentre io sono partito subito col rap. Anzi, a dire la verità, la prima cosa che ho fatto è stata con la banda del paese: mancavano degli strumenti e allora io ho preso il clarinetto di quando babbo era piccolo e mi ci sono messo, la metà delle note le steccavo ma è stata anche quella un’esperienza, perché la musica mi ha sempre preso bene.
Con la Cantiano Bastard Sound si era creata una bella situazione, abbiamo fatto il primo disco nel 2011, abbiamo cantato in giro dappertutto e venduto un migliaio di copie. Io conoscevo un discografico da cui prendevo delle cover band per degli eventi che organizzavo con un’associazione benefica e un giorno, un po’ per scherzo, gli ho chiesto se poteva far girare un po’ anche noi. Mamma mia! Da lì ci siamo fatti almeno un’ottantina di serate, alcune, le più grosse, organizzate proprio da questo tipo, siamo andati anche alla notte rosa di Porto Recanati. Dopo però la devi portare avanti ed è difficile ragionare con tre teste su un progetto comune. Alla fine gli altri due ragazzi hanno preso altre strade, ora uno fa il tatuatore a Barcellona, l’altro non so che fine abbia fatto.
Quindi come gruppo abbiamo smesso. Dopo tre anni io ho rifatto un disco da solo e per fortuna ho incontrato loro [gli altri rapper presenti]. In una realtà piccola, dove siamo in pochi, è importante spalleggiarsi un po’. Diversi ragazzi più giovani, che hanno incominciato dopo di me, avranno visto la faccia mia sul palco e si saranno detti: “io che ho meno di lui?”. E hanno ragione! Perché fanno davvero delle robe bellissime e conta molto anche il modo in cui le sanno fanno. Perché l’importante è il modo in cui uno la storia sua te la viene a raccontare: se il narratore non ha l’impatto giusto non lo stai ad ascoltare nemmeno due minuti.
Coccione
Quali modelli di riferimento avevi quando hai iniziato?
Luca: Io non avevo proprio niente. A Cantiano non avevo neanche internet, l’America non sapevo nemmeno che era, a parte Eminem o i pezzi che ti dava Mtv. Di rap italiano ascoltavo quello che passava, principalmente gli Articolo 31. Poi quando sono andato a scuola a Gubbio mi s’è aperto qualche spiraglio perché lì arrivava l’influenza da Perugia, che musicalmente era un po’ più avanti. Quello che mi spingeva era la voglia di dire la mia, sapere che su quel palco ci potevo anche stare e mettermi in gioco per primo con me stesso.
Con la mia tigna a un certo punto mi sono presentato da Mezzolani di Cagli, in arte Mesh, lui è stato il pioniere dell’hip hop in questa zona. Ai suoi tempi girava con Fibra; Fibra gli ha insegnato a far le rime e lui gli ha insegnato a fare i murales. Erano due ragazzetti di quindici anni, dopo Fibra ha preso la sua strada. Mezzolani andava a registrare a Urbino da Michele Angelini, in arte Lamadama, che aveva lavorato con gli Articolo 31 a Milano. Una sera l’ho incontrato e gli ho proposto se cantava i miei testi, perché io scrivevo ma ancora non cantavo. Lui giustamente mi ha detto: “no, te li devi cantare te”. Da lì è cominciata…
Andresti alle selezioni di X Factor?
Luca: Guarda, stavo proprio in questi giorni riragionando su questa cosa, perché la segretaria dell’ufficio mio è più volte che mi dice che mi vuole iscrivere. Cioè, fino a qualche anno fa il rap lo tenevi solo col rap, adesso invece il rap, sdoganato da tutti questi programmi, lo vedi anche fatto dal ragazzino alla sagra della polenta. Per me è giusto mantenere il rap nel contesto suo, non lo puoi far ascoltare a duecento persone che stanno facendo cena e manco gliene frega niente! Non mi convince il successo ottenuto passando per un programma come X Factor, ma sto cercando di capire le ragioni di chi ci va, di gente che magari ha anni di esperienza e pensa di usare quel canale per farsi ascoltare da migliaia di persone.
Marco: Però se vai lì sei costretto a rendere il tuo rap più elementare, oltre che probabilmente a piegarti a certe esigenze commerciali che non sono tue. Se quelle migliaia di persone sono quelle che di solito ascoltano Álvaro Soler e tutte queste stronzate, è un pubblico che non ha un orecchio che ti può ascoltare e capire. Io, per dire, mi impegnerei molto di più a rappare qui che sul palco di X Factor, perché so che qui ad ascoltare ci stanno almeno venti persone che il rap lo fanno, lo scrivono, sarei più spronato a dare il massimo. Il rap è fatto di gavetta, se non l’hai fatta, se non hai un background solido ti si sgama subito, vedi Moreno, quello di Amici, è piaciuto alle ragazzine ma l’anno dopo ne arriva un altro e lui chi se lo ricorda più?!
Edoardo: E poi, quando io sono qui, la gente se vuole mi viene a sentire, se vado a X Factor sono io che mi propino alle persone e la cosa è ben diversa.
Quali progetti avete per il futuro? All’inizio avete accennato a un Marche Nord mixtape: esiste quindi una scena Marche Nord con una sua identità, un’originalità, qualcosa che vi accomuna e vi distingue da altre scene hip hop?
Matthijs: Una scena Marche Nord esiste e per certi versi è anche forte. Il progetto non è però semplice perché si tratta di mettere insieme e coordinare tante persone, beatmaker, mc e rapper della zona in un lavoro collettivo e orizzontale.
Federico: La potenzialità sicuramente c’è. Quando abbiamo creato Ready to Spit la nostra idea era proprio quella. Abbiamo detto: cazzo c’è anche una scena Marche Nord, che può dire qualcosa di diverso nella forma, nei contenuti, nell’appartenenza. Non è facile, ma dobbiamo stimolarla e costruirla insieme questa realtà.
Eccoci arrivati al n. 6 di Malamente, dopo un percorso di quasi due anni, con un paio di novità importanti. La prima riguarda il fatto che ci siamo “messi in regola” di fronte alla legge. Siamo entrati e usciti da quel postaccio che è il tribunale, abbiamo consegnato a un grigio funzionario qualche carta firmata e così da questo numero la rivista è ufficialmente registrata. Tanto dovevamo per non incorrere nel reato di “stampa clandestina” con tutti i guai che avrebbe comportato (eventuali denunce, multe, sequestri), perché così prevede la legge sulla stampa del 1948, ancora in vigore. La repubblica democratica non ha infatti cambiato la sostanza di molte leggi fasciste, comprese quelle sulla stampa che risalgono allo Statuto albertino del 1848, dove con sfacciata perentorietà un principio veniva affermato e negato nel giro di due battute: “la stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi”. Pubblicare un giornale, da allora, non è più un privilegio concesso dal sovrano, quello che il potere concede è la libertà di espressione, salvo poi reprimere quanti a suo dire ne abusano. Sempre del 1848 è la prima legge speciale sulla stampa, che introduce la figura del “gerente responsabile”, chiamato a rispondere di tutte le incriminazioni che avessero colpito il giornale. Oggi quel “gerente” è chiamato “direttore” e deve essere iscritto all’ordine dei giornalisti. Pur senza voler generalizzare possiamo dire di non provare particolare simpatia per questa categoria, ma abbiamo incontrato la disponibilità di un compagno, giornalista per caso, e lo ringraziamo per essersi assunto l’onere di registrarsi come “direttore” di Malamente.
La seconda novità è che siamo sempre più social. Malamente è una rivista di carta. L’avete sfogliata, letta e riletta, presa in prestito, regalata. Ce ne avete ordinate tante copie, magari l’avete trovata in qualche posto che frequentate. Il percorso che trasforma ogni numero dall’idea a qualcosa che si può tenere tra le mani è complesso e prezioso. Non potremmo desiderare niente di diverso: articoli, letture, approfondimenti vengono condivisi, discussi, elaborati e soprattutto vissuti, fino a trovare la loro forma di espressione sulla carta. Un materiale concreto e non volatile come vuole essere lo spazio di critica e di intervento della nostra rivista. Al tempo stesso però Malamente vuole essere più di un oggetto, da scaffale o da strada che sia. Vuole essere un luogo di incontro, condivisione e confronto; un terreno dove l’informazione può diventare azione e viceversa. Ma soprattutto uno spazio che superi i limiti della geografia per innescare nuove connessioni e complicità. Per questo, dopo un lungo confronto e – non nascondiamo – un po’ a malincuore, abbiamo scelto di dotarci di uno strumento in più. Un territorio immateriale, appunto, che con tutti i suoi limiti ci può dare la possibilità di entrare in contatto con i lettori in uno spazio virtuale che serva per organizzare incontri reali, per rilanciare più in là le storie delle lotte che raccontiamo e alle quali partecipiamo. Da qualche mese potete quindi leggerci anche su Facebook. Qui, nei mesi che separano l’uscita di un numero dall’altro, cerchiamo di mantenere acceso e vivace il dibattito intorno agli argomenti che ci stanno a cuore. Se da un lato il canale Twitter ci aiuta nella condivisione e nella copertura di notizie nel contingente, abbiamo immaginato la pagina Facebook come un luogo dove riflessioni e approfondimenti possano continuare a crescere e trovare nuovi stimoli aggregativi da trasportare poi dentro la rivista e soprattutto fuori. Immaginiamo la nostra pagina non come un punto d’approdo dove esaurire la potenza del dibattito che Malamente può offrire, ma come un luogo di passaggio dove ritrovarci in attesa del prossimo numero.
Mister Thoms – Like a vision, Ferentino (FR)
In questo numero partiamo dai territori colpiti dal terremoto. La storia è nota, anche a tanti nostri lettori e lettrici, ed è stato già detto molto. È tempo piuttosto di agire. Siamo tornati a leggere Giacomo Leopardi, più sovversivo di quanto le gabbie della critica vogliano far credere, per ricordarci che non è da poco che le cosiddette catastrofi scuotono prima ancora che gli edifici, le fondamenta della vita sociale. La storia che raccontiamo è iniziata a Bolognola, un piccolo paese dei Monti Sibillini e vorremmo che non si fermasse lì. Sempre muovendoci sulla schiena montuosa della nostra regione torniamo a Pergola dove si sono riuniti giovani artisti della scena hip hop locale, ascoltandoli capiamo che i provinciali hanno “tigna”, cioè tenacia da vendere e nessuna inferiorità rispetto ai cugini di città, anzi possono sorprendere con inediti freestyle. Centrale in questo numero è poi la riflessione sui diritti delle donne, sulle loro lotte e su quanto le istituzioni mediche siano il riflesso dei rapporti di forza tra i sessi e dentro la società. Alleghiamo alla rivista una pratica guida all’interruzione volontaria della gravidanza perché sentiamo che c’è nuovamente bisogno di fare anche informazione di base su questo diritto. Una veloce intervista presenta la realtà bolognese dello Spaccio popolare autogestito e poi il nostro chiodo fisso per le pagine rimosse della storia sociale ci porta sul terreno della diserzione e dell’antimilitarismo nel cruciale anno 1917 in provincia di Pesaro. Il rifiuto della servitù militare è una virtù da coltivare proprio oggi che troppi sedicenti compagni tifano per i bombardamenti russi su Aleppo o non comprendono il peso che l’apparato militare e industriale ha nelle scelte politiche del governo italiano. Infine una preziosa traduzione di un testo di Bertrand Louart sulla falegnameria ci propone di riflettere su quanto il lavoro manuale e creativo, con la libertà che ne è alla base, sia fondamentale per la società umana. Completa questo numero una recensione che speriamo piacerà ai nostri amici che abitano sulle Alpi occidentali, ma che può ispirare tante altre periferie geografiche e sociali. Si tratta della riedizione per i tipi delle edizioni Tabor di una storia delle rivolte occitane, eresie potenti che ancora risuonano nella pancia dell’Europa tecnocratica di oggi.
Sul prossimo numero di Malamente (#6 – feb. 2017) troverete una lunga intervista realizzata nelle zone colpite dal terremoto con la sindaca di Bolognola e altri testimoni. La pubblichiamo qui in anteprima.
di Vittorio
Bolognola, allevamento danneggiato dal sisma
Nel precedente numero di Malamente avevamo promesso di tornare a parlare del terremoto in centro Italia. Raccontiamo una storia che si svolge nel piccolo paese appenninico di Bolognola, in provincia di Macerata. Nel giro di qualche giorno, verso la fine di novembre 2016, diverse voci e notizie ci hanno convinto che fosse interessante visitare questo piccolissimo paese di circa 140 residenti a 1.070 metri di quota sugli Appennini marchigiani, all’interno del perimetro del Parco nazionale dei Monti Sibillini. Sulla stampa locale erano iniziate a circolare notizie sul fatto che questo piccolo comune avesse sfidato il consenso politico pressoché unanime sulle modalità di gestione dell’emergenza post-terremoto e allo stesso tempo delle voci da questo borgo erano apparse sulle reti sociali, su internet e sul blog di Wu Ming. Poi grazie a un amico che lavora come accompagnatore di media montagna nelle Marche abbiamo avuto la certezza che valesse la pena farci raccontare questa storia. Continue reading →