«Che effetto ti fa la vita che facciamo?» E lei con estrema semplicità: «L’effetto di vedere una sponda cui bisogna pervenire a tutti i costi».
Dialogo tra un federato e Louise Michel
La teppa all’assalto del cielo
LA TEPPA ALL’ASSALTO DEL CIELO: I 72 GIORNI DELLA COMUNE DI PARIGI, 18 MARZO-28 MAGGIO 1871: SULLA RIVOLUZIONE PROLETARIA IERI E OGGI. Nuova ed. aggiornata a cura di Emiliano Cazorzi, Salvatore Corasaniti, Giorgio Ferrari, Roma, [S.n.], 2017.
Il potere si nutre del dissenso che riesce a recuperare, quello con cui può dialogare, scendere a patti, coinvolgere, se necessario, nella gestione di aspetti marginali della cosa pubblica, ma quando la critica oltrepassa il segno, quando la protesta diventa collera e le pacifiche sfilate in strada sono impedite da barricate e colonne di fumo, allora non c’è che una risposta da parte di chi detiene il potere: il pugno di ferro. Come dice il saggio Pier Ferdinando Casini: “in una società libera e democratica gli indignati si ascoltano, i delinquenti si mettono in galera”.
La repressione però, anche spietata, non basta all’opera di pacificazione sociale se non si accompagna a un’abile propaganda tesa a demonizzare il nemico interno per ricompattare la “società civile”. Allora il nemico pubblico diventa “teppa”, “canaglia” dedita a una violenza insensata, fatta di delinquenti se non di terroristi, additati all’odio sia dei più beceri conservatori sia di quella meravigliosa moltitudine di gente per bene, progressista e democratica, che chiede cambiamenti, chiede un mondo migliore, chiede, chiede, chiede senza mai stancarsi di aspettare.
Di quella teppa e del suo assalto al cielo parlava un libro uscito nel 1978 che con un’impostazione molto originale, e ricchissimo di illustrazioni, metteva a confronto il presente politico del Settantasette con l’archetipo della sollevazione proletaria, ovvero la Comune di Parigi del 1871. E lo faceva non solo raccontando la cronaca dei 72 giorni di gloria del proletariato parigino, ma anche mettendosi per un attimo dall’altra parte della barricata, facendo cioè parlare i giornali borghesi e democratici, dimostrando come a cento anni di distanza il linguaggio della loro comunicazione si fosse evoluto per poter continuare a dire sostanzialmente le stesse cose.
Oggi quel libro è stato ristampato in una nuova edizione autoprodotta attraverso iniziative collettive di finanziamento. Non si tratta di una ristampa, sebbene abbia mantenuto l’impostazione e il progetto grafico originali, ma di un’edizione aggiornata a cura di Emiliano Cazorzi, Salvatore Corasaniti e Giorgio Ferrari, che alle tappe del 1871 e del 1977 hanno aggiunto quella del 2010-2011. Il riferimento è alle giornate di guerriglia che hanno scosso la tranquillità delle strade romane il 14 dicembre 2010 e il 15 ottobre 2011, descritte attraverso i travasi di bile, a tratti godibilissimi nella loro intransigente retorica, della stampa mainstream.
Alla “congrega dei socialisti” del 1871, e ai “gruppuscoli estremisti” del 1977, si affiancano così i “black bloc” del 2010- 2011. Il parallelo storico tra epoche, contesti e sollevazioni così differenti può sembrare irriverente, e forse almeno un po’ lo è davvero ma, senza forzature, l’opera riesce nella perfetta messa a fuoco di quel vizio, vecchio come l’essere umano, di infangare e delegittimare gli antagonisti e le antagoniste. Teppa, infatti, non sono solo uomini, ma anche donne che l’opinione pubblica non si aspetterebbe di trovare in strada. Come ben raccontano queste parole: “Un corrispondente del «Times», parlando delle donne della Comune, commenta: «Se tutta la Francia fosse composta di queste donne, che terribile nazione sarebbe». Le troviamo dappertutto: a scuola, negli ospedali, nei circoli politici, sulle barricate. Vivere libere col fucile, o morire combattendo, è il loro motto.”
Per quelle donne, come per queste di oggi che “«non ci si aspettava» di vedere in piazza a lanciare i sampietrini”, non c’è posto nelle “storie della buonanotte” che dovrebbero ispirare le bambine “ribelli”… e forse possiamo capire il perché.
Per questo il nostro consiglio è: leggete e raccontatene, alla teppa di oggi e di domani, e sostenete l’opera, realizzata senza case editrici e crowdfunding milionari, richiedendo una copia a: rossovivo@autistici.org.
Salviniana: tre anni di contestazioni a Salvini [2014-2017]
Di Valentina
SALVINATA (Salvinata) s. f. (iron.) Trovata, uscita tipica del politico Matteo Salvini. Derivato dal nome proprio (Matteo) Salvini con l’aggiunta del suffisso -ata. «Lui [Matteo Salvini, ndr] se la ride, ha già calcolato l’effetto mediatico della visita ed è certo che anche grazie a queste “salvinate” la Lega salirà ancora di più nei sondaggi» (Pierluigi Sala, Repubblica, 8 novembre 2014, p. 10). «Salvini sta affossando il centrodestra, di certo non gli correremo dietro – hanno sottolineato Alfano e Lupi -. Le sue Salvinate, come quella di uscire dall’Europa, non producono risultati, sono fatte solo per ottenere una manciata di voti» (ilmessaggero.it, 21 febbraio 2015). [Fonte: http://www.treccani.it/vocabolario/salvinata_(Neologismi)]
Livorno. Una “salvinata”
Potrebbe essere divertente, se non fosse terribilmente vero: Salvini è diventato un sostantivo e la sua definizione è entrata a far parte dei neologismi, secondo Treccani. L’etimologia è presto spiegata: nel linguaggio giornalistico le “gesta” di Salvini hanno assunto una dimensione emblematica, in un certo senso si possono considerare qualcosa di unico nel loro genere.
Forse non possiamo ritenere la selezione di neologismi di Treccani un’istituzione nel campo linguistico, e il dubbio lo sollevano termini legati più alle trovate giornalistiche che a un reale cambiamento della lingua parlata e scritta (qualche esempio: “accalappiazingari”, “bankabbestia”, “euro-furbetto”); eppure anche se si trattasse di una strategia di marketing del sito Treccani per un pugno di click in più (unità di misura della visibilità e quindi del guadagno in rete), non sarebbe comunque divertente.
Se non linguisticamente autorevole, quello di Treccani è tuttavia un termometro di un processo in atto difficilmente reversibile: linguaggio, mezzi di comunicazione e Salvini – inteso non solo come personaggio politico, ma come figura culturale – hanno fatto cortocircuito. Per usare un altro termine che pure si può trovare tra le pagine del dizionario, la “salvinizzazione” è compiuta.
Per capire che non si tratta solo di un gioco linguistico, sebbene venga presentato come tale anche grazie alla nota “ironico” presente nella definizione, ha senso partire proprio da questo fenomeno. Le “salvinate” non esistevano prima di Salvini e a renderle tali ci hanno pensato soprattutto i media, stampa, radio, televisione e definitivamente il web, in un tempo piuttosto breve. Forse il termine fa solo qualche comparsa sulle testate giornalistiche più inclini al sensazionalismo della notizia, ma è evidente a tutti che, dalla sua nomina a segretario della Lega (dicembre 2013) a oggi, il volume della sua voce è stato amplificato e i media mainstream si sono prestati a diventare il suo megafono principale. Andando a memoria e scusandoci per la fonte, c’è un passaggio interessante in un’intervista televisiva del 2014 [cfr. Le Invasioni Barbariche, 24/01/2014] in cui a un acerbo e ancora impacciato neo-segretario viene chiesto come mai, in un momento di rinnovamento del partito, il linguaggio della Lega rimanesse fedele a un registro becero e aggressivo o, come preferisce definirlo Salvini, “ruspante”.
La risposta è abbastanza banale ma in qualche modo premonitrice: «In Italia se non alzi la voce nessuno ti ascolta, anche se hai ragione». Ci verrebbe da aggiungere: anche se non hai ragione.
E questo è proprio ciò che è accaduto: negli ultimi tre anni Salvini ha alzato la voce e nei luoghi in cui ha parlato e parla nessuno si è realmente preoccupato di abbassare o togliere il volume. Così non solo i suoi contenuti, le sue “salvinate”, sono diventati una possibilità tra le varie scelte politiche, ma Salvini stesso è stato consacrato come interlocutore privilegiato del circo mediatico, qualcuno insomma adatto a presidiare tutte le reti televisive e a presenziare in una marea di trasmissioni senza contraddittorio e senza risultare se non inaccettabile, almeno fuori luogo.
Rimini, 9 aprile 2016, la piazza divisa.
«Vorrei che i conigli dei centri sociali fossero scesi in piazza contro la camorra ma forse hanno paura perché qualche mamma o papà con la camorra ci campa.»
[La Stampa, dichiarazione di Salvini sui fatti di Napoli, 11/03/2017]
«Questi di Bologna sono zecche per i quali ci vuole l’insetticida, come per i topi ci vuole il topicida. Bisogna liberare piazza Verdi a suon di manganellate. Io piazza Verdi la ripulirei con gli idranti. Va ripulita con gli idranti, serve acqua. È già presidiata, ma non basta, serve di più.»
[Ansa, dichiarazione di Salvini sui fatti di Bologna, 15/02/2017]
«Palme e banani in piazza Duomo? Follia. Mancano sabbia e cammelli, e i clandestini si sentiranno a casa. #motosega #starbucksgohome.»
[Pagina Facebook, Salvini sull’installazione di palme in piazza Duomo a Milano, 15/02/2017]
«Continue scosse di #terremoto in Centro Italia, neve e gelo. Altro che “migranti”, che il governo aiuti subito questi italiani!»
[Twitter, Salvini su terremoto in centro Italia, 18/01/2017]
Sono solo alcune delle dichiarazioni che quotidianamente Salvini rilascia a mezzo social o stampa e che alimentano il dibattito politico e culturale senza filtri. Ma non si tratta di eccezioni: la caratteristica comunicativa e di contenuto del “leader della ruspa” è un linguaggio provocatorio, xenofobo e razzista senza mezzi termini. Questa modalità truce non solo viene tollerata, ma accettata e normalizzata, diventando una vera e propria opzione politica ammissibile.
Eppure c’è qualcuno che il volume ha cercato di abbassarlo e ha provato a staccare la spina all’amplificatore a senso unico che trasmette il continuo e fastidioso rumore leghista, portando in piazza contenuti diversi, contestazioni e una sana voglia di mandare a casa l’unica persona non gradita nelle città: Salvini.
Si tratta della campagna nazionale “Mai con Salvini”, che tuttora rimbalza da una piazza all’altra e che negli ultimi tre anni ha prodotto presidi e manifestazioni di migliaia di persone, da nord a sud, ovunque il padano si presentasse con i suoi discorsi fatti di “siamo italiani e dobbiamo unirci contro i clandestini che stanno impoverendo l’Italia”.
Anche il territorio tra Marche e Romagna è stato attraversato dal becero ruspista a caccia di voti, ma in ogni città in cui ha messo piede ha sempre trovato un degno comitato di non-accoglienza: Ancona, Macerata, Senigallia, Pesaro, Porto Recanati, Jesi hanno risposto alle vuote parole d’ordine di Salvini e della Lega con contestazioni diffuse e dalle forme variegate. Allo stesso modo il leitmotiv “Mai con Salvini” ha movimentato le piazze di Bologna e Rimini, passando per Ravenna, Forlì e altre cittadine romagnole dove i leghisti hanno provato ad affacciarsi.
E proprio della giornata di Rimini vorremmo raccontare qualcosa di più, perché nel momento in cui scriviamo mancano pochi giorni all’inizio dell’udienza per i due arresti avvenuti il 9 aprile 2016, quando la Rimini antirazzista è scesa in piazza per opporsi all’ennesimo comizio elettorale.
La dinamica dei fatti ricalca un copione visto tante volte: da un lato una piazza fortemente militarizzata a difesa di Salvini e della sua claque – talmente tanto da risultare più la celere schierata degli stessi leghisti e simpatizzanti –; dall’altro numerose persone di tutte le età decise a respingere chi, per qualche misero voto, fomenta quotidianamente una guerra tra poveri tifando per un’italianità tanto ipocrita quanto opportunista, contro la presunta invasione migrante responsabile di tutte le nostre infelicità e miserie.
Nel corso della giornata si sono svolte diverse iniziative di contestazione, con una partecipazione spontanea ed eterogenea. Tra queste, un presidio pubblico indetto da realtà e associazioni cittadine proprio nella piazza in cui si sarebbe svolto il comizio.
Così, mentre alcuni manifestanti si trovavano già sul posto, altri che tentavano di raggiungere la piazza per srotolare uno striscione sono stati attaccati a freddo con violente cariche e manganellate. In quel momento due ragazzi sono stati pestati, tratti in arresto e sottoposti a diverse violenze psicologiche, compreso il fatto di essere portati in questura senza la possibilità di contattare i propri legali e ricevendo in ritardo le necessarie cure mediche. Una situazione surreale in cui solo molte ore dopo, grazie anche alla determinazione di un presidio solidale sotto la questura, i due attivisti sono stati condotti agli arresti domiciliari, in attesa del primo processo avvenuto per direttissima il successivo 11 aprile, che ha trasformato i domiciliari in obbligo di firma settimanale. I capi di imputazione addossati ai due, da parte di un ufficio politico in cerca di capri espiatori, sono stati resistenza e aggressione a pubblico ufficiale. A oggi, un anno dopo i fatti, le misure cautelari sono ancora in vigore in attesa del processo.
Poche le parole spese in solidarietà: le testate locali, così come lo schieramento partitico istituzionale, si sono affrettate a prendere una posizione equidistante da fascisti e antifascisti, quando non di condanna, secondo l’orwelliana rappresentazione del “fascismo degli antifascisti” e di coloro che non accettano che i proclami fascioleghisti riempiano una piazza, oltretutto dedicata a tre giovani partigiani giustiziati dai nazisti proprio in quel luogo.
Questo è il contesto riminese, una città dove sempre di più i fascisti godono di agibilità politica e legittimità, in nome di un’ipocrita libertà di espressione in difesa dell’ordine democratico. Una città dove questo episodio è solo un tassello di un’operazione repressiva volta a criminalizzare le esperienze di socialità e solidarietà autorganizzate e dal basso, costruite giorno dopo giorno negli spazi sociali, nelle palestre popolari, nelle curve degli stadi. Sempre a Rimini, infatti, due compagni accoltellati dai fascisti nel 2014 si ritrovano coinvolti, insieme ad altr* compagn*, amici e solidali, in un castello giudiziario decisamente kafkiano, fatto di processi, arresti domiciliari e altre misure preventive, mentre i fascisti e leghisti continuano indisturbati a seminare intolleranza, razzismo e xenofobia.
Ma pur nella sua specificità, Rimini trova una comunanza con tutte le altre città dove la visita di Salvini non è stata gradita. E proprio per ridare spessore a un percorso che non trova megafoni e amplificatori nei contesti dell’informazione di massa, vogliamo ripercorrere la cronologia della campagna “Mai con Salvini” e delle varie contestazioni che hanno toccato tutta l’Italia negli ultimi tre anni, insieme a qualche momento salviniano necessario alla ricostruzione.
Rimini, 9 aprile 2016, il commento di Salvini ai fatti del giorno.
Cronologia
7/12/2013. Salvini eletto segretario federale della Lega Nord, vince contro Umberto Bossi con l’82% delle preferenze.
25/4/2014 – REGGIO EMILIA. 25 aprile, convegno anti-euro presso un hotel. Contestazione con alcuni momenti di tensione. Provvedimenti cautelari per 15 persone incensurate: 2 arresti domiciliari e 13 obblighi di firma giornalieri.
5/5/2014 – LAMEZIA TERME. Contestazione a Salvini, ospite per il tour elettorale al sud dei fascisti del Movimento Territorio e Lavoro, alleati con la Lega Nord alle elezioni europee.
6/5/2014 – NAPOLI. Insulti e proteste contro Salvini che rinuncia al suo intervento in piazza Carlo III. « Sei tu la vera carogna». Salta il Lega tour: «Ma tornerò».
8/11/2014 – BOLOGNA. Visita al campo nomadi di via Erbosa. Durante la contestazione, l’autista accelera per scappare e investe due manifestanti. Il lunotto dell’auto privata di Salvini ha la peggio. Un anno dopo 20 persone indagate per violenza aggravata, lesioni e danneggiamento.
10/11/02014 – IMOLA. Visita a un centro dove sono ospitati profughi del Bangladesh. Salvini intona provocatoriamente “Bella ciao” dietro lo striscione “Stop invasione”. Un gruppo di manifestanti blocca gli accessi alla struttura, Salvini scortato riesce a entrare dal retro.
11/11/2014 – PARMA. Comparsata di pochi minuti, protetto da un grande dispositivo poliziesco. Gran parte della piazza presidiata dagli antirazzisti, raccolti dietro lo striscione “Fuori i razzisti da Parma”.
16/11/2014 – REGGIO EMILIA. Giornata di contestazioni in diversi luoghi e forme: a Montecchio Emilia, a Reggio davanti alle ex Officine Reggiane e a Scandiano.
21/11/2014 – MODENA. Comizio in piazza e contropresidio antifascista.
19/12/2014. Nasce “Noi con Salvini”, lista leghista per il Centro e Sud Italia.
20/12/2014 – TORINO. Presidio leghista in quartiere Lingotto, a pochi metri dalle palazzine ex- Moi occupate dai rifugiati da aprile 2013. Contropresidio antirazzista di migranti e solidali in una piazza blindata da decine di camionette e celerini.
5/2/2015 – L’ AQUILA. Contestazione per la visita sui luoghi del terremoto: «Qui non ti vogliamo tornatene con Borghezio». Ad attendere Salvini anche militanti di Noi con Salvini e CasaPound.
8/2/2015 – PALERMO. Salvini sceglie Palermo per presentare la lista Noi con Salvini: «Chiedo scusa ai meridionali se li ho offesi». Contestato: «Lega ladrona Palermo non perdona. Orgoglio terrone».
27/2/2015 – ROMA. A meno di 24 ore dalla manifestazione della Lega, mobilitazione dei movimenti per il diritto all’abitare, a piazzale Flaminio. Forte contestazione e cariche, nessun fermo. Il 5 novembre 2015 vengono notificati 3 obblighi di firma due volte al giorno e decine di denunce con multe per corteo non autorizzato e blocco del traffico. Durante la mattinata occupazione simbolica anche di alcune chiese a Piazza del Popolo, sgomberate.
28/2/2015 – ROMA. Mobilitazione nazionale della campagna “Mai con Salvini”, grande corteo in risposta al comizio in Piazza del Popolo che mette insieme Lega Nord, CasaPound, Fratelli d’Italia.
7/3/2015 – GENOVA. Manifestazione per contestare il comizio di Salvini.
7/3/2015 – VENEZIA. Manifestazione organizzata da Fratelli d’Italia e Lega Nord. Salvini diserta perché a Genova, presente solo Meloni. In risposta, giornata di festa antirazzista “Venezia non si Lega”.
12/3/2015 – CAGLIARI. Rovesciato banchetto di raccolta firme Noi con Salvini, fermato e arrestato un compagno poi processato il giorno dopo per direttissima.
28/3/2015 – TORINO. Corteo cittadino per respingere i fascioleghisti. Violente cariche poco dopo la partenza quando il corteo cerca di raggiungere il luogo del comizio. 8 persone fermate e poi rilasciate in serata con una denuncia a piede libero. Un giovane studente antifascista torinese trattenuto in carcere e poi trasferito agli arresti domiciliari per alcuni mesi. A 5 mesi di distanza arrivano altri 6 arresti: 2 condotti presso il carcere delle Vallette, 4 ai domiciliari con restrizioni.
22/4/2015 – LIVORNO. Contestazione con lancio di uova e pomodori. Salvini protetto fa il dito medio ai manifestanti e si filma con l’Ipad. Successivamente in seguito a un momento di confronto con dei leghisti, 4 ragazzi vengono denunciati per lesioni aggravate e porto d’arma impropria. A questi viene notificato anche il Daspo perché, secondo la questura, noti frequentatori dello stadio.
27/4/2015 – ANCONA. Presidio antirazzista, con lancio di uova e fumogeni, impedisce il comizio di Salvini che diventa una conferenza stampa di pochi minuti. Tre cariche della polizia tentano di disperdere i manifestanti. Subito dopo il presidio si sposta nel quartiere Piano, zona con il maggior numero di migranti dove era prevista una visita di Salvini; qui la determinazione della piazza ne impedisce il passaggio.
27/4/2015 – PORTO RECANATI. Comizio davanti all’Hotel House, atteso da una numerosa delegazione antirazzista e meticcia. Il palazzone dell’hotel è famoso per essere un ghetto verticale, in cui sono confinate più di 3 mila persone (in un paese di 12 mila) di molte nazionalità differenti, in condizioni precarie. I migranti residenti e i solidali hanno impedito l’ingresso incordonandosi nel viale di accesso, al grido di “fuori i razzisti dalle città”.
27/4/2015 – MACERATA. Dopo il flop di Porto Recanati, Salvini si muove alla volta di Macerata, dove lo attende una piazza antirazzista. Poche decine di leghisti, bersagliati da uova e da slogan. Cariche violente della polizia, due i feriti, di cui uno colpito alla testa e numerosi i contusi.
1/5/2015 – LUCCA. Salvini ospite in un locale viene contestato all’esterno con un presidio.
5/5/2015 – BOLZANO. Presidio pacifico di contestazione. CasaPound fa da servizio d’ordine, provoca e aggredisce i manifestanti, causando l’intervento della polizia.
6/5/2015 – TRENTO. Presidio antirazzista e due cortei bloccano l’accesso alla piazza militarizzata a difesa di Salvini, che fa il suo comizio in una piazza vuota.
9/5/2015 – LECCE. Distrutte le vetrate del comitato elettorale “Noi con Salvini”, in vista della visita del segretario.
10/5/2015 – LECCE. Lancio di uova e forti contestazioni davanti all’hotel in cui si svolge il comizio di Salvini, entrato da un ingresso sul retro.
11/5/2015 – FOGGIA. Presidio antifascista davanti a un hotel con fumogeni, uova, pomodori, banane e lo striscione: “Salvini: odio senza confini”. Cariche e manganellate colpiscono una compagna in modo non grave. La protesta costringe Salvini a lasciare in fretta la città scortato anche da CasaPound.
12/5/2015 – GELA. Inizio del tour in Sicilia, trova più contestatori che simpatizzanti.
12/5/2015 – MARSALA. Comizio annullato grazie alla contestazione molto partecipata. In tarda serata, Salvini si reca di nascosto in un ristorante della zona. Un piccolo gruppo di contestatori lo raggiunge, ma viene allontanato dalle fdo.
13/5/2015 – VILLABATE (PA). Rovinata la passerella elettorale anche nel piccolo comune con un presidio di contestazione e lancio di uova.
14/5/2015 – SENIGALLIA. Comizio di Salvini in una piazza chiusa da blindati e agenti antisommossa. Tutti i lati assediati dai manifestanti con lancio di uova, pomodori, torce e petardi che lo interrompono ripetutamente fino a fermarlo. I manifestanti attraversano in corteo il centro storico cercando di raggiungere la piazza e vengono caricati. Alla fine prendono il palco e il corteo si scioglie al grido di: “Salvini t’hai da’ tuffa’ su i scoj!”.
15/5/2015 – PORTO SAN GIORGIO (FERMO). Il comizio dura appena cinque minuti, a contestarlo un centinaio di persone. Salvini chiama i manifestanti “fascisti”, proprio mentre sotto al suo palco si trovano una decina di soggetti di CasaPound, circondati dalla celere. Tra questi Diego Torresi, responsabile Blocco Studentesco Marche, e Amedeo Mancini: il nome non ci è nuovo, Mancini è infatti la persona che sarà accusata dell’omicidio di Emmanuel Chidi Namdi, ucciso per motivi razziali il 5 luglio 2016 a Fermo.
15/5/2015 – PERUGIA. Presidio rumoroso e partecipato interrompe il comizio e si riappropria della piazza nonostante ripetute provocazioni di leghisti e polizia. Cariche violente e a freddo. Un manifestante fermato e rilasciato e diversi feriti.
15/5/2015 – MARSCIANO. Sede della Lega Nord locale imbrattata di vernice rossa. Un corteo segue Salvini per tutta la durata della visita, contestato con urla e sputi.
16/5/2015 – VIAREGGIO. Salvini rinuncia a incontrare i suoi sostenitori al mercato centrale a causa delle contestazioni. Lascia il luogo in auto che viene presa a pugni. Raggiunge la piazza dove tiene un comizio di appena 10 minuti, disturbato da lancio di uova e slogan per poi scappare nuovamente in auto.
16/5/2015 – TORRE DEL LAGO. Annullata la tappa per timore di contestazioni.
16/5/2015 – MASSA. Cariche contro i manifestanti che tentano di sfondare i picchetti della polizia a protezione dell’area del comizio: le manganellate feriscono due persone (padre e figlio), diversi contusi.
16/5/2015 – PISA. Corteo per le vie della città. Salvini non pervenuto.
21/5/2015 – SEGRATE. Contestato con lancio di uova e vernice.
23/5/2015 – PADOVA. Presidio e corteo mentre Salvini presenta il libro “Allarmi siam leghisti”. Provocazioni poliziesche, spintoni e blocchi.
24/5/2015 – MESTRE. Manifestazione antirazzista cerca di forzare il cordone di fdo. Cariche e manganellate, alcuni feriti. Il presidio non si scioglie fino al termine del comizio.
27/5/2015 – SAN GIOVANNI LA PUNTA (CT). Annullato comizio a Milazzo, viene accolto nel paese catanese con un presidio determinato che cerca di sfondare transenne e cordone di polizia, caricato e manganellato.
28/5/2015 – SIENA. Il presidio viene fatto arretrare e allontanare dalla piazza. Nonostante ciò le fdo caricano e manganellano i manifestanti. Un giovane liceale gravemente ferito. Un fermo per resistenza, rilasciato dopo un’ora. Il presidio al termine del comizio attraversa la città in un corteo spontaneo.
26/6/2015 – SAVONA. Presidio di contestazione con alcuni momenti di tensione.
26/6/2015 – GENOVA. Corteo antifascista e antirazzista con sanzionamento a Confesercenti, caserma dei carabinieri e comando dell’esercito. Un secondo corteo raggiunge alla spicciolata il retro del palco di Salvini, tensioni e cariche. Il corteo improvvisa un contro-comizio in una vicina piazza. Pestaggio da parte dei leghisti e conseguente trasporto in ospedale per un signore che si era recato sotto il palco del leghista per contestarlo.
2/7/2015 – CATANZARO. I manifestanti vengono presi d’assalto e caricati mentre Salvini partecipa a un convegno sulla sicurezza organizzato dal Sap.
2/7/2015 – LAMEZIA TERME E ISOLA DI CAPO RIZZUTO. Contestazioni al grido di “i terroni non dimenticano”.
7/7/2015 – FILAGO (BG). Salvini invoca ruspe per sgomberare i profughi ospitati nella palestra della località, accolto da un presidio di solidali e migranti che impedisce lo svolgimento del comizio.
15/7/2015 – NAPOLI. Presidio caricato, resiste e diventa un corteo spontaneo.
05/11/2015 – PADOVA. Presidio all’ex caserma Prandina che accoglie rifugiati e profughi. Salvini rinuncia alla visita.
08/11/2015 – BOLOGNA. Diversi cortei mattutini per contestare la presenza leghista in piazza Maggiore. Migliaia di manifestanti attraversano la città, tafferugli e cariche sul ponte di via Stalingrado. In un centinaio raggiungono la piazza, lancio di oggetti e insulti.
14/11/2015 – PISA. Corteo determinato, ripetutamente caricato. Diversi feriti tra i manifestanti, un digos ferito.
26/1/2016 – TRIESTE. Diverse contestazioni: performance, striscioni, azioni di disturbo. Tre cariche a freddo, le fdo rincorrono e manganellano indistintamente manifestanti, passanti e giornalisti.
28-29/1/2016 – MILANO. Carico di letame per accogliere Salvini e Marine Le Pen. Corteo di protesta durante lo svolgimento del convegno con alcuni rappresentanti delle destre europee.
11/2/2016 – CAGLIARI. Presidio diventato corteo, in occasione dell’inaugurazione di una sede di Noi con Salvini. Cariche e lanci di lacrimogeni anche ad altezza d’uomo. Tre fermi, uno immediatamente rilasciato, gli altri due dopo alcune ore. Contestazioni anche a Olbia e Alghero.
26/2/2016 – ROMA, PRENESTINO. Assaltato un gazebo elettorale leghista in piazza Malatesta. Nel pomeriggio lancio di uova al gazebo all’Appio Claudio. Per i fatti in piazza, 4 mesi dopo effettuate perquisizioni in casa di 10 attivisti e notificati altrettanti obblighi di firma due volte al giorno.
3/3/2016 ROMA, PRENESTINO. Dopo l’assalto al banchetto, Salvini si presenta al gazebo in una piazza blindata dalle fdo. Dalla parte opposta presidio di contestazione.
5/3/2016 – ROMA, GARBATELLA. Azione di contestazione al banchetto di Noi con Salvini. Fumogeni, cori e insulti. Il banchetto chiude in anticipo.
14/03/2016 – JESI. Attivisti respingono una fiaccolata organizzata dalla neocostituita Lega Nord Jesi. Una decina i leghisti partecipanti, colpiti da gavettoni.
9/4/2016 – RIMINI. Presidio durante il comizio di Salvini. Cariche a un gruppo di manifestanti e due arresti.
11/4/2016 – L’AQUILA. Contestazione a Salvini in visita in città.
4/5/2016 – ROMA, MONTAGNOLA. Salvini in visita al quartiere contestato dalla maggioranza dei presenti, che gli impediscono di entrare al mercato.
5/5/2016 – BOLOGNA. Presidio in zona universitaria per la visita di Salvini. Previsto un incontro con il rettore dell’Università e la candidata sindaca Borgonzoni. La polizia carica gli universitari che provano a raggiungere Ingegneria, in zona periferica di Bologna, dove è spostato il suo incontro con il rettore.
27/5/2016 – SAN GIOVANNI LA PUNTA (CT). Presidio di contestazione “Leghista fa rima con fascista”, “Salvini, Catania ti schifa”, “Leghisti complici degli scafisti”. Momenti di tensione con la polizia.
1/6/2016 – TORINO. Militarizzata l’intera zona del mercato di porta Palazzo, presidio antirazzista. La protesta si sposta al comizio in via Garibaldi in centro, dove viene interrotto l’intervento di Salvini. Il presidio diventa un corteo che si muove fino a piazza Castello.
2/6/2016 – BOLOGNA. Salvini torna in città. Il corteo di contestazione viene caricato in zona universitaria, 5 fermati, subito rilasciati. In piazza Verdi erette barricate con balle di paglia. Caricati anche attivisti che avevano realizzato la scritta sulla sede locale del Pd: “Contro i due Matteo legittima difesa” e fatto un lancio di verdure al comizio in piazza Maggiore.
23/7/2016 – CAGLIARI. Aggredito esponente di Noi con Salvini Cagliari. I leghisti avevano richiesto, senza ottenerlo, il permesso per una manifestazione in piazza contro i migranti che vi stazionavano da giorni. Organizzato un pranzo antirazzista, durante il quale alcuni hanno notato l’esponente leghista e l’hanno spedito in ospedale. Il personaggio dopo qualche tempo è stato espulso dalla lista leghista perché con posizioni estremiste/fasciste.
1/10/2016 – PADOVA. Presentazione del libro di Salvini presso libreria Mondadori. Il presidio di contestazione diventa un corteo determinato a raggiungere la piazza della libreria. Dopo un lancio di uova e fumogeni, la polizia cerca di caricare la testa del corteo. Respinte le cariche, azioni di disturbo.
12/11/2016 – FIRENZE. Manifestazione nazionale “Io voto no” in piazza Santa Croce. Corteo di contestazione “Salvini e Lega Nord, a Firenze un vi si vole!”.
25/11/2016 – LUCCA. Studenti universitari e medi cercano di avvicinarsi al bar dove Salvini incontra i suoi “fan” per srotolare uno striscione; un ingente dispiegamento di forze dell’ordine confina la contestazione lontano dal luogo.
17/12/2016 – PALERMO. La popolazione contesta l’arrivo del leghista in città: “La Sicilia è dei siciliani, itivinni in Padania”. La protesta dura per tutto il tempo della permanenza di Salvini in città, alcuni manifestanti tentano di occupare l’interno della Cattedrale e vengono allontanati con la forza.
8/3/2017 – NAPOLI. Salvini atteso presso la sede de Il Mattino di Napoli per un’intervista lampo. La polizia sgombera il primo sit-in improvvisato, ma già in tarda mattinata due nutriti gruppi di manifestanti bloccano nuovamente le vie di accesso alla sede del giornale. La polizia carica il corteo molto partecipato da donne, emblematico proprio l’8 marzo, sciopero globale delle donne. Nella carica una ragazza subisce una lesione al naso e un’altra persona viene colpita al viso da una manganellata.
11/3/2017 – NAPOLI. Un grande corteo partecipato e determinato per dire No alla presenza di Salvini a Napoli. Scontri con le forze dell’ordine, uso di lacrimogeni e idranti. Il corteo risponde con lanci di petardi, sassi e barricate. Numerose cariche, 4 fermi. È importante ricordare che la presenza di Salvini è stata possibile solo grazie all’intervento del ministro Minniti che la sera prima ha dato “disposizioni” alla Prefettura di consentire al leader leghista di parlare alla Mostra d’Oltremare, nonostante il diniego del sindaco De Magistris e dell’amministratore delegato della Mostra stessa.
Roma, 28 febbraio 2015, manifestazione nazionale “Mai con Salvini” – Foto di Laura Mormi.
Ripercorrendo tutte queste tappe e l’accoglienza riservata a Salvini in ogni città, possiamo affermare che lo scenario reale in cui le sue “salvinate” vengono messe in pratica è molto diverso da quello che ci raccontano media e pagine Facebook. Se a questo aggiungiamo l’evidente flop elettorale, ci rendiamo conto di quanto Salvini sia un fenomeno soprattutto mediatico che, senza la visibilità indiscussa di cui gode su tv e giornali, sarebbe solo un urlatore da quattro soldi.
Il suo però è un ruolo funzionale: se da un lato infatti chi governa impone le politiche neoliberali tanto care all’Unione Europea, dall’altro Salvini fomenta l’humus reazionario di malcontento e guerra tra poveri necessario ad attuarle.
Il suo linguaggio becero, semplicistico e “popolare” punta infatti ad arrivare alla pancia della gente che queste politiche le subisce a tutti i livelli sociali. Per fare questo il suo arsenale comunicativo straripa di falsità e luoghi comuni, creando un clima di odio e xenofobia generale. Ma le sue “salvinate” sono un contenitore vuoto dove il discorso politico non ha sostanza e gioca solo su formulette buone a mettere insieme i vari populismi “anti-sistema” così come i segmenti della destra che vanno dai moderati Fratelli d’Italia ai cani da guardia di CasaPound, ai populismi europei modello Le Pen, Orbán, Wilders e Afd.
Così, se ieri il vessillo leghista poteva essere l’odio contro il meridionale e Roma ladrona, oggi in un’ottica (anti)europeista che cerca di dare respiro nazionale alla Lega, lo sono i vari “no euro”, “no immigrazione” e un generico anti-comunismo che piace sempre alla destra post e neofascista.
A fare da collante a questi spot reazionari ci pensa il nemico condiviso da nord a sud, contro cui aizzare le ruspe: ovvero l’immaginario popolo dei barconi invasori. Se immaginario non è il dramma dei migranti, lo è sicuramente la rappresentazione che ne fa la Lega, che propone soluzioni razziste e omicide: dalle ruspe per i rom (e i “centri a-sociali”), alle barchette di “clandestini” da lasciare in mezzo al mare.
Un intreccio di antisistema e razzismo in cui fioriscono letture rovesciate della realtà e diventano accettabili posizioni come “se difendere la propria terra è razzismo, allora sono razzista”, analisi che parlano di “sostituzione etnica del popolo italiano attuata da governi e immigrati” e provocazioni come quella di Verona il 25 aprile, proposta come festa di liberazione degli “italiani perbene da tutti i delinquenti, per la legittima difesa”.
In questo guazzabuglio di idee che vanno dalle nuove destre xenofobe europee a segmenti di vecchi e nuovi fascismi italiani, ben vengano dunque le contestazioni perché tolgono voce e forza a certa retorica a senso unico e fanno assaggiare a personaggi come Salvini il sapore del paese reale, delle uova, dei pomodori, degli sputi e in alcuni casi anche di qualche legnata, perché chi semina odio è giusto che raccolga tempesta.
Ma ciò che ci auguriamo soprattutto è che nelle tante città da cui Salvini ha battuto la ritirata si ritorni e si continui a lavorare giorno dopo giorno per creare percorsi antifascisti, antisessisti, antirazzisti e per ricostruire quella opposizione sociale in grado di affrontare le contraddizioni che si ritrovano in tutti i territori, togliendo terreno alla vulgata razzista da guerra fra poveri e riconoscendo chiaramente chi sono davvero i nostri nemici.
Roma, 28 febbraio 2015, manifestazione nazionale “Mai con Salvini” – Foto di Laura Mormi.
La richiesta di uguaglianza è una stupidaggine se porta le donne a governare.
Louise Michel
Storie della buonanotte per bambine ribelli
STORIE DELLA BUONANOTTE PER BAMBINE RIBELLI. Francesca Cavallo, Elena Favilli, Milano, Mondadori, 2017.
C’era una volta un progetto editoriale, sostenuto dal basso e diretto a un pubblico particolare, fatto di bambine, ma non bambine qualsiasi: bambine ribelli. Tutto bene fin qui, se non fosse che quel progetto alzò un grande polverone fatto di critiche ed elogi, che sollevarono diversi quesiti interessanti… In che misura quel libro, il risultato di un progetto finanziato con un crowdfunding da oltre un milione di dollari, si rivolge alle future ribelli? E i bambini? Non dovrebbe far riflettere anche loro sul ruolo sociale che le donne dovrebbero avere? E poi in che modo sono state scelte le vite da raccontare e che cosa si intende per ribellione? Si può davvero considerare Margaret Thatcher, per citare una delle cento donne del libro, una ribelle o un esempio da seguire? Di sicuro, rivolgersi solo alle bambine cela il messaggio che le storie di donne ribelli vadano lette soltanto alle femmine, mentre le storie che riguardano gli uomini possono essere adatte a entrambi: un messaggio intriso di sessismo e sicuramente poco costruttivo per un immaginario femminista che dovrebbe coinvolgere entrambi i generi. In secondo luogo la ribellione non andrebbe confusa con arrivismo e successo; e la questione di genere che si dovrebbe far comprendere alle future donne e ai futuri uomini è tutt’altro dal messaggio della “self made woman”. Questo non è femminismo. E per finire, una riflessione sul linguaggio: sono davvero storie adatte a bambine e bambini delle brevi biografie in cui non viene utilizzata una contestualizzazione tale da permettere loro di immedesimarsi e rielaborare autonomamente le storie, ma è necessaria un’interpretazione da parte degli adulti? La proiezione di un immaginario “da grandi” sul mondo infantile non è limitante per la libera esplorazione di sé? Queste sono soltanto alcune delle critiche, pienamente condivisibili, che si sono alternate a recensioni più positive. Ma forse in tutto ciò non è stato preso in considerazione un punto di vista fondamentale: il loro, quello delle future generazioni cui si rivolge il volume. Crediamo sia importante capire come vengono vissute, almeno alcune di queste cento storie, da coloro cui sono destinate. Così lo abbiamo chiesto a Marina, 4 anni, e a Lorenzo, 6 anni, due piccoli abitanti delle tondeggianti colline marchigiane che hanno letto il libro insieme ai loro genitori.
Marina, hai letto il libro “Storie della buonanotte per bambine ribelli”?
Si. Che cosa ne pensi?
Che è bello. Cosa ti è piaciuto di più, le immagini o le storie?
Le storie. Perché? Di che cosa parlano?
Parlano di donne che sono ribelli. E che cosa fanno queste donne?
Fanno delle imprese. Invece tu Lorenzo che cosa ne pensi?
Che è un libro bello anche per me. Perché?
Perché sono delle storie di donne che sono vissute veramente e che hanno fatto delle imprese. Che tipo di imprese hanno fatto?
Me ne ricordo una di una surfista – si riferisce alla storia di Maya Gabeira – che un giorno viene travolta da un’onda. Questa donna sta per affogare e si rompe diverse ossa ma, dopo essersi curata, ricomincia a surfare.
Chissà come mai, viene da chiedersi, un bambino di sei anni è rimasto colpito dalla storia di una donna “qualunque” e non dal vissuto della ex first lady Michelle Obama o della candidata presidenziale Hillary Clinton, ad esempio? Forse, agli occhi liberi di un bambino, è proprio lì che sta la ribellione, nella quotidianità, nelle storie di vita comune, nella forza delle scelte che ogni giorno vanno in direzione ostinata e contraria, e non nell’arrivismo tipico di una società patriarcalmente intesa.
A voi il giudizio finale, ma un consiglio redazionale ci sentiamo di darvelo: rubatelo, strappate le biografie che con la ribellione hanno meno di niente a che vedere e, soprattutto, cercate di aiutare le piccole lettrici e i piccoli lettori a trovare un livello empatico all’interno delle storie, tale da permettere loro di chiedersi come si comporterebbero in situazioni simili, confrontandosi con il proprio essere. Magari la fantasia delle vostre piccole lettrici e lettori immaginerà delle alternative veramente ribelli per quelle biografie che proprio non ci convincono.
La Rete per l’educazione libertaria: una realtà
Intervento di Giulio Spiazzi
La Biblioteca libertaria Armando Borghi di Castel Bolognese in occasione del centenario della sua fondazione ha organizzato lo scorso autunno un ciclo di conferenze e seminari sull’educazione libertaria intitolato “Vaso, creta o fiore? Educare alla libertà”. Pubblichiamo la trascrizione dell’intervento tenuto da Giulio Spiazzi la sera del 4 novembre presso il Teatrino del Vecchio Mercato, dedicato ai valori fondanti, ai percorsi e alle prospettive delle Rete per l’educazione libertaria, di cui Giulio è stato uno dei fondatori, oltre a essere attuale “accompagnatore” nella Piccola scuola libertaria Kether sulle colline di Verona. La registrazione dell’incontro, comprendente anche il dibattito con il pubblico presente, è disponibile sul canale youtube della Biblioteca Borghi.
La REL è una realtà in crescita, fatta di alcune esperienze già mature e consolidate e di tanti gruppi che, anche nelle Marche, ci stanno provando. Su queste pagine abbiamo già affrontato l’argomento con una lunga intervista alle animatrici della scuola Serendipità di Osimo (Malamente #3) e contiamo di tornare a parlarne anche nei prossimi numeri, dando spazio al fermento di quanti stanno cercando di mettere in pratica, con modalità diverse, approcci di pedagogia non autoritaria.
Studiare
Una storia collettiva
La storia collettiva e partecipata della REL, Rete per l’educazione libertaria, parte da lontano, ancora prima della data progettuale di fondazione del 2006, avvenuta poi fattivamente nel 2008 nella città di Padova. Infatti già nel 2004-2005, a seguito di contatti e di frequentazioni presso l’allora comunità educante sperimentale Kiskanu di Verona, insieme a Francesco Codello si era dibattuto sulla necessità di creare una Rete per l’educazione libertaria in Italia, quando ancora non esistevano realtà educative libertarie se non, in nuce, la nostra di Verona. A Berlino nel 2005 Francesco aveva partecipato all’incontro internazionale dell’IDEC, International Democratic Education Conference, e aveva contribuito attivamente alla redazione della dichiarazione sulla libertà di scelta educativa dei bambini e delle bambine e dei ragazzi e delle ragazze, che è il nostro manifesto (lo trovate anche sul sito della REL).
Nella scelta di dare vita a una Rete emergeva chiaramente la consapevolezza che i tempi stavano finalmente maturando, anche per il nostro Paese, per rendere concreto l’appello libertario che si ritrova nel principio dei “fini congiunti inscindibilmente ai mezzi”. L’esistenza già dal 2004, a Verona, di una realtà “scolastica” di ricerca e sperimentazione educativa libertaria e l’affiorare di volontà che si andavano concretizzando in altre parti d’Italia, in specie a Bologna con il progetto che verrà a chiamarsi I Saltafossi, indicavano che esistevano anche in questa parte d’Europa nuovi orizzonti dove la teoria libertaria poteva essere e divenire sempre più pratica libertaria.
A Padova, quando venne varato il cammino della futura REL, oltre a Francesco Codello e al sottoscritto erano presenti anche rappresentanti di diverse esperienze educative libertarie, che complessivamente coprivano un vasto arco temporale di crescita di bambini e ragazzi, che andava dalla fascia prescolare con Grazia Honegger Fresco (una diretta allieva della Montessori, che ricordo sempre con piacere come una “ribelle” montessoriana), alla nostra realtà veronese che riguardava la scuola primaria, alle proposte di cultura e autoeducazione permanente senza età, al di fuori dei percorsi di scolarizzazione, di Elis Fraccaro e dell’Ateneo degli imperfetti di Marghera. C’erano dei fuoriusciti dalla scuola steineriana – io sono tra questi – che non si riconoscevano nel suo dogmatismo e c’era chi criticava il sistema montessoriano sclerotizzato e diventato probabilmente qualcosa d’altro rispetto alle indicazioni della Montessori. Insomma, un mondo a vastissimo giro d’orientamento si ritrovava volontariamente per ascoltarsi e per promuovere un’utopia che, nel corso di questi quasi dieci anni di viva esperienza sul campo, è oggi la Rete per l’educazione libertaria: una delle possibili voci di aggregazione e di frequentazione del variegato mondo della pratica diretta libertaria.
Dico che la REL è solo “una delle possibili” reti perché noi non ci siamo mai sognati di dire che siamo l’unica rete per l’educazione libertaria. Noi siamo la REL, siamo partiti nella maniera che vi sto raccontando ma ciò non toglie che è che chi è fuori dalla REL sia fuori dall’educazione libertaria. È anche vero che la REL in tutti questi anni ha fatto un bel percorso e ha quindi accumulato una discreta esperienza per quanto riguarda il collegamento tra varie realtà educative, sia scolastiche che extra scolastiche.
Attraverso la pratica della condivisione e del sostegno mutualistico di kropotkiniana memoria, offerto da coloro che hanno acquisito capacità e conoscenze dirette sulla crescita di comunità autoeducanti, negli anni si è allargato e diffuso significativamente il numero di realtà che si riconoscono in questo percorso, creando un circuito attivo in continuo movimento. All’interno della Rete si ritrovano quindi sia le situazioni “storiche” che l’hanno generata e che ne hanno segnato il percorso (ricordo Kiskanu, ora Kether, di Verona e I Saltafossi di Bologna, solo per citare le prime) sia diverse nuove realtà che si sono affiancate nel tempo con coraggio e determinazione per rafforzare e ampliare il comune tessuto educativo libertario italiano.
Volare
In rete per un cammino comune
Fatta questa premessa “storica”, la domanda d’obbligo è: “che cos’è dunque la REL?”. Possiamo dire che la Rete per l’educazione libertaria è in primis una “pratica di relazione che si nutre di presenze” ed è bene sottolineare che le presenze sono corpi, corpi reali, non pensieri e teorie immateriali. La presenza è importante. Noi non comunichiamo solo per email ma cerchiamo di incontrarci per poter tessere fisicamente delle relazioni. La REL si estende da un capo all’altro della penisola e quindi non è sempre facile trovarsi, ma nel tempo si è visto che chi effettivamente vuole aderire e seguire i percorsi della rete trova il modo di essere presente fisicamente agli incontri: siamo un gruppo di donne e di uomini che si ritrova per stare assieme, per discutere di educazione libertaria e per agire conseguentemente in quest’ambito.
Per scelta la REL non ha una formalizzazione giuridica, non siamo un’associazione iscritta in qualche registro. Dunque la REL è un insieme aperto di persone reali che, partendo da motivazioni interiori, da un desiderio d’essere, hanno dato vita a un soggetto concreto, non formalmente riconosciuto dunque non giuridico, un soggetto collettivo che cerca con le proprie forze e con le proprie capacità di divulgare, diffondere, mettere in relazione le esperienze di pratiche autoeducative che si reggono filosoficamente su principi di matrice libertaria. La REL è quindi una “partecipazione collettiva” di desiderio, di contatto, di scambio, di approfondimento e di scommessa sulla fattività, oggi giorno, della messa in opera di pratiche educative autoeducanti sinceramente libertarie.
Per far questo la REL compie un lavoro di tessitura che passa attraverso momenti annuali di aggregazione nazionale (quest’anno si è appena concluso il 7° incontro) e seminari di approfondimento, dialogo, discussione e studio comune. Proprio domani a Pavullo, nel modenese, presso la comunità autoeducante de I Prataioli prenderà il via il 5° seminario operativo incentrato su tematiche educative importanti quali: corpo e sessualità nell’esperienza educativa libertaria; le competenze di base per un accompagnatore libertario; la funzione “politica” del cammino REL in Italia; etc. Possiamo delineare una cronologia e una geografia di queste attività assembleari periodiche. Gli incontri nazionali si sono finora svolti a Verona (scuola libertaria Kiskanu), ancora a Verona, a Roma, a Rimini, a Urupia nella comune libertaria di S. Marzano di S. Giuseppe nel Salento tarantino, a Osimo (Scuola libertaria Serendipità) e ad Abbiategrasso (Scuola libertaria Ubuntu). I quattro seminari hanno invece visto la luce alla Scighera di Milano, a Osimo, ancora a Milano e l’ultimo a Verona presso la comunità autoeducante Kether.
È bene precisare, quando si parla di seminari, qual è la posizione esplicita della REL rispetto a queste proposte. Siamo fermamente convinti che nessuno di noi si possa proporre né qui né altrove come “esperto”, “formatore”, detentore di un ricettario che possa far diventare qualcun altro un “operatore libertario” o che lo possa rendere empatico con bambini, bambine, ragazzi e ragazze. I seminari di studio e di incontro/confronto della REL sono momenti autoformativi importantissimi, dove chi vi partecipa trova nello scambio di esperienze, dentro la dimensione fortemente contestuale del momento, la possibilità di far crescere se stesso e la comunità di cui fa parte. Siamo quindi del tutto estranei all’idea di un intervento da parte di “tecnici-guru” col compito di insegnare come dover essere libertari o quale particolare dottrina frequentare per aprire e gestire una scuola libertaria, come se fosse un franchising, una start-up o altre, per me odiose, imprese micro-capitalistiche di questo tipo. La REL non dà certificazioni né attestati di “buon educatore libertario”, ma promuove scambio, confronto, messa in gioco su queste questioni educative.
Viaggiare
È necessario puntualizzare questo perché rispetto a quando siamo partiti, ormai una decina di anni fa, l’educazione libertaria sembra adesso interessare un vasto pubblico – per fortuna – ma a volte con l’idea che si possa diventare libertari da un momento all’altro e si possano creare scuole che partono immediatamente e perfettamente libertarie. Se ci chiedete come fare per creare una scuola libertaria, la risposta è: fatela, punto e basta. Non è che siano i più bravi a riuscirci. Riesce chi sa congiungere la teoria alla pratica. Noi possiamo fornire un aiuto per quanto riguarda la nostra esperienza, suggerire ad esempio di partire come associazione piuttosto che come cooperativa sociale, dare indicazioni su come regolarizzarsi con i pagamenti, dare cioè delle indicazioni tecniche… le problematiche sono tante, il lavoro da fare è notevole.
A volte quando andiamo a visitare alcune realtà ci chiedono se secondo noi sono “abbastanza libertarie” o addirittura se facciamo corsi di formazione all’essere libertari o cose del genere. La REL non ha la funzione di dare una “certificazione” alle realtà che incontra nel corso della propria attività. La REL non dà il bollino di “libertario”, non autentica nessuna scuola che si propone come tale. Insomma, c’è questo grosso rischio della moda del momento, mentre quello che conta è proprio il fatto che si tratta di un cammino estremamente delicato, quotidiano, di contatto con i ragazzi, un cammino di relazione. Tutto il resto è qualcosa che appartiene all’idea teorica e astratta di certi adulti che pensano questa realtà come una moda, se non come un business.
La REL non ha nemmeno la funzione di pubblicare e promuovere sul proprio sito qualsiasi cosa esistente sul territorio che si dica, anche solo di nome, “libertaria”. Come ho sottolineato all’inizio, la relazione si nutre di presenze, per cui laddove esistano esperienze nascenti che ci contattano è sempre bene andare di persona, non con lo scopo di verificare, controllare, bollare o meno questa o quella realtà, ma – i viaggi assidui per l’Italia di Francesco Codello, miei, di Gabriella Prati e di altri lo testimoniano – per iniziare a costruire un rapporto tra persone, ambienti e situazioni che possa dipanarsi nel tempo e nelle difficoltà inevitabili. Lo scopo è intraprendere un cammino comune d’intesa, nel tracciato fluido e in divenire della REL, quale organismo aperto alle trasformazioni innescate da reali incontri di persone finalmente scese dall’empireo della teoria alla quotidianità spinosa della pratica libertaria, immersa nel contesto neo-liberista della società attuale.
Scrutare
Democrazia diretta e pratiche libertarie
La Rete per l’educazione libertaria nasce quindi dalla volontà di donne e uomini provenienti da diversi percorsi formativi e lavorativi, non solo in esperienze auto-organizzate, che sperimentano pratiche educative alternative in progettualità comunitarie. Questa ricerca teorica, ma soprattutto pratica, del fare libertario mette al centro della propria riflessione educativa e politica il ruolo di bambini e bambine, ragazzi e ragazze, coinvolti in prima persona nella loro crescita autoeducativa. Fanno parte della Rete molte figure diverse, da chi effettivamente sta costruendo una scuola o è già dentro questo tipo di percorso, a soggetti a vario titolo interessati a conoscere, confrontarsi e riflettere intorno a un differente modo di pensare e vivere l’educazione, a studenti, a genitori coinvolti nelle problematiche di crescita dei loro figli. Ne fanno parte anche diversi insegnanti delle scuole statali; abbiamo anche genitori che insegnano nella scuola statale ma portano i figli alla scuola libertaria e sarebbe interessante indagare i perché di questa scelta.
La REL vive fin dagli albori della sua nascita un forte dibattito interno su tematiche semantiche percepite come basilari. Agendo per la diffusione del pensiero e delle pratiche educative libertarie, si è interpellata per lungo tempo anche sul significato del termine libertario, piuttosto che democratico da dare proprio a se stessa in fase costituente. Fuori dai nostri cosiddetti confini nazionali, le realtà autoeducanti vengono identificate generalmente con il termine, in parte fuorviante, “democratiche”. Ciò comporta a mio avviso, anche a livello di immaginario collettivo, una visione che abbraccia qualsiasi tipo di democrazia, in specie quelle attuali occidentali con tutto il carico di disuguaglianze gerarchizzate e di dominio dell’uomo sull’uomo e sulla donna. Per noi invece il significato del termine “libertario” rimane strettamente connesso con l’intima e profonda storia di lotte che questo modo d’essere ha avuto e ha proprio in questa penisola: l’Italia. Ecco perché nell’ambito delle reti europea (EUDEC) e mondiale (IDEN), non utilizzando come tutti gli altri il termine “democratico”, siamo una mosca bianca: ne abbiamo discusso a lungo, per almeno un anno, e alla fine, a mio parere giustamente, c’è stata una convergenza definitiva della Rete sul termine “libertario”. È stata una decisione che ha comunque avuto anche un suo prezzo da pagare, in termini di fuoriuscita di persone che si collocavano più in una definizione di scelta maggioritaria.
I luoghi di questo ciclo di seminari, come la Biblioteca Borghi, l’Archivio storico della FAI, testimoniano chiaramente la lunga tradizione di un’altra concezione di democrazia, non certo maggioritaria ma consensuale, non delegante ma diretta, dove l’esposizione del proprio essere individuale si rispecchia nell’ascolto e nella relazione con la collettività assembleare. Questa democrazia effettivamente partecipata è il modo di vivere di bambini e ragazzi nel confronto e nell’incontro, senza mediatori indirizzanti, senza una maggioranza che schiaccia inevitabilmente la minoranza che dissente anche solo momentaneamente riguardo a qualcosa. Nella pratica i ragazzi hanno sperimentato come crescendo la consapevolezza in ognuno di loro si possa arrivare all’unanimità nelle decisioni con una certa velocità e si possano risolvere i problemi senza aver un gruppo maggioritario che decide a scapito di altri. Dopo diversi anni mi rendo conto che tanti frutti estremamente positivi stanno venendo fuori da queste pratiche che all’inizio possono sembrare degli azzardi. E credo che questo metodo di riunirsi assieme e di trovare un’unanimità, certo non a tutti i costi, avrà la sua influenza su quando questi bambini e ragazzi diventeranno uomini e donne.
Attendere
Non è una considerazione da poco perché nelle scuole libertarie, come ad esempio a Kether, la democrazia è vissuta davvero come democrazia diretta. La scuola è piccola perché volutamente abbiamo scelto l’idea alla Paul Goodman che “il piccolo è bello”, nel senso che nel piccolo c’è la possibilità di relazionarsi e il metodo democratico di scelta è consensuale, cioè non passa nessuna decisone se non siamo d’accordo tutti. Potete capire che palestra di vita fanno questi figlioli, a partire dalla materna, avendo riconosciuta la possibilità di dire la propria, di dirla in assemblea, di mettere in pratica il principio one man, one vote, per cui l’espressione della propria incisività sul mondo viene presa in considerazione: ogni testa vota e quel voto è rispettato, quindi un bambino di tre anni potrebbe anche bloccare la decisione finale dell’assemblea. Il senso di responsabilità di ognuno si innalza veramente di molto rispetto a una democrazia di delega. Sono meccanismi che fanno fare grandi salti di coscienza ai bambini. Quelli più piccoli magari ancora non comprendono esattamente cosa stia succedendo, però alzano la mano perché iniziano a capire che alzando la mano hanno voce in capitolo e capita che si mettano a parlare di problematiche che in quel momento non hanno molto senso, ma per loro sono conquiste enormi, perché un bambino di tre anni che si mette in primo piano di fronte a una platea con ragazzi molto più grandi di lui è una grossa conquista di sicurezza e autostima.
Qualunque situazione di unanimità non è mai data, ma cresce strada facendo nella pratica del vivere gli eventi della propria autoformazione a stretto contatto con la comunità dei molteplici. Parliamo perciò di pratiche “libertarie” per mettere in chiaro un percorso fatto di crescita quotidiana, di convivenza tra uguali nel rispetto delle differenze. Tutto ciò per noi rientra nello spazio reale del politico. La REL dunque fa politica, fa cultura, produce documenti di riflessione e di critica. Come osserva Thea Venturelli, comunarda di Urupia che da circa un anno ha dato inizio a un percorso di educazione libertaria per bambini e bambine all’interno della comune libertaria salentina: “la consapevolezza che un percorso educativo è essenzialmente un percorso politico, il ritenere l’educazione lo strumento privilegiato per un significativo e radicale cambiamento sociale che parta dal singolo individuo: questi sono i punti di partenza per una pratica quotidiana che impegna tutti i mezzi a disposizione di chi ha deciso di accompagnare le donne e gli uomini di domani nel loro percorso di crescita, operando contro ogni realtà che mortifichi l’essere umano e ne ostacoli la libera e soggettiva espressione”.
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Accompagnatori per l’autoeducazione
Sulla base di quella “semantica liberata” di cui si accennava prima, riguardo alla decisione di adottare il termine libertaria anziché democratica, la REL ha per lungo tempo studiato e sviscerato un altro appellativo che nel tempo aveva subito una radicale perversione di senso, come avrebbe detto Ivan Illich, ovvero quello di “maestro”, “professore”, “docente”, all’estero è spesso usato “facilitatore”. Per definire il ruolo dell’adulto all’interno di queste comunità autoeducanti, noi preferiamo utilizzare il senso e il significato di “accompagnatore libertario”.
È logico che difficilmente sentirete bambini o ragazzi che vi chiamano “accompagnatore”. Ai bambini piccoli piace chiamarti “maestro” e dal nostro punto di vista sarebbe anche scorretto togliere loro questa voglia di chiamarti così, poi magari quando arrivano alle soglie della secondaria di primo grado cominciano a chiamarti per nome: “Giulio”, “Susanna”…, insomma osano e decidono loro quando è il momento. Invece per quanto riguarda la stesura di un documento o per dare una chiave di senso all’azione che facciamo preferiamo usare “accompagnatore”. “Facilitatore” non ci sembra adatto perché non dobbiamo facilitare niente, anzi spesso sono i ragazzi che facilitano il nostro lavoro.
Proprio su questo punto ritengo opportuno citare Lamberto Borghi, che in uno dei suoi scritti ci parla dello psicopedagogista americano Carl Rogers, quando questi affrontò il problema dell’apprendimento in ambito di educazione libertaria contro le supposte “verità-totemiche” di comportamentisti quali ad esempio Skinner convinti, all’opposto, che “l’uomo non è libero” e che “l’immagine di un uomo interiormente libero e padrone del proprio comportamento è solo un surrogato prescientifico”. Probabilmente questo Skinner non aveva frequentato comunità autoeducanti. Ebbene Rogers risponde mettendo in chiaro, dal mio punto di vista, ciò che è focale nel termine “accompagnatore”, con queste parole: “mi sono convinto che il solo apprendimento che influenza in modo significativo il comportamento è quello che il discente scopre, e di cui si appropria, da sé”. E aggiungeva: “in conseguenza […], sento che non mi interessa più essere un insegnante, mi rendo conto che mi interessa solo essere un discente e preferibilmente di imparare cose che contano, che esercitano un’influenza significativa sul mio comportamento. Trovo molto proficuo imparare in gruppi, tramite un rapporto con una persona […]. Ritengo che uno dei modi per me migliori, anche se più difficili di imparare, consista nell’allentare la mia struttura difensiva, almeno temporaneamente, e di cercare di capire il modo in cui un’altra persona sente e considera la propria esperienza”.
Costruire
L’accompagnatore deve fornire un esempio, senza sentirsi per forza di cose un esempio. Deve comportarsi come un adulto corretto, ma soprattutto autentico: i ragazzi percepiscono immediatamente se uno sta mentendo, se sta facendo l’amicone… queste cose non funzionano. Gli accompagnatori sono cioè persone che autenticamente si mettono in gioco con i ragazzi e che sono presenti con la loro spontaneità, per cui se qualcosa li fa arrabbiare che si arrabbino pure; a volte gli adulti devono re-imparare a essere spontanei, a essere effettivamente se stessi: questa è la carta vincente, questo è il buon esempio. Se si vuole essere un accompagnatore, fare dei passi indietro con i ragazzi è estremamente salutare ed è forse la prima auto-regola che ognuno dovrebbe darsi. Il fatto di imparare un altro linguaggio, che molto spesso è un linguaggio del corpo, oppure di fermarsi e di non interrompere quello che sta accadendo è un grosso allenamento che un accompagnatore deve fare di fronte alle dinamiche libere dei ragazzi.
Questo, per quanto riguarda la mia personale esperienza di lavoro e di vita nelle realtà autoeducanti che aderiscono alla REL, è l’azzardo necessario per riportare il mondo degli adulti, in maniera consapevole, a ri-colloquiare in termini non impositivi con l’autocrescita spontanea dei giovani, nei luoghi dove si decide assieme un cammino educativo libertario. Poniamoci la domanda che dà anche il titolo a questo ciclo di seminari: “Vaso, creta o fiore?”. Perché mai formare qualcuno come creta? Oppure l’idea del vaso: io conosco, travaso la mia conoscenza in te bambino, che sei il vaso, riempito della mia scienza. È invece il fiore il simbolo dell’educazione libertaria. Il fiore nasce spontaneo e l’educatore al limite zappetta intorno, vede che qualche erbaccia non vada a stritolarlo quando è debole, gli dà da bere. Sono passaggi sottili ma nella pratica diventano fondamentali.
Concludo con una sintesi di parole non mie, ma che per me abbracciano tutta l’enorme esperienza che non solo le singole scuole libertarie, né la sola Rete per l’educazione libertaria, ma l’intero panorama di pratiche politiche dove il mezzo e il fine combaciano potrebbe esprimere. È la voce di un ragazzo di undici anni, ebreo israeliano, colta durante un’assemblea a Kether, pochi giorni fa, indirizzata a risolvere pacatamente una delle tante problematiche di convivenza e di rispetto che in una situazione autoeducante si devono affrontare. Giuseppe Zwiebel, questo il suo nome, con noi da cinque anni ci dice, nella fase cruciale di una sorta di contenzioso che si era innescato: “noi siamo una comunità, non siamo individui anonimi”. Partendo proprio dalle parole di un bambino che frequenta la quinta elementare io riassumerei l’esperienza della REL: noi, la REL, siamo una comunità, non siamo individui anonimi ma persone che vogliono incontrarsi per fare un percorso comune e per cercare di far crescere sempre più questo tipo di visione anche qui in Italia.
Ascoltarsi, attraversarsi, conoscersi: il Lunario della Dea
Di Pamela e Valentina
Nel numero 6 di Malamente abbiamo iniziato a parlare di questioni di genere e del percorso di lotta “Non una di meno” che ha riportato nell’attualità del dibattito e delle rivendicazioni politiche, nazionali e internazionali, il protagonismo delle donne contro ogni forma di violenza di genere. Lo sciopero internazionale delle donne dell’8 marzo è stato una tappa importante di un percorso che promette di essere lungo e che, come un fiume in piena, trova forza nei tanti ruscelli che giorno dopo giorno vi confluiscono.
Anche sul nostro territorio si muovono passi, esperienze e lotte, individuali e collettive, che aspirano a incontrarsi su un terreno comune di confronto e organizzazione. In questo numero vogliamo raccontare un progetto marchigiano, giunto già al suo terzo anno di età, nato dall’idea di una donna che si propone di accompagnare altre donne in un percorso di auto-conoscenza e consapevolezza femminile.
Si tratta del Lunario della Dea, uno strumento concreto, ma anche un progetto in divenire fatto di incontri e condivisione di saperi, che Chiara Chiostergi, autrice, porta in giro per l’Italia dal 2015. Noi l’abbiamo incontrata in una delle sue tante presentazioni in cui racconta come da un’esigenza individuale si siano sviluppati il desiderio e la necessità di condividere con altre un percorso di conoscenza e crescita legato alla sfera, tanto biologica quanto sociale, dell’essere donna. Lo strumento di cui Chiara si è dotata è un calendario, ma non uno qualsiasi. Il Lunario della Dea, infatti, è un calendario mestruale.
Chiara non è un’ostetrica né una ginecologa, anzi nella vita si occupa di neuropsichiatria infantile. Ma Chiara è anche e prima di tutto una donna. Una donna che ha conosciuto la paura, il tabù, l’isolamento e il giudizio e che ha saputo cogliere in queste esperienze la spinta per intraprendere un viaggio, non semplice ma progressivo, verso una presa di coscienza. Lo strumento pratico che oggi propone a tutt*, e in particolare a noi donne, è il Lunario e l’invito è quello di utilizzarlo ripartendo da noi stesse, “ri-amando il proprio sangue” per citare le sue parole. L’abbiamo intervistata per voi.
Pleiadi – Illustrazione di Emma Bignami
Che cos’è il progetto Lunario della Dea e in cosa consiste questo calendario?
Il Lunario della Dea è un calendario mestruale, uno strumento di consapevolezza femminile con il quale è possibile monitorare il ciclo mestruale con precisione e gestire le sensazioni che si vivono durante tutto il periodo. È uno strumento che permette sia di conoscere a fondo il proprio funzionamento biologico (ciclo), sia la propria emotività. Ciò consente di comprendere come le energie agiscono e si muovono in forma ripetuta nel corso del mese, così da imparare a gestirle e sfruttarle a proprio favore, acquisendo una consapevolezza che si riflette anche sulla vita di tutti i giorni e sulle relazioni sociali. Insieme al calendario, per chi ha voglia di fare un lavoro di questo tipo su di sé, esistono altre opportunità molto potenti, come per esempio i cerchi di donne dove ognuna può sentirsi libera di raccontarsi e specchiarsi nell’esperienza delle altre.
Nella pratica come si utilizza il Lunario della Dea?
Il Lunario è un vero e proprio calendario con dodici mesi, ciascuno rappresentato in forma circolare a sottolineare la non linearità del tempo femminile. All’interno degli spicchi di quella che si chiama ruota lunare, è possibile prendere nota dello svolgimento del proprio ciclo mestruale con una serie di simboli che rappresentano le sensazioni da utilizzare per monitorare sia gli aspetti fisiologici, sia quelli emotivi. Ascoltarsi, attraversarsi e poi conoscersi, questo è un po’ il punto di partenza per poter usare il calendario. Non dico che sia semplice, dipende anche da quanto sei disposta a scoperchiare di te: io stessa con il primo calendario, nel momento in cui mi chiedevo “oggi come sto?” non sapevo rispondermi e infatti i primi sei mesi sono rimasti vuoti dal punto di vista emotivo. Intendo dire che conoscersi veramente è un processo che richiede tempo e coraggio.
Ci è capitato di vedere come anche in altre parti del mondo e in epoche lontane e vicine a noi si sono trovati dei modi per “osservare” il ciclo mestruale. Il tuo progetto come nasce, quali stimoli hai avuto?
È vero, le donne dalla notte dei tempi hanno sempre considerato il sangue come un tempo sacro e ciò è dimostrato dal culto della Dea, della Grande Madre, “virale” in ogni latitudine ed epoca storica fino al radicamento del pensiero patriarcale come cultura dominante: questa è storia. Credo che oggi semplicemente continuiamo quel percorso intrapreso dalle nostre antenate millenni fa; siamo in cammino e questo calendario è figlio della storia collettiva e di quella mia personale.
Quando alcuni anni fa mi fecero dono del mio primo calendario mestruale, non avevo assolutamente idea di come utilizzarlo, non mi ero mai fatta domande sul mio ciclo e lo consideravo una condizione da subire e basta. Perciò decisi di usarlo per monitorare il tempo del sangue e per cercare di capire la relazione sofferta con il mio ex marito. Avevo creato simboli che lui non poteva capire, ma che in poco tempo mi diedero una chiara misura di ciò che stava accadendo. Il primo grande evento è stato comprendere il valore del tempo: tutti i giorni lo sguardo mi cadeva su quei segni fatti da me che mi dicevano “riprendi controllo di te stessa, riprendi in mano la tua vita”. Così ho capito che, nella sua semplicità, la ruota lunare era uno strumento potente e ho deciso di proporlo ad altre.
Sono stata fortunata perché ho ricevuto stimoli che mi hanno incoraggiata e arricchita con spunti e letture, così come ho incontrato avversione tanto da donne quanto da uomini, ostacoli che hanno rafforzato la convinzione che fosse necessario ricostruire un linguaggio comune e condivisibile. Ora grazie alla casa editrice Terra Nuova che ha scelto di pubblicarmi, questo linguaggio avrà ulteriore spazio pubblico e di diffusione e non sarà più possibile mettere la testa sotto la sabbia.
Pandora – Illustrazione di Emma Bignami
Il Lunario è uno strumento, se vogliamo, molto personale e individuale. Pensi che il suo utilizzo possa avere anche una dimensione collettiva?
Penso di sì. Credo che ogni individuo possa fare la differenza. Un obiettivo ambizioso in cui credo è quello di poter contribuire alla creazione di una società, di donne capaci di amor proprio, consapevoli dei propri confini non solo fisici, ma soprattutto emotivi e relazionali. Sono tantissime le donne in tutta Italia che contribuiscono e lottano per questo, realtà al femminile e per il femminile, le cui relazioni non nascono oggi, sarebbe meglio dire che il patriarcato ha fatto sì che si disperdessero. Io faccio la mia, con questo cammino che parte dai segnali del corpo: un modo semplice e intuitivo per imparare a conoscersi, cominciare a farsi domande e iniziare o continuare la propria ricerca personale. Tutti i mesi e tutti i giorni il corpo ci offre delle indicazioni grazie alle quali entrare in contatto con le sfere più intangibili che ci riguardano, come l’educazione ricevuta, i nodi emotivi, le fatiche personali, le dinamiche relazionali soggioganti e quelle di genere, nelle quali facciamo più fatica a imporci o a definirci.
In questo viaggio in cui ti proponi di accompagnare le donne nel ritrovare consapevolezza del proprio essere, che ruolo giocano le illustrazioni che associ a ogni mese del calendario?
Le illustrazioni fanno parte di un attento studio antropologico volto al recupero di quelle figure femminili realmente esistite o appartenenti al mito o alle religioni, che sono state espresse in chiave negativa nella cultura patriarcale e che, nel calendario, ritrovano il loro vero valore.
Ogni anno scelgo un tema diverso in un percorso per gradi che ci porti a riscoprire una storia che ci appartiene, ma ci hanno impedito di conoscere.
Il primo anno ho raccolto e proposto illustrazioni sulle dee dal mondo, a ribadire che il culto della Dea è antichissimo, endemico di molte società che ci hanno precedute, rispettose dei vari generi. Il secondo anno ho voluto ridare un volto a quelle dee che non hanno un’iconografia. Il terzo, questo corrente, ho scelto di trattare la figura della donna nei miti e leggende per restituire la loro vera natura. Faccio l’esempio di Arianna: secondo la lettura istituzionale il protagonista della storia del filo di Arianna è Teseo, in realtà a ben vedere si tratta di lei, perché è l’unica che sa come sbloccare una situazione fino ad allora irrisolta. Oppure l’Amazzone, che non è solo donna guerriera come la definisce la mitologia, ma donna che comprende il valore del gruppo, radicata e determinata. Nel 2018 sarà la volta delle ribelli, intese come donne autentiche che non tradiscono loro stesse, fedeli alla propria natura anche a costo di essere considerate pazze; per fare alcuni esempi, Cassandra l’inascoltata, o Lilith che si ribellò ad Adamo e molte altre, riviste come incarnazione di una forza femminile presente in tutte noi e necessaria.
In questo percorso mi accompagnano abili illustratrici come Anja Firing Gravingsmyr, Emma Bignami, Goga Mason, Marina Girardi, Aurora Boreal, Serena Luna Raggi e Pasca Paz e le prossime a venire. Questo perciò vuole essere un invito, alle amiche che hanno desiderio di partecipare, a proporsi e farsi avanti.
La natura di noi donne è ciclica, ma veniamo cresciute ed educate con una visione lineare del tempo e degli eventi: il nostro calendario quindi, più che gregoriano, è (o dovrebbe essere) lunare. Ma quanto è reale l’influenza della luna sulla ciclicità della biologia femminile? E questa divergenza tra linearità e ciclicità come si riflette nella vita di oggi, in questa parte di mondo occidentale?
La luna e il ciclo mestruale sono fortemente connessi perché il nostro satellite, nel suo raggio energetico, influenza tutti i liquidi terrestri, tanto le maree come i flussi corporei, compresi quelli femminili. Il ciclo mestruale, gli ormoni, l’umore e i desideri della donna sono regolati da questa influenza che, come accade ad esempio anche in agricoltura, è reale, variabile e ciclica e si può monitorare con strumenti come un diario, un calendario, un’agenda o qualsiasi cosa dove annotare, rispetto alle diverse fasi lunari, i cambiamenti che percepiamo. È quindi fondamentale per ogni donna prendere coscienza del proprio ciclo mestruale come qualcosa che fa parte della vita e ci accompagna dalla pubertà per tutta la sua durata, in modo diverso per ciascuna. Prendere coscienza di come il corpo reagisce al ciclo significa anche comprendere l’effetto che esso ha sulla personalità, sulle energie creative e sulla vita sessuale.
La donna per sua natura vive in un ritmo interno ciclico, in un tempo che ha una qualità spiralica. La civiltà in cui viviamo, di contro, ci propone ritmi e tempi lineari ai quali troppo spesso ci siamo adeguate, da sempre e senza rendercene conto. Capire la nostra ciclicità può aiutarci a rallentare il ritmo e anche a sottrarci da questa imposizione, senza sensi di colpa.
Aracne – Illustrazione di Emma Bignami
Nelle tue presentazioni sostieni che, biologicamente parlando, donna si nasce. Noi aggiungiamo che a livello antropologico “donna non si nasce, ma si diventa”, attraverso l’imposizione di uno status socio-culturale secolarmente patriarcale. Credi che una maggiore auto-conoscenza del nostro corpo e dei suoi ritmi possa portare il genere femminile ad acquisire consapevolezza anche della propria oppressione sociale e culturale?
Secondo me ripartire dal corpo è un primo passo per imparare a conoscersi e quindi mettere in correlazione i cambiamenti fisici con quelli emotivi. Piano piano, senza fretta, ognuna con i propri tempi, cominciare a dare molto più spazio alla comprensione dei cambiamenti emotivi e di tutto quel mondo intangibile di cui parlavo prima, permette di imparare a capire quali sono i nostri confini, quindi definirci. Questa mia visione può sembrare forse un po’ utopistica, anacronistica, mi hanno anche detto bucolica, hippie, fricchettona, ma dai racconti delle donne che usano il calendario, me compresa, vedo che invece si tratta di una possibilità reale. È una questione di consapevolezza per cui, nel momento in cui entri in questa sfera di definizione di te stessa, è anche più semplice definirti rispetto all’altro o all’altra, purché si vada verso una direzione di centratura e di radicamento, prima personale e poi sociale.
Prendere consapevolezza di sé e poi giocarsi questa cosa all’interno della società?
Si esatto, all’interno delle relazioni.
A proposito del ciclo mestruale e dei ritmi femminili, tu fai una riflessione molto interessante sul concetto di “normalità”: come esiste una norma intesa come status socio-culturale che considera ciò che è diverso come irregolare e quindi pericoloso, così esiste un concetto di normalità rispetto al ciclo mestruale e alle mestruazioni, per cui se non rientri in certi schemi non sei “regolare”. Puoi spiegare meglio queste tue considerazioni?
Rispetto al termine “normale” la mia riflessione nasce da un po’ più lontano. Lavorando con i bambini disabili è una parola alla quale sono stata costantemente sottoposta e non riuscivo a capire come mai ciò che non era normale agitasse tanto le persone. In un certo senso nelle fasi più intense del mese mestruale anche io non mi sento molto normale e i nomignoli che arrivano dal linguaggio socialmente riconosciuto vanno dai classici “isterica”, “matta”, “sclerata”, “anormale”, ai “fatti aiutare”, “vai dallo psichiatra”. Così ho voluto prendere una distanza cinica da questo linguaggio tanto diffuso e mi si è accesa una lampadina: anormale è ciò che è imprevedibile e ciò che non si può prevedere spaventa, così tanto che per gestirlo si creano una serie di regole rigide, fisse e immutabili, si definiscono dei codici di comportamento e adeguatezza per ogni situazione anormale nella quale ci si imbatte. Ma questo prolungato addestramento a “dover essere” ha lentamente depauperato la donna della sua natura di fatto imprevedibile, evitandole di saper usare questa energia improvvisa e forte come un valore positivo. Verena Schmidt, una famosa ostetrica, parla di industrializzazione del corpo e concordo pienamente con lei sul fatto che l’urbanizzazione abbia portato lentamente a rendere il corpo un oggetto da catena di montaggio. Certamente i saperi medici e la ricerca hanno un ruolo importante, ma tra essere solo medicalizzata e non esserlo totalmente, penso possa esistere una via di mezzo. Dal momento del menarca, tutto ciò che riguarda il corpo è gestito da un medico: il ciclo, la fertilità, la maternità, l’allattamento, la menopausa. Mi piacerebbe invece pensare che ognuna di noi possa imparare a conoscersi abbastanza da sapere quando è realmente il momento di rivolgersi a uno specialista, senza delegare la cura del suo corpo alla cieca, restando con la sensazione di incapacità nel sapersi gestire. Mi piacerebbe pensare che oggi le donne possano ricevere, anche già da bambine, una corretta informazione e formazione riguardo tutto ciò che concerne la propria salute, così da essere capaci di autogestire con dignità e semplicità la nostra natura fisica ed emotiva.
Quello della donna “anormale” è un paradigma che vediamo storicamente ripetersi. Pensiamo ad esempio alla caccia alle streghe che tu definisci un “genocidio di genere”, con milioni di donne inquisite e condannate al rogo proprio perché avevano una conoscenza che esulava dalla scienza ufficiale e che quest’ultima tentava di reprimere. Facendo un salto temporale pensiamo all’isteria, termine che veniva usato nella psichiatria dell’Ottocento per identificare attacchi nevrotici intensi tipicamente femminili, oggi considerato scientificamente errato e in disuso, eppure ne vediamo ancora il suo riflesso nell’uso comune. Pensi che se la scienza avesse avuto una diversa considerazione del genere femminile e delle sue conoscenze, se non avesse ostacolato la partecipazione diretta delle donne al progresso medico, oggi avremmo una medicina più a misura di uomo e di donna?
Probabilmente sì. La medicina istituzionalizzata ricerca costantemente cause ed effetti fisici raramente considerati influenzabili dallo stile di vita, dall’alimentazione, dall’emotività, dall’educazione ricevuta o da eventuali traumi. Soltanto a partire dagli anni ’70 si è cominciato a riconsiderare il corpo come non scisso dalla mente. Penso alla nascita dei gruppi di autocoscienza femminile, la creazione dei primi consultori, le religioni e filosofie che hanno cominciato a liberarci dalla morsa del cattolicesimo come unica forma e stile di vita e di pensiero, penso al buddismo, yoga, new age, ai primi macrobiotici… non c’è presa di posizione né giudizio di valore, considero solo in termini storici i passi che abbiamo percorso.
Menadi – Illustrazione di Emma Bignami
Continuando su questo filone, tu citi un altro passaggio storico: l’industrializzazione come fenomeno socio-economico che ha portato a delegare la conoscenza e la cura dei corpi a una medicina sempre più disumanizzata. La conseguenza è stata una medicalizzazione sempre più marcata e una riduzione a oggetto del corpo umano e in particolare di quello femminile in tutte le sue fasi, dal menarca alla menopausa, passando per la gravidanza. Puoi approfondire questo punto?
In linea di massima non mi ritenengo una sostenitrice della medicalizzazione del corpo della donna, ovvero dell’uso smodato e indiscriminato di farmaci per “curare” qualsiasi “disturbo” correlato ai vari aspetti dell’essere femmina, che si tratti di ciclo mestruale, gravidanza, allattamento o menopausa. Nonostante gli enormi e utili progressi della scienza, sulla via della ricerca scientifica si è perso un importante tassello: lo spirito, l’emotività. La donna medicalizzata è una donna che vive un costante feedback negativo che la marchia come “dalla natura imperfetta”.
Finché la società e noi pensiamo che la donna sia un essere dalla natura disfunzionale, continueremo a ritenere opportuno e necessario l’intervento medico e il fatto di riempirsi a vita di ormoni, farmaci, pillole e amen. Ironizzo ed estremizzo solo per sottolineare una realtà non così distante. Non sono contraria a un supporto medico, quando necessario, ma ritengo vada assolutamente rivista la gestione della donna alla quale deve essere restituito un ruolo di centralità, ciascuna con la sua “normalità” e la sua unicità. Forse è arrivato il momento di riumanizzare la sanità. In questo senso ci sono numerose ostetriche che hanno intrapreso la via della libera professione: si tratta di specialiste che, spesso a titolo gratuito, fanno informazione e formazione su una serie di questioni che permettono l’accesso a dei saperi fondamentali per le donne, tanto legati alla conoscenza approfondita del proprio corpo, del funzionamento mestruale e della prevenzione (penso ai corsi di salute del perineo, una delle principali cause di prolasso nelle donne in menopausa), quanto a una consapevolezza legata ai propri vissuti e a come influenzano il ciclo. Sarebbe importante definire un nuovo modello di medicina basato su un approccio di tipo preventivo, lavorando sulla consapevolezza e l’insegnamento, per ridurre i tabù e imparare a capirsi, sapersi gestire, sapere quando è il caso di ricorrere a uno specialista, sapersi confrontare senza giudizio né vergogna, con normalità e dignità.
Per entrare nel particolare, come ti poni nei confronti delle questioni dell’aborto e della contraccezione?
Non mi sento di esprimere un giudizio, perché penso che siano questioni molto personali. Credo che l’interruzione volontaria di gravidanza sia una scelta personale molto dolorosa, sia per gravidanze legate a un partner fisso, sia nel caso di violenze. E trattandosi di una cosa così intima che riguarda corpo ed emotività non mi sento di giudicarla. Certamente non mi considero contraria.
Riguardo l’uso dei contraccettivi sono dell’idea che ci vorrebbe un grosso investimento sull’educazione e su un’informazione capillare già a partire da molto piccoli, perché ai bambini e alle bambine tutto può essere spiegato gradualmente. Finché viviamo il sesso come un tabù, sarà visto sempre come una regola da trasgredire, mentre invece dobbiamo fare il possibile per invertire questa tendenza.
La sindrome premestruale e i dolori mestruali sono una costruzione sociale, attraverso la quale il sistema riesce ad avere un grande controllo sulle donne e sui loro corpi, ad esempio facendo passare il messaggio che controllando questi eventi con i farmaci, la donna può mantenere quel ritmo frenetico che pervade oggi le nostre vite, quando invece basterebbe rallentare il ritmo, evitando di imbottirci di antidolorifici. Tu come vivi queste fasi della tua ciclicità?
Quello che posso dire a riguardo è che a me ha aiutato molto il calendario mestruale nel controllo dei dolori mestruali. E conosco altre donne che si sono curate usando una ruota lunare. La cosa più faticosa è capire cosa chiedersi. Ognuna sa quale è il proprio livello di sopportazione, è una questione individuale, di storia personale, di ciò che hai dentro, di come ti hanno cresciuta, se ti hanno voluta femmina, di come ti hanno educata. È necessario uno sforzo mentale, che deriva dalla capacità di ascoltarsi, di capire quanto di te nasce da un malessere fisico reale e quanto nasce da un malessere emotivo.
Babayaga – Illustrazione di Emma Bignami
Durante la presentazione del Lunario si parla anche di consultori. È importante ricordare che questi nascono negli anni ’70 come strutture autogestite dove, attraverso strumenti come l’auto-visita, le donne avevano la possibilità di tornare a conoscersi e condividere saperi sulla sessualità. Con la successiva istituzionalizzazione, i consultori sono diventati strutture pubbliche e a poco a poco si sono svuotati dei contenuti che li animavano inizialmente. Potremmo dire che anche in questo caso è avvenuta una sorta di “disumanizzazione”. Tu che cosa ne pensi?
Quella dei consultori è una questione che mi sta molto a cuore. Oggi appartengono di fatto alle aziende sanitarie e subiscono la frenesia del ritmo urbanizzante. Ginecologhe, ostetriche e infermiere si trovano spesso a doversi confrontare con situazioni molto distanti tra loro: esami di routine, gravidanze, prevenzione oncologica, controllo delle nascite fino alla cavillosa questione delle IVG. Quest’ultima genera un fortissimo dibattito legato all’obiezione, che personalmente non sento di condividere. Mi sembra venga dato un peso eccessivo al fatto che il corpo della donna sia funzionale alla procreazione e abbia quello come fine ultimo. In questo senso credo che monitorare il proprio ciclo e imparare a conoscersi esuli dalle potenziali, ma non necessarie, capacità procreative di una donna. Dove sta scritto che per essere donna bisogna essere madre? Questa equazione è ancora molto radicata nella cultura, nel vissuto sociale, così come nelle relazioni e soprattutto in noi stesse. Quando si vuole imporre un modello, non aprendosi alle differenze personali, si genera necessariamente confusione e frustrazione. Sarebbe opportuna un’educazione che inviti ogni bambina a sentirsi completa, indipendentemente da quel ruolo sociale che l’ha voluta madre per millenni. A tal proposito mi sono sempre chiesta: se una donna non vuole avere figli per qualsiasi motivo, non ha lo stesso diritto di arrivare a un livello di autoconsapevolezza del suo corpo a partire dal ciclo mestruale? Quindi a chi mi rivolgo se voglio imparare a conoscermi? Sarebbe bello sapere che il consultorio offre a tutte degli strumenti di autoconsapevolezza femminile, che ogni ragazza e donna possa presentarsi alle visite di controllo con i suoi strumenti (diario, agenda o calendario mestruale che sia) e parlarne insieme! Ora non è quasi mai possibile, perché hai a disposizione mezzora al massimo, se non meno. Credo che qui risieda la disumanizzazione e industrializzazione delle aziende sanitarie. Di contro conosco professioniste e professionisti che gradirebbero potersi dedicare con tempo e cura, utilizzare i loro saperi nella riflessione a due e nella complicità medico-paziente.
Quindi la donna non come madre o moglie, ma come individuo e la maternità non come un destino, ma come una scelta consapevole?
Esatto.
Affermi di trovarti spesso di fronte donne, giovani e meno giovani, che non conoscono la propria anatomia riproduttiva. A cosa pensi sia dovuto e quali pratiche puoi suggerirci per invertire questa tendenza?
Questo problema è emerso soprattutto quando sono stata affiancata da un’ostetrica e in alcune occasioni anche da una cara amica ginecologa. Credo che le donne si sentissero più libere di chiedere. Comunque in più di un’occasione ci siamo rese conto che non sempre c’è molta chiarezza sull’anatomia femminile, c’è disinformazione. Probabilmente è un problema di educazione, perché i genitori in linea di massima non hanno tempo o non vogliono dedicarsi all’educazione sessuale dei figli e quindi la delegano alla scuola, che a sua volta la delega ai consultori i quali, imbrigliati nella dinamica di catena di montaggio, non hanno tempo di fare informazione. Non so poi se sia realmente così, ma di fatto il passaggio di informazioni è minimo.
Credi possa dipendere anche dal fatto che per il genere femminile, l’auto-esplorazione e la masturbazione siano vissute come dei tabù?
Sicuramente un tabù legato soprattutto alla cultura cattolica e contrastabile soltanto con l’informazione.
Ecologia delle mestruazioni: un tema poco conosciuto, ma sicuramente fondamentale. Ci racconti in breve di cosa si tratta?
L’ecologia delle mestruazioni è uno dei tanti percorsi di consapevolezza attraverso cui passa l’emancipazione femminile. Partiamo da una considerazione: una donna utilizza circa 200 assorbenti usa e getta all’anno e mediamente 12.000 nell’arco della sua intera vita. Nella sola Europa occidentale 90 milioni di donne ne consumano 24 miliardi, andando inesorabilmente ad alimentare la mole di rifiuti indifferenziati (cioè non recuperabili) delle nostre sempre più incontenibili discariche o peggio ancora degli inceneritori. Oltre a inquinare il pianeta, questo comporta anche un enorme dispendio economico nella vita di ogni donna. L’alternativa a questo degrado è responsabilizzarsi nel quotidiano, uscire dal tunnel dell’usa e getta e diventare una “eco femme”. Come? Utilizzando metodi alternativi come la coppetta mestruale, che non è altro che una coppetta di caucciù o di silicone medicato che si inserisce all’interno della vagina e raccoglie il sangue per quattro/otto ore, con i vantaggi di non essere nociva per il corpo, di essere riutilizzabile, economica (ha un costo che va dai 15 ai 30 euro e può durare fino a dieci anni), ed estremamente igienica. Esistono poi alternative alla coppetta, come la spugnetta vaginale o gli assorbenti lavabili. Sul sito del Lunario spieghiamo molto bene come si utilizzano questi oggetti e dove poterli acquistare.
In che modo pensi che questi argomenti non siano soltanto una “cosa da femmine”?
Assolutamente no, non credo che siano argomenti che riguardano soltanto il genere femminile, perché confrontarci con noi stesse e prendere coscienza di ciò che si è veramente è un percorso che, al di là del calendario e del genere, può e deve riguardare ogni individuo.
Al momento mi sono dedicata esclusivamente al mondo femminile. La mia proposta parte da lì perché sono dell’idea che l’essere umano femminile sia un po’ “il collo che fa girare la testa”. Forse è un punto di vista un po’ presuntuoso, però sono dell’idea che una società si ammala quando la donna si ammala. Se vivessimo in una tribù o in un sistema più orizzontale, forse l’uomo e la donna avrebbero una gestione più comunitaria della vita e dell’educazione dei figli per esempio. In realtà in una struttura sociale come quella in cui viviamo, dove la gestione della quotidianità e l’educazione dei bambini e quindi della futura società è in mano alla donna, una donna che sta male (non intendo solo fisicamente, ma che viva male sé stessa, il suo corpo, il suo essere donna, che fatichi a definire dei confini, a creare alleanze con altre donne) produce di conseguenza una generazione malata. L’urbanizzazione di fatto ha generato l’isolamento femminile, per fortuna oggi le donne cominciano a recuperare il valore dell’alleanza femminile, dai più definita come sorellanza. In questo senso, credo che sia importante intanto cominciare da noi donne. Mi auguro vivamente che presto possa nascere qualcosa di simile anche per chi non vive il ciclo mestruale come una condizione naturale e abbia un forte desiderio di raggiungere una maggiore consapevolezza a partire dal proprio corpo. Credo che questo tipo di percorso sia necessario a chiunque, eterosessuali, bisessuali, gay, transgender, queer o intersessuali: siamo esseri umani e io, per concludere, non amo le divisioni di genere.
Eolico ad Apecchio: energia tutt’altro che “pulita”. Come girano le pale sul Monte dei Sospiri
Di Luigi
Evocare il vento e il sole come fornitori di energia offre un’immagine di rispetto per l’ambiente, un’immagine di energia rinnovabile che la generosa natura mette a disposizione delle attività umane. Di fronte all’inquinamento prodotto dall’utilizzo di fonti fossili e allo spettro delle centrali nucleari, l’eolico e il fotovoltaico come motori dello “sviluppo sostenibile” rassicurano tutti quei bravi cittadini preoccupati per le sorti del pianeta. Se di energia c’è bisogno – energia elettrica, nello specifico – ecco pronta la soluzione tecnologica: turbine eoliche e pannelli al silicio ne garantiscono di pulita e in quantità illimitata. Ma stanno davvero così le cose? Rinnovabile è sinonimo di “pulito”? Soprattutto: a cosa ci dovrebbe servire l’energia elettrica? Ad accendere le lampadine di notte o a tenere in piedi una società tecno-industriale di per sé insostenibile? Un nuovo “parco eolico” è stato da poco installato sui crinali dell’Appennino marchigiano, nei dintorni di Apecchio. Possiamo stare certi che non abbia nulla a che vedere con una forma di appropriazione individuale o comunitaria della produzione di energia. Dimentichiamo le immagini bucoliche dei mulini a vento e andiamo a vedere che succede.
Energie rinnovabili – Un mondo di propaganda
Sono considerate “rinnovabili” quelle energie generate da fonti che non risultano esauribili sulla scala del tempo umano e, per estensione, il cui utilizzo non pregiudica le risorse naturali per le generazioni future. Fonti di energia rinnovabile sono dunque il sole, il vento, il calore della Terra, l’energia idraulica, le maree e anche le biomasse (cioè materia organica come legno, residui agricoli, deiezioni animali ecc.). Nel complesso delle fonti rinnovabili il fotovoltaico riveste un ruolo di primo piano. D’altra parte già da diversi anni non si può lasciare correre lo sguardo sulle colline senza notare i bagliori riflessi da qualche appezzamento di terreno coperto di pannelli al silicio. L’idroelettrico invece, almeno sul territorio marchigiano, ha ormai fatto il suo tempo e se è stato storicamente la fonte rinnovabile per eccellenza oggi non presenta particolari potenzialità di sviluppo, così come le famigerate biomasse non hanno grandi prospettive e il geotermico non ha ancora sfondato a livello industriale. Rimane da considerare la fonte eolica, sulla quale gli amministratori regionali del settore energetico hanno già puntato il dito: “è la grande assente nel territorio marchigiano”, ammoniscono nella presentazione del Pear2020 (Piano energetico ambientale regionale), come a dire: “preparatevi!”.
Tre delle cinque pale eoliche sul Monte dei Sospiri
Piovono turbine
Nel 2015 l’eolico installato in Italia si è attestato sugli 8.942 MW, con 6.484 aerogeneratori di varia taglia (fino a 3 MW) raggruppati in “parchi” disseminati sul territorio e connessi alla rete ad alta tensione. Le Marche, insieme a Trentino, Friuli e Lombardia risultavano immuni dal miraggio dell’eolico industriale, mentre Puglia, Sicilia e Campania, da sole, raggiungevano quasi la metà della potenza installata sul totale nazionale[1].
Per il 2020 l’obiettivo italiano in ambito europeo è di raggiungere quota 12.680 MW e in questo sforzo anche il territorio marchigiano è chiamato a fare la sua parte, così come stabilito dal Pear2020 che recepisce le nuove strategie energetiche nazionale ed europea[2]. Nello specifico, il decreto del Ministero dello sviluppo economico del 15 marzo 2012, noto come decreto “Burden Sharing”, ripartisce regione per regione gli obiettivi sulla riduzione di emissioni e sviluppo delle fonti rinnovabili: le Marche dal 4,3% del consumo di energia rinnovabile sul totale dei consumi del 2012 sono tenute a raggiungere il 10,1% nel 2016 e il 15,4% nel 2020 (considerando sia l’energia elettrica che quella utilizzata per riscaldamento e trasporti).
Il problema è che sul territorio italiano, fatta eccezione per alcune circoscritte zone, è difficile incontrare il vento adatto per rendere economicamente vantaggiosi gli enormi e costosissimi impianti dell’industria eolica. I dati lo dimostrano chiaramente. Quelle 6.484 turbine che abbiamo citato, per una potenza installata, potenziale, di 8.942 MW, hanno prodotto nel 2015 un quantitativo di energia pari a 14,6 TWh. Il conto è preso fatto: in un anno ci sono 8.760 ore, quindi l’energia che l’insieme degli aerogeneratori potrebbe produrre, se lavorassero al 100% delle loro capacità, sarebbe di 78.331.920 MWh, cioè 78,3 TWh. Avendo effettivamente erogato solo 14,6 TWh, significa che le pale hanno marciato al 18% del loro potenziale. Evidentemente un gran vento da sfruttare non c’è stato e infatti se andiamo a vedere qual è la media nazionale del vento di velocità compresa tra 4 e 20 metri al secondo (l’unica adatta alla produzione elettrica) scopriamo che non supera di molto le 2.000 ore annue[3]. In pratica, è come se il vento gestibile dall’industria eolica soffiasse per due mesi e mezzo, lasciandola a pale ferme per tutto il resto dell’anno. C’è solo una magra consolazione per gli ammiratori dell’eolico industriale: il rendimento del fotovoltaico è ancora minore; se non possiamo controllare il vento ancor meno possiamo intervenire, nostro malgrado…, su notti e nuvole!
Tutto ciò determina che la redditività economica sia per forza di cose basata sul sistema degli incentivi, cioè su denaro pubblico, pagato da tutti in bolletta. Lo faceva notare già nel 2010 quel furbone di Giulio Tremonti, allora ministro dell’economia: “quello dell’eolico – sosteneva – è un business ideato da organizzazioni corrotte che vogliono speculare”[4], anche se il suo scopo, perfettamente razionale dal punto di vista economico, era di affossare l’eolico per spingere sul nucleare. Fino al 2015 il sistema degli incentivi si è basato sui cosiddetti “certificati verdi” (successivamente sostituiti da un nuovo sistema incentivante) introdotti dal Decreto Bersani 79/1999 che poneva a carico dei produttori di energia l’obbligo di immettere nel sistema una quota percentuale di elettricità prodotta da fonti rinnovabili. I soggetti interessati potevano o produrre essi stessi questa energia oppure acquistare da altri produttori appositi titoli detti appunto “certificati verdi”. In questo modo eolico e altre rinnovabili sono entrate nel business delle aziende più inquinanti e dannose per l’ambiente, aiutandole anche a ripulire di fronte all’opinione pubblica progressista la propria faccia sporca di catrame. Come se non bastasse, lo Stato attraverso il Gestore dei servizi energetici si faceva carico di acquistare i “certificati verdi” prodotti in eccedenza a un prezzo altissimo e del tutto fuori mercato[5].
Rischiamo quindi di vedere presto un proliferare sui nostri territori, peraltro già iniziato, di pale eoliche a tutto vantaggio delle grandi aziende dell’energia che hanno fiutato l’affare e che sull’onda della crescente sensibilità ecologista, nutrita di pochi rimasticati slogan, possono fregiarsi di promuovere centrali di produzione di energia elettrica chiamandole, in neolingua, “fattorie” e “parchi” eolici.
Qualcuno per fortuna non c’è cascato e in effetti, quasi ovunque, associazioni e cittadini riuniti in comitati hanno provato a opporsi alla colonizzazione dei territori da parte dell’eolico industriale. Nel multiforme magma dell’opposizione ambientalista esistono forme di collegamento tra i vari comitati spontanei, associazioni e singoli residenti come, a livello internazionale, l’European Platform Against Windfarms che tiene unite 1.276 organizzazioni di 31 Paesi, tra le quali 20 italiane. Su scala nazionale è attivo, tra gli altri, un Comitato nazionale contro fotovoltaico ed eolico nelle aree verdi, mentre nell’Appenino centro settentrionale, in particolare tra Liguria, Toscana, Emilia e Umbria, si segnala l’attività del Coordinamento dei comitati dell’Alto Appennino contro l’eolico industriale selvaggio, meglio conosciuto come Rete della resistenza sui crinali. Negli anni, con una mobilitazione dal basso e spesso in contrasto con amministrazioni comunali preoccupate solamente di risollevare i propri magri bilanci, la Rete della resistenza sui crinali è riuscita a bloccare l’installazione di diversi impianti. Ora uno dei fronti di lotta principali è quello contro il colossale parco eolico di Poggio Tre Vescovi, nell’alto Montefeltro tra Badia Tebalda (Arezzo), Casteldelci (Rimini) e Verghereto (Forlì-Cesena), in realtà già bocciato tempo addietro, ma ora riproposto dal gruppo industriale tedesco GEO mbH: circa 30 turbine alte 180 metri da piazzare nel bel mezzo dei borghi appenninici[6].
A fronte di quanti, generosamente, si battono con i mezzi che ritengono più opportuni (anche riponendo tutta la propria fiducia in una valanga di carte bollate, così come i socialisti del 1922 volevano fermare il fascismo con una “valanga di schede rosse”), le collaborazioniste Legambiente, WWF e Greenpeace si sentono a proprio agio nella sottoscrizione di un patto d’intesa con l’Associazione nazionale energia del vento (ANEV), membro di Confindustria Energia.
Liberiamoci, dunque, dal timore che gli industriali dell’eolico vogliano speculare sui nostri territori! I paladini di Legambiente vigileranno attentamente affinché si possa “conciliare lo sviluppo della produzione di energia pulita con le necessarie tutele di valorizzazione e salvaguardia del territorio”[7]. Il protocollo prevede una serie di buone intenzioni da parte dei progettisti per minimizzare l’impatto sul territorio, in cambio delle noccioline le associazioni ambientaliste legittimano gli interessi delle aziende installatrici e giustificano la loro (e la propria) esistenza nella convinzione che di energia ci sia bisogno e quindi i parchi eolici industriali, da qualche parte, bisognerà pur piantarli. Il peggior nemico dei territori è forse proprio questo ecologismo organizzato che non riesce a guardare al di là delle soluzioni proposte dagli stessi responsabili della catastrofe ambientale, un ecologismo colonizzato dal modo di pensare dei tecnocrati, che ne ha fatto propri anche il linguaggio e le prospettive. Un ecologismo che non desidera altro se non gestire l’economia, riformare le istituzioni e far dialogare esperti e contro-esperti, affinché il pianeta sia un po’ meno inquinato e ci si possa morire un po’ meno velocemente.
Monte dei Sospiri, guardando la torre della Metola
Sospiri…
Sull’onda della corsa alla nuova frontiera della speculazione industriale, nel solo Appennino marchigiano settentrionale sono stati recentemente presentati almeno una decina di progetti, quasi tutti miseramente falliti per il mancato rilascio dei permessi da parte delle amministrazioni locali o per l’opposizione degli abitanti, a partire dai 10 aerogeneratori che la ditta Garbino Eolica di Milano avrebbe voluto piantare in località Piani Rotondi di Montevecchio di Pergola[8]. Altri progetti di cui si ha notizia, che non hanno superato l’iter amministrativo per ottenere il via libera, sono quelli proposti in località Monte Cerrone, comune di Mercatello sul Metauro, dalla Società Mtre s.r.l. di Fabriano (9 aerogeneratori, potenza 27 MW) e dalla Società Abaco Energia Pulita s.r.l. di Ancona (5 aerogeneratori, potenza 11,5 MW), per altri non sono nemmeno noti il numero degli aerogeneratori e la potenza complessiva prevista, come quelli proposti dalla Società Ser in località Infilatoio Monte Catria nel comune di Frontone, dalla società Tre in località Monte del Picchio nei comuni di Urbania e S. Angelo in Vado, dalla Società Bluenergy poi Apecchio Energia in località Monte Macinara nel comune di Apecchio e in località Monte San Lorenzo nel comune di Cagli[9].
Ma è necessario che anche le Marche facciano la propria parte nella strategia energetica imposta a livello nazionale ed europeo pertanto, al di là di ogni altra considerazione, non tutti i progetti possono venire bloccati. Ecco così che il comune di Serrapetrona, in provincia di Macerata, non sarà più ricordato per l’ottima Vernaccia Docg ma per essere il primo comune marchigiano ad aver ospitato l’eolico industriale, con la messa in opera tra 2013 e 2014 di 4 aerogeneratori da 2 MW nel “Parco eolico Monte d’aria”, realizzato dall’azienda MAIT Spa di Osimo da sempre specializzata in macchine industriali trivellatrici e perforazioni.
Chi l’ha spuntata nella zona di Apecchio (PU) è invece Marche Energie Rinnovabili s.r.l., con sede a Lucera in provincia di Foggia, subentrata alla fallita A.T.I. Abaco Energia Pulita s.r.l.-Fortore Sviluppo s.r.l.: nell’ottobre 2009 ha ottenuto il giudizio positivo di compatibilità ambientale (al termine del procedimento di valutazione di impatto ambientale) e nel dicembre 2011 l’autorizzazione unica regionale per installare 5 aerogeneratori da 2 MW alti 80 metri con pale da 40 metri – quindi per un’altezza complessiva di 120 metri – sul Monte dei Sospiri, a circa 5 chilometri a nord ovest rispetto al centro abitato[10].
Dopo aver notato quante altre s.r.l. condividono la sede legale di Lucera e aver visto la composizione societaria di Marche Energie Rinnovabili, proprietà delle multinazionali Fortore Energia s.p.a. (per il 51%) e Europower alternative energy capital–Erantec s.r.l. (per il 45%), non ci siamo addentrati nell’indagine degli intrecci societari, intravisti grazie a semplici visure camerali e una veloce ricerca, dato che rimestare nei liquami del capitalismo non piace a nessuno e comunque, se pur si trattasse di società dalla specchiata trasparenza, la sostanza del discorso non si sposterebbe di una virgola.
Fatto sta che alla fine del 2013 i comuni di Apecchio, Città di Castello e Mercatello sul Metauro emettono i decreti di esproprio e la ditta deposita la comunicazione di inizio lavori. L’attuale amministrazione apecchiese, insediatasi nel 2014, si ritrova così la bega sul tavolo. Tutti gli eletti si definiscono senza remore “ambientalisti” – certo, è pressoché impossibile trovare qualcuno, fosse pure il peggior magnate del petrolio, che si definisca “anti-ambientalista” – ma come fare quando è il buonsenso che pare essere anti-ambientalista? C’è sicuramente un grosso problema di impatto ambientale e di salvaguardia del territorio “dopo di che – afferma il sindaco – ci sono gli aspetti legati agli accordi contrattuali; [io] non sono nelle condizioni di esporre il Comune a rischi dal punto di vista economico-finanziario e giuridico”[11].
Il progetto rispetta infatti tutte le normative e la precedente amministrazione ha sottoscritto impegni che vanno onorati se non si vuol finire nei guai. E poi c’è una consistente fetta della cittadinanza indifferente o tacitamente favorevole al progetto perché immersa nelle sue false certezze e reale ignoranza, convinta che le pale “portino soldi”, e tanto basta. Non ultimo, sotto sotto ma nemmeno troppo, c’è il miraggio di far entrare qualche spicciolo nelle magre casse comunali disastrate da spending review e patto di stabilità. Alla fine, insomma, i soldi non hanno odore e la ragion di Stato (o ragion di Comune) prevale.
Tra una cosa e l’altra passa ancora tempo e il primo aerogeneratore viene collocato nell’aprile 2016, seguito in rapida successione dagli altri, nonostante le tonanti minacce del sedicente “assessore alla Rivoluzione” di Urbino, Vittorio Sgarbi: “se mettono le pale eoliche ad Apecchio chiamo l’Isis per farle esplodere in aria” – aveva dichiarato ai giornali nel novembre 2015[12]. Ogni torre è piazzata su una base di cemento profonda 3 metri e larga 16, vale a dire 256 metri quadrati, più ampia di due grandi appartamenti messi vicini. Parte integrante del complesso eolico è un elettrodotto interrato che collega il “parco” con la sottostazione di trasformazione realizzata a Mercatello sul Metauro in località Monte Cerrone e quindi con la rete elettrica ad alta tensione.
Monte dei Sospiri, guardando verso Pesaro
Le ragioni del no
Ambientalisti, associazioni, comitati, singoli cittadini hanno ragioni da vendere per opporsi all’avanzata dell’eolico industriale, al Monte dei Sospiri come altrove, nonostante le mille accortezze che si leggono nella relazione esecutiva del progetto, non ultime la tinteggiatura “con colori delle terre naturali” e i coppi anticati per la sottostazione di servizio, la nomina di un archeologo che si premuri di fotografare gli scavi e la realizzazione di punti informativi per un po’ di sana propaganda sui “benefici ambientali a livello globale o locale, derivanti dall’utilizzo dell’energia eolica”[13].
Innanzitutto, mentre si parla di energia “pulita” non si può dimenticare che ogni aerogeneratore da 2 MW contiene circa 3-4 tonnellate di rame, la cui estrazione avviene oggi in massima parte nelle miniere dell’America Latina (principalmente in Cile) in condizioni di estremo sfruttamento umano e danneggiamento ambientale, e circa 500 kg di minerali rari, su tutti il neodimio estratto in quell’inferno sulla terra che è la miniera di Baotou in Cina. L’aspetto che immediatamente colpisce l’attenzione resta comunque l’impatto sui valori paesaggistici e panoramici collinari, una ferita devastante che non riguarda solo la turbina in sé, ma deriva anche da tutte le opere accessorie come sbancamenti, costruzione di strade per il passaggio dei materiali, cementificazione del suolo, scavi per l’interramento di cavi e così via.
Oltre al territorio di Apecchio direttamente interessato, tutta la provincia risente delle conseguenze di questa installazione, come avevano previsto già da tempo alcune associazioni ambientaliste: “l’ecomostro sbarrerà la maestosa visuale che si gode salendo sul Sasso Simone, deturperà la visuale da tutto il versante sud del Monte Carpegna, si imporrà sulla Torre della Metola, sarà visibile da ogni punto di Villagrande di Montecopiolo, si imporrà sull’orizzonte occidentale della Riserva statale del Furlo e quindi sul panorama immenso che si gode dai monti Pietralata e Paganuccio. Sarà una vista inevitabile dal Montiego, deturperà per sempre il paesaggio infinito che si osserva dal Nerone, che spazia dai Monti della Croazia, all’Abruzzo, all’Appennino Reggiano. E spunterà sul paesaggio occidentale di Urbino, verso il sole che tramonta. Un capolavoro”. Nello stesso documento degli ambientalisti si legge, inoltre: “la perla è che il parco eolico e il supermetanodotto Snam si intersecano. Dobbiamo però ricordare che in provincia di Pesaro e Urbino sono esistiti due parchi eolici: quello del Catria e quello di Peglio. In entrambi i casi il vento ha staccato le pale, che sono volate via andando a conficcarsi nei paraggi. Che succede se una pala di 50 metri si stacca e si infilza in un metanodotto da 48 pollici, pieno di gas supercompresso? Ovviamente la risposta è sempre la stessa: queste cose non possono succedere, ovvero le pale non si staccano e i metanodotti non esplodono”[14].
D’altra parte la civiltà ci ha ormai al tal punto subdolamente abituati al brutto da esserne assuefatti e aver acquisito come parte del paesaggio, senza che proteste si sollevino, i tralicci dell’alta tensione e perfino la selva criminale di antenne per la telefonia cellulare. Capita così che in questo mondo rovesciato un architetto giovane e alla moda, tale Alessio Battistella, possa senza alcuna vergogna magnificare le centrali eoliche quali elementi positivi nell’evoluzione del paesaggio, così come sarebbe capace di trovare elegante uno svincolo autostradale: “le centrali eoliche – ha scritto – non solo sono in grado di integrarsi nel paesaggio, ma sono anche in grado di valorizzarlo, rivalutarlo e farsi portatrici di nuovi contenuti formali, simbolici ed estetici, rappresentativi dei luoghi e del tempo che le ospitano”[15].
Le ricadute negative si risentiranno presto anche sul turismo che in queste zone di montagna appenninica non è ancora massificato ma rappresenta comunque un significativo introito per l’economia locale. Forse a compensare qualche escursionista in meno ci sarà qualche curioso in più, di quelli che andavano anche a Cogne a vedere la villetta o all’Isola del Giglio a fotografare la Costa Concordia. Un ulteriore problema è poi il rischio di collisioni mortali per gli uccelli, in particolare per i rapaci, ben documentato dall’esperienza e dagli studi in materia: un’indagine condotta in un’area della California ha verificato che il 38% della mortalità dell’aquila reale era dovuto proprio all’impatto con le turbine eoliche; un ulteriore studio condotto nella stessa zona ha verificato che in undici mesi sono finiti tritati tra le pale 139 esemplari di rapaci, uno ogni tre giorni. Si prevede una dura vita per falchi, poiane, gufi e altri rapaci dell’Appennino apecchiese[16].
Infine, e soprattutto, le turbine eoliche industriali sono dannose per la salute, come dimostrato da una vasta bibliografia internazionale, fino alla teorizzazione della cosiddetta “sindrome da turbina eolica”, ovviamente contestata, minimizzata e ridotta a disturbo psicosomatico da quelle schiere di esperti, non privi di interessi, di cui abbiamo imparato a diffidare[17]. Che provino ad andare ad abitare loro stessi nei pressi di un parco eolico… La sintomatologia legata alla vicinanza delle abitazioni alle pale è uniforme in tutti i paesi dove queste sono state piantate e pare che la causa primaria degli effetti nocivi sia l’emissione costante di vibrazioni a bassa frequenza, unita al rumore di sottofondo e ai cambiamenti di pressione dell’aria. I sintomi segnalati sono sia di tipo fisico, come pulsazioni al torace, vibrazione di organi interni, tinnitus (rumori dentro l’orecchio), mal di testa, vertigini ecc., sia riguardanti la distorsione di funzioni cerebrali, come perdita e peggioramento delle condizioni di sonno, concentrazione e memoria. Non tutti gli individui coinvolti ne risentono in egual misura, si nota che chi manifesta condizioni più critiche sono soprattutto i soggetti sofferenti di emicrania e predisposti al mal d’auto o al mal di mare. Il raggio minimo in cui è sconsigliabile vivere abbraccia almeno due chilometri tutto attorno alla turbina.
Alternative – Foto di Giorgio Collino
Energia per fare cosa?
I problemi sul tavolo sono quindi tanti, ma alcuni ambientalisti spesso scordano di porre la questione principale e fondamentale: energia, per fare cosa? A che cosa serve l’energia elettrica e perché nell’attuale organizzazione sociale ne abbiamo un bisogno costante e in continua crescita? Per soddisfare quali bisogni? Sono, queste, domande decisive dal momento che la questione dell’energia, della sua produzione e dei suoi flussi di circolazione, è al centro del modello di sviluppo disegnato dalla ragione economica; un modello che, attualmente, “non può giustificare la propria dismisura se non attraverso la dismisura dei bisogni che suscita e [in cui] la paura della mancanza è il principale combustibile immateriale del consenso sociale a favore del furore energetico”[18].
Le necessità energetiche sono un fatto che si è storicamente determinato nella società. Mentre riempiamo il pianeta di nocività inquinandolo fino alle soglie del collasso, dal consumo di 0,7 GWh del 1883 siamo passati ai 19.000 del 1940, ai 54.000 del 1960, ai 180.000 del 1980 fino agli oltre 300.000 del 2014, diffusi da una ragnatela di tralicci e linee ad alta tensione lunga 70.000 km (dati riferiti all’Italia). Di questi, solo 64.000 GWh vanno al consumo domestico, gli altri sono succhiati in massima parte dall’industria, seguita da agricoltura, costruzioni, amministrazione e terziario[19].
La questione energetica, che è questione insieme ambientale e sociale, non è risolvibile se non uscendo fuori dalla logica di produzione del capitalismo industriale. Questo salto non possono di certo farlo tecnici e amministratori del settore, che fino all’altro ieri si sono adoperati per rendere invivibile il pianeta e oggi cercano di raddrizzare il tiro aprendo nuovi settori d’impresa per proporre soluzioni “eco-compatibili” (l’eolico, il solare, il geotermico…), ma continuano a dissimulare la questione principale, che è appunto sociale e politica, ovvero la “riorganizzazione della società affinché produzione, distribuzione, trasporti e consumo possano essere considerati dal punto di vista delle necessità collettive iscritte in un quadro di eguaglianza e autonomia”[20]. Non si tratta, in altre parole, di escogitare soluzioni tecnologiche per sostituire il fumo delle ciminiere con qualcos’altro, ma di porre in discussione i modi di vita e i consumi imposti da questa società, per costruire dei rapporti tra gli individui e i loro territori in cui l’energia – la sua riappropriazione e il suo uso individuale e sociale – da strumento per la perpetuazione del dominio industriale diventi un aiuto per la soddisfazione dei bisogni di uomini e donne e un veicolo per la loro autonomia. Autonomia energetica e autonomia sociale vanno di pari passo.
Certamente – dice chi ha fatto della religione del male minore il proprio credo – meglio un “parco” eolico di una centrale nucleare, ma sta proprio qui il cuore del problema. Perché l’inquinamento ideologico fa altrettanti danni di quello ambientale. L’accettazione dell’eolico industriale come alternativa ecologica all’inquinamento degli idrocarburi e ai potenziali disastri del nucleare, il suo proporsi come soluzione per far fronte al riscaldamento globale e sostenere la nuova economia green, pulita e giusta, sono un’ottima copertura per lasciare essenzialmente intatta la società industriale con il suo portato di distruzione. Eolico e fotovoltaico, infatti, non sono fonti affidabili poiché legate all’intermittenza di sole e vento e, non essendo possibile accumulare grandi quantità di energia elettrica, per evitare intermittenze e blackout la rete dovrà sempre far affidamento sulle fonti “tradizionali”. È quindi un falso problema quello del passaggio alle fonti rinnovabili: queste non escludono affatto le fonti inquinanti utilizzate finora, ma vi si accostano e, cosa ben più grave, fanno buon gioco alla propaganda ecologista di un capitalismo che si presenta “verde” e sostenibile.
Va tenuto presente che l’eolico, ma il discorso è estensibile alle altre rinnovabili, neanche volendo potrebbe risolvere il problema dell’approvvigionamento elettrico mantenendo gli attuali livelli di consumo. Dati alla mano, con i suoi 14,6 TWh il girare delle pale ha coperto il 4,8% del consumo nazionale di energia, attestatosi nel 2015 intorno ai 300 TWh. Una percentuale che nelle più rosee previsione di ANEV potrebbe aumentare nel 2020 al massimo di un paio di punti percentuale, dopo la messa in funzione di altre 3.000 turbine. Un bel misero risultato se pensiamo che la contropartita è la devastazione di interi territori costellati, come in una sorta di agopuntura su larga scala, di pale alte quanto grattacieli da trenta piani. Se volessimo coprire l’intero fabbisogno basandoci sull’eolico, di turbine (di media grandezza) ne servirebbero oltre 135.000 cioè, in media, una ogni 2,2 Km2 sull’intero territorio nazionale. I sostenitori delle energie “pulite” possono pure ammirare le pale rotanti e i campi al silicio sognando un’economia sostenibile, ma nel frattempo il grosso dei consumi è sostenuto da petrolio, carbone, gas e nucleare (acquistato dall’estero) e se, chissà, tra cent’anni le rinnovabili conquisteranno una significativa fetta delle necessità energetiche, nel frattempo avremo talmente martoriato il pianeta che ci sarà ben poco da festeggiare sulle macerie della civiltà industriale.
La riconversione ecologica della produzione e gestione di energia non si fa, quindi, solamente cambiandone la fonte (rinnovabili piuttosto che combustibili fossili o nucleare). Piuttosto, la prospettiva va ribaltata: è solo smantellando questa società tecno-industriale con tutto l’apparato politico e amministrativo che la sostiene, è solo facendo sì che la dipendenza umana dalla produzione e circolazione di merci diventi il ricordo di un grigio passato, è solo rimettendo in discussione le grandi infrastrutture di trasmissione che alimentano oggi l’insostenibilità della produzione centralizzata e degli agglomerati metropolitani, solo allora potremmo porci nell’ottica di ripensare una produzione locale, ridotta e veramente alternativa dell’energia.
— Foto dei lavori in corso per il “parco eolico” di Apecchio —
[1] Al momento della redazione dell’articolo non sono disponibili dati certi per il 2016, la stima è di 9.605 MW di potenza installata. La situazione italiana non è ancora paragonabile a quella di altri paesi europei, con in testa la Germania (44.949 MW), seguita da Spagna (23.025 MW) e Regno Unito (13.603 MW). Dati: Associazione nazionale energia del vento (ANEV), <www.anev.org>.
[2] La normativa di riferimento comprende la Direttiva 2009/28/CE sulla promozione dell’uso di energia da fonti rinnovabili; il D.lgs 28/2011 che recepisce la direttiva europea del 2009; il DM 15 marzo 2012 (“Burden Sharing”); il DM 11 maggio 2015 “Metodologia di monitoraggio per il raggiungimento degli obiettivi Burden Sharing”.
[3] Cfr. Comitato nazionale del paesaggio, La questione eolica in Italia, 2002.
[5] Cfr. Alberto Cuppini, L’eolico industriale su tutto l’Appennino come paradigma di un sistema politico impazzito, <https://reteresistenzacrinali.wordpress.com/2013/03/09/leolico-industriale-su-tutto-lappennino-come-paradigma-sistema-politico-impazzito>.
[6] Cfr. <https://reteresistenzacrinali.wordpress.com/2016/02/02/nuova-ribalta-per-il-mostro-eolico-di-poggio-tre-vescovi>. La vicenda dell’eolico a Poggio Tre Vescovi è in continua evoluzione, se ne possono seguire gli aggiornamenti sul sito della Rete della resistenza sui crinali.
[7] Anev, Report 2016, <http://www.anev.org/wp-content/uploads/2016/05/Anev_ brochure_2016web.pdf>. Va detto che il Circolo Legambiente di Urbino si è schierato contro il parco eolico di Monte dei Sospiri, si veda il comunicato del Circolo <http://www.legambienteurbino.it/2016/03/impianto-eolico-apecchio-pu> e Vittorio Emiliani-Comitato per la bellezza, “Urbino deve protestare”, «Il Resto del carlino», 20 marzo 2016.
[10] Cfr. Decreto n. 109/VAA_08 del 08/10/2009 del Dirigente della Posizione di Funzione Valutazione e autorizzazioni ambientali (Geol. David Piccinini), pubblicato sul BUR Regione Marche n. 10 del 01/02/2010, valido fino al 2015 ma poi prorogato di ulteriori tre anni fino al febbraio 2018. Cfr. Decreto n. 114 dell’1/12/2011 del Dirigente della Posizione di Funzione Rete elettrica regionale autorizzazioni energetiche gas ed idrocarburi (Ing. Luciano Calvarese), pubblicato sul BUR Regione marche n. 109 del 22/12/2011.
[11] Incontro informativo con l’amministrazione comunale di Apecchio sul progetto eolico, Teatro G. Perugini, 9 maggio 2015: <https://youtu.be/YNfY8f5OoOs>.
[12] «Il Resto del Carlino», cronaca di Urbino, 18 nov. 2015.
[13] Si veda la documentazione progettuale presentata per la domanda di VIA: <http://www. ambiente.marche.it/Ambiente/Valutazionieautorizzazioni/ValutazionediImpattoAmbientale/ tabid/86/ctl/Dettaglio/mid/626/Impianto/365/Ditta/336/ID_proc/1260/Tipo/VIA/directory/V00599/Default.aspx>.
[14] Comunicato a firma Comitato No Tubo – Gruppo d’Intervento Giuridico – Italia Nostra Marche – La Lupus in Fabula, Apecchio 3 dicembre 2015.
[15] Alessio Battistella, Trasformare il paesaggio: energia eolica e nuova estetica del territorio, Milano, Ambiente, 2010, p. 11.
[17] Cfr. Nina Pierpont, Wind turbine syndrome: a report on a natural experiment, Santa Fe, K-Selected Books, 2009. Tra la vasta letteratura scientifica sull’argomento si vedano ad esempio: Hanning C., Evans A., Wind turbine noise, «BMJ», 2012, 344(7853), art. n. e1527; Nissenbaum M.A.[et al.], Effects of industrial wind turbine noise on sleep and health, «Noise Health», 2012, 14(60), p. 237-43; Kurpas D. [et al.], Health impact of wind farms, «Annals of agricultural and environmental medicine», 2013, 20(3), p. 595-605; Schmidt J.H., Klokker M., Health effects related to wind turbine noise exposure: a systematic review, «PLoS ONE», 2014, 9(12), art. n. e114183; Onakpoya I.J. [et al.], The effect of wind turbine noise on sleep and quality of life: a systematic review and meta-analysis of observational studies, «Environment international», 2015, 82, p. 1-9.
[18] Collettivo editoriale delle Éditions de la Roue, Prospettive antindustriali, Torino, Nautilus, 2015, p. 51.
[19] Cfr. Serie di dati storici elaborati da Terna, <https://www.terna.it>. La Serie storica comprende anche il dettaglio regionale, i consumi di energia elettrica delle Marche vanno da 133 GWh del 1932 ai 571 del 1950, 2.004 del 1970, 4.251 del 1990, 7.388 del 2010, nel 2014 si attestano sui 6.700 registrando una lieve flessione, in linea con il dato nazionale, dovuta alla “crisi”.
[20] José Ardillo, Les illusions renouvelables, Parigi, L’échappée, 2015, p. 203.
Così fa un detto dialettale marchigiano ancora in voga e finisce con il sincero endecasillabo “fadiga te padròn che io nun posso”.
bravi ragazzi e ragazze del servizio civile.
Non è una novità che l’offerta di lavoro nelle Marche sia in calo dal 2008 ad oggi mentre la disoccupazione per la fascia di età tra i 15 e i 29 anni è cresciuta dal 9,9% del 2008 al 25,2% del 2016. Basta farsi un giro nella miriade di zone artigianali e industriali della regione o domandare nel primo bar: la distruzione di posti di lavoro ha avuto un impatto notevole sulla situazione sociale ed economica di chi oggi è considerato giovane fino ai 35 anni.
L’isola felice descritta nella favola della “Terza Italia” e del distretto industriale marchigiano diffuso non esiste più. Chi ha tempo di leggere i dati può accorgersene facilmente e la sequenza sismica iniziata ad agosto 2016 ha reso fragilissimo il tessuto industriale e produttivo già provato da pesanti ristrutturazioni delle province di Ascoli Piceno, Macerata e in parte della provincia di Fermo. Certo qualcuno potrebbe obiettare che i macchinoni in giro si vedono ancora e i negozi di lusso continuano a restare aperti. La ricchezza infatti c’è ancora, ma è distribuita sempre peggio e sempre più lontano dai giovani, sono loro infatti i più a rischio povertà anche secondo l’ISTAT. Anche nelle Marche, di fronte al fallimento delle promesse e dei progetti della classe imprenditoriale e dirigente locale si preferisce, come ovunque in Italia, spostare la responsabilità su chi è arrivato dopo. E quindi ecco che da qualche anno è iniziata ad apparire sui giornali e nel lessico dei politici la contabilità dei cosiddetti NEET: l’acronimo anglosassone che etichetta i giovani che non lavorano, non studiano e non frequentano corsi di formazione.
Nelle Marche le statistiche ufficiali ne contano 41.800, ovvero il 19,8% dei giovani nella fascia di età tra 15 e 29 anni. Noi non vogliamo prendere per buone le etichette negative e deprimenti della statistica ufficiale. Ci piacerebbe pensare che migliaia di quelli censiti in questa categoria abbiano scelto di non lavorare per fare qualcosa di meglio ma tuttavia è plausibile pensare che un giovane su cinque sia gravemente a rischio povertà e sempre secondo le statistiche ufficiali almeno altri due abbiano sicuramente un contratto di lavoro molto precario. Alcune interviste raccolte nell’arco di diversi mesi nel 2016 durante la prima fase di Garanzia Giovani mi hanno dato uno spaccato in presa diretta di quello che sta succedendo per i lavoratori e le lavoratrici più giovani. Le prime esperienze lavorative spesso producono una profonda delusione ma servono anche a stimolare un senso critico:
«In cucina ho lavorato al Girasole, qui a Marotta, dove ho lavorato per due mesi che dopo sono andato via… e sempre con la scuola… solo che il professore mi ha detto tu vieni a lavorare con me e dopo un mesetto ti do qualcosa. È passato un mesetto e non mi ha dato niente… e [ha detto] guarda è meglio che lavori gratis e in inverno vieni a lavorare con me. Non mi è piaciuto quello. Io mi sono fatto un culo grosso così per tutto un mese e tu mi dici questo? Quello non mi è piaciuto per niente, dopo che mi ha fatto così io non sono andato mai più a lavorare.» A.F., uomo, 20 anni, Mondolfo.
Tanti giovani anche di fronte alla mancanza di opportunità non smettono comunque di rimanere attivi, perché il lavoro e in generale l’essere attivi e produttivi rimane un tassello fondamentale della cultura e dell’identità marchigiana:
«Poi ho continuato a cercare fino al 2013, diciamo che sono stato due anni dal 2011 al 2013 sempre a cercare ma non ho trovato nulla… solo a casa diciamo facevo le scale del palazzo, ogni tanto aiutavo mia nonna, facevo queste cose… facevo le scale nel senso che pulivo le scale poi mi davano qualcosa così, ma giusto per fare qualcosa, perché io volevo fare ma non trovavo nulla allora almeno… siccome vivo in un palazzo con sei famiglie, allora le altre famiglie invece di pagare un’altra persona o una ditta io mi sono proposto e lo faccio tutt’ora questa cosa e la faccio da quando ho finito la scuola perché proprio me la sento io, senza far niente non ci riuscivo…» V.C., uomo, 26 anni, Corridonia.
Fino qui nulla di nuovo, ma vorrei riflettere criticamente sull’idea che il dramma provocato dalla disoccupazione giovanile non consista nell’evidente stato di subordinazione in cui essa mantiene i giovani della regione ma nel fatto che quasi nessuno sia spinto a interrogarsi sul senso e sul futuro del lavoro in quanto tale.
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Garanzia giovani: il circo dei tirocini
Intanto dopo l’ondata di rivolte giovanili del 2011, che alle latitudini più diverse aveva portato in piazza migliaia di giovani combattivi dalle più diverse regioni d’Europa e del Mediterraneo, negli ambienti istituzionali e della gestione economica della crisi finanziaria si è fatto strada il timore dei “rischi per la coesione sociale” portati dall’aumento vertiginoso della disoccupazione. Soprattutto in risposta a queste inquietudini nel 2013 la UE ha tirato fuori dal cappello il progetto Garanzia Giovani, che ha iniziato a veicolare verso le regioni maggiormente colpite dalla disoccupazione giovanile un nuovo flusso di risorse economiche condizionate a specifici interventi di politiche attive del lavoro, cioè a un nuovo progetto di disciplina sociale per i giovani lavoratori e studenti del continente.
Garanzia Giovani è arrivata nel 2014 nelle Marche e ha messo subito a ballare tutta la rete regionale delle cosiddette politiche attive per il lavoro. Le risorse in arrivo dall’Europa hanno ringalluzzito tutto l’esercito di imprenditori che ruotano attorno al business delle “risorse umane”. Si sono moltiplicate le Associazioni Temporanee di Impresa che associano agenzie interinali molto note come Manpower e Obiettivo Lavoro o altri centri di formazione meno famosi come lo IAL del sindacato CISL e tante altre imprese di servizi più piccole che sono nate come funghi durante la crisi economica del 2008 e dopo il 2014 in corrispondenza con l’arrivo dei nuovi fondi europei. In queste aziende della formazione e della gestione del “capitale umano” centinaia di persone, spesso precarie e sfruttate anch’esse, lavorano per far girare la macchina della formazione e dell’orientamento professionali.
I risultati dal punto di vista della trasformazione delle condizioni dei giovani? Praticamente nulli. Ci dicono le statistiche ufficiali che una buona metà trova un lavoro a tempo determinato dopo sei mesi di tirocinio svolti con un compenso di 500 euro mensili. Poi, come accade per percentuali altrettanto maiuscole, lo perderà e comunque non riuscirà a cambiare la propria condizione individuale di sfruttamento e incertezza. Insomma trova lavoro chi lo avrebbe trovato anche senza regalare soldi pubblici alle aziende e intanto il valore del lavoro dei giovani continua a diminuire. Anche i servizi per l’impiego pubblici spesso non brillano per efficienza e serietà e i risultati non tardano ad arrivare:
«Io sono iscritto da quando avevo 16 anni ma non mi ha mai trovato un lavoro, un corso formativo interessante, non è servito a nulla se non per rinnovare ogni sei mesi la disoccupazione che poi non serve a nulla… l’anzianità di disoccupazione non serve a nulla in un territorio come Fabriano perché quando io ero interessato a seguire un corso di formazione ero immediatamente surclassato da un cassaintegrato che aveva la priorità su di me… quindi il centro per l’impiego non mi è servito a nulla.» G.T., uomo, 29 anni, Fabriano.
Anche nelle Marche per tutti gli anni 2000, ben prima della grande ubriacatura renziana, l’entusiasmo per le “politiche attive” aveva prodotto distorsioni evidenti come l’uso massiccio dei voucher da parte delle amministrazioni comunali per stipendiare forme di lavoro assistenziale o clientelare rivolto ai disoccupati cronici e alle categorie più deboli.
A partire dal 2014 il progetto Garanzia Giovani ha portato con sé il classico corollario di distorsioni e disagi all’italiana: pagamenti in ritardo per mesi, contratti di lavoro stagionale o temporaneo sostituiti dai tirocini pagati con i soldi pubblici, progetti di auto-imprenditorialità fallimentari. Specialmente nel settore turistico e della ristorazione è emerso chiaramente il rischio concreto di vedere sostituiti dei pessimi lavori pagati male con dei pessimi interventi di politiche attive, pagati ancora peggio o addirittura non pagati come nel caso dell’alternanza scuola lavoro.
Da questo punto di vista anche chi ha le idee chiare su queste contraddizioni non vede nell’immediato una possibilità politica di attivazione:
«Se una azienda si mette a disposizione di un progetto del genere ci deve essere una minima apertura verso il fatto che questa persona possa rientrare dentro l’azienda o che ci siano dei margini di continuità perché altrimenti questo diventa uno strumento che le aziende sfruttano per avere una persona in più. A me mi è andata benissimo perché in tutto questo ho fatto un progetto che mi piaceva però immagino che ci siano persone che hanno lavorato “a uffa” senza guadagnarci una “cippa”. Per cui un minimo di garanzia ci dovrebbe essere in questo per cui l’azienda che si mette in discussione su un progetto del genere ha dei benefici ma ha anche degli impegni verso la persona che sta lì e che lavora sei mesi anche se è giovane. A me hanno detto: “una volta i tirocini non erano pagati, ringrazia che adesso lavori e ti pagano”. Ma non è che se una volta si facevano le cose male, adesso dobbiamo accontentarci no? Che ragionamento è?» E.B., donna, 26 anni, Senigallia.
A partire dalla grande vetrina di Expo 2015, l’idea che il lavoro dei giovani possa essere svolto gratis e l’estensione anche ai trentenni di questa aberrante idea di “esperienza” provoca anche in provincia situazioni paradossali:
«Mi sono trovata bene perché la mia titolare era concreta, giovane, comprensiva, mi ha aiutato tanto e poi addirittura dopo quattro mesi che ero lì e non avevamo ricevuto lo stipendio dalla Regione lei mi ha dato qualcosa, si è sentita in dovere di anticiparmi qualcosa. Per il resto a livello lavorativo lavoravo 5 ore al giorno [il minimo previsto] e quando la mia titolare è andata a chiedere informazioni per il mio contratto ci ha fatto un po’ strano che al centro per l’impiego le hanno detto: “come solo per 5 ore? Ne può fare di più…” [infatti] c’è un massimo di 8 ore. E lei ha risposto che per 500 euro non se la sente di far lavorare più di 5 ore. Quindi anche al centro per l’impiego lo sfruttamento è una cosa normale… [L’unico contatto con il centro per l’impiego si è ridotto all’attivazione del contratto]. Poi quando si è trattato di reclamare i soldi che non arrivavano loro non sapevano mai niente, però visto che era una situazione comune non abbiamo insistito tanto, poi la titolare mi aveva già anticipato qualcosa.» A.S., donna, 30 anni, Ancona.
Garanzia Giovani, malgrado le buone intenzioni dichiarate della Regione Marche, ha quindi inserito nuove risorse nella dinamica distorta dei tirocini che spesso coprono forme di sfruttamento:
«Quando mi hanno chiamata c’era già una parrucchiera che mi richiedeva, si chiama M. di San Benedetto. Cercava qualcuno che avesse un minimo di esperienza. Quest’esperienza non mi è piaciuta più che altro perché ci marciano tutti, ci marciano, non t’insegnano nulla, ti mettono lì come sciampista, non mi hanno fatto alcun tipo di formazione. Io dopo quattro mesi, senti a me, già mi date poco, insegnate non m’insegnate niente, io me ne sono andata! Era una ditta piccola, un negozietto con due soci, mi avevano preso solo per alleggerire il loro lavoro.» M.R., donna, 20 anni, Macerata.
Mentre dal lato dei giovani professionisti e free-lance la consapevolezza dei propri diritti è molto bassa e la solidarietà è inesistente come testimonia questa donna:
«Quello che mi frega è che per quanto stai male economicamente, i pagamenti a singhiozzo, fai quello che ti piace, sei in un ambiente giovanile, con gente inserita in vari discorsi… Però vedo altre imprese che devono mandare i dipendenti in ferie perché sennò li devono pagare alla fine, quando mi vedo io che devo star qui 10 o 11 ore per una “micragna” e devo pagarmi io le tasse ed è tutta una rimessa e dico perché io devo fare così e gli altri hanno tutto questo gran tappetto davanti e non fanno niente soprattutto i dipendenti pubblici?» V.T., donna, 28 anni, Camerano.
Cosa succede poi quando dopo sei mesi a 500 euro si torna alla vita di disoccupati? La delusione è forte e non tutti riescono a essere abbastanza resilienti:
«Io più che altro sono stato scoraggiato, avevo molto puntato sull’esperienza di sei mesi perché loro avevano detto che c’erano possibilità di assumere e allora io ho cercato di dare il massimo per essere assunto. È stata un po’ una delusione lì, dopo mi sono un po’ abbattuto e c’è stato un po’ sto calo che sono stato un anno senza fare niente e dopo mi sono ripreso perché comunque sia devi riuscire anche un po’ a riprenderti, è anche una fortuna. Ci sono tante persone che conosco che magari cadono anche in depressione, può sfociare in una cosa abbastanza seria.» G.R., uomo, 25 anni, Civitanova.
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Scuola/lavoro alternate: sfruttamento fisso
Spesso si sente dire dagli esperti in materia che molti dei problemi a trovare lavoro dei giovani dipendono dallo scarso collegamento tra scuola e lavoro. Certo spesso la scuola è un mondo a sé, chiusa in logiche auto-referenziali ma che dire dell’invecchiamento della popolazione? Del nepotismo e della corruzione, dei vecchi aggrappati alle poltrone e ai posti di potere, del paternalismo e del mammismo all’italiana? Quanto pesano sulle possibilità di costruirsi una vita autonoma e libera?
A partire dal 2015 l’alternanza scuola lavoro obbligatoria è stata imposta dall’alto, come tutta la riforma della scuola della legge 107/2015 e coerente con le sue origini altolocate ha portato con sé la puzza di privilegio e sfruttamento. Se infatti da un lato gli studenti e le studentesse si dichiarano per la maggior parte contenti/e di svolgere un periodo fuori da scuola, se si analizza bene cosa succede troviamo che non c’è in atto nessun sistema per promuovere la mobilità sociale: i più attrezzati svolgono le settimane di alternanza presso amici di famiglia o imprese amiche, mentre ai più sfigati non resta che attingere all’offerta istituzionale.
E qui la situazione delle Marche è comunque allarmante poiché anche in questa regione è arrivata l’attivazione di partenariati con pescecani industriali come Mc Donald’s, Autogrill e perfino con l’Anonima Petroli Italia proprietaria della mefitica raffineria di Falconara Marittima. Un passaggio del protocollo di intesa firmato tra il ministero della pubblica istruzione e l’API è particolarmente surreale quando nell’art. 1 dichiarano “che intendono promuovere la collaborazione, il raccordo e il confronto tra il sistema educativo di istruzione e formazione, il sistema universitario e il mondo del lavoro e dell’industria […] al fine di diffondere conoscenze e competenze relative ai temi dell’energia, della tutela dell’ambiente e del futuro della mobilità attraverso il contatto diretto con gli operatori del settore”.
Peccato che lo stabilimento API di Falconara sia dal 2011 nella posizione 274 dei 622 impianti più inquinanti per l’aria in Europa secondo l’Agenzia europea per l’ambiente. Non certo un esempio di ecologia e tecnologia del futuro. Per non parlare della terribile eredità di tumori e inquinamento marino che da anni vengono denunciati dai comitati di cittadini del piccolo centro costiero. La raffineria e i suoi padroni piuttosto che ricevere ancora soldi e lavoro gratuito dallo Stato dovrebbero iniziare a riparare i danni al territorio che hanno sfruttato, ma questa è un’altra storia. Sono più di ventimila ogni anno i ragazzi e ragazze nelle Marche che dovranno obbligatoriamente entrare in percorsi di alternanza scuola lavoro. Si tratta di un immenso cantiere pedagogico purtroppo fino a oggi contraddistinto dalla più totale mancanza di senso critico rispetto allo sfruttamento nel mercato del lavoro e dall’assenza di una visione del lavoro come attività umana cooperativa e collettiva ben diversa dall’idea di una merce da svendere in competizione con il proprio compagno di banco. Il concetto di occupabilità promosso dal ministro Poletti altro non è che un invito stucchevole a obbedire alle leggi ingiuste del mercato.
Pesaro, marzo 2017 – Corteo contro l’alternanza scuola/lavoro
Le risposte
È da molto tempo che provo a cercare le tracce di una risposta conflittuale al continuo deterioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei giovani ma purtroppo ho trovato molte risposte individuali, molta consapevolezza delle contraddizioni della situazione ma poca sensibilità rispetto all’esistenza di una condizione comune, di classe e generazionale.
Garanzia Giovani e in generale la retorica delle “politiche attive per il lavoro” (che non c’è) nelle Marche non hanno incontrato fino ad ora una opposizione e una criticità organizzate. Anzi, fino a febbraio 2017, ben 36.600 giovani si erano iscritti al programma, circa 17.000 erano entrati attivamente in contatto con gli uffici e poco più di 8.000 avevano ricevuto un qualche tipo di offerta di attività formativa o di tirocinio. Il disagio per l’ingiustizia dei ritardi nei pagamenti delle indennità per i tirocini si è sfogato soprattutto sulla rete web senza però dare luogo a scelte rivendicative forti o momenti di solidarietà concreta. La scelta dei sindacati confederali è stata quella di partecipare alla gestione dei fondi per la formazione nel caso di CISL e UIL o di restarne fuori come nel caso della CGIL senza però svolgere un ruolo attivo di contrasto, bensì con deboli tentativi di organizzare le rivendicazioni dei borsisti e con una posizione critica che non ha inciso sui problemi di fondo. Alcuni aspetti dei tirocini sono stati riformati: dal 2017 le aziende che vogliono assumere un tirocinante devono contribuire con 200 euro all’importo dell’assegno e così forse qualche sciacallo in meno si avvicinerà a questa mangiatoia, ma per i giovani la musica non cambia.
Nel campo dell’alternanza scuola lavoro i pochi studenti che non hanno rinunciato al senso critico hanno provato a organizzarsi, ma la risposta delle migliaia di studenti marchigiani per il momento non è sembrata corrispondere all’urgenza dei problemi. Nella provincia di Pesaro e Urbino il collettivo Studenti Attivi ha fatto una partenza in salita. Un corteo a Pesaro nell’ottobre 2016, poi un altro a fine marzo 2017, la risposta in termini di numeri è stata molto debole anche perché la polizia politica ha il vizio di telefonare preventivamente ai rappresentanti degli studenti per dissuaderli dallo scendere in strada. In parallelo alcuni studenti e studentesse del collettivo hanno avviato un monitoraggio delle esperienze di alternanza, un racconto corale nel tentativo di arginare l’indifferenza e l’individualismo che spesso circondano le difficoltà dei più giovani nell’esperienza scolastica e lavorativa.
Cosa succederà in futuro? È necessario ancora molto lavoro di ascolto, di collegamento e di educazione di base per riportare tra i più giovani la consapevolezza delle contraddizioni e dei conflitti che si nascondono dietro il mantra delle lamentele istituzionali per la disoccupazione. Di chi è la colpa dei nostri problemi? Qual è la soluzione che possiamo trovare insieme? Non sono domande stupide, ma l’inizio di un necessario processo di organizzazione e di lotta per liberarsi dal posto di lavoro come forma di oppressione sociale e per riscoprire il valore del lavoro libero, della cooperazione e del mutualismo come forme di uscita dalla cappa di pesantezza e obbedienza imposta da dieci anni di prediche sulla crisi.
Lo stesso nome e un destino simile uniscono Emmanuel Chidi Nnamdi ed Emmanuel Nnumani. Per entrambi un lungo viaggio alle spalle che li ha condotti dalla Nigeria all’Italia, costa adriatica, dove sono diventati protagonisti e vittime di storie di ordinario razzismo. Del primo, ucciso a Fermo da un picchiatore amico di CasaPound, abbiamo parlato nel numero 5; l’altro, nel momento in cui scriviamo, è stato invece dichiarato fuori pericolo e trasferito dall’ospedale Infermi di Rimini in una struttura di riabilitazione, dove lo attende un lungo percorso. Insultato, picchiato, accoltellato e investito da un altro razzista di provincia. Per lui i giornali non hanno sprecato troppo inchiostro: la notizia ha tenuto le prime pagine della cronaca locale il tempo di essere ridimensionata a un episodio scatenato da “gravi problemi psichiatrici” dell’aggressore, in cui la matrice razziale e xenofoba non aveva ragione di esistere. A completare l’ipocrisia, Emmanuel ha ricevuto dal prefetto, in via straordinaria, un generoso permesso di soggiorno di appena un anno per motivi umanitari: questo è il valore di una vita strappata per caso alla morte per mano razzista, una tra tante. Proprio per questi motivi crediamo che l’antifascismo non sia solo retorica da 25 aprile e chi soffia sul fuoco dell’intolleranza non vada derubricato né lasciato in pace, nemmeno per un attimo.
Così è, ed è stato, per Matteo Salvini, contestato ogni volta che si è affacciato su una piazza per mettere in scena le sue “salvinate”: l’articolo di apertura lo dedichiamo proprio alla becera comunicazione dello showman leghista e alle tante contestazioni che lo hanno affrontato anche nelle Marche e in Romagna. Proseguiamo con l’analisi di una rogna che riguarda giovani e meno giovani: la necessità di trovarsi un lavoro, necessità e condanna di tutti noi come spiega il detto “voja de fadigà salteme adosso / fadiga te padròn che io nun posso”. Restando fedeli all’attenzione alla terra che abbiamo sotto i piedi, dedichiamo poi un lungo approfondimento al “parco” eolico che qualche azienda tutt’altro che green ha piazzato sul territorio dell’Appennino pesarese, nei pressi di Apecchio. Sono le stesse montagne segnate dal tracciato del mega gasdotto Brindisi-Minerbio, grande opera collegata alla Trans Adriatic Pipeline (TAP), contro la quale si sono già mobilitati i salentini non assuefatti alle nocività industriali. Come dice il proverbio “chi ha tempo non aspetti tempo”: quando, e se, le macchine scavatrici arriveranno da queste parti sarà probabilmente troppo tardi per opporsi. Da parte nostra seguiamo con attenzione l’evolversi di questa lotta che si preannuncia lunga, complicata ma anche ricca di occasioni di incontro ed esperienza. Insomma, anche nell’Italia centrale non mancano territori da sottrarre alle grinfie dell’economia e dello Stato.
Cosa abbiamo in mente quando parliamo di “territorio”? Su questo concetto pensiamo sia il caso di cominciare a chiarirci le idee e lo facciamo con il ricco contributo di Miguel Amorós che pubblichiamo come supplemento, visto che non ci bastavano le pagine. Per restare sul territorio e approfondire la discussione sulle relazioni tra differenze di genere, potere e cambiamenti possibili, diamo spazio a un progetto di auto-conoscenza e consapevolezza femminile. Il Lunario della Dea è uno strumento pratico che parte dai segnali del corpo, ideato e condiviso da una donna marchigiana che abbiamo intervistato allargando la discussione alle molteplici dimensioni del vivere femminile. Infine proponiamo un contributo sull’educazione libertaria, le cui sperimentazioni si stanno diffondendo in più parti d’Italia. In chiusura questa volta non una ma ben due recensioni, anche se più brevi, che inaugurano la rubrica aperiodica: “libri da rubare vs libri da comprare”, perché anche quello che non ci piace a volte va letto, ma preferiamo non pagarlo.
Intanto proseguono i nostri incontri pubblici di presentazione della rivista e di approfondimento di singoli temi come la partecipazione al “Ratatà” di Macerata, festival di illustrazione, fumetto ed editoria indipendente, e al festival “Una montagna di libri nella Valle che resiste” in Val di Susa dal 16 al18 giugno, segnatevi la data! Per questa estate abbiamo anche in programma una piccola – o forse grande – festa di Malamente… seguiranno aggiornamenti, cercateci anche sui dannati social network.
Il prossimo numero è previsto per inizio settembre: speriamo allora che, di nuovo, non ci bastino le pagine per accogliere le vostre proposte e suggerimenti, ma soprattutto che oltre alle parole ci seguano, e parlino per noi, anche le pratiche e le azioni nei prossimi mesi.
Breve esposizione della nozione di territorio e delle sue implicazioni
Di Miguel Amorós
Il sottotitolo che abbiamo scelto per Malamente è “rivista di lotta e critica del territorio”. Non solo perché la rivista si rivolge in prima battuta a uno specifico territorio – quello marchigiano – ma anche perché dal momento in cui il territorio viene sempre più ridotto a serbatoio di risorse da sfruttare per le esigenze dei centri di potere urbani, riteniamo che la “questione territoriale” sia diventata uno dei punti nevralgici dell’attuale questione sociale.
Con questo testo di Miguel Amorós, col quale inauguriamo i supplementi di Malamente, andiamo alla scoperta dei fondamenti storici e teorici della nozione di “territorio” e soprattutto di una prospettiva per la sua difesa, che allo stesso tempo sia anche una rottura insanabile con il sistema, i suoi difensori e i suo co-gestori ecologisti, non potendosi avere difesa senza conflitto. Un territorio realmente autonomo e liberato presuppone infatti, necessariamente, la fine dello Stato e la fine dell’economia di mercato e anche la fine delle conurbazioni metropolitane create e organizzate dal capitale. Resistenza al capitalismo, dunque, e fin dove possibile secessione da questo, per riscoprire qui e ora le modalità di autogoverno, il consolidamento di legami comunitari, la democrazia diretta e la dignità della vita umana.
Pensiamo che il concetto di “territorio” non si appiattisca su una dimensione spaziale né tanto meno amministrativa, assoggettata da un potere che risiede esternamente ad esso e ne pianifica flussi e sviluppo, ma sia per prima cosa l’unità di ambiente e abitanti, natura e memoria. Un luogo non colonizzato dalle merci e dal loro consumo e non piegato all’agricoltura industriale, in cui ritrovarsi e da dove ripartire. Inoltre, la riappropriazione dello spazio vitale all’insegna dell’autonomia e dell’autogestione acquisisce il suo senso pieno solo se non è disgiunta dai principi dell’accoglienza e della solidarietà con gli sfruttati ed esclusi di ogni angolo di questo mondo globalizzato.
Quelle che dovremmo cercare di costruire sono le forme di uno “sviluppo insostenibile”, cioè che il sistema non possa sostenere. In questo senso, avvertiamo come sempre più impellente la necessità di dare vita e sviluppare opposizioni locali determinate a difendere i propri territori dalle grinfie del progresso, dallo loro pianificazione funzionale ai poteri che vi si intrecciano, estranei e nemici rispetto alle comunità residenti. Opposizioni che fin da ora devono prendere coscienza dei propri obiettivi e delle proprie aspirazioni, senza aspettare la prossima grande – o piccola – opera devastatrice e che sappiano rifuggire dalla ricerca spasmodica della contestazione spettacolare, buona solo per le colonne dei giornali e gli scatti dei fotografi.
Il contributo di Amorós che appare su queste pagine in prima traduzione italiana è stato utilizzato dall’autore per alcune presentazioni pubbliche tenute alla Biblioteca Social A. Gavilla (Santiago), al CSO Palavea (La Coruña), all’Ateneo Ecaixe (Lugo) e alla Cova dos Ratos (Vigo), rispettivamente il 30 e 31 ottobre e il 1 e 4 novembre 2013; successivamente è stato pubblicato con titolo “Nocividades, defensa del territorio y crisis”, in «Argelaga», dossier n. 1, dicembre 2013.
Furlo Land Art 2016. Sacer, opera di Rosario D’Andrea. Foto di Giulia Gilebbi
1. Il concetto
Il monte Lushan in Cina si trovava spesso avvolto da nubi ed era molto difficile distinguere la sua figura. Lo ha detto in un verso Su Shi, poeta della dinastia Song: “Non conosco il vero aspetto del Monte Lushan / quando vi sono immerso…”. Questo verso indica la difficoltà reale di conoscere la vera essenza delle cose, poiché questa non appare mai immediatamente e chiaramente alla comprensione che si pone al di sotto di esse. La metafora poetica ci servirà come ammonimento prima di affrontare l’idea di “territorio”, il cui sviluppo dovremo tirare fuori dalla nebbia in cui è immerso e che non potremo altrimenti dissipare, per mostrare in tal modo solo ciò che “territorio” significa in realtà. In caso contrario, come dice un altro proverbio cinese, non prenderemo che del vento e non coglieremo che delle ombre.
L’impresa non sarà facile, visto che non viviamo più in una “bella totalità” come gli antichi, dove lo spazio si confondeva con il Cosmo, popolato di forze vive in perfetta armonia, e dove gli individui e la Terra “Madre” costituivano dialetticamente un’unità. Nei periodi di crisi, il potere unificante scompare dalla vita sociale e i suoi elementi non interagiscono più, essi cessano di relazionarsi, svincolandosi gli uni dagli altri e comportandosi come realtà indipendenti e perfino ostili. Il concetto non corrisponde più all’oggetto e la coscienza non ha altro rimedio che guardare oltre se stessa: la critica anti-industriale è la rappresentazione contemporanea di questa ricerca.
Il territorio si presenta davanti agli individui, essi stessi separati gli uni dagli altri, come una cosa estranea, mentre è il risultato della loro attività. Nella bocca di un urbanista, questo territorio sarà considerato come una riserva di spazio in prossimità di un’area urbana o come lo spazio compreso tra due conurbazioni. Questa nozione è strettamente correlata a quella di “terreno”, una superficie non costruita il cui uso e destino devono essere regolati per mezzo di una corretta politica di zonizzazione. Un politico o un immobiliarista sarebbero d’accordo con l’idea di suolo edificabile, anche se per determinarne l’uso impiegherebbero meglio l’espressione “corretta riqualificazione”. Un esperto di pianificazione utilizzerebbe il termine “territorio” alludendo a uno spazio o a un “sistema” neutro composto da nodi interconnessi tramite “reti e flussi”. Per gli strateghi del capitalismo verde il territorio è prima di tutto una fonte di risorse energetiche e la base di uno sviluppo sostenibile dell’economia autonoma, appoggiato su macro-infrastrutture, mentre per i loro collaboratori ecologisti, sarebbe un complesso di ecosistemi la cui preservazione costringe alla ricerca di una formula giuridico-politica che lo renda compatibile con il suo sfruttamento, vale a dire con il dominio sociale delle merci. Così dunque troveremo, dissimulato sotto un gergo scientifico e tecnico, qualcosa di simile all’idea di “ambiente”.
La definizione di “territorio” è stata quindi contaminata dagli interessi economico-politici che si nascondono alle sue spalle, per ridurla generalmente a uno spazio fisico, un vuoto geografico, un supporto, un’epidermide, un paesaggio, un mondo esterno e, in definitiva, a ciò che il sociologo Marc Augé chiama un “non-luogo” – che potrebbe anche essere chiamato “palcoscenico” o “scenografia” – ossia una porzione di spazio senza una vera identità e senza abitanti stabili, dove ogni soggiorno è provvisorio perché al suo interno tutti sono o passanti o clienti e si comportano in maniera codificata e controllata. Da questo punto di vista, il territorio sarebbe l’opposto della “città”, opposizione puramente formale dal momento che la diffusione selvaggia o pianificata degli agglomerati urbani che portano impropriamente questo nome tende a fondere le due cose. Attualmente quello che si chiama “città” è solo un “non-luogo” abitato. Alla fine dei conti, in una società pienamente urbanizzata, dove non ci sono più rotture chiare tra città e circondario, il territorio visto da un manager non dovrebbe essere che il periferico confuso con l’urbano nel medesimo spazio dell’economia, in altre parole, una grande fabbrica che come tale si oppone solo alle masse che la occupano. Ma questo non è quello che era, è ciò che è diventato.
Furlo Land Art 2010. Tuffo, opera di Antonio Sorace
Nell’interesse di una comprensione globale del termine dovremo scavalcare gli interessi contingenti che si basano su delle determinazioni pietrificate per andare direttamente alla contraddizione nella sua esistenza concreta e cangiante. Il territorio è lo spazio definito nel e attraverso il tempo o, per dirlo in altro modo, è un fatto sociale e storico. Parafrasando Hegel, diremmo che non contiene unicamente la sostanza (la natura come totalità astratta), ma anche il soggetto (l’umanità come agente della trasformazione), formando così un’unità dinamica tra i due. Il suo concetto è legato fin dagli inizi a quello di civitas, che assicurava il nesso, più che a quello di habitat.
Nella Grecia antica, la polis includeva tanto la città quanto il territorio circostante. Clistene divise la polis ateniese in demi, unità territoriali o villaggi i cui membri erano i demoti, i cittadini. Il territorium, secondo il diritto romano, era l’ambito d’influenza di una comunità politica, “un raggruppamento di uomini uniti dal diritto” (Cicerone). In senso stretto, il suo significato era simile a quello del municipio romano, ma senza perdere il carattere di spazio sacro: il re Numa Pompilio instaurò il culto del dio Termine [il dio dei confini di proprietà] dopo una distribuzione delle terre. L’ager (il campo) e il saltus (lo spazio selvatico), uniti con il populus (la popolazione) e l’urbs (la cinta urbana), costituivano la città propriamente detta. In un senso più largo significava qualcosa di simile all’hinterland, la sua area di influenza culturale ed economica.
Per gli spazi più vasti, oggetto d’amministrazione e di governo, si preferiva il vocabolo regio (regione), derivato da regere, che all’origine significava “dirigere in linea retta”, da cui a sua volta derivavano “regola”, “reggimento”, “re”, “rettore” e anche “regicida”, “rettificare”, “insurrezione”… Nel VII secolo, quando i municipi romani erano letteralmente scomparsi, la parola “territorio” faceva solamente riferimento a una terra lavorata dall’aratro e delimitata da solchi (Isidoro di Siviglia, Etymologiae); ma alcune tracce del suo passato significato si mantenevano nei distretti diocesani. Tuttavia una nuova struttura sociale, la comunità di villaggio, prodotto e causa di un movimento di messa a coltura delle terre provocato dalla scomparsa dello Stato e della sua morsa fiscale, fondata sull’idea di un comune territorio e non su quella di una comune origine, apparirà durante l’Alto Medio evo e si consoliderà nel corso dei secoli successivi. In Francia il territorio in cui si stabilisce la comunità rurale, comprendente la chiesa, le case, le strade, i campi e i boschi, si chiamerà finage; equivaleva più o meno a “municipio”, o meglio alla “giurisdizione”, visto che contemplava implicitamente il diritto ad auto-amministrarsi. In Catalogna sarà la universitat, nei Paesi Baschi la anteiglesia e, in altre regioni iberiche, il concejo.
Nel corso del XII e XIII secolo, quando rifioriscono le città europee, la parola “territorio” recupera il suo significato iniziale di terreno costruito, lavorato o incolto, delimitato da confini che includono la città o villa, “luogo cinto da mura, con i suoi edifici e sobborghi”, alla cui giurisdizione è sottomesso (Alfonso X, Ley delas Siete Partidas). In Castiglia, per definire i confini formali della città si utilizza di preferenza la parola alfoz, derivata dall’arabo alfohoz, in Francia banlieu o districtus, in Italia contado, ma la definizione migliore della nozione di territorio è quella di “comunità di villaggio e di terra”, formula utilizzata per descrivere le terre appena ripopolate in Castiglia e in Aragona. Il territorio non è dunque solamente uno spazio geografico, è lo spazio dell’uomo, della natura trasformata dall’attività umana; “cultura” significa in origine “natura lavorata” e la parola “coltivazione” ha le stessa radice. È dunque lo spazio della cultura e della storia, lo spazio sociale che contiene, riproduce e sviluppa delle relazioni sociali. Spazio che è anche naturale. Elisée Reclus, nel suo L’uomo e la terra, fa riferimento all’armonia delle comunità indigene con il loro ambiente: “Non possiamo forse dire che l’uomo è la natura che prende coscienza di se stessa?”, mentre Marx chiama la natura “il corpo inorganico dell’uomo”, lasciando intendere che il genere umano non si concepisce senza la natura di cui fa parte e con la quale intrattiene un “metabolismo” speciale. Il territorio è la scena di questo metabolismo.
Sappiamo che il dominio delle forze naturali non ha liberato gli esseri umani, al contrario, questo dominio si è tradotto in differenti forme di oppressione sociale che poterono essere attenuate là dove il dinamismo storico fu maggiore e dove il soggetto, l’essere sociale, poté almeno in parte emanciparsi dall’oggetto, la natura: vale a dire in un tipo particolare di insediamento fortificato, il borgo, la villa o il sobborgo, cioè la città medievale, una comunità autogovernata, rinsaldata da un giuramento (conjuratio). La sua esistenza non sarebbe stata possibile senza l’apporto delle eccedenze alimentari e del lavoro artigianale dei villaggi vicini, ad essa collegati da uno spazio di interscambio, ossia un mercato. Il suo segno distintivo era la porta, che la metteva in comunicazione con il territorio e con il mondo. D’altra parte, come dice un proverbio spagnolo, non si possono mettere porte alla campagna. La città fu la culla della libertà e della democrazia, della scrittura e delle arti, della giustizia e del diritto, della scienza e del pensiero razionale, ma fu anche il luogo in cui nacquero la burocrazia, la tirannia, il lavoro salariato, le classi e il denaro.
Furlo Land Art 2016. Il Dono, opera di Ricardo Macias. Foto di Giulia Gilebbi
Man mano che si svilupparono ed estesero la propria influenza, le città assorbirono le popolazioni, l’energia e le ricchezze, stratificandosi socialmente e concentrando il potere, compromettendo in questo modo il loro equilibrio interno ed esterno (i conflitti all’interno e all’esterno delle mura delle città medioevali furono infatti costanti). Nella loro prepotenza, si impossessarono delle campagne che avevano poco prima contribuito a liberare, scatenando frequenti jacqueries. I contadini iniziarono a creare proprie distinte istituzioni. In alcune zone rifiutarono di porre se stessi sotto il dominio delle città: Plebs semper in deterius prona est (“la plebe è sempre propensa al peggio”) dirà l’arcivescovo di Magonza nel 1127 dopo essere stato informato del rifiuto dei contadini di pagare la decima.
Il sogno egualitario è stato fortemente presente nei movimenti ereticali, nelle guerre di religione e nelle rivolte contadine. La classe contadina, liberata dalla tutela feudale, esprimendosi nel linguaggio della religione, si lanciava nella realizzazione immediata del paradiso terrestre. Le campagne non erano prive di esperienza storica e né l’arte, né la libertà, né le insurrezioni erano loro sconosciute, ma il tempo della campagna trascorreva meno linearmente del tempo della città, privilegiando il collettivo rispetto all’individuale, la sussistenza comune al profitto privato, la tradizione alla novità, la morale all’economia, l’abitudine al mercato. Erano uno spazio intensamente ordinato, mediante usi sanciti da pratiche antiche. Mentre la città potrebbe descriversi come Gessellschaft, nel senso in cui l’intendeva Ferdinand Toënnies di “associazione”, aggregato in cui predomina l’interesse individuale centrato sul valore di scambio e in cui la coesione di un ordine regolato nei minimi dettagli deriva da una “volontà arbitraria”, la campagna si potrebbe intendere come Gemeinschaf, “comunità” produttrice e consumatrice di valori d’uso, retta da un unico interesse comune a tutti e in cui l’ordine iscritto nella memoria si dispiega naturalmente, per abitudine, da una “volontà essenziale”. In entrambi i casi, sebbene in maniera differente, l’interesse individuale coincideva con l’interesse collettivo o, il che è lo stesso, con la ragione, anche se in un caso restavano separati nonostante i fattori che li facevano coincidere e, nell’altro, non erano più distinguibili malgrado i fattori che tendevano a separarli.
Se, come dice Spinoza nel Trattato politico, “la libertà umana è tanto più grande quanto più l’uomo è capace di farsi condurre dalla ragione”, si può quindi concludere che i bisogni comuni guidavano il contadino libero e i desideri comuni il cittadino. Due forme diverse di ragione e di conseguenza due forme diverse di libertà: una organica e una economica, una basata sulla comunione il consenso, l’altra sul contratto e il patto. Nelle campagne il diritto consuetudinario impediva la separazione contenuta nel diritto romano tra i domini pubblico e privato; il prestigio era preferibile alla proprietà, le radici allo sradicamento, la stabilità al movimento e, infine, l’economia domestica al mercato. Ma niente di tutto ciò le ha messe al riparo dai poteri separati che la storia aveva prodotto: da una parte la Chiesa, i signori feudali e i proprietari terrieri, dall’altro le città divenute parassitarie e lo Stato. La società rurale non è mai stata una “società congelata”, profonda e immutabile al margine degli avvenimenti. Spesso, anzi, vi ha preso parte in maniera rilevante, come nota Guy Debord ne La società dello spettacolo: “[…] le grandi rivolte dei contadini in Europa sono anche il loro tentativo di rispondere alla storia […]”.
Il decadimento della comunità rurale fu lento ma inesorabile: l’intrusione dell’autorità centrale attraverso oneri e decreti inappellabili, l’eccessiva fiscalità imposta da diversi poteri, la perdita dei diritti e, soprattutto, l’usurpazione dei terreni comuni da parte di potenti e signori determinarono la separazione tra la popolazione rurale e il territorio (tra “finage” e “village”) e tra il territorio e la città. La dispersione dei contadini impoveriti ne fu il corollario obbligato. Un sistema punitivo crudele consistente nell’impiccare a gruppi di cento i vagabondi fuggitivi dai domini dei signori inglesi venne nel XVI secolo a culminare l’opera genocidaria delle enclosures (“recinzioni”): era chiaro che davanti alla scelta di integrarsi nel mercato del lavoro oppure di vivere di mendicità o di furti, essi inclinassero per quest’ultimi. Tuttavia, malgrado il loro sradicamento forzato conservavano la dignità di uomini liberi. La pratica sbrigativa per sbarazzarsi di queste persone sradicate, considerate come un pericolo sociale, non è stata abbandonata che quando la mancanza di forza lavoro s’è fatta sentire e ha reso necessario lo sfruttamento di questi esclusi, come manodopera a buon mercato.
Duecento anni dopo, il progetto dei fisiocrati illuministi, che avrebbero dovuto risolvere la questione agraria senza violenze e allo stesso tempo incrementare i prelievi per le casse dello Stato, può essere riassunto nella creazione di una classe di proprietari terrieri, cosa difficilmente realizzabile ricorrendo all’enfiteusi o alle leggi sui beni alienabili, ma perfettamente possibile con la ripartizione delle terre derivanti dalla scomparsa violenta dell’aristocrazia, che si verificò unicamente in Francia. La fine dell’Ancien Régime e il trionfo politico della borghesia, ereditaria del secolo dei Lumi, nel XIX secolo non hanno risolto la questione. La privatizzazione e l’industrializzazione non l’hanno che aggravata, senza che il movimento operaio, essenzialmente urbano, ne abbia preso sufficientemente coscienza. La lotta di classe non ha prestato adeguata attenzione alle questioni agrarie. La proprietà privata ha definitivamente sottratto l’individuo a un territorio divenuto forza produttiva, rompendo così i legami organici che li univano e preparando il terreno al dominio della merce. In definitiva: lo ha trasformato in proprietario o proletario. La natura, il campo, il villaggio, la città, il territorio sono diventati, nel corso del medesimo processo storico di alienazione, delle entità reificate, separate e distinte, estranee le une alle altre.
Furlo Land Art 2016. L’albero dei totem, opera di Gabriele Biancone. Foto di Stefania Cimarelli
2. La frammentazione
Quali che siano state le vicissitudini delle tappe dell’accumulazione e le metamorfosi del libero mercato, non c’è dubbio che il capitalismo sia stato un fenomeno urbano e che la sua espansione sia proceduta parallelamente all’urbanizzazione e all’affermarsi dello Stato, ovviamente a spese del territorio. Le città hanno dato vita a una classe legata al commercio e all’industria, la borghesia, sotto la cui direzione s’è prodotta la “rottura metabolica” tra la società urbana e la prima fonte di ricchezza: la terra (l’altra è il lavoro). La produzione capitalistica, alleata ai signori della terra e protetta dallo Stato, s’è imposta nelle campagne impoverendole allo stesso modo degli operai. In un’ottica economica ogni progresso agricolo, effettuato in condizioni capitalistiche, è stato un progresso contro la stessa campagna: la “separazione radicale tra i produttori e i mezzi di produzione” (Karl Marx, Il Capitale), responsabile della figura del “bracciante giornaliero”, provocò di conseguenza una separazione completa e irreparabile tra la citta e il territorio, causa di irrisolvibili guai nella misura in cui quest’ultimo non venne considerato altro che una fonte di capitali.
Il progresso delle ideologie liberali significò espropriazione dei contadini, spoliazione delle proprietà comunitarie, disboscamenti e bonifiche, imposte e consolidamento di una classe di grandi proprietari terrieri. La proprietà inamovibile fondata sul patrimonio familiare si trovò soppiantata dalla proprietà alienabile fondata sullo sfruttamento del lavoro altrui. Il principale effetto della produzione capitalistica è stato di portare a compimento “la separazione tra lavoro e proprietà, tra lavoro e condizioni oggettive del lavoro”. Successivamente “il capitale distrusse il lavoro artigiano, la piccola proprietà fondiaria lavoratrice etc., e anche se stesso nelle forme in cui non si presentava in antitesi al lavoro: nelle forme del piccolo capitale e in quelle forme intermedie, ibride, tra i vecchi modi di produzione (o come essi si sono rinnovati sulla base del capitale) e il modo di produzione classico, adeguato al capitalismo stesso” (Karl Marx, Grundrisse).
Il ciclo si chiudeva: l’attività umana aveva generato delle forze che, sottraendosi ad ogni controllo, opprimevano la società. Il mondo storico si era rivelato come un mondo disumanizzato, coercitivo e contrario alla ragione, che aboliva e ricreava costantemente se stesso su basi sempre più opprimenti per un nuovo ordine sociale. L’oppressione si manifestava soprattutto nello smantellamento della vecchia struttura urbana e nel suo rimpiazzo con un’altra, molto più aggressiva. Le nuove oligarchie cittadine non bramavano tanto le rendite della terra quanto la forza lavoro divenuta eccedente. La città prodotta dalla cosiddetta “rivoluzione industriale” si ridefiniva infatti in totale opposizione al mondo rurale, del quale aveva assorbito la popolazione, e oscurava la nozione stessa di territorio riducendone la portata e relegandolo alla sfera del non-urbano. Il territorio era sempre più assimilato a quello che i Romani chiamavano suburbia, luogo al di fuori delle mura, spazio disarticolato e mal definito, senza un ordine preciso né un funzionamento regolato, nel quale erano collocate le attività sporche e rumorose, ma suscettibile di possedere un valore di scambio che lo rendeva malgrado tutto attraente. Ci fu senza dubbio nelle campagne, a partire dal XVIII secolo, un processo di “proto-industrializzazione”, sospinto dal diffondersi del lavoro e della produzione a domicilio. Qui si installarono le prime fabbriche, oggetto delle rivolte luddiste.
Furlo Land Art 2011. Labirinto, opera di Walter Zuccarini
Il territorio restava così alla mercé di forze principalmente urbane, che regolavano le loro divergenze nei mercati, nelle borse, nelle cancellerie e nei ministeri, piuttosto che in spazi aperti e liberi. Naturalmente, nelle prime fasi del capitalismo, quando la campagna era ancora lontana dall’abbandono e dalla distruzione attuale e concentrava la maggior parte della popolazione, il problema agrario era di gran lunga la più grande preoccupazione dei riformatori sociali, che hanno in effetti prodotto un’abbondante letteratura sul tema. Tuttavia prendendo per buono il postulato quasi dogmatico di Marx che la classe redentrice dell’umanità era il proletariato, cioè una classe urbana, se ne deduceva che la soluzione sarebbe passata per le città, dopo che la classe operaia avesse preso il controllo dei mezzi di produzione e assolto il compito che la borghesia era incapace di realizzare, cioè l’ulteriore sviluppo delle forze produttive. Ma questo sviluppo, benché diretto dalla classe operaia, conduceva a conseguenze nefaste per la campagna perché imitando il modello produttivista borghese provocava una miseria intollerabile che gettava i contadini fuori dai loro villaggi per spingerli verso le porte delle fabbriche alla ricerca di un salario.
Non senza una certa ingenuità la rivoluzionaria Vera Zasulič domandava a Marx quanti secoli ci sarebbero voluti in una Russia arretrata dove esisteva ancora la comune di villaggio, il mir, prima che nelle campagne si fosse conclusa l’opera dissolvente della borghesia, segno inequivocabile dell’inizio della rivoluzione socialista. Marx rispondeva brevemente che il mir era “il punto di appoggio della rigenerazione sociale in Russia” (lettera dell’8 marzo 1881), ma spiegava più a fondo la sua idea in alcuni appunti preparatori alla risposta. L’annientamento della comunità rurale per creare una minoranza contadina prospera e una massa proletarizzata non era una fatalità storica; se “nel momento dell’emancipazione” lo si aiutava a “distaccarsi dalle sue caratteristiche primitive”, il mir sarebbe potuto diventare “un elemento della produzione collettiva su scala nazionale”. Marx, ispirandosi allo storico George Ludwig von Maurer, affermava che “la vitalità delle comunità primitive era incomparabilmente superiore a quella delle società semitica, greca, romana, etc., e più ancora a quella delle società capitaliste moderne”, inoltre “la nuova comune introdotta dai Germani in tutti i paesi conquistati aveva rappresentato durante tutto il Medio evo il solo focolare di libertà e di vita popolare”. Naturalmente in tutta Europa si sono conservati dei residui di questa comunità rurale, sotto forma di diritti di uso e sfruttamento comune di pascoli, terreni incolti, sorgenti, torbiere e boschi, chiamati allmende in Svizzera e Germania, commons in Inghilterra; avevano un toponimo che richiamava il thing, l’assemblea germanica degli uomini liberi presieduta da un giudice o langman (“colui che dice la legge”). Ma questa comunità si era mantenuta viva solamente in Russia, cosa che permetteva un’uscita originale dalla crisi capitalistica favorendo la trasformazione progressiva di una “agricoltura parcellizzata e individualistica in un’agricoltura collettiva” e facilitando “la transizione dal lavoro individuale al lavoro cooperativo”. Marx suggeriva che per coordinare gli sforzi, era necessaria la creazione di un’assemblea di delegati contadini eletti nelle comunità, ma che tutto sarebbe dipeso dai cambiamenti radicali il cui agente principale era comunque il proletariato: “per salvare la comune russa, ci vuole una rivoluzione russa”.
Furlo Land Art 2016. Divini contatti, opera di Paolo Garau. Foto di Giulia Gilebbi
Kropotkin si spinse oltre e nel suo Il mutuo appoggio proclamò il “principio territoriale” della comunità di villaggio e i patti di solidarietà tra le città medioevali come fondamenti storici di una società libera. In particolare, la municipalità rurale, della quale restavano ancora abbondanti vestigia, era per lui “la cellula primitiva di tutta la vita sociale futura”. Tuttavia non la difendeva in quanto tale: “è in un territorio sufficientemente vasto per contenere città e campagna – e non in una città isolata o in un singolo villaggio – che si potrà, un giorno, lanciarsi verso l’avvenire comunista” (Pëtr Kropotkin, Campi, fabbriche e officine). In ogni caso, il cammino per raggiungere il comunismo libertario non appariva molto chiaro nell’opera di questo principe ribelle, che faceva eccessivo affidamento nell’evoluzione sociale e prevedeva il formarsi di sempre più libere associazioni che avrebbero regolato i problemi che lo Stato era incapace di risolvere. Il pensiero anarchico ha in gran parte adottato il suo ideale comunista, ma non il suo ottimismo darwiniano.
In questo sguardo al passato in cerca di ispirazione incontriamo altri autori come William Morris o Gustav Landauer. Quest’ultimo insistette ancor più di Kropotkin sulle comunità precapitalistiche, considerandole come “embrioni e specchi della vita culturale dell’avvenire”. Il periodo della Gemeinschaft medievale non rappresentava l’Età dell’oro alla quale si doveva ritornare, ma una fonte di esperienze autonome utili per la ricostruzione di una società senza Stato. Non si trattava di disprezzare i mezzi forniti dalla modernità, ma di mettere in conto tutti gli effetti negativi che poteva suscitare l’idea di progresso, verso la quale Landauer era molto critico.
Solamente in Spagna la comunità rurale consuetudinaria fu considerata come una risposta immediata al problema agrario, ovvero la questione territoriale dell’epoca, ma non da parte degli anarchici. In Spagna sussisteva una tradizione di riformismo illuminato che era culminata nel liberalismo sociale dell’erudito e politico “rigenerazionista” Joaquín Costa. Una costante del pensiero sociale agrario era rappresentata dalla subordinazione della proprietà della terra all’interesse generale, favorendo così uno sviluppo rurale che tratteneva le masse in campagna mediante vecchie formule di possesso e usufrutto come l’enfiteusi, il censo e la locazione, evitando così la loro miseria e la loro proletarizzazione. Lo Stato doveva essere il motore del cambiamento, motivo per cui questa riforma richiedeva la nazionalizzazione della terra, ma il dramma dei riformatori stava nel fatto che il potere statale era nelle mani di una minoranza di privilegiati, i cui interessi erano totalmente opposti a queste proposte.
Costa fu il solo tra i riformatori, alla fine della sua vita, dopo essersi convinto dell’inutilità dei tentativi di rigenerare “dall’alto” uno Stato liberale oligarchico e dispotico, a far appello a una “rivoluzione dal basso”. Nella sua importante opera pubblicata nel 1898, Colectivismo agrario en España, studiava, così come Kropotkin, la ricca tradizione delle istituzioni contadine di cui rimanevano abbondanti vestigia: le forme di insediamento e di cooperazione, i concejos, i beni privati e comuni, le terre franche, le riallocazioni a sorte, la gestione collettiva dell’acqua e dei punti di pesca, le corporazioni, le confraternite, i lavoro comunitari (auzolan, andecha, sestaferia), etc.Tra l’XI e il XIII secolo il municipio iberico fu un’entità pubblica con una giurisdizione e un’amministrazione autonome, governato da un concilium, la “giunta” o assemblea di tutti gli abitanti, che decideva sugli interessi collettivi e in particolare su quelli relativi all’utilizzo dei beni comuni, amministrava la giustizia e poteva anche mobilitare delle forze per assicurare la difesa. L’organizzazione del concilium era un sistema politico che emanava dal común, la gente comune, sistema che è stato pervertito dal crescente potere degli oligarchi e dal sistema di regimiento, fino a scomparire nelle città del XVI secolo, ma che ha trovato prolungata vita nei piccoli villaggi rurali. Partendo da questa constatazione Costa elabora una strategia collettivista che aspira a rompere il dominio dell’oligarchia terriera: abrogazione delle leggi sui beni alienabili, autorizzazione per le municipalità di acquisire delle terre o di prenderle in locazione e ripartirle tra i piccoli coltivatori, i braccianti e perfino gli artigiani e gli operai industriali, ricostruzione del patrimonio del concejo (anche se per questo bisognava ricorrere all’espropriazione forzata), recupero delle pratiche collettive e del diritto consuetudinario, etc.
Costa sosteneva che il più importante problema sociale fosse la risoluzione della questione agraria, cosa che non era così campata in aria in un paese prevalentemente rurale e la sua penna non aveva dubbi quando scriveva che tutto dipendeva dal fallimento dello Stato monarchico e oligarchico. Non si spinse oltre, ma l’anarchismo spagnolo, caratterizzato dall’adozione del principio territoriale della federazione di municipalità indipendenti come chiave di una riorganizzazione sociale libertaria, non ha mai dimenticato i suoi precursori e ha sempre riconosciuto la loro eredità: le misure di collettivizzazione della Rivoluzione spagnola del 1936-’37 non si possono comprendere senza considerare questa impronta secolare, che alcuni hanno confuso con il millenarismo, una tradizione impressa indelebilmente nella coscienza storica dei lavoratori e dei braccianti sindacalizzati, che Costa ha sostenuto essere la base indiscutibile di una società libera ed emancipata.
Furlo Land Art 2016. Omaggio all’albero, opera di Marisa Merlin. Foto di Stefania Cimarelli
3. La pianificazione
Il capitale, basato sulle innovazioni tecnologiche, ha impresso alla città un ritmo di crescita che esaurisce le riserve disponibili in acqua, energia e cibo, obbligando allo sviluppo di infrastrutture idrauliche, energetiche, di trasporto e di smaltimento dei rifiuti. La moderna classe dominante non trova la sua origine esclusivamente nell’industria e nel commercio, ma si è sviluppata in gran parte anche attorno all’attività immobiliare, all’edilizia e alla gestione delle infrastrutture di base. La città industriale non era un insediamento compatto perché nulla la poteva limitare; con l’utilizzo delle macchine, con un’importante quantità di energia, con un imponente apparato burocratico e i nuovi mezzi di trasporto che ha sviluppato, non ha cessato di crescere e di estendersi nella sua periferia, configurando così una morfologia spaziale radicalmente inedita, articolata in una struttura di mobilità meccanica.
La società divisa in classi è una società urbana. Durante il XX secolo, la logica di concentrazione ha prodotto una civilizzazione urbana senza vere città: negli agglomerati urbani si trova un centro quasi disabitato dove tutto il potere è concentrato nelle mani di una élite industriale, finanziaria e immobiliare, circondato da aree suburbane sempre più estese e popolate da masse salariate. Alcuni sociologi parlano di “città diffusa”, di “metacittà” o di “post-città”, ma per Lewis Mumford in Il futuro della città (1956) si tratta piuttosto di una “anti-città”: “città disseminata, città annichilita”. Questa città è il prodotto della decomposizione della realtà urbana iniziato con la nascita dello Stato moderno, costituito da un insieme di frammenti sradicati e disseminati nell’ambiente circostante, senza vita pubblica, senza normale comunicazione: uno spazio in rovina dove è disgraziatamente ammassata una popolazione massificata e uniformizzata. Patrick Geddes, che ha osservato la nascita del fenomeno nei bacini minerari britannici, ha coniato il nome “conurbazione” per indicare questo tipo di agglomerato che permette solamente una vita ridotta ai minimi termini, motorizzata e confinata in spazi chiusi per la maggior parte del tempo.
La relazione tra città e territorio è degenerata fino all’inconcepibile man mano che le innovazioni tecnologiche si diffondevano. L’ambiente urbano ha invaso e disumanizzato tutto lo spazio sociale, ammassando una popolazione senza alcuna autonomia in condomini patogeni, distruggendo le terre coltivabili, deteriorando o banalizzando il paesaggio: il territorio non è più che uno spazio suburbano risultante da un nuovo barbaro modello di occupazione. Il caos urbano ha raggiunto tali livelli estremi che i dirigenti della città industriale sono stati costretti a prevedere una certa organizzazione della sua trama urbana, dando vita alla scienza dello spazio economico: l’urbanesimo.
Di fronte a territori sfigurati e degradati prodotti dall’espansione urbana, Geddes ha proposto la “pianificazione regionale” sistematica, ripresa dalla Associazione per la pianificazione regionale americana fondata nel 1923 da Lewis Mumford, Clarence Stein e Benton McKaye. I riformisti dell’Associazione intendevano stimolare un modo di vita intenso, gioioso e creativo, fondato su un equilibrio territoriale, proponendo un’agricoltura di prossimità, una decentralizzazione della produzione di energia, una decongestione delle metropoli e una distribuzione equilibrata della popolazione in unità abitative ben equipaggiate e interconnesse. La pianificazione regionale era pensata per eliminare le concentrazioni eccessive di popolazione, lo spreco generalizzato d’energia, di alimenti e di beni di consumo, ma anche per ridurre i trasporti a lunga distanza e per reinstallare le industrie vicino alle fonti di materia prima. Il punto di partenza non era più la “città dinosauro”, ma la regione così definita: “una regione è un’area geografica che possiede una certa unità di clima, di vegetazione, di industria e di cultura. Il regionalista cercherà di pianificare questo spazio in maniera che tutti i luoghi e le fonti di ricchezza, dai boschi alla città, dalla montagna al mare, si sviluppino in equilibrio e che la popolazione sia distribuita in modo da utilizzare, anziché annullare o distruggere, questi vantaggi naturali” (L. Mumford, Regions. To Live In, «Survey», 1925). L’idealismo di questi intellettuali impegnati salta agli occhi quando pensano di “porre un argine al diluvio metropolitano”: idealismo destinato a naufragare nella marea degli interessi economici e a perdersi nei labirinti della burocrazia amministrativa favorevole a questi interessi.
Furlo Land Art 2011. Le geometrie solari, opera di Benedetta Jandolo
Il tema della pianificazione regionale venne ripreso dal Congresso internazionale d’architettura moderna (CIAM), ma in un’ottica opposta, cioè cercando di conciliare le riforme con i grandi interessi che governano il mondo. Nella Carta di Atene del 1933 il CIAM definiva la pianificazione regionale come una totalità che inglobava anche “il piano di gestione della città” e insisteva nel criticare quei “discendenti degenerati delle periferie” chiamati sobborghi (banlieues), una “specie di schiuma” che sbatte contro i muri della città e che in questi ultimi decenni si era “trasformata in marea e poi in inondazione”, nei cui confronti, al fine di assicurare un nuovo equilibrio o almeno di consolidare il disequilibrio esistente, era necessario non separare il piano della città da quello della regione, cioè dal territorio. Gli architetti funzionalisti parlavano in nome degli interessi generali del capitalismo: accettavano quindi il condizionamento o la domesticazione del territorio come conseguenza economica dei piani di espansione urbana e optavano semplicemente per una verticalizzazione, cioè per un’occupazione intensiva del territorio, inaugurando così l’architettura degli appartamenti “in blocco” per i poveri, tipica del dopoguerra. Questi piani, tuttavia, non potevano contraddire le leggi permissive in materia di beni immobili, che favorivano sfacciatamente i concreti interessi dei proprietari terrieri e degli speculatori. Il profitto immobiliare privato passava avanti a qualunque razionalizzazione della crescita urbana e i piani “regolatori” non si concretizzeranno se non dopo gli anni Cinquanta del XX secolo, nel momento in cui automobile e calcestruzzo apportarono un importante impulso alla suburbanizzazione del territorio e gli interessi legati allo sviluppo prendevano il controllo della politica urbana.
La conurbazione richiedeva costantemente più terra e più motorizzazione. La “zonizzazione” tanto raccomandata dagli architetti del CIAM, che stabiliva grandi distanze tra i luoghi del piacere, del consumo, di residenza e di lavoro, con delle “cinture verdi” intervallate tra loro – che non avevano niente a che vedere con la cintura agricola raccomandata dall’Associazione per la pianificazione regionale – unita alla mancanza di trasporti pubblici, a delle condizioni di vita sempre più sordide e all’accesso a finanziamenti agevolati, precipitò le masse verso l’automobile privata, moltiplicando strade e autostrade e di conseguenza aumentano esponenzialmente la mobilità, la domanda di energia e il disordine. Il processo innescato non fu una semplice diffusione di edifici con aumento dello spazio residenziale, ma una vera e propria urbanizzazione generalizzata, in altre parole una fogocitazione del territorio, che risultava infine coperto da un tessuto urbano indifferenziato. L’abitazione, definita da Le Corbusier “una macchina in cui abitare”, non poteva essere sostenibile economicamente in altro modo. Lo spazio urbanizzato estensivamente è dunque diventato principalmente uno spazio di circolazione dei veicoli; le autostrade modellano il territorio e determinano la sua articolazione.
Nonostante la priorità del profitto privato, la formazione di “megalopoli” o “città-regioni” come buchi neri che assorbivano tutto lo spazio, il patrimonio comune e la vitalità che poteva incontrare esigevano in qualche modo una regolamentazione degli insediamenti extra-urbani e delle installazioni industriali, cosa che è stata chiamata “pianificazione del territorio”, consistente in un prolungamento della già conosciuta pianificazione urbana. La pianificazione del territorio, la cui redazione dipendeva dagli ingegneri e dagli architetti, ha preteso di essere una disciplina scientifica la cui funzione era quella di offrire un quadro giuridico all’azione degli “agenti economici” ma che in realtà serviva nient’altro che a legalizzare gli atti arbitrari e gli eccessi dei costruttori, degli industriali e degli speculatori immobiliari. Fungeva cioè da copertura scientifica per lo sviluppo immobiliare. Cercava innanzitutto di accrescere il territorio edificabile, la sua facile “interconnessione” e quindi la moltiplicazione delle infrastrutture. Era il territorio a sottomettersi alle infrastrutture e non viceversa. Quest’ultime condizionavano e determinavano ogni utilizzo del territorio: paesaggio, cultura, circolazione, dormitori, tempo libero, discariche, carceri, produzione di energia, etc. E dove arrivano le autostrade ci sono sempre sviluppatori immobiliari e speculatori.
La legislazione elaborata per giustificare questa “cultura delle strade” con il pretesto dello “sviluppo regionale”, di “economie di scala”, di “creazione di posti di lavoro” e di aumento della fiscalità, si chiamò anche “regolamentazione territoriale”. Era la consacrazione del disordine a un livello qualitativamente più alto di degrado perché per i dirigenti non si trattava di controllare o proteggere qualcosa, ma di “connettere” e “dinamizzare”, cioè di creare le condizioni ottimali per una crescita speculativa che producesse profitti considerevoli e soprattutto rapidi. La “pianificazione” era il contributo dei funzionari, dei tecnici urbanistici e delle pubbliche istituzioni alla distruzione del territorio e alla creazione delle regole politiche per la sua completa trasformazione in capitale.
Furlo Land Art 2015. Riflessa, opera di Simone Giacomoni e Valentina Baldelli. Foto di Valentina Baldelli
Cinquant’anni dopo la Carta di Atene, quando le corporazioni dei finanzieri e degli speculatori erano diventate molto più forti, la Conferenza europea dei ministri responsabili della pianificazione del territorio (CEMAT) che si è tenuta il 25 maggio 1983 a Torremolinos, luogo emblematico della distruzione selvaggia della costa spagnola, precisava i suoi obiettivi in una Carta europea di pianificazione del territorio, definendola “espressione geografica della politica economica, sociale, culturale ed ecologica di tutta la società”, vale a dire la trascrizione geografica dell’ideologia dello sviluppo. Era un tentativo molto più serio di pianificare lo sfruttamento sistematico del territorio. In quel momento si cominciavano a percepire i risultati dei cambiamenti tecnologici del dopoguerra che derivavano dalla corsa alla produttività. L’ambiente urbano, sviluppandosi esponenzialmente, si scontrava frontalmente con il territorio, ostacolando i suoi processi ciclici. Inoltre, le novità che riguardavano l’agricoltura (principalmente l’utilizzo massiccio di fertilizzanti e pesticidi) e i trasporti (automobili di grossa cilindrata e sostituzione del trasporto merci ferroviario con quello su ruota) uniti allo sviluppo della produzione di energia e dell’industria petrolchimica, originarono nocività fino allora inimmaginabili. La vera tragedia era già tutta lì: l’esodo rurale, l’accumulazione di rifiuti, l’inquinamento, l’esaurimento delle risorse energetiche, i buchi nell’ozono, il riscaldamento planetario, il cambiamento climatico, etc., ne erano le prime manifestazioni.
Nel corso di questo disastro il movimento ecologista è degenerato in partito “verde” e ha preso rapidamente il treno della politica sviluppista. In risposta alla statalizzazione dell’ecologismo, lo Stato si è ecologizzato finendo per ammettere che le “profonde modificazioni” provocate dal capitalismo nella società civile richiedevano “una revisione dei principi che reggono l’organizzazione del territorio per evitare che si ritrovino determinati esclusivamente da obiettivi a corto termine”, per procedere ad una “sistematica implementazione di piani di utilizzo del suolo” che dovrebbe porre le basi di una “utilizzazione razionale del territorio”. La fraseologia del “benessere”, dello “sviluppo equilibrato tra regioni”, della “qualità della vita” e dell’“interazione con l’ambiente” marcava il passaggio ad una società di massa in cui il territorio non era più principalmente una fonte di cibo, ma piuttosto uno spazio-capitale organizzato per essere consumato in ogni sua parte. E il principale consumo proveniva dall’industrializzazione del tempo libero attraverso seconde case e attività turistiche.
Nel frattempo, il territorio non era solo una semplice riserva di suolo urbanizzabile, perché nello sfruttamento delle sue risorse andavano sorgendo interessi che si sommavano a quelli del settore immobiliare e delle grandi infrastrutture. Da allora c’è stata una cascata di leggi di “pianificazione” e di piani territoriali, ma la forte domanda di suolo, i condizionamenti politici e le crisi – la “variabilità della congiuntura economica”, direbbe un esperto – hanno impedito la loro applicazione globale. Dopo il “Rapporto Bruntland” delle Nazioni Unite (1987) i decisori economici di fronte al problema della prossima penuria di energia, hanno preso coscienza della dimensione “verde” del capitalismo. Per il futuro, l’ideologia dello sviluppo sarà sostenibile o non sarà. Per essere più precisi, questa ideologia è stata definita nella Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 come l’unione dell’ambiente con l’economia globale, in forma di “capitale territoriale”. Il territorio acquisiva così una “nuova dimensione” all’interno dell’alta politica, situandosi al centro di un triangolo società-economia-ambiente. Diveniva prioritario dargli una “strutturazione” in quanto “periferia” di una serie di nuclei centrali con i quali doveva connettersi tramite le nuove infrastrutture in progetto. Con questo tipo di decentralizzazione avrebbe “massimizzato” la sua competitività – aumentando al massimo il suo “valore” come “risorsa” – e si sarebbe rinsaldata la “coesione economica e sociale”, correggendo i gravi disequilibri causati dal diseguale potenziale economico tra il territorio e le aree metropolitane, questi “laboratori dell’economia mondiale” e “motori del progresso”.
In Spagna la pianificazione territoriale è responsabilità di un livello burocratico intermedio, quello delle regioni autonome, che ha portato a piani di sviluppo esagerato sulla cui sostenibilità “vigilano” comitati composti da quadri finanziari, manager aziendali e politici responsabili delle aree in questione. I leader europei hanno concretizzato il loro obiettivo nel 1999 in un documento intitolato Strategia territoriale europea, dove esprimevano la volontà di integrare anche le zone più recondite del territorio nell’economia mondiale, rivalorizzandole grazie all’accesso alla “rete transeuropea” di trasporti, telecomunicazioni ed energia, cioè attraverso la costituzione di un mercato europeo integrato di costruzione, distribuzione, turismo di massa, gas e elettricità. I fondi per la ristrutturazione, i piani per lo sviluppo locale, la legislazione ambientale, l’aumento produttivo e l’informatizzazione totale saranno i componenti di un “nuovo modello di sviluppo policentrico” che, tramite meccanismi di partecipazione online e di concertazione pubblico-privato, darà vita a una “nuova cultura del territorio” che dissimulerà finché possibile la contraddizione insuperabile tra i processi naturali che realmente governano il territorio e i processi industriali che strutturano la società globalizzata. Detto in altri termini: stanno cercando di spegnere il fuoco bruciando un diverso tipo di combustibile.
Furlo Land Art 2016. Stone balancing, opera di Luca Zaro
4. La difesa
Nell’attuale stadio della crescita capitalistica, quello dello sviluppo globalizzato, il territorio è stato trasformato non solamente in supporto delle infrastrutture e nel più solido pilastro dell’urbanizzazione, ma anche nella principale risorsa sfruttabile e nel principale motore dell’attività economica. In un’economia terziarizzata, con quasi più nessuna attività agricola, si scopre che il capitale-territorio contende al capitale-città il primo posto come forma dominante di capitale. L’accumulazione del capitale è stata delocalizzata e il territorio è diventato ora l’elemento primario della fabbrica diffusa e allo stesso tempo il punto finale del processo di industrializzazione della vita. Parallelamente, il territorio in quanto capitale deve essere controllato e messo in “sicurezza” in funzione dell’importanza strategica acquisita. Ma, precisamente, le conseguenze delle sue nuove funzioni hanno portato il territorio a diventare la contraddizione che contiene tutte le altre per il sistema capitalistico: da un lato, la sua distruzione in quanto risorsa finita impedirà uno sfruttamento che si vuol pretendere illimitato, minacciando così i fondamenti stessi dell’economia; dall’altro la sua distruzione intesa come completa artificializzazione dello spazio sociale in cui si accumulano le nocività di una crescita avvelenata comporterà per la sopravvivenza della specie umana delle condizioni così abominevoli che difficilmente si potranno sopportare.
La crisi energetica è l’esempio della prima contraddizione; le rivolte spontanee delle banlieues metropolitane del mondo quello della seconda. Per di più, la distruzione del territorio è inevitabile nel contesto attuale, poiché la tecnologia, la forza produttiva preponderante, è una forza eminentemente distruttiva; la catastrofe è allo stesso tempo il risultato e la precondizione del funzionamento capitalistico contemporaneo. Le catastrofi conducono a più controllo – la soluzione tecnica per eccellenza – e così la distruzione del territorio non si ferma davanti alle sue conseguenze, ma impone una tecnosorveglianza che i “verdi” chiamano “tracciamento”, gli esperti di polizia “contenimento” e i dirigenti semplicemente “mantenimento dell’ordine”. I controlli hanno per scopo sia di adattare la popolazione alla devastazione che di canalizzare e dissuadere la protesta. Per il primo obiettivo il potere farà ricorso alla legislazione ambientale e ai media, proponendo come diversivo le piattaforme di azione della società civile, l’ecologismo politico o il volontariato. Per l’altro obiettivo, utilizzerà direttamente la tecnovigilanza e le forze dell’ordine. Questi sono i due poli il cui unico compito è quello di neutralizzare la lotta anticapitalista per eccellenza: la difesa del territorio. La dialettica capitalistica della distruzione e della ricostruzione si completa con una dialettica dell’integrazione e della repressione.
Il territorio, dopo essere stato in gran parte convertito in una fabbrica diffusa è diventato il luogo in cui gli antagonismi sociali hanno potuto svilupparsi in tutta la loro ampiezza, tanto che la questione sociale si può presentare come una questione territoriale. In Castiglia, la “difesa del territorio” come difesa dei beni comuni contro l’usurpazione della nobiltà è menzionata dal XV secolo, ma l’utilizzo generale dell’espressione è molto più recente e proviene probabilmente dalle lotte delle comunità contadine latinoamericane degli anni Settanta e Ottanta in difesa del loro ambiente e della loro cultura contro l’agro-industria, lo sfruttamento delle miniere a cielo aperto e la costruzione di dighe. Al saccheggio del territorio per interessi economici ben precisi, le comunità opponevano l’idea di un territorio considerato bene comune, con un utilizzo collettivo regolato, tale da garantire una protezione, una risorsa e una fonte di vita. Nei paesi in cui regna il turbocapitalismo la difesa del territorio si manifesta nelle campagne sotto forma di attività per proteggere l’habitat rurale e lo stile di vita che quest’ultimo rendeva possibile, a partire dalle lotte contro lo stoccaggio dei rifiuti nucleari, mentre nelle conurbazioni appare come risposta alla degradazione insopportabile dello stile di vita urbano. In entrambi i casi si tratta di difesa di un’identità perduta, quella di cui Catone parlava già nel De Agri Cultura: “quando i nostri antenati elogiavano un uomo dabbene, così lo elogiavano: che era un buon agricoltore e un buon contadino” (i Romani consideravano il lavoro della terra come l’unica vera occupazione di un uomo libero).
Furlo Land Art 2012, Dialogo tra Terra e Cielo, opera di Walter Zuccarini
Nelle campagne questa difesa si prolunga in una resistenza alle infrastrutture e all’industrializzazione dell’attività agraria, una resistenza che tenta di restaurare la democrazia assembleare; negli agglomerati urbani è una lotta per la decolonizzazione della vita quotidiana che prende le forme di una lotta per il ritorno alla vita pubblica o per la diserzione della città. Nel primo caso fa appello all’appoggio delle masse urbane, nel secondo si invitano i cittadini dalla piazza pubblica a occupare e coltivare le terre. La difesa del territorio è dunque una lotta per la città e viceversa la lotta per la città è una difesa del territorio. Ci fu un tempo in cui la popolazione cittadina comprendeva una forte componente contadina rappresentata nelle sue istituzioni. La città e il territorio non sono mai state realtà distinte e opposte, ma interdipendenti, non si possono concepire l’una senza l’altra, né essere trasformate separatamente. La libertà cittadina non potrebbe esistere in un territorio asservito e l’autonomia comunale non potrebbe esercitarsi nel contesto di una megalopoli. Perché ci sia un versa simbiosi entrambe esigono lo smantellamento delle conurbazioni e l’autogoverno, ma non l’abolizione della città: la deindustrializzazione segue i passi della ruralizzazione e non quelli della barbarie anticivilizzatrice. De-urbanizzare le campagne e ruralizzare le città, ritornare in campagna e ripristinare le città, sono queste le linee convergenti di una futura rivoluzione antistatale e anticapitalista. Il diritto al territorio che deve promanare da un uso razionale dello spazio è anche un diritto alla città e necessita tanto della fine dello Stato che di quella del mercato globale.
Se affermiamo che la difesa del territorio è la nuova lotta di classe, se ripetiamo che la questione sociale è prima di tutto una questione territoriale, non è perché gli obiettivi della classe oppressa si siano spostati dalla fabbrica verso l’agricoltura, la raccolta o la caccia. In una società in cui lo sfruttamento è fondamentalmente tecnologico, gli oppressi non formano una classe poiché non sono nient’altro che protesi delle macchine, delle masse fatte a immagine del mondo urbano nel quale sopravvivono. Ciò che li definisce non è il fatto di percepire un salario in cambio di un lavoro, ma l’essere stretti in un ingranaggio che li obbliga a consumare e a indebitarsi in uno spazio chiuso e condizionato: quello dell’economia di mercato. Si definiscono quindi per un modo di vita imposto, sul quale non hanno alcun potere decisionale. Il suddetto spazio è uno spazio urbano, ma senza una reale vita urbana, ideale per innescare comportamenti nevrotici, parassiti e sociopatici; è lo spazio delle masse senza voce e senza coscienza, amministrate meccanicamente e autoritariamente dai professionisti dell’addomesticamento. Il degrado della convivenza sociale e l’aggressività che la caratterizza sono entrambi un prodotto di fattori morbosi provocati dal sovraffollamento, dal ritmo delle macchine, dalla tensione consumista, dalla mancanza di comunicazione e dalla solitudine.
Furlo Land Art 2013. Giulia abbraccia l’albero, opera di Antonio Sorace
Patrick Geddes ha chiamato pathopolis le metropoli degenerate, queste città malate dove la vita umana è effettivamente limitata da condizioni patologiche che si vanno sempre più aggravando. L’intensità delle rivolte urbane riflette l’enorme violenza che devono sopportare quotidianamente gli abitanti demoralizzati di queste conurbazioni. Non è una violenza di classe, ma una violenza di “declassati”. L’insurrezione latente delle masse non è che l’espressione violentemente logica della patologia di una vita privata mediocre, apatica e schiava dell’economia. La miseria della vita quotidiana, aggravata dalle crisi, è il comune denominatore di tutti i disordini urbani, è il substrato di tutte le rivolte, che abbiano avuto luogo nelle città statunitensi degli anni Cinquanta o più recentemente a Stoccolma, Ankara o San Paolo. È attraverso queste rivolte che si annuncia il nuovo proletariato.
Né è quindi nelle questioni del lavoro che dobbiamo cercare la base su cui ricostruire il soggetto della storia, l’unificazione di oggetto (la realtà oggettiva) e soggetto (l’agente della Ragione), poiché tale soggetto si trova in realtà nella protesta contro l’espropriazione totale della vita. È una protesta che contiene implicitamente il rifiuto di uno spazio reificato e massificato in cui regnano la perdita di memoria, l’assenza di legami e la sottomissione; ovvero il rifiuto dell’ambiente metropolitano. Così la critica della vita quotidiana comporta una critica dello spazio: dalla critica del concentrazionismo urbanistico dei dirigenti arriviamo a una critica della domesticazione del territorio, acquisendo in questo cammino una coscienza sociale dello spazio, altrimenti detta una coscienza territoriale. La difesa del territorio, che naturalmente prende forme assembleari, è la materializzazione di questa presa di coscienza. La comunità si manifesta come riunione, come junta, non come un’associazione, cioè un’entità suscettibile di essere istituzionalizzata. Da un certo punto di vista si potrebbe dire che se l’oppressione, penetrando in tutti gli interstizi della vita, ha acquisito una dimensione legata allo spazio, la lotta contro di essa ha fatto altrettanto. Nel fragore della battaglia, la classe che ha coscienza, il nuovo proletariato, si costituisce creando e difendendo il proprio spazio, che è il suo mondo, il suo oggetto. Il suo habitat è la fabbrica diffusa che egli deve deindustrializzare e de-urbanizzare per poterlo gestire liberamente e il suo strumento organico non è altro che la comunità territoriale rappresentata dall’assemblea.
Se la pianificazione del territorio era l’ultima fase della pianificazione della vita, in altri termini il caos pianificato, il primo compito della sua difesa sarà di “de-pianificarlo”, cioè de-massificarlo, de-privatizzarlo, condurlo verso quell’anarchia che, come diceva Reclus “è la più alta espressione dell’ordine”. La difesa del territorio deve fare fronte a importanti contraddizioni. La prima di queste risiede nel fatto che il soggetto che deve condurla è in larga parte concentrato nelle conurbazioni, terreno sterile dell’incoscienza e dell’oblio, ed è per questo che i movimenti di esodo e ripopolamento seguiranno ritmi differenti e non coordinati. Rendendo quasi impossibile l’appropriazione liberatrice dei luoghi e l’abbandono delle zone sovraffollate, l’urbanesimo e la pianificazione territoriale hanno infatti innalzato enormi ostacoli alla redistribuzione delle popolazioni.
Questa contraddizione si sovrappone a un’altra: la lotta a partire dalla conurbazione è principalmente distruttrice, perché poco si può costruire di autonomo e reale in questi spazi deserti di servitù salariata e consumistica, mentre nelle campagne l’aspetto costruttivo ha più opportunità, dal momento che la “cultura contadina” riemerge facilmente in un terreno che è separato dal mercato. Tutto questo favorisce, in assenza di coscienza sociale, lo sviluppo di ideologie messianiche e nichiliste nelle zone urbanizzate e di ideologie cittadiniste e di ritorno alla terra nelle zone non urbanizzate: tutte forme di falsa coscienza che oscurano lo spirito e rendono gli individui estranei a una vita libera. Così, nelle aree metropolitane le lotte salariali saranno incensate come l’espressione più alta della “lotta di classe” mentre il confronto con le forze dell’ordine potrà essere elevato sull’altare della radicalità e la violenza eretta a valore assoluto come “poesia della rivolta”. Dall’altra parte, nelle zone neo-rurali il protezionismo legalista, il ricorso ai partiti e alle amministrazioni, i compromessi ambientali degli imprenditori dell’economia pseudo-solidale saranno considerati come la panacea della decrescita e della ruralità ben intenzionata.
Ovunque si deve costruire una comunità di lotta per andare avanti e se non dobbiamo disprezzare gli orti urbani, il co-working e i metodi di autodifesa delle mobilitazioni, non bisogna dimenticare l’occupazione dei terreni abbandonati o espropriati, né il sabotaggio delle culture transgeniche, né quello delle macchine destinate alle infrastrutture o quello dell’industria turistica. È altrettanto utile alla lotta saper fare il pane che saper montare e tenere una barricata. Secessione e resistenza non hanno come obiettivo una sopravvivenza isolata senza il consolidamento di una comunità e l’abolizione del capitalismo. Il ristabilimento delle antiche comuni libere e delle juntas, la creazione di una moneta “sociale”, i circuiti corti di produzione e consumo cooperativi o, ancora, il recupero delle terre comunali non devono diventare delle vie per “un altro” capitalismo e dei pretesti per l’inattività o il cittadinismo. Il loro scopo nell’ambito dell’oikos (unità di base della società) è la produzione di valore d’uso e non di valore di scambio. Tutti questi non sono i simboli identitari di un sorta di ghetto rurale hipster, ma aspetti distinti di una stessa lotta per un territorio emancipato dalle merci e dallo Stato, la cui atmosfera può liberare coloro che la respirano. Sono elementi di importanza capitale il cui assemblaggio corretto determinerà una strategia efficace per condurre le forze della coscienza storica alla vittoria. L’elaborazione di questa strategia è l’obiettivo della riflessione anti-industriale, che non si perde in generalizzazioni teoriche astratte e non assume posizioni di pura negatività né di solo attivismo in positivo, dal momento che sa, in modo molto concreto, quello che vuole. Ecco perché non cerca di catturare la luna nel suo riflesso sull’acqua. Sa esattamente dove guardare per trovare le cose.
Furlo Land Art 2012. L’Abbraccio, opera di Edda Bonini e Andrea Pavinato