Il gasdotto Rete Adriatica: un lungo serpente tra le faglie sismiche dell’Appennino
Intervento di Francesco Aucone [QUI IL PDF]
Il gasdotto Rete Adriatica Brindisi-Minerbio è uno dei principali progetti di ampliamento della rete di trasporto nazionale di metano. Il suo tracciato attraversa l’intera penisola, dalla Puglia risale fino all’Emilia Romagna toccando dieci regioni, tra cui Abruzzo, Umbria e Marche, per una lunghezza complessiva di 687 km. Il condotto ha un diametro di 1,2 m e va interrato a 5 m di profondità, con una servitù di pertinenza di 40 m (20 m per lato) e una capacità di trasporto di 28 milioni di m3/giorno da Sud verso Nord, cioè dall’approdo di altri gasdotti provenienti dal mar Caspio (tra cui la ben nota Trans Adriatic Pipeline – TAP) fino a raccordarsi ad altre linee e raggiungere le destinazioni finali europee. Il tracciato complessivo si suddivide in cinque tronconi (Massafra-Biccari, Biccari-Campochiaro, Sulmona-Foligno, Foligno-Sestino, Sestino-Minerbio), il primo dei quali già realizzato e il secondo in cantiere, oltre a prevedere una centrale di compressione e spinta a Sulmona (AQ), con tutti i veleni connessi, estesa su 12 ettari di terreni agricoli a poca distanza dal centro abitato.
Il progetto presentato da Snam Spa nasce sulla carta nel 2004. Riconosciuto di pubblica utilità e anzi considerato infrastruttura strategica, inserita tra i progetti di interesse comunitario, è stato approvato dalle autorità predisposte grazie a procedure accelerate di autorizzazione, nonostante i malumori degli enti locali e le preoccupazioni degli abitanti dei territori attraversati e delle associazioni ecologiste. Il gasdotto infatti, che inizialmente era previsto lungo la costa adriatica ma a causa dell’elevato grado di urbanizzazione è stato spostato sui monti appenninici, interferisce con aree ad alto valore naturalistico, protette, sottoposte a vincolo paesaggistico o gravate da usi civici, la cui modificazione andrà a causare danni irreversibili a ecosistemi fondamentali per la conservazione della biodiversità. Il gasdotto, inoltre, solcherà numerosi torrenti, fossi e fiumi, con il concreto pericolo di incidere negativamente sull’assetto idrogeologico del territorio. Senza contare i potenziali rischi dovuti al fatto che i due tratti settentrionali del tracciato, da Sulmona a Sestino, attraversano in pieno zone a elevata sismicità, che si può manifestare con eventi di magnitudo anche elevata come accaduto con le ultime disastrose scosse del 2016.
Snam Rete Gas, interamente controllata da Snam Spa, progetta, realizza e gestisce le infrastrutture per il trasporto di gas naturale. È un’azienda privata, quotata in borsa, che macina profitti (per il gasdotto Rete Adriatica si stima una resa di 26,5 milioni di euro all’anno) e stacca bei dividendi agli azionisti. Da qualche anno nel suo logo non c’è più il cane a sei teste della Eni, che puzzava troppo di petrolio e sangue, ma un’anonima scritta su un rassicurante sfondo blu, così come la sua immagine di mercato è quella di azienda “sostenibile” e amica dell’ambiente. La propaganda industriale vende infatti il gas come combustibile pulito, al contrario di petrolio e carbone, protagonista della fase di transizione “verde” verso le rinnovabili: in questa logica è quindi interesse collettivo rendere il gas commercialmente appetibile investendo in nuove estrazioni, gasdotti, rigassificatori, senza riguardi per i costi ambientali immediati (per estrarre e portare il gas dalle profondità della terra al mercato di consumo) e per l’impatto sociale e geo-politico (sia lungo i tracciati che nei paesi “produttori” colonizzati dalle multinazionali dell’energia).
Il 2 aprile 2017 presso il Parco regionale di Colfiorito si è tenuto l’incontro nazionale “Gasdotti e terremoti. Diritti delle popolazioni e tutela del territorio”. In quell’occasione numerosi comitati e associazioni impegnati nella lotta contro il progetto di metanodotto Rete Adriatica hanno costituito il Coordinamento nazionale No Tubo che si propone di comunicare e diffondere le ragioni della protesta, collegandola al movimento salentino che si oppone alla realizzazione della TAP – Trans Adriatic Pipeline.
A Colfiorito il geologo Francesco Aucone ha tenuto un approfondito intervento, che qui riproduciamo in forma sintetica, incentrato sui rischi del gasdotto in relazione alla sismicità del territorio appenninico. Riteniamo che un’informazione adeguata, anche su alcune nozioni tecniche di base, sia importante per mettere in campo un’opposizione efficace. Ovviamente non sono solo le possibili conseguenze di un terremoto a giustificare la nostra avversione per quest’opera, che è dannosa in assoluto, necessaria a sostenere ed estendere la voracità del capitalismo tecno-industriale nella sua corsa al “progresso”, incurante dei territori martoriati che si lascia alle spalle. Colline e montagne già segnate da uno spopolamento che ha radici lontane, ulteriormente abbandonate dopo i recenti terremoti e l’evidente volontà di non-ricostruzione dei borghi montani, si apprestano a diventare una terra di nessuno non più da vivere ma solo da sfruttare, una “servitù di passaggio” per i flussi che alimentano l’economia delle merci e i lontani centri di potere economico e politico.
Non vogliamo quest’ennesima nocività industriale né nel nostro cortile né qualche chilometro più in là. A partire dallo spettro del terremoto ci proponiamo di approfondire il discorso su questa lotta: lo faremo sia in queste colonne che sui sentieri dell’Appennino.
Origine dei terremoti e sismicità dell’Appennino centro-settentrionale
Se guardiamo dall’interno il nostro pianeta vediamo che è un organismo dinamico, che presenta un continuo movimento tra i vari strati, un continuo scambio sia di energia che di materia. I terremoti, ormai lo sapete tutti, sono generati dalla cosiddetta tettonica delle placche, cioè il fenomeno che permette questi scambi tra la superficie terrestre e l’interno del pianeta. Oggi in realtà si parla di tettonica delle placche “polarizzata”, come il risultato della sovrapposizione di più fenomeni che indicano come la tettonica sia influenzata dalla rotazione terrestre. Le placche non sono omogenee, offrono una resistenza differente alla rotazione, oltretutto tra litosfera (la parte più esterna della Terra, l’involucro solido) e astenosfera (la parte di mantello subito sotto la superficie) c’è una superficie di scollamento e anche qui l’attrito non è omogeneo. Di conseguenza la litosfera è spaccata in queste placche di diversa grandezza i cui margini sono le zone dove si concentrano i terremoti.
Fig. 1 – Mappa delle placche tettoniche della Terra
L’Italia è al margine tra la placca euroasiatica e quella africana, se la osserviamo a una scala più grande essa è costituita da un insieme di microplacche. In particolare, la catena appenninica e l’ossatura della penisola sono caratterizzate dal margine tra la microplacca tirrenica e quella adriatica, che tendono ad avvicinarsi con uno sovrascorrimento della prima sulla seconda. In realtà si generano diversi meccanismi, dal momento che il lembo di crosta che sottoscorre lo fa più velocemente rispetto all’avvicinamento della placca tirrenica sull’adriatica. Senza entrare troppo nel dettaglio, questo vuol dire che sulla catena appenninica sono presenti tutti i differenti meccanismi focali, cioè i meccanismi che generano i terremoti: quello “distensivo”, a faglia diretta, specialmente nella parte occidentale, quello “compressivo”, a faglia inversa, specialmente nella parte orientale, e quello “trascorrente”, le cui faglie hanno una direzione all’incirca perpendicolare al percorso che dovrebbe fare il gasdotto.
Di Chiara Fanelli e Eugenio Salvatori [QUI IL PDF]
Estratti dalla tesi di laurea “Il biennio rosso nel riminese”, A. A. 2014/15
Di Eugenio Salvatori
La sera del 19 maggio accade il fatto più grave e tragico per la cittadinanza riminese, 65
da cui presto conseguirà una sempre maggiore stretta repressiva dello squadrismo fascista:
il già famigerato Platania, ex anarchico interventista, poi nazionalista fra i fondatori del
Fascio riminese, viene ucciso nell’atrio della stazione di Rimini.
Vengono immediatamente arrestati un gruppo di ferrovieri, comunisti e anarchici, che
negli attigui locali della stazione stavano festeggiando il trasferimento di un loro compagno,
colpevoli solo di essere usciti, come tanti, nel piazzale antistante la stazione dopo
aver sentito gli spari provenire dalle sale interne. Alcuni resteranno in carcere per lungo
tempo con l’accusa di aver ordito un complotto sovversivo in seguito al ferimento, di
qualche giorno precedente, dell’anarchico Bracconi, a cui erano seguite delle minacce
rivolte al Platania.
Nei mesi seguenti Carlo “il Monco” Ciavatti, anarchico individualista già carcerato, si
auto accuserà dell’omicidio e faticherà non poco a provare la propria colpevolezza, avendo
egli agito in solitaria e affermando che si era trattato di un regolamento di conti con l’ex
anarchico, facendo quindi decadere la tesi del complotto assai cara al fascismo di regime,
che aveva legittimato la violenza contro i sovversivi con quel delitto e chiuso in prigione
per anni i presunti colpevoli.
La notte del giorno seguente, il 20 maggio, l’orda fascista proveniente dalle città emiliane
di Bologna e Ferrara colpisce senza pietà la città di Rimini. Una cinquantina di camice
nere si scatenano per le vie del centro cantando i loro inni e spaventando la cittadinanza.
Questo il racconto de «L’Ausa»:
“Alle 20.30 incominciarono in piazza Cavour i primi incidenti fra fascisti e alcuni cittadini ritenuti per comunisti, ma fortunatamente senza tristi conseguenze. Alle 21.30 circa i fascisti spararono qualche colpo di rivoltella per intimidazione e infatti riuscirono nello scopo perché la città si spopolò in un attimo e, mentre i carabinieri usciti dalla limitrofa caserma stavano perquisendo innocenti passanti, i fascisti [guidati dal riminese Odella] si recarono nel sobborgo di San Giuliano e qui giunti, dopo aver imposto con spari di rivoltella e petardi la chiusura di tutte le finestre e le porte di casa, cosa che ottennero senz’altro, si recarono al Circolo ricreativo 13 Ottobre, i cui soci hanno fama di essere in gran parte anarchici e comunisti. In breve i mobili e quant’altro si trovava nei locali fu distrutto, quindi vi fu appiccato fuoco.”
A nulla valgono gli sforzi dei pompieri, che vengono bloccati dalle rivoltelle dei
fascisti all’altezza della chiesa dei Servi, prima del ponte di Tiberio, e costretti con
la forza a ritirarsi.
“I fascisti – prosegue la cronaca de «L’Ausa» – indisturbati proseguirono nella loro opera punitiva. Recatisi in via Clodia appiccarono il fuoco al Circolo dei ferrovieri. Pianciti, biliardo, biblioteca, tavoli, abitazione del custode, tutto andò distrutto.”
Alla devastazione del Circolo Primo Maggio segue quella della Cooperativa dei pittori. I pompieri accorrono questa volta scortati dalle guardie regie e, nonostante il sabotaggio dei fascisti che tagliano le gomme dell’autopompa, riescono a domare l’incendio. I fascisti, non contenti, si recano poi sotto casa di Arturo Clari in via Castelfidardo:
“e qui, dopo aver sparato vari colpi alle finestre, andati fortunatamente a vuoto, gettarono anche un petardo che scoppiò con gran rumore ma senza procurare danni.”
Il giorno del funerale del Platania viene fissato per il 22 maggio, giornata che segna l’apice delle violenze prodotte a Rimini dal fascismo d’importazione. Si affermerà, da questo momento in poi, la presenza in pianta stabile dello squadrismo emiliano, armato e organizzato, considerato necessario dallo stesso Mussolini per abbattere la resistenza riminese al fascismo, nei luoghi tipici di quel sovversivismo diffuso, finora impermeabile al nuovo partito nazionalista. I pochi cittadini incappati sul percorso della cerimonia vengono fascisticamente educati a schiaffi. Evidentemente questa lezione non trova diffusione, se l’onorevole fascista Silvio Gai di Ancona, in una lettera ai giornali scriverà:
“Vergogna! Rimini non è città italiana.”
Ma questi episodi sono solo il preambolo del peggio: di ritorno dalla cerimonia funebre condita di tali violenze, i due camion fascisti condotti da Italo Balbo percorrono la via Emilia in direzione Ferrara, dopo aver ricevuto il cambio dagli squadristi bolognesi della Disperata di Arpinati. Sopraggiunti nel piccolo borgo rurale di Santa Giustina,
“fermarono i camion, percorrendo a piedi la borgata sparando all’impazzata”.
I fascisti non volevano solo fare paura e, forse delusi dalla scarsa presenza della cittadinanza al funerale, sparano per uccidere. Sotto i loro colpi cadono tre coloni, cattolici e padri di numerosi figli non iscritti a nessun partito politico. La colonna di fuoco proseguirà verso nord, assalendo la redazione di «Lotta di classe» a Cesenatico. Le devastazioni di quei giorni e il tragico eccidio di Santa Giustina gettano Rimini e il circondario nello sgomento.
Figli della libertà
Film documentario di Lucio Basadonne e Anna Pollio, 78 minuti, Italia, 2017
Recensione di Vittorio
Figli della libertà
È una calda sera di inizio estate. Siamo in giro con la solita compagnia di amici di Senigallia e il nostro corredo di otto bambini indisciplinati e rumorosi. Nella incantevole frazione fortificata di Piticchio di Arcevia è prevista la proiezione di Figli della libertà all’interno della programmazione di un piccolo festival a tema ecologico. Quale opportunità migliore per solleticare le nostre sensibilità libertarie in tema di educazione? Anche i più piccoli hanno assistito alla proiezione, alcuni con interesse, altri addormentandosi sulle sedie dopo la lunga giornata di giochi e bagni al mare. Io invece mi sono arrabbiato. La protagonista è la piccola figlia di Lucio e Anna, che affronta con ironia e leggerezza un percorso di educazione libertaria a Genova mentre i suoi genitori documentano altre esperienze in giro per l’Italia. Il film, costruito con la stessa tecnica narrativa del precedente Unlearning, fallisce completamente negli obiettivi dichiarati, annoia a livello narrativo e indispone per la superficialità con cui affronta l’argomento dell’educazione libertaria.
Alla fine della proiezione era presente l’autrice e ne approfitto per provare ad aprire un dialogo. Dopo un primo assonnato silenzio iniziano alcune domande molto generali, poi arrischio la mia: « Cosa significa per voi educazione libertaria?» La risposta disegna una conoscenza superficiale del tema dove le diverse esperienze di educazione libertaria vengono associate senza distinzione di qualità e storia dei diversi progetti all’educazione parentale, descritta come facoltà di ogni famiglia di scegliere la migliore educazione per i “propri” figli.
Qui sta il principale problema dell’approccio proposto dal film: l’educazione parentale non è l’educazione libertaria, che nelle sue esperienze più consapevoli si allaccia a una storia di almeno trecento anni di sperimentazioni e progetti pedagogici ispirati da filosofie politiche principalmente di stampo anarchico, comunista libertario e socialista. La pedagogia, inoltre, proprio perché riflette sulle pratiche dell’educazione, è necessariamente orientata a una lettura universalista del fenomeno educativo e quella ispirata da principi egualitari si propone di migliorare l’educazione di bambini e bambine a partire da una critica degli ostacoli sociali e culturali che la impediscono. In Figli della libertà invece l’unica forza in campo è la volontà delle “famiglie”, questa istituzione
sociale funesta e fortemente conservatrice che non viene per nulla criticata né messa in questione con il risultato di trovare in primo piano le teorie aristo-freak di Erika di Martino, blogger di professione che promuove da anni l’educazione parentale come alternativa alla scuola pubblica.
Sul suo sito www.controscuola.it si trova la sintesi di questo pensiero apparentemente ingenuo ma in realtà fortemente classista: “lei e suo marito non credono che la scuola allo stato attuale possa dare ai loro bambini l’opportunità di imparare e sperimentare fino in fondo ciò che è veramente importante nella vita. Essi amano stare insieme ai loro figli, seguirli mentre crescono ed esplorano il mondo e pensano che la loro educazione sia responsabilità della famiglia, non dello Stato”. Diciamolo a chi ha entrambi i genitori lavoratori e assenti per ore o giorni da casa, ai figli degli integralisti di ogni religione, alle madri single, a chi ha figli disabili e una pensione minima. Da questo orizzonte viene totalmente cancellato il significato sociale e comunitario dell’educazione per ricondurla a una scelta privata e quasi intima dove l’ego dei genitori finisce per schiacciare quello dei figli, costretti a sopportare madri e padri 24 ore su 24.
L’educazione libertaria descritta da Figli della libertà diventa un rifugio per privilegiati che non hanno le capacità o le forze di affrontare le contraddizioni del sistema educativo come contraddizioni sociali e politiche e scelgono la ritirata come strategia di presunta salvezza personale. Non si accenna neanche alle difficoltà anche nelle relazioni lavorative tra organizzatori e insegnanti che emergono nell’ambito delle esperienze di piccole scuole autogestite, dove spesso l’auto-sfruttamento, la dequalificazione e la mancanza di welfare vengono taciute in nome dell’ideale “alternativo”. Insomma, l’aggettivo libertario nei contesti descritti dal documentario di Basadonne e Pollio corrisponde a individualista ed elitario.
Questo documentario è un’occasione mancata, perché sicuramente nel campo della educazione libertaria esistono piccoli progetti alternativi come quelli che abbiamo descritto anche noi (Serendipità a Osimo, ad esempio) che articolano la sperimentazione in una capacità di leggere in modo critico la relazione con il sistema educativo statale e il contesto socio-economico in cui la scuola libertaria si inserisce. Esistono inoltre esperienze consapevoli come la Rete per l’educazione libertaria che dialoga in modo costruttivo anche con chi lavora nella scuola pubblica. La storia di questo documentario è purtroppo è anche lo spaccato di una situazione di confusione e di superficialità in cui spesso si fermano le buone intenzioni di cambiare il proprio piccolo mondo senza approfondire le ragioni della critica sociale e il significato nobile e impegnativo della parola libertà.
Recuperando el paraíso
Film documentario di Rafael Camacho e José Arteaga, 72 minuti, Messico, 201
Recensione di Vittorio
“Alla riconquista del paradiso” è per me la traduzione che rende meglio l’idea dell’intensità del concetto di “recuperar” per le comunità povere del Messico indigeno e contadino.
Recuperando el paraíso
È un documentario indipendente che racconta la resistenza del paese di Santa Maria Ostula nella costa dello stato di Michoacan, che come molte altre, stanno soffrendo da anni la violenza del crimine organizzato. Gli autori sono due giovani registi con già molta esperienza nel mondo dei media digitali e militanti, impegnati da anni nelle lotte di base a Città del Messico e in diverse altre regioni del paese.
Le riprese hanno inizio nel 2009, quando gli abitanti di Ostula fondano il centro abitato di Xayacalan sui terreni che gli erano stati sottratti dal governo per essere distribuiti a dei privati. A partire dalla riconquista di queste terre la repressione aumenta con omicidi e sparizioni forzate. Il clima di terrore provoca la fuga di decine di famiglie e in questo modo dei gruppi criminali, in accordo con il governo, iniziano a utilizzare quei terreni come base per le proprie operazioni. Nel 2014 durante la ribellione armata dei gruppi di autodifesa nello stato di Michoacan, raccontata magistralmente da un altro documentario “Cartel Land” di Matthew Heineman del 2015, gli abitanti che erano stati espulsi con la forza, decidono di ritornare alle proprie terre liberandole dal crimine organizzato e iniziano la ricostruzione delle case e il lavoro della terra che per anni era stata intoccabile.
I registi del documentario sono entrati in contatto con la comunità che abita Santa Maria Ostula nel 2009, quando in veste di giornalisti indipendenti hanno raccontato il processo di occupazione delle terre e la formazione del primo nucleo di polizia comunitaria nello stato di Michoacan. Tuttavia la repressione violenta raggiunse un tale livello di pericolosità da impedire la prosecuzione del lavoro di documentazione negli anni successivi. Nel 2014, durante l’insurrezione armata, i registi hanno accompagnato le forze di Autodifesa nella loro avanzata fino alla costa e sono arrivati così a Xayacalan dopo cinque anni di assenza. In questo modo hanno ripreso il racconto da dove si era interrotto, documentando anche le atrocità commesse dal crimine organizzato.
Il film racconta, osservando con sensibilità e in maniera partecipante, le assemblee popolari, l’organizzazione delle forze di autodifesa, le relazioni tra la vita quotidiana e la grande guerra del narcotraffico che da almeno dieci anni sconvolge il Messico. L’autonomia per le comunità indigene e popolari significa autogoverno, democrazia diretta e autodifesa armata e si inscrive nella tradizione secolare di resistenza alla colonizzazione prima e ai latifondi poi. L’esperienza politica della comunità di Ostula, come quella di centinaia di altre esperienze meno note, rappresenta oggi l’unica base umana e politica per risollevare un paese devastato dalla forma più avanzata ed efficace di neoliberalismo: il narcotraffico organizzato.
La storia del giornalismo indipendente in Messico a fianco delle rivolte e delle sperimentazioni politiche popolari risale almeno ai primi anni dello zapatismo e conta al suo interno numerose produzioni e figure degne di nota. La relazione tra i reporter impegnati nella documentazione dal basso e i movimenti sociali ha dato luogo a numerosi collettivi di produzione e distribuzione di materiali multimediali che spesso, come questo documentario, vengono autofinanziati anche con l’aiuto della rete internet. Fuori dalle comunità zapatiste più note, molti territori indigeni e contadini del Messico hanno visto nascere in questi ultimi dieci anni esperienze di autogoverno, spesso dettate dall’urgenza dell’autodifesa contro poteri politici corrotti e narcotrafficanti.
L’esperienza delle Comune di Oaxaca nel 2006 ha segnato uno spartiacque politico importante per la pratica dell’autonomia politica in contesti urbani e un esempio che è stato seguito con alterne fortune da decine di comunità più o meno grandi. In quella occasione perse la vita un uomo che in questo contesto è giusto ricordare, il documentarista indipendente Bradley Will di Indymedia New York, ucciso da un gruppo di paramilitari a Oaxaca il 27 ottobre del 2006 mentre raccontava la vita dei difensori delle barricate della città. Anche a quelli come lui è giusto dedicare il successo e la diffusione di questo nuovo utile documentario.
Per sostenere il progetto: www.indiegogo.com/projects/recovering-paradise/
Per contattare gli autori, per info e presentazioni: www.facebook.com/recuperandoelparaiso/
Chi non si è mai trovato o trovata, nel corso delle proprie diverse esperienze con gli ambiti di “movimento”, a provare la sensazione che non si stesse andando da nessuna parte? L’essere “autoreferenziali”, “escludenti”, poco comprensibili, “per militanti”, sono ormai concetti autocritici che sono entrati comunemente nei discorsi di chi vive le realtà politiche oggi in Italia; ma, ciò nonostante, pare che non si riesca a fare dei passi verso una via d’uscita. Una risposta prova a darla Renaud Garcia nel suo libro Il deserto della critica (Elèuthera, 2016). Insegnante di filosofia in un liceo e redattore della rivista «Réfractions», autore di numerosi libri sui temi della critica sociale e della decrescita ecologica, parte da una messa in discussione della “decostruzione” foucaultiana, filo conduttore di tutto il libro, per arrivare a fare “un’analisi dell’influenza delle teorie della decostruzione sulle sinistre ‘radicali’ contemporanee e della maniera in cui hanno neutralizzato tutta la critica sociale”[1]. Garcia teorizza inoltre che, “occupate a decostruire e decostruirsi all’infinito, le sinistre ‘radicali’ abbiano trascurato il campo sociale, mentre l’estrema destra vi ha investito opportunisticamente, sfruttando l’angoscia degli sconfitti della storia”. Cerca quindi il perché del “deserto” intellettuale e militante in cui ci troviamo ora, provando a seguire una traccia lasciata dagli autori e dai concetti maggiormente in voga oggi, provando a trovare non solo delle cause, ma anche dei rimedi.
Renaud Garcia, Il deserto della critica, Eleuthera
Il libro si compone di un’introduzione e cinque capitoli, in cui l’autore affronta tematiche specifiche su cui si sono concentrate le opere degli autori e dalle autrici della decostruzione, per andare così a riflettere sulle tesi da loro avanzate e sulle conseguenze politiche e sociali delle stesse. Se fin dalle prime pagine il punto di partenza è la figura stessa di Foucault e le trasformazioni negli ambiti militanti che vi vengono fatte discendere, rilette attraverso le posizioni di Orwell sul rapporto per nulla scontato fra classi popolari e idee di emancipazione sociale, nel primo capitolo l’opera si immerge nel confronto fra gli eredi “anarchici” della decostruzione (Tomas Ibañez, Hakim Bey, Saul Newman) e i sostenitori di una critica sociale che si accompagni alla proposta di alternative globali (Murray Bookchin, John Zerzan, David Graeber), mostrando infine uno spaccato “demografico-sociologico” della composizione attuale del movimento antiautoritario, ponendo così la spinosa questione della composizione di classe. Nel secondo capitolo, sono invece l’Illuminismo e il Romanticismo con le loro eredità, cestinate senza possibilità di ricorso da parte degli autori post-modernisti, ad essere alla base di un ragionamento più ampio, che Garcia compie attraverso i testi di Bertrand Russel, Kant e soprattutto di Horkheimer e Adorno, sulle conseguenze della cancellazione del concetto di Verità per mano delle filosofie della “destrutturazione”. Da lì, si dispiegano una serie di confronti, quali quello fra il particolarismo intransigente delle lotte “diffuse” e il ruolo del concetto di “comune” e di temi “universali” quali “Libertà” e “Uguaglianza”, il ripiegamento nel personale e la teoria del potere diffuso rispetto alla questione dell’alienazione, la dis-identificazione (specificatamente quelle queer e post-umana) con la sua ricerca del superamento di sé rispetto alle problematiche dell’umanesimo e del naturale. Infine la conclusione riprende gli spunti delle parti precedenti, per andare a rileggerli alla luce di una questione lapidaria, quella del concetto di “limite” inteso come dato politico, sociale e ambientale con cui tutti si devono, volenti o nolenti, confrontare. Il libro di Garcia presenta sicuramente due problematiche principali: la prima è quella di essere incentrato sull’analisi degli autori e delle fonti, motivo per cui molte delle critiche poste potrebbero suonare scontate a chi è più aduso all’agire concreto e agli schiaffi di verità che ciò comporta, mentre la seconda è quella di affrontare di petto tematiche spesso delicate; infatti, se nel senso comune l’onestà di prendere apertamente una posizione è considerata positiva, negli ambiti dell’elaborazione teorica politica, questo porterà molto probabilmente più ad alzate di scudi a priori che a un reale confronto. In questo senso l’autore, militante convinto della decrescita, pone limpidamente le proprie convinzioni, ribadendo come sappia benissimo che il suo lavoro sia parziale, incompleto e, soprattutto, purtroppo uno dei pochissimi a porre una critica organica dei paradigmi attuali delle sinistre radicali. D’altra parte, accantonando un momento i passaggi più inficiati da un’eccessiva nettezza (quelli sulla tecnologia e sul pensiero queer), Garcia ha il merito indiscutibile di proporre un retroterra teorico e filosofico finalmente organico e attuale a quelle tendenze anarchiche e libertarie sociali troppo spesso rimaste prigioniere della logica della “testimonianza”, andando a riscoprire autori meno comuni quali Russell, Orwell e Illich, riordinandoli e organicizzandoli al fianco dei teorici più attuali dell’antiautoritarismo come Bookchin e Graeber. Insomma, per riprendere le invocazioni dell’autore stesso: c’è da sperare che su questa scia siano molti i testi a venir proposti in futuro, e che si intreccino in un confronto dialettico positivo con quelli maggiormente legati alle correnti post-moderne e alle loro propositività.
[1] «Réfraction. Recherches et expressions anarchistes», https://refractions.plusloin.org/spip.php?article909.
Il futuro trionfa. Ma non abbiamo un avvenire. Piattaforma critica della ricerca scientifica.
Di Groupe Oblomoff
In principio pensavamo che con le conoscenze scientifiche, mettendole a disposizione di un numero sufficiente di persone, saremmo arrivati a trovare la migliore soluzione ai problemi che abbiamo di fronte. Ci siamo ripresi da questa illusione. Ora crediamo che la soluzione non proverrà da un supplemento di conoscenze scientifiche, da un supplemento di tecniche, ma da un cambio di civilizzazione.
Alexander Grothendieck, matematico
Science!
Negli ultimi mesi in molti hanno seguito con attenzione la questione delle vaccinazioni obbligatorie e le polemiche attorno a omeopatia e medicine non convenzionali. In redazione le discussioni sono state animate, con diverse posizioni che pur partendo da basi comuni non riescono a trovare una conciliazione. Poco male, non è la sintesi che cerchiamo. Un punto di affinità, sul quale riusciamo a non prenderci a male parole, però lo abbiamo: è la visione del rapporto tra scienza e potere. Pensiamo che ci sia spazio sulle nostre pagine per chi ribadisce che non esiste una distinzione tra “scienze pure” e “scienze applicate” e che la scienza non possa essere neutrale, ma faccia parte integrante di questo sistema di potere al quale fornisce i mezzi tecnici per le sue disastrose ambizioni di sviluppo. Quelle che vengono propagandate come le meravigliose possibilità di benessere aperte dalla ricerca scientifica e tecnologica, appoggiano infatti su un’organizzazione sociale e produttiva che ha fatto dello sfruttamento, della diseguaglianza sociale e della devastazione ambientale i suoi tratti immediatamente riconoscibili.
Nel 2004, mentre cresceva il movimento di rivendicazione dei ricercatori francesi “Sauvons la recherche”, qualche voce stonata raccomandava ai cervelli dell’università di rilassarsi: “quello che ci aspettiamo oggi dai ricercatori è che si mettano in congedo per malattia a tempo indeterminato, che restino a dormire a casa, che si sforzino, stesi nei loro letti, di leggere un po’ di poesia” (États généraux de la servitude). Di fronte alle richieste di più finanziamenti per la ricerca scientifica, di più “progresso” e più tecnologia, l’intento era di riflettere sul ruolo sociale dei ricercatori, spesso essi stessi precari e sfruttati, nell’evoluzione di questo mondo. Su questa scia, pubblichiamo qui un manifesto-piattaforma di critica della ricerca scientifica redatto dal gruppo parigino Oblomoff, il cui nome riprende provocatoriamente quello del protagonista di un romanzo dello scrittore russo Ivan Gontcharov, che immerso in una proverbiale indolenza trascorreva le sue giornate sul divano. Trattandosi di una piattaforma, i vari punti sono esposti con una certa schematicità. Per un approfondimento sul tema rimandiamo al libro “Un futur sans avenir. Pourquoi il ne faut pas sauver la recherche scientifique” (L’échappée, 2009).
Quello che ci sta a cuore, pur nelle divergenze già accennate, non è di certo condannare la conoscenza libera e razionale (merce rara nei laboratori di ricerca) per cadere nel baratro di un discorso mistico e religioso, quanto sollecitare l’intelligenza critica del proprio stare al mondo, affinché i saperi e i saper-fare si inscrivano in una cultura collettiva diffusa, locale, gestibile in autonomia da individui e collettività. La situazione si fa drammatica se, come recita il titolo di questo manifesto, a trionfare sarà il futuro delineato dal progresso della civiltà industriale, per questo è necessario e urgente cercare di tracciare altre vie che disegnino un avvenire a misura di comunità umane e dei loro territori.
Show
Il modello scientifico conserva oggi una grande forza, un’immagine di universalità e potenza nel contesto di alterazioni climatiche e di sfacelo sociale globalizzato. In mezzo a tutti questi progressi nell’assurdità della vita e alla crescente brutalità delle società, la Ricerca è il solo dominio che offre l’immagine rassicurante di una continuità con le epoche precedenti. Un dominio che sembra quasi al riparo dalla meschinità dei rapporti mercantili. Un dominio che, quando tutto sta crollando, continua ad avanzare. Funesta illusione.
Certamente, un corpus di conoscenze rigorosamente stabilite sarà sempre indispensabile, così come l’elaborazione di tecniche al servizio delle comunità umane. Ma tutto ciò è molto marginale all’interno di quella che oggi chiamiamo Ricerca e serve, il più delle volte, a giustificare il resto. Nelle sue conseguenze, infatti, l’ingenua buona fede si unisce al peggior cinismo, lasciando campo libero a tutte le aberrazioni immaginabili. Non ci si salva servendo da sostegno ideologico alle peggiori atrocità.
In questo periodo tormentato in cui, tanto nella bocca dei ricercatori che nell’immaginario collettivo, la tecnoscienza si mostra come la sola adatta a definire il nostro comune avvenire, noi, studenti e studentesse, ricercatori e ricercatrici, disoccupati e disoccupate, noi che avevamo creduto nella capacità dell’Università di salvarci da compiti idioti o irresponsabili, abbiamo deciso di organizzarci in vista di uno sconvolgimento radicale che abbiamo scelto di non attendere.
Denunciamo la collaborazione attiva dei ricercatori con i poteri militari e industriali che li finanziano, definiscono i loro obiettivi e utilizzano le conoscenze e le tecniche messe a punto nei laboratori.
Questa collaborazione risale alle origini della scienza moderna: i progressi delle scienze hanno sempre intrattenuto strette relazioni con quelli delle tecniche di guerra. Ma con la Seconda guerra mondiale si è avuto un decisivo salto quantitativo e qualitativo. Oggi, la maggior parte delle ricerche scientifiche servono prima di tutto ad accrescere il potere militare ed
l’alibi che serve a far accettare la corsa agli armamenti e la competizione economica internazionale.
Dal momento in cui questo servizio per il potere prende il posto dell’indagine problematica sul mondo, teniamo a denunciare i miti che legittimano o occultano tale collaborazione.
Moon
Il mito del progresso è sempre meno credibile mano a mano che si moltiplicano, soprattutto per i più poveri, le conseguenze catastrofiche dello sviluppo economico. Le ricerche più nauseabonde e interessate utilizzano sempre il pretesto di servire a curare e sfamare il maggior numero di persone, di migliorare le condizioni di vita. Ma, al posto di questi progressi, è evidente che la modernizzazione ha causato un tale disastro ecologico che le cose più elementari sono ore diventate di lusso: acqua e aria pura, alimentazione sana, vegetazione. Per di più, l’idea di un progresso continuo delle condizioni di esistenza grazie al perfezionamento tecnico nasconde la sottomissione degli individui a dei fenomeni che s’impongono su di loro, rendendoli quotidianamente dipendenti dalle nuove tecnologie e dalle soddisfazioni compensatorie che garantiscono.
Nella scienza, la visione progressista della storia si culla ancora nell’idea che ogni avanzamento delle conoscenze sia intrinsecamente buono, anche quando nell’immediato è associato alle peggiori cose. È pertanto urgente comprendere che i danni indotti dalla frenesia scientifica sono spesso irreversibili. La tecnoscienza, principale responsabile della loro moltiplicazione, non potrà far niente (o molto poco) di fronte alle radiazioni, ai cicloni o ai tumori, che sono e restano delle catastrofi. Pretendere di risolverli con nuove soluzioni tecniche corrisponde a una fuga in avanti assurda. E l’idea di un’eventuale riappropriazione di questo insieme tecnologico, ci pare altrettanto improbabile quanto quella di trasformare un autogrill in un luogodi convivialità.
Il mito della Ricerca pubblica disegna l’immagine di una ricerca che obbedirebbe a criteri fondamentalmente diversi da quelli della ricerca privata. In realtà, le due sono ormai da lungo tempo inestricabili, tanto a livello di organizzazione e di finanziamento dei programmi, quanto per il tipo di indagini portate avanti. Entrambe partecipano allo stesso progetto di artificializzazione della vita e di meccanizzazione delle relazioni umane. Vediamo tutto ciò esplicitamente confermato, già da anni, nella ricerca pubblica, dove vengono spinti avanti i valori e le pratiche dei settori più “dinamici” dell’economia commerciale (start-up, piccole e medie imprese all’avanguardia, etc.).
Il mito della scienza pura è nato esattamente nel momento in cui l’intreccio tra l’industria e la scienza era definitivamente suggellato. Dai suoi inizi, la scienza moderna consiste essenzialmente nel produrre dei principi a partire dalle macchine: è una tecnoscienza. La circolazione delle tecniche e dei saperi rende oggi insensata la fede in una scienza come pura conoscenza, al fianco di una scienza detta “applicata”. Nelle scienze dure, i principi sono informulabili al di fuori di tutta l’apparecchiatura tecnologica che li sottende, presiede alle sperimentazioni e struttura il rapporto dei ricercatori con la realtà. Nelle scienze cosiddette umane, quei rari ricercatori che rifiutano di gestire e strumentalizzare le popolazioni non sono nulla di fronte ai tecnici del sociale e finiscono spesso per lavorare per loro.
Bisogna dunque rompere con il progetto delle scienze moderne, per come si è cristallizzato nel XVII secolo (e che è ancora oggi un riferimento insuperabile, malgrado le precauzioni talvolta prese). Esso consisteva nello stabilire una conoscenza totale e oggettiva dei fenomeni grazie alle matematiche e ad acquisirne il controllo tecnico immediatamente associato, per il più grande benessere dell’umanità.
Martian
I progressi della scienza hanno confermato l’inanità di questa religione sostitutiva: la scienza, per quanto avanzata sia, non raggiungerà mai l’oggettività assoluta e non fornirà risposte alle domande fondamentali dell’essere umano. Quanto al versante pratico, il XX secolo ha consacrato lo scacco del punto di vista dell’ingegnere: lungi dal servire la felicità e la libertà, la formidabile crescita di potere permessa dalla Ricerca ha soprattutto contribuito a dissolvere le società umane a colpi di assoggettamento e di dipendenza e a mettere in pericolo le condizioni minimali della nostra sopravvivenza. Svincolata da tutti i freni sociali e politici, la gestione quantitativa del mondo si rivela catastrofica. Continua a dare l’illusione del suo controllo solo estendendo sempre più lontano il campo di sperimentazione, le sue iniziative riduzioniste e le sue equazioni fuori luogo. Nel loro desiderio di onnipotenza e di manipolazione, i gestori continuano a fare “come se” questo controllo fosse reale, persistendo, tramite pratiche fraudolente e sperimentazioni pericolose, a far entrare di forza nei loro modelli meccanicistici tutto ciò che hanno rinunciato a comprendere. Fino ad arrivare a produrre una vita in campana di vetro, nella quale nessuno dispone più dei punti di riferimento che permettono di riflettere e giudicare.
Hunk
Al contrario di tutti i progetti politici, di sinistra o di destra, che appoggiano ancora questo programma di controllo totale del vivente e non propongono che di calarcisi un po’ di più, noi pensiamo che il punto di partenza di ogni riflessione politica dovrebbe risiedere in questa duplice constatazione:
– il crollo sempre più rapido delle condizioni biologiche della nostra sopravvivenza (e, correlato a questo, il dominio della tecnoscienza sulla sopravvivenza e la riproduzione di tutti);
– la crescente impotenza degli esseri umani sul corso della propria esistenza, che svuota di sostanza i concetti di ragione e di libertà.
Partire da questa duplice constatazione significa cogliere le difficoltà nelle quali ci troviamo a lottare. Da una parte, la precarietà delle condizioni di vita che resta sullo sfondo di ogni discorso e progetto politico, serve sempre più a giustificare la passività e a distruggere le iniziative che vanno nel senso dell’autonomia. Dall’altra parte, la riduzione di tutto allo stato di ingranaggi delle strutture di produzione e di scambio ci ha fatto disimparare persino l’uso della parola per riflettere insieme. Crediamo che la ragione critica e la sensibilità, benché atrofizzate come lo sono oggi, ci rendano malgrado tutto irriducibili a del bestiame, delle merci o delle macchine. È facendo leva, tra le altre, su queste facoltà, che potremo mantenere un’indipendenza critica e coltivare delle riflessioni e dei saper fare non sottomessi agli Stati, alle industrie e alle loro merci. Prendersela con la Ricerca significa mettersi a fianco di tutto coloro che cercano di riappropriarsi delle proprie vite.
Hugger
Molte cose sono da fare per condurre una simile offensiva.
– Prendere coscienza che ci sono già delle linee di frattura interne alla Ricerca, che il disagio legato alla vita nei laboratori, alle concezioni che vi sono coltivate e al sentimento di partecipare all’annientamento delle persone è molto reale e non è solamente un problema di carattere, di psicologia individuale.
– Approfondire l’analisi in ogni dominio da noi conosciuto, individuare, attualizzare e mettere in comune le critiche della scienza moderna, per rompere con la specializzazione e l’isolamento vigenti nei laboratori.
– Comprendere come dei movimenti di contestazione forti negli anni Settanta, come per esempio le lotte contro la ricerca militare o il nucleare, si ritrovano oggi completamente soppressi, sommersi sotto l’avanzata tecnologica.
– Diffondere questa critica della Ricerca e del mondo industriale ovunque sia ancora possibile portare una voce discordante e mettere fine, laddove si può, all’insopportabile impunità dell’oscurantismo scientista.
– Denunciare senza ambiguità tutte le procedure pseudo democratiche (forum ibridi, consultazioni di cittadini, sondaggi su internet…) che consistono nel far validare dalla maggioranza decisioni già prese e che, in questo modo, incorporano, neutralizzano e discreditano la critica.
– Essere, insomma, ovunque si diffonda la dittatura ordinaria della verità degli esperti, per ricordare di quali verità si tratti e quali usurpazioni e quale tipo di mondo essi difendano.
Germ
Facciamo appello a stabilire i legami ancora possibili tra tutte le persone che, siano esse provenienti o meno dall’ambiente scientifico, talvolta non si conoscono e intendono resistere nei fatti all’avanzata della tecnoscienza. La questione non è di riavvicinare la scienza al cittadino, ma di rompere la logica delle specializzazioni, di denunciare la menzogna della neutralità della ricerca e d’impedire alla scienza contemporanea di contribuire, giorno dopo giorno, a distruggere la politica rimpiazzandola con un affare tecnico. Se abbiamo a cuore la curiosità e il desiderio di conoscenza, pensiamo che sarebbe molto meglio applicarli nei confronti di ciò che ci sta succedendo.
Difendersi in tribunale, costruire solidarietà nelle strade
Intervista di A. Soto al collettivo Prison Break Project
Oggi più che mai, parallelamente ai nostri percorsi di lotta, pensiamo sia importante parlare di repressione. Non tanto per un’attitudine al vittimismo, quanto piuttosto per offrire alle lotte stesse nuovi strumenti di autodifesa ma anche di critica, resistenza e opposizione. Anche nelle Marche e in Romagna, nonostante la situazione e la composizione delle lotte sociali non abbia motivato speciali ondate repressive, abbiamo sperimentato l’applicazione selettiva dei nuovi meccanismi di diritto penale. Senza dubbio un caso eclatante è quello di Alessio Abram, compagno e ultras impegnato nel calcio antirazzista, che ha visto di recente precipitare la sua situazione penale fino alla condanna a oltre 4 anni di carcere a causa della violazione del DASPO di cui ha già scontato più di un anno e mezzo in carcere ad Ancona e attualmente è in semi-libertà con obbligo di rientro notturno nel carcere di Barcaglione – Ancona. Insieme a lui nel capoluogo dorico altri ultras hanno visto aprirsi le porte del carcere con pene detentive irreali, intrappolati dalle misure di prevenzione. Sempre nelle Marche finiscono sotto osservazione le lotte dei terremotati, di cui ogni mobilitazione, anche la più pacifica e simbolica, viene costantemente monitorata e se necessario censurata dalla polizia politica. Non dimentichiamo infine la repressione spropositata in occasione della contestazione dell’aprile 2016 per il comizio di Salvini a Rimini e l’accanimento della stessa procura nei confronti delle esperienze di aggregazione e di lotta anfascista in Romagna di cui in parte abbiamo raccontato nel numero 7.
Per queste ragioni abbiamo scelto di proporre un’intervista al collettivo Prison Break Project, autore di un interessante lavoro edito da Be Press (Lecce) dal titolo “Costruire evasioni. Sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico” (per contatti: prisonbreakproject@autoproduzioni.net). A condurre l’intervista è un compagno aderente all’Associazione di mutuo soccorso per il diritto di espressione, che opera da una decina di anni a Bologna e provincia. Gli obiettivi principali dell’Associazione sono di supportare materialmente e moralmente chi incappa in guai giudiziari per la propria attività nelle lotte sociali e di diffondere informazioni e consapevolezza sui meccanismi della repressione. È in preparazione la seconda edizione di un suo fortunato opuscolo del 2003: “Difesa legale. Note per una maggiore consapevolezza”.
Tentacoli. Opera di Federico Molinaro
Mi piace questo vostro approccio di volere “capire la logica del potere, conoscere le sue regole per scovare degli interstizi dove orientare sforzi, resistenze, offensive” (p. 24). Conquistare la consapevolezza di sé e del mondo è il primo passo per potere imbastire una lotta, senza il quale rischiamo di rimanere in ballo di forze più grandi di noi: condividete?
Sicuramente. Lo sforzo di consapevolezza è sempre fondamentale se si vuole durare nelle lotte e non essere travolti alla prima mareggiata. In passato, forse perché si operava in contesti di maggiore agibilità politica, diversi-e compagni-e tendevano a pensare che riflettere sui dispositivi repressivi fosse attività da delegare a specialisti e avvocati. Quasi per un riflesso scaramantico (“lontano dagli occhi, lontano dal cuore”) molti tendevano a non farne un tema di discussione comune. Noi pensiamo invece che serva affrontare a viso aperto la questione della repressione, senza certo farsi monopolizzare l’agenda dal problema ma, al contrario, per continuare a lottare più efficacemente. Le offensive repressive in corso ci confermano che non ci possiamo permettere il lusso di rimanere impreparati. È essenziale allora cogliere cosa nella dinamica repressiva si ripresenta con tratti sempre comuni, ad esempio la necessità di costruire un nemico pubblico, la differenziazione tra buoni e cattivi, il tentativo di dividere e isolare. Ma è importante anche capire quali sono i fronti di avanzamento e di sperimentazione da un quindicennio a questa parte, come quelli che noi tentiamo di indicare in relazione ai dispositivi repressivi del terrorismo, della devastazione e saccheggio, dei reati associativi, della repressione economica e delle misure di prevenzione.
La mia catena, Opera di Federico Molinaro
Parliamo dell’argomento centrale del libro, l’analisi del diritto penale del nemico: che cos’è esattamente?
La teoria del diritto penale del nemico è stata elaborata dal penalista tedesco Gunther Jakobs nel 1985. In base a tale teoria, il diritto punitivo delle società democratiche contemporanee si compone di due binari paralleli: diritto penale del cittadino, che sanziona le violazioni commesse dai soggetti di diritto “comuni” e diritto penale del nemico, concepito per colpire talune categorie sociali che assumono, di per sé, valenza deviante. Questo secondo “binario” del diritto penale non è volto a reprimere degli illeciti ma a neutralizzare dei soggetti, definiti come veri e propri “nemici della società”; per fare ciò è possibile derogare alle garanzie del diritto per utilizzare le regole tipiche della “guerra”, orientate direttamente alla sconfitta dell’avversario.
Emblematica, per capire l’entità di questa concezione giuridica, è la seguente affermazione di Jakobs: “chiunque sia in grado di promettere almeno in qualche misura fedeltà all’ordinamento, è titolare di una legittima pretesa ad essere trattato come persona in diritto. Chi non offre simile garanzia in modo credibile, tendenzialmente viene trattato come non cittadino” (e dunque deve essere neutralizzato).
Abbiamo scelto di usare questa configurazione teorica perché, secondo noi, è particolarmente adatta a delineare il contesto generale in cui operano i diversi dispositivi repressivi presi in considerazione. Il trait d’union che collega i cinque profili specifici che abbiamo approfondito è proprio la finalità di attaccare, colpire e rendere inoffensivo ciò che le istituzioni concepiscono quale nemico della società, che in quanto tale non ha diritto di usufruire nemmeno delle labili garanzie che l’ordinamento offre ai “normali” criminali.
Il diritto penale del nemico è in grado di collegare e unificare adeguatamente le diverse dimensioni dell’attacco ai movimenti sociali, quella giuridica come quella politica e mediatica: il progressivo ma costante aumento repressivo degli ultimi 15-20 anni è stato reso possibile grazie a un’incessante mobilitazione del circuito legislativo, giudiziario e istituzionale ma anche agli attacchi concertati tra media, stampa e magistratura.
Insomma, la finalità del nostro lavoro è quella di sviscerare la strategia complessiva dietro la scelta dei differenti strumenti che il sistema offre agli organi atti a reprimere e svelare la logica di guerra, relativa ai rapporti di forza, che contrappone gli apparati repressivi ai movimenti. Tutto ciò nell’ottica di capire a fondo la natura e la funzione dei dispositivi repressivi al fine di poterli combattere meglio.
Contro corrente. Opera di Federico Molinaro
Potete descrivere il meccanismo di costruzione del “nemico pubblico” o folkdevil?
L’applicazione del diritto penale del nemico richiede preliminarmente che il potere repressivo segnali quali sono i “nemici pubblici” che vanno neutralizzati. Nominare e definire il nemico pubblico serve infatti a catturare consenso rispetto alla repressione di un determinato gruppo sociale.
Come diceva Carl Schmitt, avere un nemico comune è fondamentale nella costruzione della soggettività politica. Ad esempio, per capire qual è il pensiero politico dominante oggi basta vedere quali sono le categorie sociali colpite dal decreto Minniti: poveri, prostitute, migranti, occupanti di case, insomma, chi è incompatibile con l’ideologia del decoro urbano. Oggi sono questi i folkdevil, ossia quei soggetti contro i quali vengono scatenate vere e proprie campagne di “panico morale” che mischiano ansie sociali, bigottismo e difesa dell’economia capitalistica.
Se il meccanismo della costruzione del nemico pubblico è costitutivo delle società in cui viviamo e quindi permanente, sono invece variabili nel tempo i gruppi sociali capaci di impersonificare il nemico agli occhi di imprenditori morali, mass media e opinione pubblica. Per questo motivo anche nel campo della repressione delle lotte sociali di volta in volta si fabbricano nuove sigle ed etichette (il no global, il black bloc, l’anarco-insurrezionalista) o si ripropongono e rinnovano vecchie categorie (il teppista, il terrorista).
L’effetto a cui si mira è quello di delegittimare istanze di ribellione e trasformazione sociale, ma anche imporre una distinzione tra buoni e cattivi all’interno dei movimenti per dividere e isolare le sue diverse componenti.
Senza titolo. Opera di Federico Molinaro
A me pare che a fronte della costante politica del divide et impera ci sia da parte “nostra” un’incapacità di andare al di là di stupidi settarismi. C’è la salvaguardia cieca e inconcludente del proprio orticello, lasciando indietro quella solidarietà che, al di là delle differenti pratiche di azione, risulta spesso il fattore più importante di un movimento antagonista allo stato di cose presenti. Voi in questo andate, per fortuna, controcorrente: che ragionamento c’è alla base di questo vostro approccio?
Uno degli obiettivi primari della repressione è cercare di isolare, frammentare e fare “terra bruciata” attorno a individui e gruppi al centro della sua attenzione. Per questo motivo secondo noi una delle urgenze di risposta “minima” risulta essere quella della solidarietà a persone e pratiche attaccate, oltre alla circolazione d’informazioni e ragionamenti sulle offensive repressive.
Lo stato usa, affina e sperimenta in maniera ricorrente nuovi e vecchi dispositivi repressivi, crediamo quindi che la logica che chiamiamo “difendere solo i miei” risulti spesso fallimentare. In primo luogo, indebolisce la difesa delle lotte e delle loro pratiche, oltre a esporre una differenziazione nel profilo dei colpiti dalla repressione che può risultare deleteria, lasciando campo aperto alla dicotomia “buoni e cattivi” che tanti danni ha già portato…
In secondo luogo, pensiamo che sebbene possa essere (umanamente) comprensibile un sostegno riservato solamente ai membri del proprio gruppo, questo abbia la tendenza a scivolare verso una difesa dei profili degli accusati seguendo spesso le stesse categorie processuali (precedenti giudiziari, inserimento nel sociale e nel lavoro ecc.) più che ingaggiare una lotta all’interno del “sistema processo” dell’intero movimento attaccato dalla repressione. È in questo quadro che riprendiamo il motto No Tav “si parte e si torna insieme”, proprio per sottolineare l’importanza di una solidarietà tangibile e politica contro la repressione senza differenziazioni e a partire da un lavoro politico collettivo per non cedere alle tendenze di individualizzazione della difesa, per vantaggi materiali o nell’inseguire ortodossie di “purismo”.
È in questo contesto che si può inscrivere la nostra riflessione sul periodo storico del “movimento noglobal”. Senza entrare in una diatriba di valutazione dei gruppi che non ci interessa, nel libro segnaliamo come le conseguenze processuali del G8 di Genova con la frammentazione in mille rivoli delle iniziative processuali e (soprattutto) delle mobilitazioni solidali ha aperto di fatto la strada a condanne pesantissime su alcuni compagni-e, oltre ad aver sdoganato il reato di devastazione e saccheggio divenuto oggi ordinario nella repressione delle mobilitazioni di piazza. Le rivendicazioni tecniche formulate in quel contesto (riconoscimento di un “diritto di resistenza”, il numero identificativo per poliziotti e carabinieri…) non hanno offerto, se le valutiamo a 15 anni di distanza, un avanzamento nei margini d’azione politica né un freno alle offensive repressive.
Senza titolo. Opera di Federico Molinaro
L’applicazione delle misure preventive si sta moltiplicando oggi anche in Italia. Fuori da qualsiasi garanzia di legge, si tratta di misure di polizia, di questura. È un cambiamento di non poco conto questo: come lo interpretate?
Il proliferare delle forme preventive è senza dubbio un elemento centrale delle politiche repressive attuali. Tale tendenza caratterizza, a ben vedere, il sistema punitivo nel suo complesso e va oltre il campo di applicazione delle misure amministrative di polizia, che pure sono in aumento esponenziale. Lo scopo è quello di colpire il militante politico prima che riesca a manifestare una qualche potenzialità offensiva. L’utilizzo spregiudicato di tali armi, a nostro avviso, va inserito quale singola tattica nella strategia generale del diritto penale del nemico.
Le misure di prevenzione, gli avvisi orali, i fogli di via e i decreti di sorveglianza speciale, attuano la più accentuata forma di punizione preventiva possibile nell’ordinamento italiano. Non vertono, infatti, su fatti reato o su determinate condotte illecite, bensì su un profilo di “pericolosità sociale” dell’individuo.
Questi provvedimenti sono in crescita esponenziale, così come lo sono altre misure preventive, quelle cautelari giudiziarie (custodia cautelare, arresti domiciliari ecc.), che limitano la libertà personale in collegamento con un procedimento penale non ancora concluso.
Spesso gli organismi preposti alla repressione possono combinare i due tipi di dispositivi di punizione preventiva scegliendo quello che più conviene o è ritenuto efficace in un determinato momento, secondo una logica di performatività e preventività tipica del diritto penale del nemico. L’esigenza di sconfiggere la minaccia prima ancora che questa si manifesti, infatti, spinge gli apparati repressivi a dribblare il processo penale (che può essere fonte di ritardi e di incertezze dell’esito) e ad affidare direttamente alla polizia o al giudice delle misure cautelari il compito di sottrarre i-le compagni-e alle lotte e ai gruppi di appartenenza.
Il recente decreto Minniti, al di là delle misure specifiche che mette in campo, consegna una particolare agibilità a questo tipo di repressione. Quando parliamo di misure cautelari e di polizia, però, parliamo di provvedimenti introdotti da normativa precedente, di volta in volta emendata. Si può pertanto parlare di evoluzione in corso del sistema repressivo per cui la Minniti risulta solo l’ultimo tassello di un percorso omogeneo iniziato diversi anni fa.
Oltre l’ostacolo. Opera di Federico Molinaro
Da dove provare a ripartire quindi? Dalle pratiche di movimenti come quello No Tav, dal “si parte e si torna insieme”, dalla solidarietà come collante ineliminabile dei movimenti antagonisti?
Sicuramente la solidarietà, materiale e politica, è indispensabile in questo contesto in cui ci confrontiamo con un aumento di compagni e compagne presi tra le grinfie giudiziarie (e amministrative).
Come dicevamo prima, per noi è prioritaria una visione ricompositiva nell’attenzione ai dispositivi repressivi e alle tendenze in atto. Crediamo che, a partire dall’intelligenza messa in luce dalle lotte, sia possibile rompere l’accerchiamento che la repressione vuole imporre sui movimenti.
Il movimento No Tav ci offre una molteplicità d’esempi in questo senso: rompere il rituale del processo, rifiutare i provvedimenti preventivi e cautelari, rivendicare pratiche di sabotaggio… Certamente senza lasciare nessuno indietro, ma anche con la volontà di allargare il fronte delle lotte, costruendo connessioni tra militanti, sfruttati e “banditi” dalle vecchie e nuove leggi nell’attuale fase dello scontro di classe. Una risposta alla repressione non può essere separata dalla continuazione e intensificazione delle lotte, non è un settore separato ma una parte integrante di esse.
In questo senso cerchiamo nel testo di presentare delle pratiche che riteniamo interessanti e auspichiamo che la stessa dimensione processuale non venga semplicemente delegata a tecnici. Allo stesso tempo crediamo tuttavia che il processo sia anch’esso un terreno di lotta da investire, poiché nonostante non abbiamo alcuna fiducia nella giustizia dei tribunali, le loro decisioni impongono conseguenze di cui si deve tener conto necessariamente.
La mia catena, Opera di Federico Molinaro
Ringraziamo il collettivo Prison Break Project – prisonbreakproject.noblogs.org
Le opere che accompagnano l’articolo sono una gentile concessione di Federico Molinaro scultore, San Colombaro Certenoli (GE) – federicomolinaro.com
La fine di un mondo non è la fine di tutto
Intervista a Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro.
Di Andrea Cavalletti
Cranio street art
Il Brasile è la terra del futuro, scriveva nel 1939 Stefan Zweig. Con minore ottimismo, Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro suggeriscono che è piuttosto il futuro della Terra, fatto di inquinamento, di problemi migratori e povertà, ad assomigliare al Brasile. Lei è una filosofa (specialista di Leibniz), lui, teorico del «multinaturalismo» e del «prospettivismo amerindo», è uno degli antropologi oggi più noti e influenti. Entrambi libertari, impegnati sul fronte ambientalista, vivono e insegnano a Rio de Janeiro. Abbiamo avuto la fortuna di incontrarli a Bologna dove hanno presentato il loro Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, recentemente tradotto da Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri per i tipi di Nottetempo. Questo libro tanto apprezzato da Bruno Latour è certo uno dei più intelligenti che siano apparsi negli ultimi tempi. Spaziando dalla fantascienza alla mitologia degli amerindi, dalle nostre visioni apocalittiche (i film di Lars von Trier o Béla Tarr e Ágnes Hranitzky, il romanzo La strada di Cormac McCarthy) ai sogni degli sciamani, dispiegando un apparato teorico che va dal «principio disperazione» di Günther Anders al sociomorfismo universale di Gabriel Tarde, Danowski e Viveiros de Castro affrontano il tema più attuale e impegnativo che vi sia, gettando una luce inedita su ciò che Paul Crutzen ha chiamato Antropocene. Certo, riguardo agli spaventosi mutamenti ambientali prodotti dall’uomo e ormai irreversibili non si fanno illusioni: il nostro è il tempo della fine. Ma la fine di un mondo, del mondo occidentale e capitalista, aggiungono, non è la fine di tutto. Lo testimoniano proprio quei popoli amazzonici ai quali tutto è stato sottratto, e che hanno saputo resistere inventando nuovi stili e tecniche raffinate di sopravvivenza. È da un futuro assai prossimo che ci vengono così incontro i «primitivi», mentre il globo reagisce al nostro dominio con la violenza di un gigante impazzito.
Privati del loro mondo e quasi totalmente sterminati dai conquistadores, gli amerindi sono riusciti a sopravvivere e – malgrado le continue persecuzioni – a moltiplicarsi. Maestri di diplomazia, sono stati capaci di resistere in condizioni estreme mettendo in atto continue trattative con gli altri esseri, che per loro non sono mai stati «inferiori». Secondo un singolare superamento per eccesso dell’antropocentrismo, ogni vivente (appaia ai nostri occhi come uomo o come animale) ha infatti, per gli indios, un’anima umana; più precisamente: ogni essere si vede come un uomo e vede come uomo quello della stessa specie (noi stessi potremmo essere quindi degli animali, e animali certo dobbiamo apparire, per esempio, dal punto di vista dei giaguari, che sono invece uomini l’uno per l’altro). Soprattutto, gli amerindi, che non hanno uno stato e non si riconoscono neanche come un popolo, non concepiscono la politica come un’azione sull’ambiente e quest’ultimo come qualcosa con cui la società deve entrare in rapporto in maniera più o meno conflittuale, ma sanno che la vita di ogni singolo è una vera e propria associazione di esseri, e che la politica e la società sono l’ambiente stesso: «pensano che, tra il cielo e la terra, esistano molte più società… di quante ne sognino la nostra antropologia e la nostra filosofia. Ciò che noi chiamiamo ambiente è per loro una società di società, un’arena internazionale, una cosmpoliteia. Non esiste dunque una differenza assoluta di statuto tra società e ambiente, come se la prima fosse il “soggetto” e l’altro l’“oggetto”. Ogni oggetto è sempre un altro soggetto, e sempre più d’uno. L’espressione che si trova comunemente sulla bocca dei giovani militanti di sinistra “tutto è politico” acquista nel caso amerindo una letteralità radicale… che nemmeno il più entusiasta manifestante nelle strade di Copenhagen, Rio o Madrid sarebbe forse preparato ad ammettere».
Così gli indios – suggeriscono Danowki e Viveiros de Castro – possono essere per noi un esempio ispiratore, proprio quando dobbiamo (noi tutti) affrontare una minaccia tanto grave quanto quella della crisi nucleare ma ancora più complessa e difficile da definire. Sopravvivere, in queste condizioni, significa resistere, abbandonare i nostri abiti nocivi, le nostre attitudini suicide a favore di una forma di vita resistente, e innanzitutto attuare una presa di coscienza: conoscere i fenomeni, temerli, anzi imparare ad averne finalmente tutta la paura che bisogna averne per averne davvero coscienza. E significa misurare le forze in campo, considerando anche le narrazioni o le prediche spettacolari, i loro effetti e le loro risonanze; tenendo conto, tra le altre cose, dell’ingresso «impattante del Vaticano all’interno del dibattito» o della contemporanea apparizione del Manifesto ecomodernista, «documento capitanato dal Breakthrough Institute e sottoscritto da diverse celebrità pro-capitaliste» ma in effetti non lontano dalla visione altrettanto apologetica dei leninisti odierni. Oggi alcuni, a sinistra (per es. Nick Srnicek e Alex Williams, autori del Manifesto per una politica accelerazionista, tradotto e diffuso da noi dal sito euronomade), pretendono infatti che per sopravvivere all’Antropocene bisognerebbe «approfittare [sic] di ogni progresso tecnologico e scientifico» del tardo capitalismo, e anzi (anche ricorrendo, contro «l’orizzontalità e l’inclusione di molta sinistra “radicale”», alla «segretezza, alla verticalità e all’esclusione») che si dovrebbe «accelerare il processo dell’evoluzione tecnologica» per «liberare le forze produttive latenti» – come se proprio tali «conquiste» non consistessero nella riduzione della tecnica a puro apparato di sfruttamento (dell’uomo e insieme della natura), come se l’«evoluzione» fosse un valore indiscutibile, come se «produzione» non significasse distruzione del mondo, e, soprattutto, come se simili argomenti non fossero stati persino ridicolizzati, ormai cinquant’anni fa, proprio dai marxisti più avveduti (come Jean Fallot). Esiste un mondo a venire? dischiude invece una prospettiva del tutto nuova e finalmente rischiaratrice, ci viene insomma davvero in aiuto quando non c’è più tempo e dobbiamo agire.
Cranio street art
Gli scienziati ci dicono da tempo che il limite è stato superato. La Terra non si sottomette più, anzi si ribella con tutta la sua forza alla follia del nostro dominio. Che cosa possiamo fare, quali scelte ci impone l’Antropocene?
La Terra ha sempre tenuto conto delle azioni umane, ne ha registrato gli effetti, ma non vi si è mai sottomessa, al contrario di quanto hanno creduto i Moderni con la loro ideologia del progresso. Da qualche secolo noi (o meglio: le civiltà che hanno inventato il capitalismo moderno e ne sono a loro volta il prodotto) viviamo come se il mondo, di cui non siamo che una parte, fosse fatto di materia inerte, cioè di risorse infinite da prelevare “gratis”, e di esseri “inferiori” sui quali avremmo ogni diritto, quasi fossero schiavi ridotti al silenzio per servirci. Ogni azione causa però una reazione (che è poi un’azione, dal punto di vista del soggetto sul quale agiamo). E questa, certo, non è una novità. Del tutto inedita, invece, è la scala delle “reazioni”, la cui somma determina il passaggio dall’Olocene all’Antropocene. Siamo così entrati in un mondo del tutto ignoto, non solo alla nostra civiltà ma per certi aspetti all’intera specie homo sapiens. Si tratta di qualcosa di immane. Si potrebbe anche dire che ci troviamo di fronte a una condizione davvero “sovrannaturale”, ma in un senso nuovo del termine (benché non privo di relazioni con quello antico e religioso).
Dunque, sì, abbiamo superato o stiamo superando quasi tutti i limiti riconosciuti dalle organizzazioni scientifiche internazionali, come quello dell’aumento della temperatura di 1.5°C, a cui richiama l’Accordo di Parigi. Siamo oltre i 350 ppm di CO2 nell’atmosfera, cioè, secondo gli scienziati, in una condizione pericolosissima, del tutto incontrollabile (negli ultimi tempi è stata raggiunto il picco di 410 ppm). I ghiacciai dell’Artico sono condannati, e così, verosimilmente, quelli dell’Antartico e della Groenlandia. E ci troviamo nel bel mezzo della sesta grande estinzione di massa nella storia del pianeta.
Che cosa possiamo fare? Intanto, dobbiamo ammettere che nessuno lo sa veramente. Ma in ogni caso dobbiamo agire, in qualsiasi modo, sempre e ancora agire, per rallentare, per fermare la nostra fuga in avanti. E dobbiamo compiere un esercizio mentale, uno sforzo dell’immaginazione, iniziando a invertire la freccia del tempo cosiddetto “storico”, che d’altronde non è mai stato un tempo unico per tutta l’umanità e non ha mai marciato in modo rettilineo verso il Regno dei Fini dell’Uomo. In effetti, per quanto riguarda il decorso del tempo “fisico”, cioè la legge dell’entropia, sappiamo che il fenomeno della vita è finora riuscito per così dire a ingannarlo, costituendosi come entropia negativa, organizzatrice. Ma pare che “noi”, proprio noi, siamo diventati degli agenti entropici assai efficaci, ossia delle forze dell’anti-vita. E oggi è del tutto chiaro: il nostro “modo di vita” è mortifero.
Malgrado l’evidenza, parliamo però come se tutto fosse a disposizione della nostra volontà sovrana e, paradossalmente, come se non vi fossero altre maniere di vivere, come se un’uscita dal nostro mondo “moderno” ci gettasse nel puro caos. Ora, dobbiamo sapere che entrambi questi presupposti sono falsi. In primo luogo, infatti, non possiamo fare qualsiasi cosa: vi sono limiti di ogni sorta e ovunque; non possiamo scegliere di conservare ciò che più ci piace e abbandonare il resto. In secondo luogo, la presenza di questi limiti non ci impedisce affatto di vivere, e di vivere in molteplici maniere, in comunione con gli altri viventi.
Allora, iniziando a immaginare la vita sulla Terra (la vita umana ma anche quella extraumana) da qui a, diciamo, cinquant’anni, ci renderemo conto che sarà molto diversa da quella che facciamo oggi, e sarà diversa per tutti noi e comunque, poco importa che l’abbiamo scelto o meno. Dobbiamo iniziare a farci delle domande. Potranno ancora esistere – dobbiamo chiederci – delle autovetture individuali e delle strade che coprono una parte enorme della superficie planetaria? E che ne sarà delle stesse grandi imprese che dominano il mercato? La foresta Amazzonica sarà ancora una foresta o una savana semiarida? I ghiacciai ci saranno ancora? E gli inquinanti negli oceani cosa potranno diventare? Quale sarà la nuova geo-politica mondiale quando le zone desertiche si saranno estese brutalmente? Esisteranno ancora gli stati-nazione? Quanti rifugiati politici e climatici conteremo, e dove saranno? Saremo anche noi, tutti, dei rifugiati? E cosa diventeranno gli indios e le altre collettività extra-moderne? Come saranno distribuite le ultime risorse? E che genere di guerre vi saranno? Ma anche: quali nuove comunità, quali nuovi legami “sovrannaturali” si creeranno? Forse soltanto la fantascienza potrebbe aiutarci a immaginare le possibilità di mondi così diversi e ricchi.
Quello che vogliamo dire, in conclusione, è che l’Antropocene ci imporrà di confrontarci con molti limiti, sia antichi che nuovi. Ma vogliamo anche suggerire che quando dei mondi finiscono o si chiudono, altri si aprono: ed è in questi ultimi che dobbiamo imparare a “vivere con” – to stay with the trouble, come ha proposto Donna Haraway.
Cranio street art
Si direbbe che per voi, come per altri studiosi, l’idea di uno “sviluppo sostenibile” o “durevole” esprima soltanto un pio desiderio, o addirittura una contraddizione in termini.
Sì, è proprio così. A meno che non si ridefinisca lo “sviluppo” nel senso di un cambiamento radicale del modo di vita, o ancor meglio, di uno “sviluppo” delle virtualità umane, o come un repliement che conduca a un “vivere bene” per tutti, compresi i non umani. E poi, soprattutto, l’idea di un “capitalismo duraturo” è ben peggio che un pio desiderio, è un’ipocrisia concettuale.
Voi conoscete e studiate gli indios, e ci fate notare che malgrado le persecuzioni, gli attacchi e le continue distruzioni, sono oggi molto più numerosi di quanto non fossero ai tempi del celebre viaggio di Lévi-Strauss. Che cosa possiamo imparare da loro, a sessant’anni da «Tristi tropici»?
Da antropologo, Eduardo ha vissuto diversi anni tra gli indigeni amerindi. Questi uomini ci insegnano almeno due cose: in primo luogo, come sopravvivere in un mondo che è stato devastato da una civiltà nemica, convinta di avere il mondo intero (la Terra) ai propri piedi, e dunque un diritto di sovranità su ogni essere vivente – una civiltà che oggi, per ironia della sorte, sta diventando il nemico di se stessa; in secondo luogo, essi ci fanno comprendere concretamente che la terra (e la Terra) non ci appartiene: siamo piuttosto noi ad appartenerle.
Le civiltà amerinde – e quelle altre che non sono ancora spiritualmente sottomesse al capitalismo (anche se la cosiddetta “sussunzione reale” si rivela un “fatto universale”) – non devono essere considerate in alcun modo un modello. Esse non hanno e non ci offrono delle ricette per il futuro. Costituiscono invece un esempio, che è qualcosa di molto diverso da un modello. Il modello è come l’idea platonica: un ordine normativo che si impone su coloro che non potrebbero che copiarlo, in una maniera comunque imperfetta. Il modello è un affare da FMI o da Banca mondiale per i paesi “in via di sviluppo”. L’esempio, al contrario, è qualcosa che ci ispira a fare in modo “diversamente simile” o “similmente diverso”.
Il modello è normativo e verticale, l’esempio orizzontale e rizomatico. Qual è dunque l’esempio che ci offrono gli indios e gli altri popoli tradizionali? Semplicemente questo: come vivere, come insistere ad esistere (bisognerebbe scrivere: come resistere) in un mondo che è stato rubato, che è svanito, che è stato distrutto da una civiltà estranea e incomprensibile. Il paradosso dell’attuale situazione planetaria sta nel fatto che questa civiltà distruttrice, estranea e incomprensibile è la “nostra” stessa civiltà, la pretesa “civiltà globale” – o per dirla tutta, e nei termini di Félix Guattari, il capitalismo mondiale integrato.
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Vi avranno però obiettato: il problema è appunto che noi non siamo sullo stesso piano degli amerindi. Noi siamo i colpevoli…
Possiamo iniziare coll’interrogare questo “noi”. Gli statunitensi, i brasiliani, i cinesi, sono tutti colpevoli? E anche se lo fossero, avrebbero le stesse colpe degli europei? E che dire delle etnie minoritarie d’Europa? I lapponi sono forse colpevoli come i francesi? E il contadino alverniate è colpevole come l’azionista Total o Syngenta? Il piccolo proprietario obbligato a piantare degli OGM e a usare i pesticidi tossici ha lo stesso genere di colpa della Monsanto o della Bayer, o dei governi piegati ai diktat di queste corporations sinistre? Gli operai-schiavi che si uccidono nelle fabbriche cinesi di iPhones sono colpevoli come i loro padroni, o come Apple? In ogni caso, se ogni classe, come diceva Hegel, ha i propri traditori, si può anche dire che ogni civiltà ha – deve avere – i suoi. Così gli indios e altri popoli extra-moderni iniziano a trovare alleati anche nei paesi cosiddetti “centrali”. Basti pensare all’estensione e alla potenza del sostegno di cui hanno goduto il movimento zapatista e i curdi, per rendersi conto che le cose stanno cambiando. Non pochi “colpevoli” sono ormai pronti ad allearsi con gli indios e i loro simili.
I popoli che non hanno una climatologia e una geofisica sono coscienti dei grandi mutamenti? Li temono? E reagiscono alla paura?
Gli indios, come d’altro canto gli inuit, i piccoli agricoltori del nordest del Brasile, o i popoli delle isole dell’Oceania che stanno per essere sommerse, sanno bene che cosa sta accadendo, benché non usino espressioni come “cambiamento climatico”, “riscaldamento globale” ecc. D’altronde citiamo nel nostro capitolo La fine del mondo degli indios questa frase dello sciamano Yanomami Davi Kopenawa: «I Bianchi non temono, come noi, di essere schiacciati dalla caduta del cielo, ma un giorno avranno paura, forse, quanto noi!». I popoli tradizionali sono insomma molto consapevoli, e hanno molta paura. Il disfacimento o la de-sincronizzazione dei ritmi e dei cicli ecologici è ormai la “regola” che mina e sconvolge seriamente le loro pratiche di sussistenza: ad esempio, essi non sanno più quale sia il momento giusto per seminare una certa coltura perché il regime biosemiotico dell’ambiente è diventato imprevedibile. Quanto al modo in cui reagiscono alla paura, possiamo citare Russell Means, il protagonista della rivolta Sioux di Woundend Knee del 1973: «Gli indiani americani hanno provato a spiegarlo agli europei per secoli. Ma questi sono stati incapaci di ascoltare. L’ordine naturale vincerà, e il suo nemico perirà, come muore il cervo quando offende l’armonia sovrappopolando una regione. Perché accada quel che i bianchi chiamano “una grave catastrofe di proporzioni globali”, è solo questione di tempo. Ma il ruolo dei popoli Indiani, e di tutti gli esseri naturali, è di sopravvivere. La resistenza fa parte della nostra sopravvivenza. Noi non resistiamo per rovesciare un governo o per assumere il potere politico, ma perché resistere allo sterminio, sopravvivere, è naturale. Non vogliamo perciò del potere nelle istituzioni dei bianchi: vogliamo che esse scompaiano».
Negli ultimi tempi si parla molto della paura e dei sentimenti legati al cambiamento climatico. Alcuni chiamano coloro che sono coscienti della crisi ecologica pessimisti o “catastrofisti”. Altri, e innanzitutto Naomi Klein, spiegano in maniera interessante come la paura sia stata trasformata in dottrina di stato, come la Shock and Awe Doctrine paralizzi le popolazioni permettendo ai governi neoliberali di infierire sui più poveri e le classi medie. La nostra posizione è più vicina a quella di filosofi come Günther Anders o Hans Jonas, che credevano nella virtù preventiva della paura. Dobbiamo evitare che la paura (come la morte, del resto) venga catturata dalla destra e dalle sue politiche fasciste. Dobbiamo riappropriarci dei sentimenti, per non lasciarli nelle mani di chi sta distruggendo la foresta e gli ecosistemi.
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Due anni fa il Papa è intervenuto con l’enciclica «Laudato si’»; poco prima era apparso «An Ecomodernist Manifesto». Si tratta di due documenti piuttosto diversi…
Del tutto opposti! Il Manifesto ecomodernista predica “l’avvento di un Antropocene positivo, persino superlativo” per mezzo di soluzioni tecnologiche centralizzate e pesanti investimenti energetici (fracking idraulico, fissione nucleare, grandi progetti idroelettrici, monoculture transgeniche, geo-ingegneria ambientale ecc.) Afferma che big is beautiful, e che dovremmo produrre ancora di più, innovare, accelerare, e sempre prosperare. Lo dice apertamente, senza dubbi o esitazioni, senza vergogna.
Da un lato, dunque, l’Enciclica propone un “ritorno alla semplicità” contro il consumismo e l’allucinazione della “crescita infinita o illimitata”, fa eco all’allarme degli scienziati e li prende sul serio ripetendo che in natura tutto ha un valore intrinseco e tutto è collegato; e ci ricorda che dobbiamo porre un freno radicale a quelle pratiche ecologicamente irresponsabili, che garantiscono dei profitti enormi distruggendo ovunque culture e modi di vita, devastando gli ecosistemi e riempiendo di veleni la “nostra casa comune”. Dall’altro, gli autori del Manifesto se ne escono col curioso concetto di decoupling (il disaccoppianento della crescita dall’impatto ambientale) per cui a un certo punto, a forza di “modernizzare la modernizzazione” (come dice Ulrich Beck) la stessa tecnologia che ci avvelena (l’unica, d’altronde, che riconoscono, cioè quella “di punta”, della Big Science e dei grandi capitali) finirà – non si sa come – per annullare i suoi “effetti collaterali” e i suoi costi materiali. Sembra così che siano proprio costoro a credere, da buoni cristiani, che dopo l’Apocalisse verrà il Regno.
Post-terremoto: percorsi di autocostruzione con le balle di paglia
Di Luigi
La ricostruzione delle zone terremotate, a distanza di un anno dal sisma e nonostante le molte e ripetute promesse delle istituzioni, appare ancora un lontano miraggio. Almeno fino a novembre nelle zone rosse, ovvero i centri storici e gli agglomerati rurali più danneggiati, non si potrà spostare nemmeno una pietra (ordinanza del Commissario straordinario alla ricostruzione, n. 25 del 23 maggio). Le SAE (soluzioni abitative di emergenza), cioè le tanto attese “casette”, arrivano con il contagocce, gli sfollati hanno fatto posto ai turisti estivi negli alberghi della costa e ognuno continua ad arrangiarsi come può per mantenere dignità e vivere sociale. C’è chi parla, a ragione, di “strategia dell’abbandono” per questo tratto di montagna appenninica. Noi abbiamo provato a esplorare l’intrigante anche se non facile strada dell’autocostruzione con balle di paglia, in compagnia dell’architetta ascolana Sara Campanelli la cui intervista trovate nella seconda parte dell’articolo.
Per un abitare non convenzionale
Le sequenze sismiche che nella seconda parte del 2016 hanno colpito le zone appenniniche del centro Italia, oltre alla tragedia dei morti e feriti, hanno distrutto o seriamente lesionato moltissime abitazioni, ponendo i residenti di fronte all’urgenza di trovare un nuovo tetto. Nell’immediato dell’emergenza si dorme in tenda, in roulotte, da amici e parenti lontani, poi si contano i giorni, le settimane e i mesi parcheggiati in qualche alberghetto sulla costa, con la lontana speranza che prima o poi si aprano i cantieri per la ricostruzione. Intanto i più fortunati ricevono un container di latta, torrido in estate e gelido in inverno, che trasforma ogni goccia di pioggia in martellate assordanti, oppure casette temporanee prodotte da qualche ditta aggiudicatrice di qualche appalto al ribasso, che arrivano, come abbiamo visto ad Amatrice, già gonfie di umidità e di mille altri difetti. Oltre a essere impersonali e tristi come la burocrazia che le ha prodotte. Per non parlare del famigerato “modello” dell’Aquila con le sue costosissime C.A.S.E. piazzate nel mezzo del nulla, prive di qualunque identità e i cui abitanti sono e rimangono, per sempre, ospiti.
Anche se ad ogni disastro tutti si affrettano a dire il contrario, sappiamo per esperienza che la ricostruzione calata dall’alto affoga nella lentezza esasperante della burocrazia ed è terreno fertile per speculatori senza scrupoli. Ci chiediamo allora se siano pensabili percorsi immediati di autocostruzione dopo l’emergenza terremoto, nell’attesa che sia possibile ristrutturare le precedenti case o in alternativa ad esse. Senza, con questo, volerla fare troppo semplice: l’autocostruzione di un edificio presuppone, al di là dei vari permessi per poterlo fare in maniera legale, una discreta capacità e tanta buona volontà, disponibilità di un terreno e di sufficiente denaro, l’esistenza di un tessuto sociale di aiuto e supporto nell’impresa. Tanto fattori che rendono quest’ipotesi non facilmente percorribile e nemmeno si può pretendere che in determinate situazioni sia la più adatta.
Ai profani può sembrare un azzardo, ma in realtà perfino chi non ha mai giocato con i Lego potrebbe diventare costruttore della propria casa, avviando un percorso che coinvolge e mette in relazione un gruppo di persone, dalla progettazione alla realizzazione. L’autocostruzione non è infatti un atto solitario. Così come non dovrebbe esserlo il successivo abitare. Non si tratta, quindi, solo di mettere in piedi un luogo abitabile ma anche di cominciare a ritessere quei legami sociali che il sisma, e ancor prima lo spopolamento delle zone rurali e montane, hanno messo a dura prova. Come scrive Andrea Staid nel suo ultimo libro Abitare illegale, “costruire recuperando le architetture vernacolari, la memoria popolare e la saggezza di costruire creando ambienti di vita sani e confortevoli, risparmiando energia, producendo un’impronta ecologica minima, crea occasioni di nuova coesione sociale, proprio per questo è ostacolata dai poteri forti che, lasciando fare, perderebbero il grande business che arriva dopo ogni emergenza”[1].
Il percorso di autocostruzione delle abitazioni può diventare un buon viatico per mettere in piedi un tessuto sociale il cui obiettivo a lungo termine non sia solo la trasformazione della vita quotidiana in piccole comunità marginali, ma l’apertura di percorsi alternativi e conflittuali all’organizzazione sociale determinata dall’industria e dalle metropoli. D’altra parte, mantenendo i piedi per terra, le relazioni sociali sono processi che si costruiscono sul lungo periodo e non è ragionevole pianificare artificialmente relazioni di comunità che possano durare nel tempo. Né si può confidare sul fatto che l’unione delle forze per risolvere l’urgenza della questione abitativa determini di per sé la condivisione di valori di autogestione e solidarietà.
In ogni caso, il problema principale è che la maggior parte di noi non detiene più quel saper fare necessario che si tramandava di generazione in generazione, prima che la mercificazione di ogni dettaglio della vita lo facesse cadere nell’oblio. Non siamo più capaci di realizzare un tavolo o un cesto di vimini, figuriamoci di costruire una casa! Scrive, ancora, Staid: “gli esseri umani hanno quasi sempre costruito la propria abitazione con l’aiuto di qualche familiare o amico e questa pratica funzionava. Sono state le società industriali a cambiare questa dinamica, a togliere con leggi e cavilli burocratici la possibilità di costruirsi la propria casa: stiamo parlando di una storia recente, degli ultimi due secoli, fino ad allora durante quasi tutta la storia dell’umanità la costruzione delle abitazioni è stata un’attività informale e su piccola scala”[2].
La sfida è allora quella di cercare di riprendere in mano, individualmente e collettivamente, uno dei tanti saperi che la società industriale ha fatto dimenticare. Anche se, finché le tecniche di costruzione non torneranno a essere un patrimonio collettivo comune, è necessario che il gruppo di autocostruttori sia coordinato da esperti, cioè da coloro che hanno esperienza, che hanno già provato e sperimentato, che siano professionisti del settore o semplicemente persone capaci. Per mantenersi all’interno di quanto prescritto dalla legge è inoltre indispensabile la presentazione di un progetto firmato da un professionista abilitato e l’espletamento delle pratiche burocratiche al fine di ottenere il “permesso di costruire”. Come base di questo percorso, se si vuole costruire “in regola”, mantenere rapporti pacifici con l’ufficio tecnico comunale è senza dubbio consigliabile.
Sappiamo che qualche resistente dell’entroterra, con l’aiuto di solidali e al di fuori della burocrazia dei regolamenti edilizi, si è già costruito case più o meno provvisorie in legno, a fianco dell’abitazione lesionata. Quello su cui vorremmo porre l’attenzione in questa sede è però un materiale da costruzione antico e allo stesso tempo innovativo: le balle di paglia. La casa in paglia non è la casa del porcellino sfigato ma un edificio solido e durevole, oltre che economico, ecologico, confortevole e antisismico.
L’edilizia in terra cruda impastata con un trito di paglia ha radici antiche, anche nei nostri territori, benché si trattasse di un’architettura povera, spesso strutturalmente precaria, che ha lasciato traccia in molti toponimi come Pagliare, Casette, Cascine, Casalina, Casine, o con radice Capann-. Ancora nel 1934, l’Indagine sulle case rurali in Italia segnalava nelle Marche, in particolare nel maceratese e nell’ascolano, 1.401 abitazioni costruite in terra e paglia con la tecnica detta a maltone[3]. Un contadino di Sant’Elpidio a Mare ricorda così la costruzione collettiva delle abitazioni che coinvolgeva famiglia e vicinato: “quando si costruiva una casa di terra era una festa per noi bambini, perché si riuniva tutto il vicinato e le donne si tiravano su le sottane per pistare la terra che doveva diventare morbida come la massa del pane”[4]. Sono le case dei braccianti giornalieri, dei poveri, di chi si arrangia a sopravvivere nell’economia contadina, che nel dopoguerra, con l’esodo dalle campagne, vengono abbandonate alla rovina. In quelle superstiti l’anima in terra viene il più possibile occultata, quasi si trattasse di un marchio di misera e infamia, e chi continuava ad abitarle nei decenni successivi svelava con un misto di reticenza e pudore cosa si nascondeva sotto l’intonaco[5]. Oggi la paglia è un materiale edile di tutta dignità, con cui si realizzano case perfino più belle e accoglienti di quelle convenzionali.
Dopo i terremoti dell’Aquila nel 2009 e dell’Emilia nel 2012 ci sono stati diversi esempi di ricostruzione autogestita, anche in paglia, talvolta osteggiati dalle autorità locali e nazionali. Un caso abbastanza noto è quello del villaggio di Pescomaggiore, un piccolo borgo di origini altomedioevali alle porte del Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, a una decina di chilometri dall’Aquila, dove il sisma ha danneggiato o distrutto buona parte delle abitazioni. Qui il Comitato per la rinascita di Pescomaggiore, in realtà nato già due anni prima del terremoto per contrastare il progressivo abbandono del paese, ha deciso di realizzare un villaggio autocostruito e autofinanziato su terreni concessi in comodato da alcuni compaesani a poche centinaia di metri dal paese. Con le balle di paglia e l’aiuto di centinaia di volontari, tra 2009 e 2013 sono state realizzate alcune unità abitative a minimo impatto ambientale, che hanno rimesso in moto un tessuto solidale oltre a essere costate al metro quadro circa un quinto rispetto agli alienanti appartamenti del progetto C.A.S.E. Una volta superata l’emergenza abitativa il nucleo di nuove case potrebbe conoscere una nuova destinazione sociale e turistica[6]. Un altro esempio finito all’attenzione delle cronache, questa volta nel modenese, è la casa in canapa, legno e calce di Mina Bardiani, costruita nel terreno antistante la vecchia abitazione inagibile[7].
Vecchia casa in terra e paglia a Ponte Torale (Corridonia)
Costruire edifici con balle di paglia
Le case di paglia nascono in Nebraska nella seconda metà dell’Ottocento, con l’arrivo dei pionieri in zone povere di pietre e legname da costruzione e la contestuale nascita delle macchine imballatrici. La tecnica cade successivamente in disuso, a vantaggio del cemento e dei materiali prodotti industrialmente, fino alla sua riscoperta a partire dagli anni Settanta del secolo scorso e al nuovo impulso datole negli anni Novanta da Barbara Jones, che ha saputo adattarla alle esigenze climatiche britanniche. La prima costruzione documentata, in Nebraska, risale al 1886, seguita in rapida successione da altre ancora oggi in buono stato di conservazione; in Gran Bretagna la prima casa è del 1994, in Italia del 2004, a Pramaggiore in provincia di Venezia.
La paglia è un sottoprodotto della coltivazione dei cereali, si tratta in sostanza dello stelo della pianta morta, da non confondere con il fieno che è invece erba verde essiccata. È un materiale flessibile che va trattato con tecniche proprie per sfruttarne al meglio le caratteristiche naturali e originali, piuttosto che sforzarsi di impiegare le balle semplicemente come fossero mattoni extra-large. Le modalità di realizzazione di una casa in paglia sono due (ma vi possono essere anche approcci ibridi): la tecnica detta “Nebraska” o autoportante, in cui le balle sorreggono il peso del tetto, oppure l’utilizzo del legno per la struttura portante e delle balle per il riempimento delle pareti.
Al momento, in Italia non è possibile costruire edifici con muri in paglia autoportanti, ma la normativa tecnica è in fase di aggiornamento e le NTC 2017 (Norme tecniche per le costruzioni), in uscita entro fine anno, potrebbero intervenire e modificare questo aspetto. Resta fondamentale, in ogni caso, progettare un buon tetto e delle buone fondamenta, ossia un buon cappello e buoni stivali per la casa. Le fondamenta non devono necessariamente prevedere una gettata di calcestruzzo, anzi, ci sono diversi metodi che presentano vantaggi in termini di resistenza all’umidità, economicità, facilità di costruzione, bellezza e impatto ambientale, perfino copertoni d’automobile riempiti di ghiaia – tecnicamente potremmo chiamarli “giunti elastomerici” – possono essere una valida soluzione. Per quanto riguarda l’intonaco è importante l’utilizzo di un materiale traspirante, come la calce o la terra cruda.
Nonostante la paglia sia un materiale facilmente infiammabile, le case in paglia sono perfettamente resistenti al fuoco. Questo perché le balle, oltre a essere racchiuse all’interno dell’intonaco, essendo molto compresse non consentono l’alimentarsi di eventuali fiamme. È lo stesso discorso che si può fare per la carta: se è facile bruciare un foglio è invece molto difficile dar fuoco a un elenco telefonico. In ogni caso, bisogna prestare attenzione in cantiere alla paglia sciolta che inevitabilmente si deposita durante la costruzione. Maggior pericolo proviene invece da acqua e umidità, causa di muffe e funghi: inutile dire che le balle vanno mantenute asciutte prima, durante e dopo la costruzione, in particolare sui lati superiore e inferiore. Anche la resistenza ai terremoti è un punto a vantaggio delle case in legno e paglia, che si comportano molto meglio di altri edifici in mattoni e cemento. Sono infatti più leggere e flessibili, per questo sviluppano minore accelerazione durante una scossa e assorbono le ondulazioni senza produrre rotture strutturali. La paglia è inoltre un ottimo isolante sia acustico che termico, mantiene cioè il calore in inverno e il fresco in estate permettendo di conseguenza un notevole risparmio sui costi di riscaldamento e climatizzazione, risparmio che arriva anche all’ordine del 75% all’anno rispetto alle comuni abitazioni moderne[8].
Il risparmio energetico è sul lungo termine una delle principali voci di economia, mentre per i costi di realizzazione si ha ovviamente una grande differenza tra l’autocostruzione e la costruzione affidata a un’impresa specializzata del settore. La paglia è infatti un materiale di per sé molto economico, una balla costa intorno agli 1-2 euro e per una casa di 150 mq ne occorrono circa 400, ma la manodopera incide molto. Tutto dipende dalle proprie capacità, da quanto tempo e determinazione si hanno e dalle braccia di parenti e amici che arrivano in aiuto. Aiuto che può essere ricambiato, andando così a costruire un circuito solidale. Un’altra valida via per il risparmio è l’organizzazione di corsi di formazione in cantiere, non mancheranno i volontari che arrivano per imparare la tecnica e, intanto, danno una mano alla costruzione. Ci sono poi i costi legati agli altri materiali e all’attrezzatura e, infine, va tenuto presente il coinvolgimento, di solito ben remunerato, di una serie di progettisti, certificatori, collaudatori e anche professionisti vari per tutto quanto non si è grado di gestire in autonomia (impianti elettrici e idraulici, infissi etc.). Ipotizzando una stima realistica dei costi, con l’autocostruzione e il contenimento al massimo delle spese si può arrivare a dover sborsare sugli 800 euro al mq.
Pilgrim Holiness Church, Nebraska 1928
Intervista a Sara Campanelli di Ascoli Piceno, socia di ARIA Familiare (Associazione rete italiana autocostruzione), architetta specializzata in architettura naturale dello studio arch.Officina e dello spin-off dell’Università di Camerino EcCo Italy.
Cos’è e di cosa si occupa l’associazione ARIA Familiare?
ARIA è un’associazione nazionale che promuove l’autocostruzione e l’autorecupero abitativi, prediligendo l’uso di materiali naturali, locali e sostenibili. In particolare, l’intento di ARIA è di trovare una via legale e percorribile da tutti per l’autocostruzione ed è quanto è riuscita a fare finora in Toscana, con una delibera inserita nel regolamento edilizio regionale. L’autocostruzione implica infatti una relazione collaborativa tra un insieme di persone che aiutano gli autocostruttori proprietari, siano familiari, amici, volontari o corsisti che vengono a imparare la tecnica. Ma la presenza di questi soggetti è un grosso problema dal punto di vista del rispetto di quell’infinità di regole che riguardano la sicurezza nel cantiere.
Anche se a livello burocratico ci sono ancora cose da affinare, nel 2015 la Regione Toscana ha emanato le “Linee di indirizzo per la sicurezza nei cantieri di autocostruzione e di autorecupero” che sono un buon traguardo raggiunto da ARIA e, soprattutto, un ottimo punto di partenza perché ora chiunque voglia intraprendere questa strada verso l’autocostruzione può farlo in maniera tutto sommato tranquilla. Grazie a quella determina (la 251 del 2015), le aziende sanitarie di riferimento della regione hanno ora idea di che cosa significhi lavorare in autocostruzione e quindi è tutto più semplice. Nelle altre regioni invece l’autocostruzione non è contemplata, a meno che non ci sia un progettista particolarmente convinto e preparato che riesca a trovare dall’altra parte un ufficio tecnico comunale in grado di capire queste cose e, appunto, un’Asur che non vada a bloccare il cantiere.
Qui in provincia di Ascoli Piceno, a Grottammare, ad aprile dell’anno scorso abbiamo realizzato in legno e balle di paglia un ampliamento di 40 mq di una casa. Abbiamo organizzato un corso e la gran parte della struttura è stata tirata su in cinque giorni con il lavoro di dieci corsisti. Per prima cosa ho però dovuto spiegare all’ingegnere quello che avevamo in mente, anche perché è difficile trovare tecnici che siano già preparati su questo tipo di architettura autocostruita. Noi siamo stati fortunati perché l’ingegnere, oltre a fare il calcolo della struttura portante, è andato all’Asur riuscendo a far loro capire come, con un piano di sicurezza adeguato, il lavoro sarebbe stato fattibile. Alla fine ce l’abbiamo fatta a fare tutto in regola, ma non è stato semplice, tanto che a un certo punto sul cantiere è arrivata la macchina dell’Asur e… panico: sono scappati tutti! [ride]
In realtà, la Regione Marche indice ormai da diversi anni un bando di concorso che destina dei fondi all’autocostruzione. Ma si tratta di un approccio molto limitato perché passa attraverso la cooperative, quindi più soggetti, più famiglie che volessero partecipare al bando e autocostruire una o più abitazioni devono riunirsi in cooperativa, con tutte le complicazioni che questo comporta. ARIA Familiare vuole invece che sia data la possibilità anche al singolo individuo di autocostruire, o autorecuperare, in maniera più snella.
Il progetto di Grottammare non era però affiliato ad ARIA, anche perché è nato in poche settimane, i proprietari volevano andare molto spediti e quindi non c’è stato il tempo per aprire l’associazione di riferimento sul cantiere. ARIA è infatti un’associazione nazionale che sta iniziando a configurarsi a livello locale tramite associazioni federate che gestiscono i cantieri in autocostruzione. Così è ad esempio per ARIA Familiare Rimini che ha seguito i lavori, grandi e importanti, di due abitazioni.
Cingoli (MC), casa di paglia 45K
ARIA può essere un riferimento per il mutuo appoggio tra chi ha intenzione di autocostruire la propria casa? Penso a un circuito di solidarietà in cui si va come volontari ad aiutare nella costruzione di case di altri e poi, a loro volta, altri volontari daranno una mano nell’autocostruzione della propria casa.
ARIA dovrebbe fare proprio questo, sia a livello nazionale che a livello locale. Creare dei circuiti di muto appoggio e solidarietà è quello che tutti noi auspichiamo. Nel riminese questo meccanismo si è innescato: i cantieri di Susanna e Giampietro a San Lorenzo in Correggiano e di Alice e Sauro a Viserba sono partiti quasi contestualmente e c’è stato uno scambio attivo tra i due. Noi che eravamo volontari abbiamo dato una mano da uno, poi fatto il corso dall’altro e magari la sera ci si incontrava e si cercava di cenare e stare insieme. Si è creato a livello umano un bel circuito.
Inoltre c’è da dire che questi cantieri possono offrire delle buone opportunità. A Grottammare hanno partecipato ai lavori persone che non conoscevo, tra cui due giovani architetti, un ingegnere, studenti, due disoccupati. Uno di questi disoccupati è stato poi qualche mese anche nel cantiere di Rimini e ora sta portando avanti una sua attività. Più in generale, si stimola il recupero di tutta quella fascia di artigiani, di persone che sanno lavorare il legno o altri materiali, che il mercato dell’edilizia convenzionale mette spesso da parte, ma le cui abilità sono invece di fondamentale importanza.
Rimini, cantiere di Alice e Sauro.
Dopo l’esperienza di Grottammare com’è continuato nelle Marche il percorso di ARIA, anche in relazione al terremoto e alle possibilità, se ce ne sono, di una ricostruzione autogestita?
Dopo il cantiere di Grottammare, sulla scia di quanto fatto in Toscana da ARIA Familiare, noi progettisti marchigiani abbiamo cercato di spingere in quella stessa direzione, coinvolgendo il presidente dell’ordine degli architetti di Ascoli, Valeriano Vallesi, che è sensibile a queste tematiche, e trovando una sponda istituzionale in Anna Casini, che è un’architetta ascolana ed è anche vicepresidente della Regione Marche. Da parte della Regione c’era un certo interesse, anche perché loro avevano già quel bando per l’autocostruzione in cooperativa, di cui ti ho detto, che però andava sempre deserto. Abbiamo organizzato una bella conferenza ad Ancona, dove abbiamo affrontato tutte le tematiche connesse all’autocostruzione, alla fine io ero molto fiduciosa e speravamo davvero di riuscire a far inserire anche da noi una delibera sul modello di quella toscana. Era il 16 giugno 2016, il 24 agosto c’è stata la prima forte scossa di terremoto, che ha interrotto tutto.
Io sento di avere in mano un minimo sapere sui materiali naturali in edilizia, una prospettiva di costruzione e ricostruzione diversa da quella tradizionale, diversa dalle solite casette appaltate che arrivano e non arrivano, con i loro giri di soldi, e allora mi sono chiesta che cosa potessi fare io, da ascolana e soprattutto da tecnico progettista, per questa situazione. Come posso mettere a servizio quelle quattro competenze che ho? Il giorno dopo il terremoto, il 25 agosto, ero per qualche motivo nella zona di Amatrice, in quei posti inavvicinabili, dove ho conosciuto una ragazza che ha un fratello che fa l’allevatore lì. Ho pensato che avrei potuto fare il progetto di una stalla, i fondi non erano un problema perché tantissime persone erano pronte a fare una donazione. Avrei potuto trovare dei volontari per realizzarla, cioè i giocatori di rugby della squadra ascolana che già avevano scavato giorno e notte ad Arquata del Tronto, e avrei coinvolto anche degli artigiani, tra i tanti che conosciamo con lo spin-off universitario (di cui poi ti parlerò), che si occupano di materiali per edilizia non convenzionale. Avevo parlato con Laura Comella, presidente di ARIA Familiare, e avevamo il loro appoggio; c’era già anche un nome per il progetto, un gioco di parole simpatico sui verbi allevare e alleviare: “Noi alleviamo pecore e paure”. Insomma potevo fare tanto, ma poi nella realtà non si riesce a fare niente perché a livello burocratico, di leggi, di permessi, abbiamo le mani legate.
Qualche settimana dopo mi ha contattato una famiglia di Amatrice che aveva perso la casa, aveva perso tutto, ma si era già autorganizzata per costruire una piccola casetta sul terreno di una vicina che glielo avrebbe dato gratuitamente. Il terreno non era edificabile, ma pensavano che in quel particolare contesto di emergenza se uno si poteva autofinanziare una piccola struttura anziché stare nelle tende o nelle roulotte non avrebbe incontrato troppi ostacoli. Da noi volevano capire la differenza tra le casette in legno tradizionali e quelle in paglia, per poter decidere cosa costruire. Sono quindi andata ad Amatrice, insieme alla mia collega Isabella Cocci e al presidente dell’ordine Valeriano Vallesi e abbiamo spiegato i vantaggi di queste tipologie abitative. Siamo anche rimasti a pranzo, accampati nella cucina: la cosa che mi ha fatto più riflettere sono stati i loro sguardi persi. Purtroppo anche quel progetto non è andato avanti perché il Comune non ha rilasciato i permessi.
Rimini, cantiere di Alice e Sauro.
Va detto che questi ostacoli posti da parte delle amministrazioni sono, almeno in parte comprensibili, perché si tratta di zone di Appennino spesso protette e sottoposte a vincoli e anche, soprattutto, perché c’è il timore di una ricostruzione affrettata, come già successo in passato, con strutture fatte senza criterio che magari alla prossima scossa vanno giù. Parlare di “autocostruzione” nel post-sisma, qui da noi, è veramente difficile, perché per autocostruzione la mentalità comune si immagina quelle superfetazioni fatte nel dopoguerra, ampliamenti vari, ammassi di metri cubi che hanno poi subito vari condoni e sono diventati volumetrie che purtroppo vediamo oggi in giro. Posso anche capire questa diffidenza, ma comunque rimane per me molto doloroso dal punto di vista umano. Gli sguardi di quelle persone di Amatrice mi hanno fatto capire che l’autocostruzione, per l’esperienza che ho io dei cantieri vissuti, sarebbe un buon metodo per ridare loro la speranza di una comunità che si è persa con il terremoto. Perché il vicino di casa è morto, l’altro è andato a finire nell’albergo a San Benedetto e tu stai in questa situazione di vuoto: l’autocostruzione è perfetta a livello umano, perché non basta dare una casetta o un container a queste persone, ma ci si deve preoccupare dal punto di vista psicologico, di sensazioni, di comunità da ritessere.
In seguito è nato un coordinamento costituito da otto ordini degli architetti, paesaggisti, pianificatori e conservatori delle province di Ascoli e limitrofe, che coprono tutto il territorio del cratere, chiamato “Fermi restando in epicentro”. In quei giorni ci siamo molto confrontati, c’erano sempre mille telefonate. Una delle proposte venne da Valeriano, che propose di farci assegnare dei container dalla Protezione civile per utilizzarli come presidio sul territorio, in modo che le persone sarebbero potute venire da noi a chiedere qualunque informazione per capire come muoversi nella burocrazia, come ripartire, come cominciare a ricostruire. Ma allora, ho pensato, invece di farci dare un container perché non realizziamo noi stessi un piccolo modulo in paglia insieme ai residenti del posto? Bastava trovare un comune che ci offriva uno spazio. Passata l’emergenza la casetta sarebbe rimasta all’amministrazione, che ne avrebbe potuto fare una sede per le associazioni, un presidio turistico o quello che volevano. L’idea è stata accolta con favore dal coordinamento. Ma anche su questo ci hanno tagliato le gambe. Anche perché, c’è da dire, le scosse ci sono state per molti mesi a seguire e ogni nuova scossa rimetteva tutto da capo. E poi noi non siamo lo studio Boeri che può contare su sponsor importanti, viene qui, costruisce il Polo Food e trova la strada spianata per fare tutto. Certo, noi non ci siamo scordati la proposta fatta, ma a parte che ogni tanto si ripete una scossa, l’ultima l’abbiamo sentita pochi giorni fa, dobbiamo trovare un’amministrazione comunale consapevole e studiare proprio a livello di piani regolatori in che punto sia possibile posizionare la struttura.
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Al momento, che tu sappia, ci sono cantieri per case in balle di paglia, in autocostruzione o meno, aperti nella zona del sisma?
Dopo il terremoto sono venuti fuori diversi contatti, abbiamo tenuto anche varie conferenze in cui ci invitavano a parlare di questa tipologia costruttiva. Una signora di Roccafluvione, con casa inagibile, diceva che avendone la possibilità avrebbe voluto ricostruire con questa tecnologia, poi ha però avuto altre problematiche. Lo stesso una famiglia tra Camerino e San Severino ci ha contattato e vorrebbe iniziare i lavori, vedremo nei prossimi mesi quello che riusciremo a fare, cercando anche di ammortizzare le spese con l’autocostruzione. Il problema è che di solito l’autocostruzione funziona in questo modo: il padrone di casa ospita a dormire i volontari, si preoccupa dei pasti ecc., ma come puoi capire in una condizione post-sisma, dove gli stessi residenti hanno perso tutto, ospitare altre persone è complicato. Come si fa, banalmente, a preparare da mangiare se non c’è una cucina agibile…?
Rimini, cantiere di Alice e Sauro.
Chi ha una casa da ricostruire, penso più che altro a case singole fuori dai centri storici, perché immagino che nei centri storici ci siano tutti altri vincoli e problemi, è consigliabile che pensi a paglia e legno, piuttosto che a mattoni e cemento?
“Noi non vogliamo più vedere pietre”: questo ho sentito dire da loro. Una casa come quella crollata non la vogliono più. Spesso si tratta di case in pietra, magari già carenti nelle fondazioni, sulle quali sono stati fatti successivamente lavori che ne hanno appesantito la struttura. Oggi penso sia auspicabile avere una casa fatta con struttura portante in legno, quindi con una risposta alle scosse molto migliore della pietra o del cemento armato, coibentata con un materiale come la paglia dalle ottime capacità di isolamento. Così si ha una casa molto più leggera ed elastica che anche se torna chissà quale terremoto rimane in piedi, oltre ad avere vantaggi in termini economici, soprattutto per la grande efficienza termica che presentano queste costruzioni.
Per i centri storici effettivamente la situazione è diversa. Non so come si metteranno le cose, se si vorrà ricostruire tutto “com’era e dov’era”, ma c’è tanta gente che si oppone a questa idea. Quello che noi proporremo saranno comunque le metodologie di autocostruzione e l’utilizzo di materiali naturali, non penso solo alla paglia ma anche, ad esempio, a mattoni fatti in calce e canapa o in argilla cruda, che però vanno intonacati e si perde la pietra faccia a vista com’era prima. Al momento, comunque, cosa si andrà a fare ancora non è chiaro a nessuno.
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Prima hai accennato allo spin-off dell’Università di Camerino (cioè, in poche parole, una società che si appoggia a un’università e ne utilizza economicamente i risultati della ricerca), puoi raccontare come nasce e cosa si prefigge di fare?
Devo partire da una decina di anni fa, quando sui banchi dell’università io e Isabella abbiamo incominciato a studiare queste tecniche di costruzione e allora non c’erano così tante persone interessate a questo mondo. Ricordo quando andammo dalla professoressa e dal fisico tecnico, con i quali adesso condividiamo lo spin-off, e proponemmo di studiare la paglia come materiale da costruzione: “e che famo la capanna dello zio Tom?” fu la prima risposta! Da lì però è nato tutto il discorso, fino ad oggi. Nel frattempo, per la tesi di laurea sono stata in Sud America a studiare le case fatte in terra cruda con la tecnica del pisé, poi, uscita dall’Università, ho avuto la fortuna di vincere una borsa di studio che mi ha portato a Vienna per un po’ di tempo. Lì ho lavorato in uno studio con alcuni dei pionieri della passive house del Nord Europa. Ho imparato tante cose dal punto di vista dell’efficientamento energetico, ma il punto debole è che per quelle soluzioni ci vogliono un sacco di soldi e grazie… se ho tutti quei soldi è facile fare la casa passiva, più interessante è invece riuscire a mantenere quei livelli ma con attenzione ai costi, alla portata di budget limitati.
Nel 2013 sono rientrata in Italia e da allora lavoriamo allo spin-off, anche se si è ufficialmente costituito quest’anno con il nome EcCOItaly. Quello che vogliamo generare è una rete di piccole imprese che lavorano nel campo dei materiali edili naturali (paglia, legno, canapa, sughero, calce ecc.), anche per riattivare il concetto dell’artigianato, creare quindi una sorta di database di aziende selezionate con l’obiettivo di superare quell’edilizia convenzionale che ha devastato le nostre coste e le nostre colline. Dentro lo spin-off faremo anche formazione, faremo ricerca sui materiali, abbiamo un fisico tecnico che studia il mondo dell’edilizia visto dall’estrazione dei materiali fino al loro smaltimento ultimo, stiamo anche cercando di capire come collaborare con l’associazione ARIA Familiare. Insomma, ci sono tante cose in ballo. L’idea di fondo è stimolare una condizione diversa dell’abitare.
Rimini, cantiere di Alice e Sauro.
Note
[1]Andrea Staid, Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini in Occidente, [Milano], Milieu, 2017, p. 152.
[3]Istituto centrale di statistica del Regno d’Italia, Indagine sulle case rurali in Italia, Roma, Istituto poligrafico, 1934. Cfr. Case di terra e paglia delle Marche, testi [di] Ercole Sori, ricerche fotografiche [di] Aldo Forlani, Ascoli Piceno, D’Auria, 1999.
[4]Augusta Palombarini, Le case di terra, in Sergio Anselmi, Gianni Volpe, L’architettura popolare in Italia. Marche, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 180.
[8]Cfr. Barbara Jones, Costruire con le balle di paglia: manuale pratico per la progettazione e la costruzione, Firenze, Terra Nuova, 2011, p. 20.
Bibliografia
Sergio Anselmi, Gianni Volpe, L’architettura popolare in Italia. Marche, Roma-Bari, Laterza, 1987
Case di terra e paglia delle Marche, testi [di] Ercole Sori, ricerche fotografiche [di] Aldo Forlani, Ascoli Piceno, D’Auria, 1999.
Barbara Jones, Costruire con le balle di paglia: manuale pratico per la progettazione e la costruzione, Firenze, Terra Nuova, 2011.
Athena Swentzell Steen [et al.], Le case in paglia: come costruire edifici, uffici, capanne o cottage sostenibili, economici, efficienti e sicuri utilizzando le balle di paglia, Bologna, Arianna, 2013.
Andrea Staid, Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini in Occidente, [Milano], Milieu, 2017.