Non ve volemo (#9)

Non ve volemo
Di Redazione

C’erano una volta i quartieri popolari antifascisti e le campagne dove rossi, bianchi e neri si prendeva­no a cazzotti e a volte passavano alla rivoltella, c’era una volta tutta la lita­nia del tempo che fu, nel quale l’attesa di una liberazione magica ha nascosto per troppi la verità di un’oppressione assolutamente concreta. Così il ritor­nello popolare “addavenì baffone” più che una professione di fede nello stali­nismo è stato una tenue speranza nella giustizia a-venire, una preghiera o una bestemmia. Poi è arrivato il benessere, al baffone sono caduti barba e baffi e quasi tutti si sono scordati che le dif­ferenze tra idee non si possono sempre risolvere con un caffè al bar o con una chiacchierata, perché spesso riguarda­no visioni del mondo, forme di vita, interessi concreti.

Siamo arrivati a oggi, l’oppressione ha preso la forma dell’esclusione del de­bole, del diverso, dello straniero e non possiamo evitare di parlare dei toponi di fogna con la tartaruga sulle magliet­te. Casapound e la sua cricca di asso­ciazioni fasciste hanno preso fin trop­po piede, anche nelle Marche. Come rivista abbiamo partecipato allo sforzo collettivo degli antifascisti e antifasci­ste di Ancona per denunciare e boi­cottare la presenza dei fascisti del terzo millennio nel capoluogo. Il 2 dicembre  siamo stati in corteo, convinti che sia il punto di inizio di un percorso in salita. Il presidente dell’Accademia di Babele e i sin­ceri liberali che hanno ospitato i fascisti si sono barricati dietro la poli­zia e dietro qualche citazione farlocca di Voltaire. Non riescono a concepire come si possa negare il diritto di paro­la a qualcuno. Come se parole e azioni fossero due mondi separati. Come se quello che ci oppone ai fascisti fosse una giostra di diverse “opinioni”. Pro­pagandare intolleranza e razzismo so­no solo delle legittime opinioni? Sof­fiare sul fuoco della guerra tra poveri è solo un’opinione? Cancellare dalla me­moria storica la tragedia di un venten­nio di dittatura è un’opinione con cui confrontarsi? Vediamo giorno dopo giorno quello che succede nelle Mar­che, in Italia e altrove: le aggressioni e anche i morti per mano fascista. Chi concede spazi e agibilità a questi soggetti nascondendosi dietro il mantra della democrazia o è uno sciocco o è un complice, spesso entrambe le co­se. Per questo condividiamo le parole che aprivano lo striscione ad Ancona: “Non ve volemo”. È ora di cominciare a ripeterlo più spesso e più forte.

>La nostra anima antisessista e anti­razzista ci spinge inoltre a ricordare i ripetuti episodi di violenza di genere che hanno oltraggiato il nostro territo­rio, e non solo, negli ultimi mesi, stru­mentalizzando per l’ennesima volta il corpo della donna e trasformandolo in una chiave con cui chiudere la porta ai movimenti migratori e alimentare le politiche razziste e securitarie. Sul­la scia delle manifestazioni femmini­ste che al grido di Non una di meno lo scorso 25 novembre hanno dipinto di viola le piazze a livello globale, ribadiamo che la violenza di genere è diretta conseguenza di una cultura patriarcale che globalmente permea tutti gli spazi del vivere quotidiano, quelli pubblici e quelli privati, quelli cultu­rali e quelli politici. Il potere patriar­cale non può essere declinato a secon­da della provenienza geografica di chi viola il corpo di una donna. La violen­za di genere non ha lingua né colore e no ha un unico significato: no.

Venendo alle nostre pagine, l’autunno di quest’anno ci ha regalato per fortu­na due presentazioni della rivista che ci hanno scaldato il cuore. Non i so­liti spazi sociali, librerie o festival, che pur frequentiamo con piacere, ma una barbieria di Senigallia, di quelle dove tra forbici e rasoi regna ancora la di­scussione, e un casolare nelle campa­gne urbinati, uno di quei luoghi spe­ciali dove incontrare bella gente che sa ancora alzare i calici per brindare alla vita. “Malamente” si nutre proprio dei rapporti di complicità che incontra sulla sua strada, speriamo quindi che occasioni di questo tipo si moltiplichi­no nel tempo.

In questo numero abbiamo approfitta­to della disponibilità dell’antropologo Stefano Boni, amico e compagno, per parlare con lui di esperienze di vita in collettività, cioè del mettere le basi per la possibilità di un vivere altro e mi­gliore. Tante sono le ragioni, ma anche non poche le difficoltà, per la costru­zione di piccole comunità di indivi­dui e famiglie che sappiano mettere al primo posto l’interazione umana e solidale e, allo stesso tempo, sappiano pensarsi non come isole felici in una società in rovina, ma come nuclei di resistenza al mondo delle merci e del denaro. L’occasione ci è stata data dall’intervento di Stefano alla giornata inaugurale di un progetto di conviven­za tra le colline e il mare, che promette interessanti sviluppi.

Parliamo poi degli incendi che la scor­sa estate hanno funestato i boschi. Con i roghi del San Bartolo e delle Ce­sane, in provincia di Pesaro e Urbino, abbiamo visto il fumo e le fiamme da molto vicino, ma per raccontare come una comunità può darsi da fare senza aspettare a mani giunte l’acqua sgan­ciata dal cielo siamo andati in Abruz­zo, tra i fusti anneriti del monte Mor­rone, per intervistare chi era in prima linea durante i roghi d’agosto. Sempre sul tema degli incendi ospitiamo an­che un gradito contributo provenien­te dalla Val di Susa, con l’auspicio di continuare a gettare ponti tra i “nostri” Appennini e le Alpi.

Come chi ci segue da tempo ormai sa, cerchiamo di non far mai mancare un racconto storico su fatti che ci appas­sionano e difficilmente si trovano nei libri di scuola. Questa volta partiamo dal piccolo porto di Fano per adden­trarci in un intrigo internazionale dai contorni mai del tutto chiariti, legato alla guerra di liberazione algerina degli anni Cinquanta e Sessanta. Un altro chiodo fisso di qualche nostro redat­tore è la critica antindustriale e anche su questo numero pubblichiamo un denso articolo in traduzione, da legge­re con calma e su cui riflettere. Questa volta non consigliamo un libro “da ru­bare”, ma solo un progetto editoriale “da sostenere”: Cavallino rivista ed editrice, con cui contiamo di avvia­re una collaborazione e già su queste pagine trovate una bella illustrazione realizzata da uno dei loro disegnatori.

La nave Hedia. Storia di marinai fanesi e di una carretta a vapore tra insorti algerini, servizi segreti, siluri e depistaggi (#9)

La nave Hedia.
Storia di marinai fanesi e di una carretta a vapore tra insorti algerini,
servizi segreti, siluri e depistaggi

Di Bicio

C’è un giallo del mare ancora irrisolto a distanza di oltre cinquant’anni. È la storia poco nota del mercantile Hedia, misteriosamente scomparso senza lascia­re tracce nel 1962, da qualche parte nel Mediterraneo, con i suoi venti uomini di equipaggio. Colpa di una burrasca, si affrettano a dire le autorità. Pare che la Hedia non trasportasse merci qualunque, ma un carico che scotta. Un carico di armi diretto probabilmente al Fronte di liberazione algerino per gli ultimi fuochi della guerra d’indipendenza contro il colonialismo francese. Sullo sfondo l’Eni di Mattei e le sue mire sul petrolio algerino. È verosimile che la Hedia sia stata intercettata e silurata – o sequestrata? – dalla flotta d’oltralpe. Per errore o a ragion veduta? Quel che è certo è la sequenza di depistaggi, false notizie e insabbiamenti che ne sono seguiti. E le parole di Fanfani, allora primo mi­nistro, non fecero che aumentare i sospetti: “per venti persone non si può fare la guerra a un alleato”. Su questo “cold case” pubblichiamo alcuni estratti dal recente libro di Fabrizio Fabbroni, “La leggenda della nave generosa” (Fano, Aras, 2017), ricordando che l’autore si sta adoperando per l’affissione di una lapide in ricordo dei venti marinai (cobelligeranti algerini?) scomparsi insieme alla loro nave.

La nave Hedia - Illustrazione di Samuele Canestrari
La nave Hedia – Illustrazione di Samuele Canestrari

 

La mattina del 14 marzo 1962 il piroscafo Hedia scomparve mentre si accingeva ad attraversare il canale di Sicilia. La nave sparì senza lasciare traccia, non furono trovati né corpi né chiazze di nafta, né relitti galleg­gianti, anche se, una settimana dopo il naufragio, alcuni pescatori lampe­dusani recuperarono, attorno alla loro isola, due salvagenti probabilmente appartenuti alla nave.

La Hedia era partita qualche giorno prima da Casablanca (Marocco) dove aveva caricato concime che avrebbe dovuto sbarcare a Venezia. Sette mesi dopo la scomparsa, alcuni quotidiani ipotizzarono che la nave fosse sta­ta silurata. Secondo la ricostruzione dei giornali, il piroscafo, uscito fuori rotta a causa di una burrasca, sarebbe stato scambiato dalla Marina mili­tare francese per uno dei bastimenti fantasma che rifornivano di armi la resistenza algerina impegnata nella guerra di liberazione contro i francesi.

La Hedia era di proprietà di una società anonima panamense ma dal mese di ottobre del 1961, quando ancora si chiamava Generous, l’ex comandan­te Nello Patella di Venezia ne comprò alcune quote, diventandone agente marittimo. La Generous era la classica carretta dei mari, varata nel lontano 1915. Il piroscafo era dotato di un motore a vapore a tripla espansione alimentato a carbone, costruito a Sunderland in Inghilterra. Nonostante l’età della carretta, l’armatore Patella riuscì a noleggiarla all’Eni che la spe­dì in giro per il Mediterraneo a distribuire concimi e diserbanti prodotti dall’Anic di Ravenna.

In verità la Generous, prima di trasformarsi in Hedia e sparire in fondo al mare, fece scalo in località alquanto “equivoche” come il porto di Fiume da cui partivano le armi per l’Algeria, o Benisaf (Algeria), il luogo dove ve­nivano sbarcate le armi destinate all’Oas (Organisation de l’armée secrète, organizzazione paramilitare clandestina francese) o, infine, Sant’Antioco in Sardegna, approdo usato dal Sifar per i suoi traffici di armi prelevate dai depositi Nato del poligono di Capo Teulada.

Nel suo ultimo viaggio da Generous la nave era entrata a Tangeri, “la cit­tà dove nessuno è ciò che appare”. Il porto era il meno controllato del Marocco, anche perché fino a pochi anni prima la città era autonoma e neutrale, un porto franco noto per i suoi traffici illegali e per il numero di spie, disertori e avventurieri. Probabilmente fu in quell’occasione che la Generous fu “attenzionata” dall’efficiente Servizio informazioni francese, grazie anche alla complicità delle autorità marocchine che ufficialmente sostenevano il Fronte di liberazione algerino nella lotta per l’indipendenza, ma ufficiosamente collaboravano con i servizi francesi. Visto che non ci si poteva fidare dei doppiogiochisti marocchini e che la situazione in Algeria stava evolvendo velocemente, l’Eni che sosteneva la guerra di liberazione degli algerini fornendo armi e denaro decise il camuffamen­to della nave.

Ai primi di febbraio del 1962 la Generous fu tirata in secco per effettuare lavori di manu­tenzione straordinaria. La na­ve subì così tante modifiche da renderla irriconoscibile. Fu modificato il taglia-mare di prora e lo specchio di pop­pa, furono rialzate le murate, fu costruita una nuova plan­cia, così come furono sostitu­ite alcune parti obsolete del motore. Infine, fu aggiunta una turbina. Anche il nome della nave fu modificato, la vecchia Generous lasciò il mare alla moderna Hedia.

La ristrutturazione: da Generous a Hedia
La ristrutturazione: da Generous a Hedia

 

Ultimati i lavori la nave riprese immediatamente il mare. Il costo di questo camouflage fu molto oneroso e dato che la Hedia avrebbe dovuto navigare ancora pochi mesi (secondo “radio porto” un anno circa), tutta questa operazione dal punto di vista prettamente economico rimane un mistero. Oltre all’incongruenza della ristrutturazione, anche la formazione dell’e­quipaggio avvalora l’ipotesi del “trasporto speciale urgente”. A bordo vi erano due comandanti che, per una carretta del genere, adibita a movi­mentare concime, era un lusso davvero eccessivo. Il comandante Federico Agostinelli di Fano, padrone marittimo di prima classe, e il primo ufficiale Colombo Furlani, anche lui padrone marittimo fanese che, assieme al ca­po macchina Otello Leonardi, anche lui di Fano, governavano il piroscafo sopra e sotto coperta.

Altrettanto strana era la presenza a bordo del gallese Anton Narusberg di Cardiff, professione macchinista navale. L’arruolamento del gallese era davvero inspiegabile. In fondo la nave era piccola, superava a malapena i novanta metri. A bordo vi erano già due capi macchina, due fuochisti e un ingrassatore, personale più che sufficiente per la manutenzione di uno dei motori più noti e usati dalle marinerie di tutto il mondo. Oltre a ciò, se l’armatore cercava macchinisti, meccanici o ingrassatori, in Adriatico ne avrebbe trovati a decine. Perché quindi imbarcarne uno fatto venire appositamente dal Galles? Probabilmente il gallese era un tecnico della North East Marine incaricato del collaudo, imbarcato in tutta fretta perché la nave doveva partire al più presto per la sua ultima missione da cui non avrebbe più fatto ritorno.

La Hedia partì da Ravenna velocemente e l’unica spiegazione per tanta urgenza è quella che conferma l’appartenenza del piroscafo alla flotta delle navi gun runners che trasportavano armi in Marocco e Tunisia. Da lì erano prese in consegna dagli uomini del Fronte di liberazione nazionale (Fln) che avrebbero provveduto a infiltrarle in Algeria.

Per contrastare quel traffico i francesi avevano costruito un efficace sistema difensivo. Davanti alla costa algerina erano schierate le unità d’intervento rapido che operavano in un tratto di mare di circa cento miglia. Il resto della flotta era in caccia per tutto il Mediterraneo fermando o affondando le navi sospette segnalate dal Servizio segreto francese.

Il 15 febbraio del 1962 la Hedia salpava quindi da Ravenna, destinazione Tarragona, Spagna. Da lì proseguiva per Burriana, un porto poco distan­te. Probabilmente l’8 marzo riparava nuovamente a Tangeri, ufficialmente per il maltempo, anche se le condizioni meteomarine di quei giorni, fuori dallo stretto di Gibilterra, non sembravano proibitive. La nave era stata completamente ristrutturata e problemi seri, fino a quel momento della navigazione, non ne aveva avuti.

Poi, negli stessi giorni in cui la Hedia, partita da Casablanca, attraversava Gibilterra per tornare a Venezia (12 marzo), dalla Corsica salpa l’intera flotta francese di stanza nel Mediterraneo; la missione ufficiale era quella di effettuare delle manovre tra le Baleari e la Corsica. La squadra navale francese navigava a una velocità di crociera di circa venti nodi e avrebbe dovuto intercettare la Hedia più o meno tra il mare di Alboràn e le Baleari, sopra una delle fosse marine più profonde del Mediterraneo, già piena di cadaveri algerini. Anche i comandanti della Hedia, avvertiti via radio dagli uomini dell’Eni, sapevano che la flotta francese stava navigando per intercettarli; «Crucai da Maester!» (Gabbiani da Maestrale!) gracchiava da qualche ora la radio a onde corte. L’equipaggio italiano sapeva come i fran­cesi trattavano i loro “clienti”: non erano poche le navi colate a picco senza tanti complimenti. Così come erano parecchie quelle sequestrate e scortate nei porti algerini, dove gli equipaggi venivano sistematicamente torturati.

La Stampa, titoli 1962
La Stampa, titoli 1962

 

Dietro ai francesi, che stavano arrivando a prora, rinforzava il vento. La perturbazione che si stava formando proprio in quelle ore sopra le Baleari avrebbe attraversato velocemente l’orizzonte da tramontana a scirocco in una sorta di tempesta perfetta. Che fare? Questo si saranno chiesti gli uo­mini in plancia della Hedia. Avrebbero potuto affrontare tutte le tempeste del mondo ma dovevano evitare l’incontro ravvicinato con i francesi. La decisione da prendere era difficile; il tempo stringeva: tornare a Tangeri? Impossibile per due motivi: il primo perché la manovra avrebbe conferma­to il trasporto “speciale”, il secondo perché il porto non avrebbe protetto la nave dall’assalto degli incursori francesi. Qualche anno prima il piroscafo Emma, che aveva tentato la stessa manovra, era stato fatto esplodere in banchina. Altre navi alla fonda (Alessandria, Amburgo) furono fatte saltare in aria grazie a mine magnetiche piazzate sotto la chiglia dai barbouze fran­cesi in tuta subacquea.

L’unica possibilità che rimaneva a quelli della Hedia era di attraversare ve­locemente il mare di Alboràn, sparire sotto la costa spagnola confondendo­si con il traffico marittimo locale, risalire sottovento le Baleari anticipando la burrasca, attraversare quindi il Mar di Sardegna ripercorrendo al contra­rio la rotta dell’andata. Cosa vogliono fare gli italiani però, lo intuiscono anche i francesi che tentano di prendere la nave prima che possa sparire dentro qualche insenatura spagnola.

La squadra navale francese ha fretta, in Algeria c’è l’ultimo putsch che li aspetta. Il suo comandante vorrebbe al più presto stabilire il contatto visivo con la preda, le previsioni meteo delle ore successive confermano il peggio­ramento. André Jubelin, il vice ammiraglio che comanda la squadra fran­cese, ha ricevuto l’ordine di affondare la Hedia e soprattutto di non lasciare scomodi testimoni vivi. Nessuno del Ministero della guerra francese vuole impadronirsi della nave, magari per rivelare all’opinione pubblica che l’E­ni fornisce armi agli insorti. Anche perché il Servizio segreto francese da oltre un anno è in possesso della copia del documento firmato da Mattei e Ferhat Abbas, presidente del governo provvisorio algerino in esilio, in cui il presidente dell’Eni promette armi agli insorti, in cambio di contratti per la ricerca petrolifera, ma soprattutto perché a poche ore dalla fine delle ostilità, il tempo della denuncia all’opinione pubblica era scaduto.

Ormai la guerra ha i giorni contati, tra qualche ora scatterà il cessate il fuo­co. In sette anni di conflitto, un milione di algerini sono stati uccisi dall’e­sercito occupante. Un altro milione deportato verso la costa. Secondo i corrispondenti di guerra, nemmeno le atrocità delle SS tedesche commesse durante la seconda guerra mondiale sono paragonabili alla ferocia francese. Ora però, dopo quasi otto anni di violenze indescrivibili, per l’Oas e i suoi sostenitori (militari golpisti e Servizio segreto deviato) l’Algeria è ormai perduta. Il Presidente de Gaulle, a cui avevano consegnato l’Algeria e la Francia con il colpo di Stato del maggio 1958 aveva voltato loro le spalle. L’ultimo “Putsch dei generali” dell’aprile dell’anno precedente (1961), che avrebbe dovuto cambiare non solo il destino dell’Algeria ma anche quello della Francia continentale con reparti di paracadutisti che avrebbero mar­ciato su Parigi e altri che sarebbero stati lanciati sull’Eliseo per arrestare de Gaulle, si era rivelato un disastro. Nessun effetto valanga tra i militari in Francia, in mano ai golpisti era rimasta soltanto la città di Algeri.

Manifesto Parti socialiste unifié, fine 1960, originale in Biblioteca BDIC Nanterre
Manifesto Parti socialiste unifié, fine 1960, originale in Biblioteca BDIC Nanterre

 

A questo punto Jubelin deve scegliere tra un colpo di stato dall’esito assai incerto o dare la caccia alla nave fantasma attendendo in mare il volgere degli eventi. Il vice ammiraglio, eroe di tante battaglie, lancia l’intera squa­dra francese composta dall’incrociatore Colbert, dalla portaerei La Fayette, dalle navi di scorta Surcouf, Duperré, Maillé, Brezé, dalla nave appoggio sommergibili Gustave Zedé, dalle navi di scorta rapide Vendéen, Bourgui­gnon, Normand e Béarnais e dal sottomarino Artemis contro… la carretta a vapore fanese! Carretta sì, ma già leggenda, perché la Hedia quando ancora si chiamava Milly e poi dopo da Generous, aveva per ben due volte sbarcato “materiale bellico” facendosi beffe dei francesi e dei loro sottomarini.

La nave viene affondata in quell’arco di tempo che va dalla sera del 13 al pomeriggio del 14 marzo 1962. Contemporaneamente ad Algeri l’ultimo putsch dei pieds-noirs era già fallito da qualche ora. Il Servizio segreto ita­liano (Sifar) era legato a filo doppio con i fascisti dell’Oas e per questo mo­tivo ha avuto un ruolo importante sia per quanto riguarda l’identificazione della Hedia, passando la foto della nave ristrutturata ai colleghi francesi, sia per quanto riguarda i vari depistaggi.

Il 19 marzo 1962 due pescherecci ritrovarono a poche miglia dall’isola di Lampedusa i salvagenti della Hedia. Considerando che quella zona di mare è protetta dal maestrale dal promontorio tunisino i salvagenti avrebbero navigato per circa duecento miglia evitando prima Pantelleria, poi Linosa per centrare la spiaggia di Lampedusa. Quel fortunato ritrovamento servì da ulteriore e definitiva conferma della versione ufficiale e cioè che l’affon­damento della Hedia era avvenuto in seguito alla burrasca mentre la nave stava attraversando il canale di Sicilia.

Qualche giorno dopo l’affondamento, furono addirittura trasmessi nell’e­tere messaggi radio che sembravano confermare la presenza della nave nel canale di Sicilia, altri che asserivano di averla vista risalire lentamente l’A­driatico a causa di un’avaria. Razzi di segnalazione saranno avvistati un po’ ovunque. La per­la dell’operazione di depistaggio fu però quella di riuscire a convincere i fami­liari dell’equipaggio che i loro cari, dopo sei mesi dall’affon­damento della nave, erano ancora vivi. In settembre alcuni ma­rinai della Hedia fu­rono infatti apparen­temente riconosciuti in una foto scattata nel cortile del conso­lato francese di Algeri e pubblicata da «Il Gazzettino» di Venezia. La foto riguardava un gruppo di prigionieri europei liberati dal Fln.

L'improbabile riconoscimento di marinai della Hedia in una foto di alcuni prigionieri liberati dal FLN, set. 1962
L’improbabile riconoscimento di marinai della Hedia in una foto di alcuni prigionieri liberati dal FLN, set. 1962

 

Al di là dei vari depistaggi, cerchiamo di “fare il punto” partendo da quelle che sono le poche certezze. La prima riguarda la nave, i lavori effettuati a Ravenna che la resero irriconoscibile, l’improbabile arruolamento del macchinista gallese, i due comandanti che la governavano, il cambiamento del nome, gli equivoci porti di carico e scarico e infine le misteriose “casse” sbarcate a Tangeri. La seconda certezza riguarda la presunta rotta. Nessu­na nave avrebbe navigato a una distanza di sicurezza inferiore alle ottanta miglia dalla costa algerina. La “regola” consigliava di navigare attorno al 39° parallelo Nord (precauzione messa in atto da tutte le marine mercan­tili che operavano nel Mediterraneo in quel periodo). La terza certezza riguarda il mare che si stava guastando, a prora erano segnalati i francesi in avvicinamento veloce, mentre a dritta la nave aveva la terraferma algerina. Per queste ragioni la Hedia fu costretta a risalire almeno fino a Capo Palos (Spagna). Lasciata la costa, la nave si sarà spinta ancora più su verso le Baleari rimanendo sottovento le isole, lavorando l’onda al mascone. Una volta a ridosso di quelle isole, la Hedia avrà probabilmente accostato per scendere in scaduta verso la Sicilia con la perturbazione alle spalle, l’onda frangente al giardinetto, cercando di evitare i francesi che manovravano per prenderla proprio in quella zona.

Passarono sette mesi dalla scomparsa della nave quando il 27 ottobre 1962 l’aereo Morane-Saulnier, con cui Mattei stava tornando a Milano, preci­pitò nelle campagne di Bascapè (Pavia). Secondo il giudice Vincenzo Ca­lia l’aereo esplose in volo a causa di una bomba collegata al comando di discesa del carrello probabilmente confezionata dai bombaroli del Dgse, raffinati specialisti in attentati con l’esplosivo, e materialmente collocata a bordo dai picciotti di una potente famiglia mafiosa di Catania. I dollari per affrontare i costi dell’operazione uscirono probabilmente dalle tasche dei petrolieri americani, mentre la regia, senza dubbio alcuno, fu della Cia, e le “marionette” in campo furono gli uomini del Sifar.

Dopo 55 anni di depistaggi è ormai evidente che la prigione che custodisce i resti dei marinai della Hedia si trova in fondo al mare da qualche parte tra Casablanca e Venezia. L’ultima operazione navale del conflitto algerino della Marine national, la prestigiosa flotta francese che nel secolo preceden­te affrontava in battaglia le navi di sua maestà britannica, fu quella di attac­care un “piccolo naviglio”, una vecchia carretta, adatta forse a trasportare ghiaia da Valona a Brindisi o poco più.

«Per venti persone non si può fare la guerra a un alleato» dichiarò il Primo ministro Fanfani ai familiari dei dispersi. La “ragione di Stato” è il vero motivo per cui la Hedia, con il suo equipaggio e tutti i suoi segreti è ri­masta sepolta in fondo al mare per tutti questi anni, mentre sulla vicenda calava l’oblio. È venuto il tempo far risalire quei marinai in superficie e riconoscere loro almeno lo stesso ruolo che gli attribuirono i francesi il giorno in cui li condannarono a morte, vale a dire quello di “cobelligeran­ti” caduti per la libertà di un popolo che neppure conoscevano. E ricordarli prendendo a prestito le parole di un vecchio professore che scrisse: «ci sono tre tipi di uomini, i vivi, i morti e quelli che vanno per mare di cui non si ricorda nessuno». Né vivi né morti, ancora ai posti di manovra, sulla car­retta a vapore a sfidare il francese di turno.

Porto di Chioggia - Monumento ai dispersi chioggiotti della Hedia
Porto di Chioggia – Monumento ai dispersi chioggiotti della Hedia

Cavallino rivista (#9)

Cavallino rivista
Recensione di Valentina

Castelcavallino è un piccolo borgo sulle colline marchigiane, a po­chi km da Urbino. A volerlo cercare sulla mappa, se non si è della zona, quasi scompare nella costellazione di paesi e piccoli agglomerati di case e vite dell’entroterra pesarese. Un luogo piccolo e poco abitato, essenziale nelle sue possibilità eppure sconfinato: da qui la vista spazia sulla campa­gna e sui rilievi sinuosi dove si alternano colori e stagioni, e con lei viaggia­no l’immaginazione, l’introspezione, la creatività.

Perché tante parole per un puntino su una mappa? Perché Cavallino Rivi­sta, progetto editoriale autoprodotto di sette giovani disegnatori e disegna­trici della Scuola del Libro di Urbino, oltre a portare il nome di questa pic­cola frazione, sembra racchiudere in sé proprio tutte le sue caratteristiche. Un progetto piccolo con uno sguardo ampio, un’opera prima essenziale in tutto il suo processo creativo, di realizzazione e diffusione, che aspira a contenere ed esprimere soggettive tanto personali quanto universali.

Abbiamo chiesto a Samuele Canestrari, uno degli autori, di raccontarci alcuni aspetti di questo progetto, dal legame con il territorio alla sua realizzazione prati­ca, dalla scelta dell’autoproduzione fino alle prospettive sul futuro e la crescita di questo “piccolo Cavallino”.

Cavallino rivista #1 - copertina
Cavallino rivista #1 – copertina

 

Cavallino è un borgo quasi abbandonato dove un po’ per caso, un po’ per necessità ci siamo rifugiati. Eravamo in sette, disegnatori, a stretto contatto ogni giorno. Abitavamo tutti la stessa piazza, dello stesso minuscolo paesino. Avevamo tutti gli occhi pieni dello stesso panorama. Ci siamo raccolti intorno a questo progetto dopo mesi e mesi di produzione individuale. È stata una fase cruciale, nonostante sia stata una ricer­ca fatta in singolo, uno ad uno, in uno spazio intimo e privato, in cui ci si nutriva dei propri

autori di riferimento, talvolta confrontandoci, e scambiandoci le nuove scoper­te. Era marzo e il nostro percorso di studi stava finendo. Avevamo tutti bisogno di trovare una forma al nostro lavoro. Nel momento in cui abbiamo pensato di fare una rivista, l’idea di rivolgerci a una casa editrice non ci ha neanche sfiorato. Avevamo i disegni, i computer, la voglia di fare. L’autoproduzione ci ha permesso in prima persona di partecipare attivamente a ogni tappa del processo fino alla composizione di un corpo libro. Ci ha dato la possibilità di autodeterminarci in ogni singola scelta (compreso l’investimento economico) frutto di confronto e dialogo tra di noi. Era un percorso che conoscevamo solo a grandi linee prima di intraprenderlo, ad ogni passo il libro cresceva e noi con lui. L’idea che avevamo all’inizio, cioè quella di riuscire ad andare in stampa in due settimane ora ci fa tenerezza.

Insieme all’autoproduzione, uno degli aspetti più interessanti di Cavallino Rivista è la sua “diffusione”. Da un lato perché i suoi autori e autrici oggi non abitano più le case del borgo, ma sono sparsi in diverse province e stati; dall’altro perché la rivista stessa, distribuita solo in poche librerie e realtà indipendenti, viene portata in giro per presentazioni e festival e viene diffusa soprattutto in queste occasioni che sono prima di tutto incontri e scambi tra persone.

Il nostro intento non è quello di creare un gruppo chiuso e fisso di persone, anzi è nel nostro interesse l’idea di guardarci intorno, aprirci e lasciarci attra­versare. Da queste condizioni e dal nostro desiderio di crescere ancora è nata l’idea di una casa editrice fondata sullo stesso principio, la fiducia dello sguardo dell’altro e la ricchezza che questo ci dona, la possibilità di stupirci davanti a qualcosa che credevamo di conoscere. Cavallini edizione nasce come piattafor­ma di sostegno per chi ha il materiale e il bisogno di arrivare a una forma, a un oggetto da poter stringere tra le mani, di cui poterne scegliere la carta, lo spessore, il colore, l’involucro. Noi seguiamo ogni passaggio, consigliando e ra­gionando insieme, mettendo a disposizione la nostra voce, l’attenzione, e quello che abbiamo imparato in questa piccola ma importante esperienza. Il risultato è una co-autoproduzione.

Da: Cavallino rivista #1
Da: Cavallino rivista #1

 

Rivista e casa editrice: come si diceva, da una realtà piccola e per certi aspet­ti fortemente locale le strade che si aprono sono senza confini. Samuele ci ha raccontato che in cantiere ci sono già diversi progetti di pubblicazione che viaggiano in parallelo con un nuovo numero della rivista. Quello che ci ha colpito del primo volume è la preponderanza delle illustrazioni rispetto alla scrittura e la scelta di un segno grafico che è più intimista ed emotivo che narrativo. Non c’è un vero e proprio tema a condurre le storie sebbene in tutte si possono trovare dei riferimenti al quotidiano degli autori, alla dimensione dell’abitare, una casa, un paese o uno stato d’animo. Tutte le storie sono state montate partendo dai disegni, alcuni già pubblicati, altri inediti, tutti messi in comune e riassemblati seguendo le suggestioni visive prima, e delle parole poi.

Un’esperienza da conoscere e sostenere, coraggiosa e sicuramente intra­prendente sia per l’età di disegnatori e disegnatrici, che per il pregio di vo­lersi inserire in un panorama editoriale in cui illustrazioni e fumetti stanno conoscendo una nuova fortuna. Non è facile incontrare la rivista in rete, un po’ come lo è per il borgo di Castelcavallino sulla mappa, per questo consigliamo a tutte e tutti di seguire la pagina Facebook (facebook.com/ cavallinorivista) e trovare l’occasione di incontrare in carne, ossa e carta questo giovane progetto editoriale.

La critica antindustriale e il suo futuro (#9)

La critica antindustriale e il suo futuro
Di Javier Rodriguez Hidalgo

Sulle nostre pagine abbiamo già dato spazio a diversi contributi di critica antindustriale. Ora, con questo articolo di Javier Rodríguez Hidalgo, cerchiamo di approfondire alcuni passaggi dello sviluppo che tale critica sociale ha attraversato negli ultimi decenni e di delineare quali possibili ipotesi di cambiamento radicale ci consenta di intravedere, pur nelle enormi difficoltà che intralciano le prospettive rivoluzionarie nel tempo presente. Il rifiuto dell’ideologia del progresso e la messa in discussione di scienza e tecnologia in quanto strumenti né neutrali né di emancipazione hanno radici in pensatori come Jacques Ellul o Günther Anders ma, in tempi a noi più vicini, Hidalgo si sofferma in particolare sui contributi apportati dal gruppo dell’Encyclopédie des Nuisances. Dedica inoltre un capitolo a mostrare sotto quali forme questa corrente di pensiero si sia diffusa in Spagna: non abbiamo tradotto questa parte, che riserva ampio spazio all’esperienza del gruppo Los Amigos de Ludd e all’omonima rivista (2001-2004), i cui sette numeri sono stati tradotti in italiano da Acrati (acronimo che sta per Aggreg-azione contro la rovinosa avanzata della tecnologia industriale). Sempre per quanto riguarda lo specifico contesto in lingua italiana rimandiamo anche al testo di una relazione del 2005 a cura del Centro di iniziativa Luca Rossi di Milano, “Critica della scienza e della tecnologia nei movimenti dagli anni Settanta a oggi”, che si può facilmente reperire anche online. Il testo di Hidalgo, scritto nel luglio 2005, è stato pubblicato sulla rivista «Ekintza Zuzena», n. 33, gen. 2006 ed è circolato subito dopo in una prima traduzione italiana fatta da Marco Camenisch dal carcere di Regensdorf. Alcune note al testo sono nostre.

Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017
Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017

 

In questi ultimi anni, una critica sociale che possiamo definire antindustriale e antiprogressista ha conosciuto una importante diffusione. I suoi tratti principali sono: un rifiuto categorico dell’idea di progresso; un giudizio critico rispetto alle promesse della modernità; una completa messa in discussione delle potenzialità liberatorie della tecnologia; la constatazione del disastro ecologico e umano in corso; la contestazione della pretesa neutralità della tecnica. Anche se questa carrellata è troppo generica, cercherò di passare in rassegna le obiezioni più comunemente sollevate contro queste idee ed esprimerò le mie proprie critiche. Non nascondo, per evitare accuse a posteriori, di essere d’accordo, in sostanza, con questa critica antindustriale. Per diverse ragioni non parlerò qui del primitivismo. Quella che viene chiamata critica “anti-civilizzazione” o “anti-addomesticamento” non sarà trattata in questo articolo.

 

La chiave del disastro

Theodore J. Kaczynski, meglio conosciuto come Unabomber[1], ha reso pubblica la sua critica della società industriale in circostanze molto particolari. Poco prima del suo arresto, avvenuto il 3 aprile 1996, è riuscito a fare in modo che due dei quotidiani più importanti degli Stati Uniti pubblicassero integralmente il suo manifesto, intitolato La società industriale e il suo futuro, firmato Freedom club[2]. L’impatto mediatico della cattura di Kaczynski aiutò enormemente la diffusione delle sue tesi sull’evoluzione della società tecno-industriale, ma le discreditò assimilandole ai deliri di un pazzo omicida. In sostanza, Kaczynski afferma che la società industriale, obesa, cieca e appesantita dalla zavorra delle sue inerzie, corre verso la catastrofe, e che i radicali dovrebbero sfruttare l’occasione che offrirà loro il crollo del sistema per ricostruire una società più umana, fondata su comunità più ristrette e su un livello di sviluppo tecnico accessibile, non gerarchizzato né basato su un’eccessiva divisione del lavoro. Egli scarta ogni possibilità di riforma del sistema e rifiuta l’idea che ci possano essere delle tecnologie emancipatrici. Queste riflessioni sono accompagnate da uno duro attacco del gauchismo e del progressismo, e da alcune osservazioni sulla tecnica in generale. Per Kaczynski, la sola lotta prioritaria dev’essere quella che mira a distruggere il sistema industriale. Tutte le altre, a paragone, sono insignificanti.

Da allora, il Manifesto di Unabomber, come viene generalmente chiamato, è circolato molto. Il suo merito principale è di presentare le cose con una sorte di innocenza davvero inusuale nella critica sociale, solitamente incline al conformismo militante o all’auto-indulgenza. Il suo principale difetto è che sembra credere nelle possibilità salvifiche che porterebbe con sé il collasso della società industriale. È altrettanto chiaro che il suo manifesto ha avuto l’effetto di una bomba (scusate il facile gioco di parole) nel mondo della critica ecologista radicale, costretta a rompere con ogni fantasia riformista e a dotarsi di una certa coerenza teorica quanto allo stato attuale della società tecnologica. In altri testi posteriori, pubblicati col contagocce, Kaczynski ha insistito sulle idee fondamentali de La società industriale e il suo futuro. La novità di maggior rilievo è che si è mostrato talvolta convinto della necessità di abolire non solo il sistema tecno-industriale, ma anche la civilizzazione nel suo insieme, il che ha facilitato l’adozione del suo discorso da parte di alcuni primitivisti.

In una forma molto più lenta e silenziosa si è fatta strada la critica elaborata dalla parigina Encyclopédie des Nuisances (EdN). L’EdN ha debuttato nel 1984 come collettivo editore dell’omonima rivista. Fino al 1992, anno di pubblicazione dell’ultimo fascicolo, sono usciti quindici numeri, tredici dei quali prima del 1989. In seguito, le edizioni dell’Encyclopédie des Nuisances, fondate nel 1993, hanno dato alle stampe una ventina di libri (tra i quali una traduzione francese de La società industriale e il suo futuro di Kaczynski) che approfondivano gli elementi di critica antiprogressista già presenti nella rivista. Per ben comprendere le idee dell’EdN bisogna sapere che il termine nuisances – “effetti nocivi” o “nocività” – non designa solo le conseguenze della vita moderna (contaminazione, rumore etc.) ma l’insieme dei danni che un sistema sociale concreto, il capitalismo industriale, infligge agli esseri umani. Il lavoro salariato, per esempio, è uno degli effetti nocivi di questo sistema.

Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017. [particolare]
Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017. [particolare]

La critica dell’EdN prende di mira la modernità e qui il termine “critica” non va inteso come sinonimo di attacco, ma come intenzione di capire fino in fondo e mettere a nudo una realtà. Come Adorno e Horkheimer nella Dialettica dell’Illuminismo, gli “enciclopedisti” non negano un aspetto emancipatore nel progetto trasformatore della modernità, enunciato e promosso del secolo del Lumi, ma allo stesso tempo ne sottolineano il lato perverso: la foga razionalizzatrice e quantificatrice, l’ideologia del progresso, il disprezzo verso la tradizione, così come certe illusioni ereditate dalle epoche precedenti. Gli “enciclopedisti” constatano che è proprio questo lato della modernità che ha finito per imporsi e che dirige, incontrando sempre meno opposizione, il destino dell’umanità. Il problema è che il sistema totalitario che si è costruito nel corso del XIX e XX secolo, in parte derivato dal progetto dell’Illuminismo, e che può essere considerato come definitivamente “lanciato” a partire dalla Seconda guerra mondiale, governa come un despota solitario e fa tabula rasa di tutto ciò che l’ha preceduto, compresi i saperi e le capacità umane che permettevano di concepire un mondo più giusto e meno aberrante. La tecnicizzazione e la mercificazione sempre più spinte di ogni sfera della vita umana, sia sociale che personale, portano a credere che questo processo sia irreversibile. Allo stesso modo l’EdN denuncia qualunque speranza di liberazione tecnologica (a partire dall’informatica) come un deus ex machina irreale, una mistificazione che contribuisce a far accettare le imposizioni del sistema. Critica inoltre l’idea secondo la quale l’industria sarebbe qualcosa di neutrale, un semplice attrezzo che dovrebbe solo cambiare di mano per cessare di essere strumento di tortura e convertirsi in mezzo di liberazione.

Secondo l’EdN, gli esseri umani della nostra epoca sono più reticenti che mai all’idea stessa di emancipazione. La perdita dei saperi tradizionali, rimpiazzati da surrogati in forma di merci o servizi, rende il compito di trasformare la società molto più difficile. In effetti non resta più granché che meriti di essere autogestito: dal linguaggio alla cucina popolare, tutto è coinvolto nella degradazione industriale, ma il più grande successo di questo sistema è di essersi saputo rendere desiderabile ai dominati. Di fronte a questo, nemmeno la catastrofe in corso è di buon auspicio quanto a possibilità di liberazione. In un libro pubblicato dall’EdN alla fine del 2000, intitolato significativamente Après l’effondrement [Dopo il crollo], Jean-Marc Mandosio scriveva a proposito della tesi di Jacques Ellul sul collasso del sistema industriale: “è da molto tempo che ci troviamo in un «enorme disordine mondiale», in cui la contraddizione e lo smarrimento sono diventati la norma, senza che questo significhi la fine del «sistema tecnificato». Il moltiplicarsi delle crisi locali e del caos su grande scala rinforzano, paradossalmente, la coerenza del sistema nel suo insieme, che si nutre appunto di smarrimento e contraddizione, nei quali trova nuove forze per estendersi e perfezionarsi esasperando sempre più l’alienazione dell’individuo e la distruzione dell’ambiente. Quanti attendono che la società industriale crolli loro attorno, rischiano di dover subire ben prima il proprio stesso crollo, perché questo collasso, che si sta già consumando, non è quello del «sistema tecnificato», ma della coscienza umana e delle condizioni oggettive che la rendono possibile”[3].

Abbiamo qui la chiave del disastro che si produce ovunque e dal quale, secondo l’EdN, non ci dobbiamo attendere alcuna garanzia di trasformazione positiva: il sistema industriale trascina via con sé quella sensibilità umana che potrebbe giudicare negativamente lo stato di cose presente. Questa è l’autentica catastrofe. A differenza dei primitivisti, che sembrano entusiasmarsi della possibilità di un cataclisma di dimensioni mondiali (più sarà devastatore, meglio sarà), gli “enciclopedisti” rifiutano “la soddisfazione non dissimulata con la quale [certi teorici] parlano di crisi, di crollo, di agonia, come se possedessero qualche speciale assicurazione riguardo alla direzione di un processo che tutto il mondo spera porti finalmente a un risultato decisivo, un evento che chiarirà una volta per tutte l’ossessionante enigma dell’epoca, sia che abbatta l’umanità, o che la obblighi a raddrizzarsi”[4].

Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017. [particolare]
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Non si tratta di inaugurare la moda dell’anti-industrialismo

Domandiamoci ora in quale situazione si trovi oggi la critica antiprogressista e antindustriale e quali obiezioni le siano state mosse. In primo luogo, come ci si può attendere, i più refrattari a queste idee sono i settori dell’ultrasinistra, che vengano dal marxismo o dall’anarchismo[5]. Per loro la rivoluzione non è nient’altro che un progetto che è sempre da riprendere partendo dal principio e negare la possibilità che possa scoppiare da un momento all’altro appare loro come un crimine di lesa umanità. Parlare di “società industriale” invece di “società capitalista” è ai loro occhi un passo indietro. Che la società industriale, tuttavia, distrugga le basi materiali che potrebbero permettere una successiva riappropriazione dell’esistente non sembra preoccuparli minimamente, dal momento che continuano a credere che le lotte attuali debbano puntare all’autogestione generalizzata etc.

Come sempre, dietro queste critiche c’è l’idea, più o meno esplicita, secondo la quale lo sviluppo tecnologico di una società è un processo neutro o, al massimo, subordinato esclusivamente agli interessi della classe al potere; basterebbe quindi che i consigli operai (o la “moltitudine”) si prendano in carico la situazione affinché la tecnica venga gestita in forma razionale. A questo si può replicare che la società industriale non tollera che un margine di gestione molto ristretto. Ad esempio, la gigantesca burocrazia non è una semplice escrescenza della società moderna, bensì un elemento fondamentale del suo funzionamento; per non parlare del fatto che l’attuale processo di divisone del lavoro crea un tipo di essere umano che non sa fare praticamente nulla, o quasi nulla, al di fuori del suo ridottissimo ambito lavorativo, di conseguenza sarebbe capace di “autogestire” solo le proprie attività… che nella maggior parte dei casi non possono esistere se non nel contesto della società capitalista. Infine, poco importa ai marxisti, malgrado la loro feticizzazione della Storia, che Marx ed Engels scrissero ne L’ideologia tedesca che “gli individui attuali debbono abolire la proprietà privata, perché le forze produttive e le forme di relazioni si sono sviluppate a tal punto da essere diventate, sotto l’imperio della proprietà privata, delle forze distruttive”[6]. Sono passati centosessanta anni da quando sono state scritte queste righe, ma ai marxisti di ogni sorta questo non interessa: una volta scoperta la pietra filosofale della critica sociale, cioè il fatto che viviamo in una società capitalista (o spettacolar-mercantile), non c’è null’altro da dire. Inoltre, ci sono quelli che si ostinano instancabilmente a salvare la teleologia di Marx, continuando a credere che “lo sviluppo delle forze produttive” continua a produrre, qua o là, le condizioni che permettono una rottura con l’esistente: al solito, come no, grazie all’informatica. Da qui la proliferazione di una vera e propria corrente di pensiero universitario (le cui teste pensanti più visibili sono Antonio Negri e Paolo Virno) che continua ad applicare alla lettera il principio del Manifesto del Partito comunista secondo il quale “le armi di cui la borghesia si è servita […] si ritorcono oggi contro la borghesia stessa”, etc. L’arma è in questo caso l’informatica, avatar postmoderno del general intellect marxiano.

Per quanto riguarda gli anarchici si può fare un discorso quasi analogo. È eloquente il fatto che essi non prendano in considerazione che un solo aspetto della questione dell’oppressione tecnologica, cioè l’aumento del controllo sociale attuato dalle nuove tecniche di vigilanza. Il dominio esercitato sulle nostre vite dallo sviluppo tecnico si riduce pertanto alle videocamere di sorveglianza, al programma Echelon[7], all’infiltrazione delle telecomunicazioni, etc. Sembra invece che sfugga loro il resto delle sottomissioni alla macchina industriale che conformano la quasi totalità della nostra vita quotidiana, a cominciare dall’onnipresenza dell’informatica, che è ancora più nociva proprio per la sua subdola immaterialità.

In secondo luogo, esiste una maniera di recuperare la critica dei danni inflitti dall’industrialismo riducendola a “un altro fronte di lotta”. Per molte persone, la devastazione causata dal capitalismo industriale non è che una strofa in più da aggiungere alla litania delle accuse contro il Sistema: no al fascismo, no al razzismo, no al patriarcato, no all’inquinamento, etc. L’importanza fondamentale del salto irreversibile compiuto da questa società è così ridotta al livello di un altro pretesto per giustificare il vittimismo. Inutile dire che questa visione aiuta moltissimo a dissimulare i danni i danni dell’ultramodernità; si veda per esempio l’infame analogia stabilita dagli hacker tra la “brevettabilità del vivente” e la “brevettabilità dei software”, come se le due cose fossero comparabili.

Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017. [particolare]
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Un’altra obiezione, molto più onesta delle precedenti, che viene sollevata contro la critica antiprogressista è che questa non risulterebbe molto attrattiva a causa del suo pessimismo. Più che di un’attitudine pessimista, bisognerebbe parlare di una realtà oppressiva: qualificare i Los Amigos de Ludd[8] per profeti di sciagura, come viene spesso fatto, equivale a voler uccidere il messaggero. Tornerò poi sulla questione delle “illusioni rinnovabili” (evocate in un libro pubblicato dall’EdN), d’altronde ho l’impressione che la critica antiprogressista abbia ancora delle cose da dire al riguardo. Sembra infatti che questa critica non abbia ancora concluso il suo sviluppo, restandogli da compiere un lavoro di demolizione (di idee saldamente assestate) che è ben lontano dall’essere giunto a termine. Il suo interesse sta esattamente nel rifiutarsi di fornire uno slogan demagogico o una ricetta riassumibile in quattro parole tanto per guadagnare dei proseliti. Per il momento è già abbastanza prezioso cercare di superare gli approcci manichei o vittimistici e far appello alla ragione delle persone piuttosto che alla loro pancia.

In quanto alle obiezioni da considerare a proposito della necessità di questa critica antindustriale, ne vado a enumerare qualcuna. È evidente, in primo luogo, che non tarderà a incontrare il suo limite. In effetti, poiché la sua analisi parte dalla constatazione che non esiste oggi alcun soggetto rivoluzionario, e che le circostanze rendono sempre più difficile che un tal soggetto possa costituirsi (e niente lascia pensare che questa tendenza debba invertirsi in un prossimo futuro), diventa necessario domandarsi: e allora, cosa fare? Al di fuori dell’iniziativa individuale, in cui ciascuno può capire cosa fare per conservare un minimo d’igiene mentale nei limiti concessi dalla camicia di forza industriale, quale spazio resta per l’attività politica? Secondo Kaczynski, la presa di coscienza che può nascere tra il momento presente e l’insorgere del “disastro” sarà decisiva per un futuro cambiamento sociale. Ma questa attesa di una catastrofe (sociale, ecologica, umana) assomiglia a una nuova variante dell’idea determinista della “battaglia finale”, com’era per il vecchio movimento operaio. Al contrario René Riesel, in Del progresso nella domesticazione, considera che “delle occasioni inaspettate di rovesciare il corso delle cose, foss’anche solo il tempo di un lampo, restano sempre possibili in un sistema così imprevedibile per se medesimo”[9]. (Vale la pena segnalare che non troppo tempo fa Riesel ha passato diversi mesi in prigione per aver partecipato a delle azioni di sabotaggio di prodotti transgenici).

Detto questo, è giusto riconoscere che il termine “società industriale” è molto ambiguo: a partire da quale momento possiamo dire di essere entrati in una società di questo tipo? È difficile proporre una data; nelle sue Note sul Manifesto contro il lavoro del gruppo Krisis[10], Jaime Semprun sostiene che “bisogna ammettere che nel corso del XX secolo, diciamo tra Hiroshima e Chernobyl, abbiamo attraversato uno spartiacque storico” e Riesel, nella sua opera citata, scrive che “Auschwitz e Hiroshima possono essere considerati allo stesso tempo come un risultato, una matrice e una chiave di comprensione dei benefici dello sviluppo tecno-economico”[11]. Possiamo dunque supporre (sempre a partire da osservazioni come quelle esposte, dal momento che nessuno dei critici ha proposto una definizione stringente) che la società industriale non si è instaurata agli inizi del XIX secolo con la cosiddetta Rivoluzione industriale, ma che ha dovuto attendere il XX secolo per consolidarsi; non solamente sviluppando le basi materiali che le hanno permesso di perpetuarsi come sistema esclusivo – cioè distruggendo i modi di vita preindustriale che, secondo Riesel, “permettevano di seguire altri cammini rispetto a quelli imposti dallo sviluppo industriale” –  ma anche modellando, parallelamente, gli esseri umani che vivono al suo interno. Se è così, è inevitabile giungere alla conclusione che la critica di questo sistema arriva troppo tardi. Come avviene anche ora, i presagi delle “Cassandre logiche”, che avvisano che non può esserci emancipazione possibile nel quadro della società industriale, non sono mai stati molto ascoltati e, salvo quale raro caso, non sono usciti dagli ambienti “radicali”[12].

Resta il fatto che il concetto stesso di “società industriale” pone qualche problema. Jacques Ellul, uno dei riferimenti fondamentali per la critica antiprogressista, lo rifiutava trovandolo “impreciso” e “privo di significato”[13]. È ovvio che a una realtà tanto difficile da definire non si riesca ad opporre un discorso teorico interamente coerente: ne Il fantasma della teoria, lo stesso Semprun sostiene che non esiste oggi alcuna teoria critica capace di indicare dei “punti di applicazione” sui quali agire. In queste condizioni, la suggestione formulata da Riesel di “riavviare il processo storico di umanizzazione” appare un po’ astratta. Questo concetto di “umanizzazione” merita di essere precisato[14]. Quando Semprun scrive che “l’umanizzazione iniziata è restata incompiuta e le sue fragili esperienze si disfano”[15] è evidente che egli non ha più in mente l’obiettivo rivoluzionario di una società senza classi, ma qualcosa di più elementare: il ristabilimento di condizioni minimali che rendano possibile un cambiamento, che non potrà aversi senza passare preliminarmente per un’epoca traumatica, nella quale ci troviamo già adesso. Mandosio, da parte sua, riconosce che l’obiettivo della deindustrializzazione è “molto vago”[16].

Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017. [particolare]
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Ciò che questa critica del progresso (o delle diverse concezioni di progresso) sta prospettando è una revisione di molte idee date fino ad oggi per acquisite. La filosofia della storia di Marx, ereditata a sua volta da Hegel, stabiliva una progressione della storia umana divisa in preistoria, società schiavista, società feudale, società capitalista e società comunista. Se ammettiamo che il capitalismo ha distrutto tutte le vie di accesso a questa società senza classi, lo schema non funziona più. Eppure questo schema, che l’anarchismo fondamentalmente ha sempre condiviso, era coerente: di conseguenza, se togliamo il “mattone progressista” dell’edificio della critica rivoluzionaria “classica”, marcata in modo più o meno esplicito dal famoso “materialismo storico”, trema tutta la costruzione[17]. È auspicabile? Io rispondo categoricamente: sì.

Per il momento la critica del progresso riesce a porre le domande giuste, ma non dovrà in nessun caso aspirare a una mera crescita quantitativa. Non si tratta di inaugurare la moda dell’antindustrialismo, ma di stabilire una manciata di verità che possano servire a orientarsi di fronte a quello che verrà, che rimane imprevedibile. Nella postfazione scritta nel 2004 alla sua Storia di dieci anni dell’EdN, Miguel Amorós, che era stato membro di detto collettivo, dice che “quello che è ora urgente sono le tattiche di resistenza immediata, la circolazione delle idee, la salvaguardia del dibattito pubblico, le pratiche di solidarietà effettiva, l’affermazione della volontà sovversiva, la preservazione della dignità personale, la rottura con il mondo della merce, il mantenimento di un minimo di linguaggio critico autonomo…”[18]. Ma qui si mescolano attività personali con azioni più politiche e in quanto programma risulta decisamente ambiguo.

Ai suoi inizi, l’EdN attribuiva alle lotte di resistenza contro le nocività un ruolo più importante di quello che hanno poi realmente avuto; l’esperienza ha dimostrato che le lotte di questo genere non sono quasi mai riuscite a uscire dal quadro delle rivendicazioni concrete che le aveva fatte nascere. Si può dar la colpa di questo fallimento all’epoca, ma allora era senza dubbio sbagliato riporre troppe speranze nelle possibilità di queste lotte “contro le nocività”. L’EdN, che partiva dalla critica formulata dall’Internazionale situazionista nella sua ultima fase (“i primi frutti del superamento dell’economia non solo sono maturi: hanno incominciato a marcire” e “l’inquinamento e il proletariato sono oggi i due aspetti concreti della critica dell’economia politica”[19]) vedeva senza dubbio nella lotta contro le nocività la nuova necessità storica che avrebbe retto le future lotte contro il dominio. Ad ogni modo, con la prospettiva vantaggiosa della distanza, vediamo che non è stato così: questo sistema ha fatto della devastazione la norma e ha creato un genere di umanità che aspira soltanto ad adeguarsi ad essa. Forse aveva ragione Ulrich Beck quando diceva ne La società del rischio che l’estensione generalizzata delle nocività industriali “non genera un’unità sociale visibile per se stessa e per gli altri”, né “niente che possa organizzarsi in strato, gruppo o classe sociale”[20].

Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017. [particolare]
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Un disfattismo illuminato?

Tornando al tema centrale del presente articolo: quale futuro ha questa critica? Spesso è stata accusata di essere un “disfattismo illuminato”. Quando questa accusa è in buona fede non è del tutto priva di fondamento, nel senso che la critica antiprogressista non procede da una visione teorica unitaria e positiva della critica sociale. Nondimeno, nell’attuale disfatta di tutto ciò che lasciava aperta una possibilità di cambiamento sociale, mantenere vivo il linguaggio della critica non è cosa da poco, sebbene bisogni riconoscere che la prospettiva di essere il testimone più lucido dell’affondamento del sistema industriale non è che una magra consolazione.

Ricordiamoci che una delle tesi fondamentali degli “anti-industriali” è che la società attuale ha ridotto quasi a zero le possibilità di intervento politico[21]. Quello che prospettano è chiaramente un ripiego, o un riarmo, che non vuol dire rimanere in casa a braccia conserte, ma resistere ai canti delle sirene dell’attivismo spettacolare e dedicarsi a una riappropriazione dei saperi sottratti dal capitalismo o partecipare a delle lotte concrete quando si presentano le condizioni adeguate: penso in particolare al caso della “Prestige” quando di fronte alla marea trionfante della piattaforma “Nunca máis” non si alzò fermamente quasi nessuna voce contro tanta ingenuità; si dirà che non poteva andare in altro modo, ma non lo credo. Mi sembra piuttosto che le persone più coscienti non abbiano osato sfidare l’idea condivisa dalla maggioranza, secondo la quale bisognerebbe sollecitare una maggior efficacia nella gestione tecnica dei disastri industriali[22]. E potrei citare molti altri esempi analoghi. Tocchiamo così quel limite di cui parlavamo prima: Miguel Amorós afferma nel testo sopra citato che “nel migliore dei casi la critica rivoluzionaria c’è già arrivata, e nel peggiore, sarà lo stesso se ci arrivi o meno”[23].

È innegabile che molte pratiche che vogliono essere sovversive incorrano nel volontarismo: quali che siano le condizioni in cui si sviluppano, delegano ogni possibilità di successo o di sconfitta allo slancio attivista, con le conseguenze che sappiamo. Evidentemente, la critica antindustriale parte dalla rinuncia all’idea di rivoluzione o, per meglio dire, della possibilità di rivoluzione nel momento attuale. Credere che una rivoluzione possa aver luogo oggi, come fanno gli “altermondialisti” più allucinati, è un’idea reazionaria. Malgrado tutto, è difficile che una tale attitudine si riveli attraente per qualcuno. In un libro recente, Nel calderone del negativo, Mandosio parla dell’illusione rappresentata dall’idea secondo la quale basti che la società industriale cambi di mano perché si metta al servizio dei bisogni umani, sostenendo che il desiderio di universalizzare i privilegi materiali che questa società offre oggi solo a qualcuno è uno dei pilastri che ne garantisce la sopravvivenza. Stando così le cose, è difficile che un cambiamento sociale che implichi una rinuncia alle comodità che, lo si voglia negare o no, la devastazione dell’ambiente offre a pochi, possa apparire desiderabile a molti. E io non sto parlando qui delle masse inebetite che vanno in macchina all’Ikea a sprecare quel poco che guadagnano; chi più, chi meno, siamo tutti prigionieri della società industriale che ci veste, ci distrae e ci riempie la pancia; con dei surrogati, certo, ma avendo eliminato la possibilità di farlo in altro modo.

Sembra assai poco probabile che la critica antindustriale riesca a svegliare gli entusiasmi se non offre anche un sogno al quale aderire (è quello che fa il primitivismo, fabbricando a misura di ciascuno uno “stato di natura” che permette di sognare); ma il problema è che lo scopo di questa critica è precisamente di demolire tutte le illusioni. Il tempo dirà se la prospettiva della deindustrializzazione è solo una chimera in più o se detiene qualche possibilità di realizzarsi.

Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017. [particolare]
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[1] Unabomber è il nome dato dalla stampa statunitense all’autore di diversi attentati compiuti tra il 1978 e il 1995 contro importanti rappresentanti della società tecnologica.

[2] Il manifesto di Unabomber. La società industriale e il suo futuro, Roma, Stampa alternativa, 1997.

[3] Jean-Marc Mandosio Après l’effondrement. Notes sur l’utopie néotechnologique, Parigi, EdN, 2000, p. 204.

[4] Jaime Semprun, Le fantôme de la théorie, in «Nouvelles de nulle part», n. 4, set. 2003, poi in appendice a Réné Riesel e J. Semprun, Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable, Parigi, EdN, 2008. Trad. it.: <https://enoizapicname.files.wordpress.com/2013/04/il-fantasma-della-teoria.pdf>.

[5] Non possiamo fare a meno di notare, di passaggio, il fatto incontestabile che la critica ecologista non è nata negli ambienti anarchici o marxisti, gli uni e gli altri così impregnati, nella loro maggior parte, dal mito del progresso, ma negli ambienti che essendo politicamente più timorati erano però più sobri nella loro visione del mondo, come ad esempio il bioregionalismo e altre correnti ecologiste degli anni Cinquanta e Sessanta. È d’altra parte chiaro che stiamo generalizzando: storicamente ci sono stati sia marxisti che anarchici che non si sono arresi alle promesse del progresso

[6] Karl Marx, Friedrich Engels, L’ideologia tedesca, Libro 1, III, Nuovo Testamento: ‘Io’, 6 (Il cantico dei cantici o l’Unico).

[7] Per Rete Echelon si intende un sistema interstatale di sorveglianza e intercettazione di comunicazioni pubbliche e private.

[8] Gruppo anti-industrialista spagnolo, editore dell’omonima rivista «Los Amigos de Ludd. Boletín de información anti-industrial», uscita in 7 numeri tra 2001 e 2004.

[9] R. Riesel, Del progresso nella domesticazione, in Id., Sulla zattera della medusa, Torino, 415, p. 223.

[10] J. Semprun, Notes sur le Manifeste contre le travail du groupe Krisis in «Nouvelles de nulle part», n. 4, set. 2003, poi in appendice a R. Riesel, J. Semprun, Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable, cit.

[11] R. Riesel, Del progresso nella domesticazione, cit., p. 215.

[12] Cf. Jean-Marc Mandosio, Nel calderone del negativo, Torino, 415, 2005, p. 114.

[13] Kaczynski disse di aver trovato assolutamente entusiasmante il libro di Jacques Ellul, La tecnica: rischio del secolo (1954), che lesse agli inizi degli anni Settanta.

[14] La prima parte de Il mito della macchina di Lewis Mumford contiene il miglior tentativo di definizione del concetto di “umanizzazione”.

[15] J. Semprun, L’abisso si ripopola, Milano, Colibri, 1999, p. 76.

[16] J.-M. Mandosio, Nel calderone del negativo, cit., p. 116.

[17] A meno che non si voglia vedere nella catastrofe attuale la realizzazione di un’idea enigmatica del Manifesto su cui Marx ed Engels non sono più ritornati, cioè che la lotta di classe si possa concludere “o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta”, questa volta in senso letterale (K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito comunista, I Borghesi e proletari). L’EdN difatti, seguendo Hannah Arendt, parla della dissoluzione delle classi sociali nelle masse…

[18] Miguel Amorós, Postfacio, in Historia de diez anos: esbozo para un cuadro histôrico de los progresos de la alienaciôn social, Madrid, Klinamen, 2005, p. 81 (Histoire de dix ans è originariamente pubblicata in «Encyclopédie des nuisances», n. 2, feb. 1985).

[19] Tesi sull’Internazionale situazionista e il suo tempo, in Internazionale situazionista: la vera scissione, Roma, Manifestolibri, 1999, par. 8 e 17.

[20] Ulrich Beck, La società del rischio: verso una seconda modernità, Roma, Carocci, 2000.

[21] “La formidabile organizzazione tecnica dell’attuale società nega che possa prodursi una messa in moto rivoluzionaria”, si legge in La fine di un’epoca («Los Amigos de Ludd», n. 7, giu. 2004); questo testo fa eco all’articolo intitolato L’inizio di un’epoca, con il quale si apriva l’ultimo numero della rivista «Internazionale situazionista» (n. 12, 1969) pubblicato dopo gli eventi del maggio 1968.

[22] Cfr. Los Amigos de Ludd y Los Enemigos del mundo industrial, Disastro della Prestige o disastro della coscienza; Prestige: i segreti dell’adattamento moderno, Bologna, Acrati, 2004 (entrambi i testi, uniti a una autointervista a Los Amigos de Ludd, anche in A proposito del naufragio della petroliera “Prestige”, Bologna, La mala erba, 2003).

[23] M. Amorós, Postfacio, in Historia de diez anos, cit., p. 81.

Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017.
Blu, street art a Campobasso, La cuccagna, 2017.

Ho pianto e ho riso. Dal Piemonte in fiamme (#9)

Ho pianto e ho riso.
Dal Piemonte in fiamme
Di Francesco Richetto, Bussoleno, Val di Susa

Provo a chiudere in poche righe alcuni tratti salienti di un’esperienza gran­de e dolorosa, gli incendi boschivi in Piemonte, in particolare in Val di Susa.

Riduco il mio racconto alla valle che molti conoscono per la lotta al pro­getto Tav Torino-Lione. Stringo sul territorio perché gli incendi piemonte­si erano di una tale ampiezza, intensità e pericolosità che le persone impe­gnate nello spegnimento forse neanche a oggi hanno avuto la possibilità, se non con le immagini satellitari, di vedere l’intero territorio colpito. Espe­rienze che si sono dunque intrecciate da valle a valle lungo buona parte dell’arco alpino occidentale.

Da noi si inizia a Bussoleno il 22 ottobre e si chiude a Mompantero lunedì 30. Vento forte e pioggia che manca da oltre 90 giorni generano condizio­ni ottimali per un incendio senza eguali dal lontano 2003. Partono così i roghi da un primo piccolo focolaio, che in soli 30 minuti diviene ingover­nabile da terra e inattaccabile dall’aria. Con gli elicotteri impossibilitati ad alzarsi, arrivano subito da Genova i canadair ma neanche per loro la sorte non è migliore. I lanci vengono nebulizzati e a terra non arriva pressoché nulla. La storia non cambia dal resto degli incendi piemontesi e italiani post riforma Madia. Vigili del fuoco incaricati dello spegnimento che per la prima volta provano le loro capacità con il livello più difficile possibile. Forestali spediti a fare le indagini che buttano mezzo secolo di cultura dello spegnimento boschivo nel cesso. Unica vera risposta l’azione territoriale, organizzata dalle forze AIB (volontari Antincendio Boschivo) e dai movi­menti.

Provo dunque a lanciare due focus unici che forse hanno contraddistinto le esperienze del nord o meglio del Piemonte, per non essere banale e ripetere concetti ormai chiari a chi è andato a cercarsi un paio di notizie e spiega­zioni in più, oltre i media scandal nazionali.

L'incendio in Val di Susa, foto di Luca Perino.
L’incendio in Val di Susa, foto di Luca Perino.

 

Gli antincendi boschivi AIB unici in Italia sono delle associazioni di volon­tariato di protezione civile. Nate alla fine degli anni Settanta come squadre comunali, poi regionali, oggi sono un fiore all’occhiello della macchina di protezione civile nazionale. La squadra di Bussoleno, paese in cui sono nato e in cui vivo, ha partecipato a tutte le più grandi missioni di soccorso dalla fine degli anni Novanta in Jugoslavia, passando per il dramma di

Haiti, ai terremoti dell’Aquila e di Amatrice o alle ricerche di Rigopiano. In ogni paese, anche il più piccolino, c’è una squadra con almeno un paio di pick up con motopompe ad alta pressione e un piccolo serbatoio per l’acqua.

Associazioni con un coordinamento di valle, provinciale e regionale, tanta passione per la montagna, rispetto per l’autonomia e la libertà di interven­to, poca gerarchia e cultura militaresca, giusta risolutezza e organizzazione nel momento del pericolo. In soli 15 minuti dalla chiamata di un’amica che abita in montagna una squadra è attiva sul fronte delle fiamme, ma nulla può date le condizioni. In poche ore, alle 12 del 22 ottobre in tutto il Piemonte si sono attivate oltre 250 sezioni con circa 3000 volontari. A coordinare lo spegnimento i Vigili del fuoco che sapientemente colgono l’esperienza e la macchina “civile” ascoltando e muovendo con invidia i loro mezzi a seguire l’eccellente mobilitazione.

Il territorio tutto, sindaci, cittadini e movimento No tav diventa in poche ore bagaglio di relazioni e conoscenze unico. Posate le bandiere sui balconi si imbracciano le pale o le tute o le fasce da primo cittadino. Caso sim­patico quello di Caprie, paese della bassa valle devastato dalle fiamme in cui Paolo è un sindaco No tav e allo stesso tempo capo squadra AIB della protezione civile. Apre il comune, apre il COC (Centro operativo comu­nale), coordina i Vigili del fuoco e i volontari e come in una marcia verso il cantiere del Tav si impegna per una settimana senza sonno per lo spegni­mento. Causa le ferree leggi e i regolamenti, le squadre “ufficiali” rientrano col buio insieme agli aerei, ma tolte le tute “ufficiali” le persone continuano

di notte. Vietato il controfuoco (tecnica rischiosa che consiste nell’appicca­re roghi controllati circondando l’incendio), viene in modo non pubblico usato la notte. Inizia così una battaglia campale, libera dai vincoli della macchina istituzionale, la quale si piega e ascolta assecondando e aiutando il movimento antincendio territoriale.

Sono, penso, due cose uniche che non vedevo in opera e, per fortuna, da tempo. Segnali che ci dicono come questo piccolo territorio sia cambiato e abbia saputo andare oltre la mera protesta, proponendo e costruendo una comunità nuova. Si dice che gli amici si vedono nelle difficoltà, abbiamo sperimentato anche durante l’incendio che queste non sono parole vuote.

Mompantero, foto di Luca Perino.
Mompantero, foto di Luca Perino.

 

Per me sono stati momenti unici, forse intensi come quelli del 2011 nel­la libera repubblica della Maddalena. Come in quei giorni ho vissuto in modo pieno la vita, libero dalla frustrazione di un presente difficile, colti­vando e intrecciando relazioni uniche e vere. Ancora una volta avevamo un nemico più grande di noi, abbiamo combattuto, abbiamo perso il bosco, migliaia di ettari di natura, ma abbiamo salvato oltre 600 persone e tutte, ripeto tutte le loro abitazioni. Abbiamo perso un paio di borgate con se­conde case, un danno immenso ma sono sicuro che sapremo ricostruirle. Non ci siamo fermati mai e mai abbiamo perso coraggio. Ho pianto e ho riso. Una mattina, dopo due giorni infiniti di fiamme, ricevo via radio: “AIB colonna Vercelli per regionale in partenza Valsusa”, sono scoppiato in lacrime. Decine di mezzi in arrivo. Non ci siamo mai sentiti soli e di questo dobbiamo veramente ringraziare tutti. Quando poi la situazione diventava drammatica, ad esempio nei corridoi pieni di fumo della casa di riposo di Susa con oltre 200 anziani da sgomberare, ecco arrivare il sorriso. In puro idioma locale “siete contenti? oggi andiamo a fare una bella gita! Guardate che bei pullman che ha mandato il sindaco”. E avanti a ridere spingendo carrozzine e radunando i pochi oggetti utili nella fuga. Anche qui niente danni, tutti a casa il giorno dopo con le fiamme spente a poche decine di metri dall’edificio.

Dai ministeri invece poco o nulla. Non ci siamo lamentati neanche per un minuto, cosa potevamo aspettarci da chi ogni giorno vuole farci diventare un corridoio bucando le nostre montagne?

Servirà ragionare a fondo e costruire dei percorsi unitari per mettere in sicurezza il territorio italiano, ottenere lo spostamento delle risorse dagli investimenti inutili. Portare con queste esperienze esempi concreti da cui ripartire. Pensare che il futuro è in mano nostra, nelle emergenze e nella vita quotidiana. Costruire percorsi conflittuali forti, radicali che sappiano essere però utili sempre e modifichino la nostra vita e il mondo che ci cir­conda dal primo giorno.

Allego alcune righe di ringraziamento al movimento No tav ricevute dopo la “battaglia” di Mompantero.

Mompantero, 29/10/2017
Salve, mi chiamo Riccardo, sono un caposquadra dei Vigili del fuoco, nella mia quasi trentennale carriera pensavo di aver visto di tutto di più, ma una simile devastazione del patrimonio boschivo per me è la prima volta.
Giunto a Mompantero da Torino mi venne affidato il compito di presidia­re la frazione di Marzano, in quanto gli incendi boschivi avrebbero potuto interessare anche le abitazioni. Da subito mi attivavo per capire quali forze e mezzi avevamo, e venni preso dallo sconforto. I tagli voluti dalla politica si fanno sentire, pochi uomini, pochi mezzi e purtroppo alcuni solo par­zialmente funzionanti, fra tutti avevamo solo due motoseghe.
Con due sole motoseghe era una partita già persa prima ancora di comin­ciare, ma la fortuna volle che a S. Giuseppe in mattinata incontrai Daniele, un mio amico d’infanzia, il quale mi disse che si stava adoperando con tanti amici No tav per ripulire le zone boschive vicino alle borgate. Non poteva offrire un aiuto migliore, un colpo di telefono e tempo meno di un’ora mi sono arrivati gli amici di Daniele. Così fra le nostre due motoseghe e i 14 colleghi, una squadra di operai forestali, qualche AIB e tanti ragazzi No tav volenterosi è stata fatta una pulizia di tutte le zone circostanti l’abitato fino a pochi minuti prima dell’arrivo delle fiamme, quando ormai era troppo pericoloso e vennero invitati ad abbandonare la zona.
Non saranno mai abbastanza i ringraziamenti per questi ragazzi e ragazze, che invece di perdere tempo a scattare foto col cellulare, si sono rimboccati le maniche e hanno fornito un aiuto indispensabile senza il quale molto probabilmente la frazione di Marzano non esisterebbe più.
Grazie da parte mia a tutti i colleghi permanenti e volontari e a tutti quanti hanno partecipato a qualsiasi titolo; anche solo portandoci qualcosa da bere hanno fatto un gran bel gesto di altruismo.
In 27 anni non mi sono mai tirato in­dietro davanti alle fiamme e non vole­vo farlo di certo og­gi, grazie per aver­mi aiutato, e ricor­date che l’unione fa la forza, loro ci vogliono divisi.

Riccardo

L’incendio del Morrone, i volontari, le istituzioni (#9)

L’incendio del Morrone, i volontari, le istituzioni
Intervista di Luigi a Savino Monterisi

Ricorderemo l’estate 2017 per la siccità e il caldo soffocante. Ma anche per il gran numero di incendi boschivi che hanno mandato in fumo ettari su ettari di territorio: una piaga in realtà non nuova, che con alti e bassi si ripete ogni estate, tanto che dal 2010 a oggi la somma totale delle superfici bruciate in Italia raggiunge l’incredibile cifra di oltre 446.000 ettari, in pratica come se fosse andata a fuoco una zona vasta quanto il Molise[1].

Nonostante capiti ancora di vedere qualche sciagurato che lancia il mozzicone acceso dall’automobile, in realtà quella dell’incauto fumatore colpevole di innescare l’incendio è una figura in buona parte leggendaria. Ancora più improbabile è l’autocombustione e rarissimi gli inneschi per cause naturali (fulmini). Non altrettanto insoliti, invece, sono i roghi colposi, dovuti a irresponsabilità o distrazione, talvolta legati all’incapacità di gestire quell’utilizzo controllato del fuoco che, tradizionalmente, veniva messo in opera come strumento rapido ed economico per eliminare residui di colture, ripulire terreni incolti, stimolare la rigenerazione erbacea dei pascoli. Bisogna però prendere atto che la gran parte degli incendi sono di natura dolosa e non si tratta tanto dell’impulso distruttivo, patologico, della piromania, o di conflitti personali e ritorsioni di vario genere, quanto di ben precisi interessi speculativi. Distruggere boschi porta affari. È il businness degli incendi con tanto di mandanti, intermediari e idioti che appiccano le fiamme: un giro di affari che si lega innanzitutto al loro spegnimento, gestito per via aerea da società private, e poi, tramite amministrazioni compiacenti, alla bonifica delle aree colpite, allo smaltimento del materiale arso e al successivo rimboschimento o alla riconversione dei terreni a uso edificatorio.

Nell’estate appena trascorsa le regioni maggiormente colpite dal fuoco sono state Sicilia, Calabria, Campania e Lazio, ma un vasto incendio si è sviluppato e propagato per parecchi giorni anche sul parco della Majella in Abruzzo, interessando oltre tremila ettari di vegetazione di cui almeno duemila di boschi. Durante quelle terribili settimane tra fine agosto e inizi settembre abbiamo visto il coraggio e la volontà degli abitanti che si sono prontamente autorganizzati per combattere l’incendio, aiutati da volontari arrivati da vicino e da lontano, come le Brigate di solidarietà attiva che avevamo già imparato a conoscere durante l’emergenza terremoto.

Le istituzioni, al contrario, non hanno certamente brillato per efficienza. Sono innanzitutto mancate nella fase della prevenzione: già a giugno la Protezione civile stigmatizzava il fatto che sei regioni, tra cui l’Abruzzo, la cosiddetta “Regione verde d’Europa” o anche “Terra dei parchi”, non si fossero dotate di idonei strumenti per affrontare eventuali emergenze incendi[2]. Sono, inoltre, apparse del tutto disorganizzate e allo sbando nelle ore più calde, salvo mettere in mostra qualche loro rappresentante con ai piedi le scarpe da trekking, a uso dei fotografi: “le inutili passerelle a camicie di fuori e codazzi al seguito, i vertici un giorno sì e l’altro pure, gli insopportabili selfie le parole le chiacchiere gli annunci. E l’improvvisazione, l’inadeguatezza, la caduta dalle nuvole, i verbi coniugati al futuro quando il futuro è già passato. Sempre così. Oggi come sette mesi fa. Il terremoto, Rigopiano e poi gli incendi: le lezioni non insegnano nulla a questa classe dirigente roboante ed esibizionista”[3].

Per fronteggiare il fenomeno degli incendi hanno un ruolo a livello nazionale il Ministero dell’ambiente e il Dipartimento della Protezione civile, ma sono le Regioni a doversi dotare di un “Piano di previsione, prevenzione e lotta attiva contro gli incendi boschivi” e, nel momento dell’emergenza, a dover coordinare e gestire il lavoro delle squadre antincendio aeree e di terra. La situazione generale è cambiata in seguito alla Riforma Madia che nell’ambito della ristrutturazione della pubblica amministrazione ha sciolto il Corpo forestale, militarizzandone le funzioni[4]. La maggior parte dei forestali è infatti stata assorbita dall’Arma dei Carabinieri, con funzioni investigative e repressive, mentre solo una parte residuale ha portato le proprie competenze in materia di effettivo contrasto degli incendi boschivi nel corpo dei Vigili del fuoco, da sempre specializzato in interventi di spegnimento in aree urbane. Con, inoltre, inevitabili ritardi da parte di molte regioni nel trasferire ai Vigili del fuoco le convenzioni attivate con l’ex Corpo forestale[5].

Ai singoli Comuni è demandata la cura e tutela del territorio per mitigare il rischio incendi, nonché l’aggiornamento costante del catasto delle aree percorse dal fuoco al fine di predisporre vincoli di uso e quindi impedire speculazioni economiche sulle aree stesse. La legge 353 del 2000 (Legge quadro in materia di incendi boschivi), per quel che può valere una legge di fronte al tornaconto economico, è infatti chiara: per i successivi quindici anni le aree incendiate non potranno avere destinazione d’uso diversa da quella preesistente, per dieci anni sono interdetti la costruzione di edifici, così come il pascolo e la caccia, per cinque anni è vietato parlare di rimboschimento con finanziamenti pubblici. Le ragioni di quest’ultimo divieto – impedire che la stessa mano che ha interesse economico al rimboschimento sia anche quella che accende le fiamme – pare siano però sfuggite all’assessore regionale Andrea Gerosolimo, seguito a breve distanza dal presidente della Regione Abruzzo Luciano D’Alfonso, che a poche ore dal primo innesco scriveva: “superata la fase dell’emergenza e misurati gli ettari di bosco incendiato, ci attiveremo affinché sia possibile un sollecito rimboschimento anche in deroga alle norme vigenti”[6]. Una dichiarazione quanto meno inopportuna, visto che in ballo ci sono quasi 400 milioni di euro di fondi pubblici. Dichiarazione alla quale sono seguiti numerosi nuovi focolai.

I residenti e le associazioni ambientaliste presenti sul territorio, dopo essersi mobilitati per arginare e spegnere le fiamme si sono detti fermamente contrarie ai rimboschimenti: la natura è capace di fare il suo corso e di riportare la vita là dove oggi ci sono cenere e tronchi anneriti. Quello che è necessario sarà di essere presenti sul territorio montano, viverlo giorno dopo giorno, per non lasciarlo all’abbandono, al degrado, alle speculazioni di qualche avvoltoio. Siamo andati a parlare di tutto questo con Savino Monterisi del collettivo AltreMenti Valle Peligna, che dopo diversi anni passati a Roma è tornato a vivere a Sulmona e quest’estate si è ritrovato in prima linea come volontario sul fronte del fuoco.

Sulmona, 20 agosto 2017, il campanile dell'Annunziata. Studio fotografico Paradisi, Pratola Peligna
Sulmona, 20 agosto 2017, il campanile dell’Annunziata. Studio fotografico Paradisi, Pratola Peligna

 

Ci racconti cos’è successo tra agosto e settembre su queste montagne che vediamo ancora completamente annerite?

Tutto ha inizio il 15 agosto con l’incendio nel comune di Rocca Pia, poi sono iniziati gli incendi del monte Morrone, a partire dal 19 agosto nel comune di Pacentro e, mano a mano, nei giorni successivi ci sono stati altri inneschi sempre sul Morrone, andando avanti verso Roccacasale. Quando qui di fronte a Sulmona sembrava che l’incendio si stesse per spegnere, è scoppiato un nuovo fronte dall’altra parte della valle, tra i comuni di Prezza e di Raiano, che di fatto ha spostato tutte le forze sul campo dal Morrone a lì, anche perché tirava un gran vento e il fuoco stava mettendo a repentaglio le abitazioni. C’è stata quindi una specie di mossa a tenaglia. E va detto che quanto successo in Valle Peligna si incastra alla perfezione nell’attacco che hanno subito tutte le aree interne del centro Italia, a partire dal Monte Giano, a Rieti, alla Marsica e poi più giù fino in Campania.

Non so per l’incendio di Rocca Pia, ma quello di Pacentro, del Morrone di Sulmona e della montagna di fronte sono iniziati nella stessa maniera, con lo scoppio di tre inneschi: ci sono delle foto in cui si vedono nitidamente i tre pennacchi di fumo concentrati nella stessa area. Ci sono ancora indagini in corso, ma pare che siano state ritrovate taniche di benzina con dei temporizzatori, quindi non parliamo di un rozzo innesco ma di una tecnica abbastanza sofisticata.

Sembra ci sia stata una precisa regia dietro questi incendi, voi che idea vi siete fatti?

Sicuramente sono incendi dolosi e sicuramente c’è una regia, questo è evidente. Anche il procuratore Bellelli ha affermato che dietro questi incendi ci sarebbe la mano di un “unico disegno criminale”. Ma questo lo dicono i fatti. Basta mettere in fila dei dati, a partire dall’estrema accuratezza con la quale il piano è stato messo in campo, l’uso dei temporizzatori, il posizionamento degli inneschi in zone impervie, in pendii molto ripidi, in giornate ventilate. Poi però non so dirti quale sia stata la regia, cioè chi materialmente sia stato, può essere stata un’organizzazione criminale così come un pazzo esperto di montagna. Non abbiamo prove.

La mappa degli inneschi
La mappa degli inneschi

 

Abbiamo visto che molti volontari, e anche tu stesso, vi siete autorganizzati per aiutare a spegnere l’incendio, com’era la situazione?

Per tre giorni si è cercato di spegnere l’incendio solo attraverso lo sgancio di acqua dai Canadair e dagli elicotteri. Il terzo giorno la gente s’è rotta di questa storia e ha detto: se nessuno si organizza, ci organizziamo da soli e saliamo noi a spegnere le fiamme. Così, spontaneamente, ha preso ed è salita sopra. C’è da dire che qui in Valle Peligna non c’è una grossa cultura degli incendi. L’ultimo importante incendio è del 1994, sul monte Playa nel Massiccio del Genzana, dove anche lì la gente si era organizzata autonomamente, però stiamo parlando di più di vent’anni fa. Prima di quello, il Morrone era già stato interessato da altri due incendi, nel 1974 e 1978.

I primi a salire sono stati dei ragazzi che la domenica mattina, quando è scoppiato l’incendio del Morrone, si trovavano in un rifugio dove erano andati a passare una nottata. C’era fuoco sulla strada carrabile e quindi hanno dovuto lasciare i mezzi lassù e sono scesi a piedi, passando da un’altra parte della montagna che non era ancora interessata dalle fiamme. Arriva il mercoledì, con la montagna che brucia e i Vigili del fuoco fermi a valle: questi ragazzi hanno deciso di risalire, almeno per andarsi a riprendere i mezzi. Il giorno successivo, vedendo che la cosa era fattibile, quello stesso gruppo di persone è di nuovo tornato sul monte per iniziare a spegnere le fiamme basse che avanzavano verso nord.

Il giovedì sera i Vigili del fuoco iniziano a lamentarsi dicendo che i volontari erano d’intralcio perché impedivano il lavoro dei Canadair: una cosa falsissima, io stesso quando sono stato sopra ho visto che non c’era davvero nessun problema di questo tipo. Tant’è che se parli con gli ex Forestali che si sono occupati di antincendio ti dicono che quando scoppiava un incendio la prima cosa che facevano era andare nella piazza del paese a reclutare volontari, creando di fatto una squadra antincendio, ovviamente mettendoli in sicurezza e facendo loro fare quello che potevano. È mancato proprio questo.

Poi il prefetto ha imposto al Comune di Sulmona di emettere un’ordinanza contro i volontari, impedendo di fatto a chiunque di salire sopra. Chi voleva dare una mano si sarebbe dovuto andare a registrare al Centro operativo comunale. Noi la mattina siamo andati lì, ci saranno stati almeno un centinaio di ragazzi pronti, con le pale e tutto. Aspettiamo un po’ ma non si vede nessuno, dopo un’oretta capiamo che ci stavano a fare la melina e allora ce ne siamo andati sopra per i fatti nostri. È davvero sembrata un’esca per non tenerci in mezzo alle scatole, una serie di disorganizzazioni continue.

L'incendio al Parco della Majella. Foto di Savino Monterisi
L’incendio al Parco della Majella. Foto di Savino Monterisi

 

Le istituzioni come si sono mosse?

Intanto c’è la Regione, che dovrebbe predisporre un piano antincendio. A fine giugno alcune associazioni ambientaliste hanno scritto una nota alla Regione Abruzzo chiedendo conto della mancanza di un piano adeguato, poi la Regione in qualche modo si è adeguata e, come forze aggiuntive antincendio, prescrive una squadra composta da quattro Vigili del fuoco per ogni provincia – cioè in totale sedici Vigili del fuoco – più un elicottero. Ai primi di agosto un barbecue sfugge di mano a dei ragazzi a Campo Imperatore, dove erano radunate moltissime persone per una rassegna organizzata dalla Camera di commercio; prende fuoco una pineta per non so quanti ettari e addirittura il fuoco arriva fino quasi a Rigopiano, ovviamente senza che si riuscisse a spegnerlo. Le forze in campo erano veramente debolissime.

In generale, abbiamo visto grossi problemi di disorganizzazione legati al fatto che quest’anno, per la prima volta, la gestione dello spegnimento spettava ai Vigili del fuoco e non alla Forestale, sciolta dal decreto Madia. Io non sono uno di quelli che dice che la Forestale debba essere ricostituita, non mi interessa la discussione in questi termini, quello che mi interessa è che ci sia un corpo specializzato per lo spegnimento degli incendi boschivi. Il problema, infatti, qual è? Che quando prima scoppiavano gli incendi sostanzialmente ci si divideva tra i Vigili del fuoco che si mettevano a protezione delle strutture e la Forestale che, insieme ai volontari, attaccava l’incendio nel bosco. L’incendio può essere attaccato in due modi, entrambi importanti: dall’alto, con lo sgancio di acqua, e dal basso, con l’azione dell’uomo che va a spegnere le fiamme basse nel sottobosco. C’è stato quindi questo passaggio di consegne delle operazioni di spegnimento che sicuramente non ha aiutato, ed è mancato l’ente che materialmente prendeva le persone e le portava su ad attaccare le fiamme.

Poi ci sarebbe anche l’Ente Parco della Majella: in fase di prevenzione non ha fatto nulla e addirittura per tutta la prima settimana dell’incendio il direttore era in vacanza, è rientrato quando la situazione era già da un pezzo sfuggita di mano. Da parte del Parco della Majella abbiamo visto una sostanziale insussistenza. Cioè, quella è casa loro, quelli sono i loro boschi, il loro territorio, ma non sono stati in grado di organizzare niente: abbiamo visto una completa assenza.

Volontari al lavoro sulla linea tagliafuoco. Foto di Savino Monterisi
Volontari al lavoro sulla linea tagliafuoco. Foto di Savino Monterisi

 

A un certo punto sono intervenute anche le Brigate di solidarietà attiva?

Sì. Allora, da una parte il Comune di Sulmona si è messo completamente nelle mani del DOS, il Direttore delle operazioni di spegnimento, che gli diceva di non mandare i volontari in montagna e che l’incendio l’avrebbero spento con i Canadair. Invece il Comune di Pratola Peligna, che è il comune successivo a Sulmona verso il fronte del fuoco, si era organizzato per costruire una linea tagliafuoco. Il lunedì successivo, quindi otto giorni dopo lo scoppio dell’incendio, le fiamme sono arrivate alla tagliafuoco che di fatto le ha contenute, anche se essendo una giornata molto ventilata della roba incendiaria ha saltato la linea facendo ripartire l’incendio al di là. A parte questo, si è però visto che la tagliafuoco era un argine abbastanza efficace.

Quindi il Comune successivo, Roccacasale, ha detto: facciamola anche noi, e ha lanciato degli appelli per la sua costruzione. Lì sono intervenute le Brigate di solidarietà attiva, che già conoscevamo. Ci hanno contattato da Pescara, sono arrivati in tantissimi e insieme abbiamo cominciato ad aprire questo varco in mezzo al bosco. La situazione era preoccupante perché mentre a Sulmona e Pratola l’incendio incontrava le case a valle, ai piedi della fascia montana, a Roccacasale per la prima volta il fuoco incontrava un paese nel mezzo del fronte, quindi c’è stata una grande mobilitazione, sia da parte della valle sia da fuori.

Monte Morrone, pale vs fiamme
Monte Morrone, pale vs fiamme

 

Come si costruisce materialmente una linea tagliafuoco?

La tagliafuoco è un’apertura nel bosco, larga diversi metri. Vanno avanti tagliatori esperti con le motoseghe che abbattono gli alberi e tagliano tronchi e rami, poi le persone dietro prendono questi pezzi tagliati e li buttano dal lato opposto rispetto a dove dovrebbe arrivare l’incendio e poi, ancora dietro, passa gente con rastrelli che cerca di eliminare tutto quanto può fungere da combustibile, quindi pigne, aghi, rametti eccetera.

La tagliafuoco di Pratola è stata in realtà fatta con mezzi meccanici, lì i volontari sono intervenuti pochissimo, si trattava infatti di una vecchia strada che è stata allargata con le ruspe e poi la linea si ricongiungeva a un canalone di ghiaia che scende dalla montagna. A Roccacasale era ben diverso perché si è intervenuti ad aprire quello che era un sentiero di montagna dove le ruspe non potevano arrivare. Si è fatto tutto a mano, per quattro giorni di fila… una fatica enorme! Pensa solo al problema di portare acqua da bere per tutte le decine di persone che erano a lavorare lì in mezzo alla montagna, ad agosto, con 35 gradi.

Sulmona, 12 settembre 2017, assemblea pubblica in Piazza XX settembre
Sulmona, 12 settembre 2017, assemblea pubblica in Piazza XX settembre

 

Oggi, a incendio spento e con la montagna in queste condizioni desolanti, che prospettive ci sono? Andare in deroga alla legge che vieta l’immediato rimboschimento è una soluzione o è solo un modo per specularci sopra?

Il nostro post-incendio inizia già cinque ore dopo lo scoppio dell’incendio, quando l’assessore regionale Gerosolimo, che tra l’altro non era qui perché è rientrato in valle solo il martedì mattina, a distanza scrive un post in cui parla di rimboschimento in deroga. Fa quasi un’operazione emotiva, come se volesse tranquillizzare le persone dicendo: non vi preoccupate, faremo il rimboschimento in deroga, ripianteremo tutto e subito. Secondo me, ci sta anche che lo abbia fatto in buona fede, da politico, ingenuo, ma da politico. Però, man mano che il fuoco si andava attenuando, in molti hanno cominciato a rendersi conto che questo discorso era folle, perché se noi cominciamo a parlare di rimboschimento in deroga potremmo fare proprio il gioco di chi ha messo fuoco e ha interessi economici in questo.

Inoltre, il rimboschimento non è immediatamente efficace per una serie di ragioni. Intanto perché se il problema è quello di prevenire il rischio idrogeologico con la piantumazione, allora bisogna mettere piante già grandi, che però sono più soggette al trauma dello spostamento, e comunque per contenere il rischio idrogeologico ci sono anche altre soluzioni. E soprattutto bisogna considerare che la natura ha una grande forza, una grande capacità di rigenerarsi da sola. Il monte Playa, bruciato nel 1994, se lo andiamo a vedere adesso è diventato un bosco impenetrabile, perché in realtà l’incendio è nutrimento per il terreno di un bosco. Quindi sarebbe più opportuno aspettare qualche anno, almeno i cinque anni previsti dalla legge, e poi, se alcune zone della montagna per qualche motivo non si fossero riprese, intervenire con un rimboschimento mirato, se necessario.

In città si è generato un dibattito contro il rimboschimento, anche noi come AltreMenti abbiamo fatto una serie di interventi, tra i quali un’assemblea pubblica in piazza XX Settembre, al centro di Sulmona, con più di duecento persone. E allora l’assessore regionale, dopo le sue dichiarazioni a caldo e, mettiamo, in buona fede, quando gli cominciano ad arrivare una serie di rapporti che dimostrano come il rimboschimento non serva e altri che mettono in guardia dal rischio di speculazioni… poteva anche fare una smentita! E invece addirittura è stato chiesto lo stato di calamità, che prevede la gestione dell’emergenza e la nomina di un commissario che decide su tutto, annullando totalmente la possibilità di partecipazione democratica della gente.

Il 13 settembre si è tenuta una riunione in Regione, convocata dal governatore D’Alfonso per parlare proprio di rimboschimento con i sindaci di tutti i comuni colpiti, il presidente della provincia e il prefetto. Il Comune di Pratola ha detto subito che era contrario e anche il Comune di Sulmona aveva approvato all’unanimità il rifiuto del rimboschimento. Al che l’assessore Gerosolimo, un paio di giorni prima, scrive un post dove dice che essendo lui rappresentante del territorio, farà la volontà del territorio. Alla riunione D’Alfonso non ha gioco facile, prova a spostare un po’ la questione, ma tutti i sindaci fanno capire che l’urgenza non è il rimboschimento, ma la bonifica e la messa in sicurezza del territorio. Quindi per adesso il rimboschimento non parte, ma li conosciamo bene questi… non possiamo cantare vittoria. L’assessore Gerosolimo? Non si è presentato. I suoi fedelissimi lo hanno giustificato dicendo che non è andato perché non era invitato; cioè un assessore regionale alle aree interne, in un tavolo tecnico della Regione in cui si parla di aree interne bruciate, non ci va perché non invitato… Si capisce quanto sia stata strumentale la sua posizione. Se voleva rappresentare il territorio a quel tavolo si poteva e si doveva presentare.

Volontario in azione. Foto di Savino Monterisi
Volontario in azione. Foto di Savino Monterisi

 

Visto che si è creata in questa Valle una certa mobilitazione e c’è voglia, ma anche necessità, di autorganizzarsi, è ipotizzabile una sorta di coordinamento popolare che vigili sulla messa in sicurezza del territorio, senza dover sempre dipendere dall’agire delle istituzioni?

Già quest’estate, quando stavano bruciando le montagne attorno a Sulmona, alcune associazioni ambientaliste si erano organizzate con dei “gruppi di controllo territoriale” per presidiare il massiccio del Genzana, perché si riteneva che quello sarebbe potuto essere il luogo dei successivi inneschi. Questo tipo di controllo possiamo pensare di riproporlo la prossima estate in maniera diffusa su tutto il territorio. Con una recente assemblea abbiamo avviato un percorso, che è anche un esperimento, proprio in questo senso, a partire dal monitoraggio di tutta l’attività post-incendio. Ci siamo dati il nome di “Territori uniti per la prevenzione”, anche se va detto che qui siamo in zone dove non c’è una grande cultura politica e dell’agire politico. Ma intanto ci stiamo muovendo.

Anche a livello nazionale si sente sempre più spesso parlare di messa in sicurezza del territorio, da lanciare come campagna politica. Intanto a metà ottobre siamo stati a Bergamo, al controvertice G7 sull’agricoltura, dove uno dei tavoli tematici è stato su “territorio e ambiente”. Vogliamo dire alla politica che non ci servono le grandi opere e che una sola e utile grande opera è la messa in sicurezza del territorio. Qui in Abruzzo in particolare, tra terremoto, nevicate e incendi c’è assolutamente una grossa necessità di questo.

Dopo l'incendio la rinascita. Foto di Savino Monterisi
Dopo l’incendio la rinascita. Foto di Savino Monterisi

 

[1] Cfr. Le Mani sporche degli incendi, dossier a cura dell’Ufficio comunicazione dei Verdi, 2017.

[2] Incendi, sei regioni ancora senza flotta aerea, http://www.repubblica.it/cronaca/2017/06/18/news/incendi_regioni_flotta_aerea_curcio-168458874.

[3] Lilli Mandara, Morrone, brucia anche l’onore, http://www.lillimandara.it/labruzzo-che-non-ricorda.

[4] Decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177, Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera a), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche.

[5] Cfr. Le Mani sporche degli incendi, cit.

[6] https://www.ilgerme.it/linferno-del-morrone-ritardi-della-politica.

Una casa aperta, anzi due (#9)

Una casa aperta, anzi due
Intervento di Stefano Boni

Durante i primi giorni di agosto del 2017 si è svolto a Roncitelli, piccolo paese di campagna sulle colline di Senigallia, un incontro informale che ha riunito cento persone per due giornate conviviali in cui si è discusso di un nuovo pro­getto di comunità intenzionale. L’iniziativa nasce attorno a due famiglie che hanno deciso di vivere un quotidiano meno isolato, condividendo spazi e tempi di vita. Vivono in due nuclei abitativi vicini e collegati da un terreno agricolo biologico, in una zona con una ricca storia sociale e un bellissimo quanto fragile ecosistema rurale. Vogliono aprire le proprie case a una socialità allargata ad altre famiglie e singoli basata sulla condivisione, la produzione artistica e contadina, l’ecologia e l’attenzione a forme di educazione rispettose della libertà e autonomia dei bambini. Il progetto è tuttora un cantiere aperto che coinvolge molte persone e rappresenta il tentativo di unire nella vita quotidiana passioni, lavori, responsabilità politica e personale. Stefano Boni è interve­nuto come amico e come antropologo attento al rapporto tra la dimensione individuale e quella collettiva nei processi politici di liberazione che sono in corso nella nostra società. Il suo breve discorso è stato seguito da una lunga assemblea (e da una festa ancora più lunga…) che ha messo a confronto tante esperienze concrete maturate in altri luoghi con i desideri degli abitanti del posto che cercano attivamente, e non sempre con successo, nuovi punti di riferimento e relazioni nel territorio delle Marche. Stefano ha proposto alcune idee preziose per evitare i problemi più comuni che sorgono in questo tipo di espe­rienze e per coniugare spontaneità e informalità con il necessario senso pratico. Su queste pagine continueremo a seguire lo sviluppo di questo progetto a Senigallia e, come per le esperienze di autocostruzione che abbiamo iniziato a conoscere nel numero 8, vorremmo allargare il nostro sguardo ed ascolto ad altre esperienze che stanno nascendo nei nostri territori e che racconteremo nei prossimi numeri.

Roncitelli, Senigallia, foto di Cristina Panicali [1]
Roncitelli, Senigallia, foto di Cristina Panicali
L’idea principale di oggi è quella di condividere tra noi e cercare di concretizzare, per quanto possibile, idee e progetti che potranno nascere e svilupparsi in questo contesto. Vi racconto intanto, brevemente, la mia esperienza personale, fatta di due periodi di vita collettiva. Il primo, dal 1999 al 2003, a Casa Gatti, vicino a Siena. Eravamo fondamentalmente giovani, con anche un po’ di bambini, ed è stata una bella esperienza, abbastanza “festaiola” ma si facevano anche tante cose insieme, dall’orto a iniziative di divulgazione e altro. Poi, dal 2011, sempre vicino a Siena, nel comune di Murlo, vivo in un’esperienza più familiare, che comprende adesso tre famiglie con sei bambini. In tutti questi anni, un po’ per mio interesse personale, un po’ come riflessione di ricerca, mi sono continuamente in­terrogato su questo bisogno di progettualità collettiva e comunitaria che si sta diffondendo in tutta Italia, ragionando sugli aspetti positivi ma anche sulle cause di molti fallimenti.

La ragione fondamentale di questa voglia di collettività è secondo me l’insoddisfazione rispetto al sistema esistente in cui apparentemente sia­mo super liberi, ma in realtà ci sono binari ben precisi in cui si dovrebbe percorrere la propria vita. Un primo aspetto di questa insoddisfazione è l’individualismo: l’idea di percepirsi come individui scissi da dinamiche di collettività. Riprendere il senso dello stare insieme, del costruire insieme, di essere comunità permette invece il mutuo appoggio, permette cioè di venirsi incontro quando ci sono momenti di difficoltà dei singoli, permette ai bambini di crescere insieme, che è una cosa che si sta perdendo sempre di più ma che per i bambini è fondamentale, cioè crescere in una comu­nità di bambini piuttosto che davanti a uno schermo, permette infine di percepire la piacevolezza del lavoro collettivo, fatto con persone a cui vuoi bene e che senti un po’ come fratelli e sorelle. Tutte queste sono cose che rendono la vita più piacevole.

Roncitelli, Senigallia, foto di Cristina Panicali
Roncitelli, Senigallia, foto di Cristina Panicali

Un secondo motivo di insoddisfazione è che spesso siamo ridotti al ruo­lo di consumatori. La libertà è una libertà di consumo piuttosto che un protagonismo nel crearsi un percorso di vita. Stando insieme si riescono invece a fare cose che da soli non si potrebbe, si riesce a riassumere un protagonismo anche nella parte produttiva, nella parte dell’organizzazione, della proposta culturale o politica che sia, e anche nel fare artigianale che è stato tendenzialmente devastato dall’industrializzazione, messo proprio fuori mercato, quando invece è qualcosa che ci fa sviluppare delle compe­tenze che poi ci torneranno utili sotto diversi punti di vista.

La terza ragione di insoddisfazione riguarda la produzione che è sempre più tossica. Mi riferisco alla produzione delle multinazionali e delle grandi industrie, che di certo non genera benessere. I loro prodotti non sono sa­ni, non sono pensati per noi ma per fare profitti, mentre ripensare a delle forme di autoproduzione che seguano la nostra morale, la nostra etica, è qualcosa che secondo me libera degli spazi di immaginazione e creatività, oltre alla soddisfazione di vedere che insieme agli altri si possono riprende­re in mano pezzi della propria esistenza.

Alcune di queste esperienze di vita collettiva vanno bene, creano colletti­vità, auto-reddito, permettono di promuovere una cultura alternativa. Un altro grande valore è che sono esperienze prefigurative, cioè che attraverso il piccolo portano a immaginare come potrebbe essere una società gestita in quel modo, una società di mutuo appoggio piuttosto che una società di concorrenza o meritocratica, una società di produzione artigianale piutto­sto che di produzione industriale. È chiaro che non la si realizza dall’oggi al domani, ma intanto, nel piccolo, si prefigura un’alternativa sistemica all’esistente. Questo è importante perché oggi abbiamo proprio difficoltà a immaginare un’alternativa reale: nel costruire piccole cose la si comincia invece a mettere a fuoco.

Detto questo, bisogna però essere consapevoli che raramente queste realtà si consolidano nel corso del tempo. È vero che spesso un progetto che fallisce rinasce poi sotto altre forme, ma questa dinamica deve portarci a ragionare su quali sono le cause di questi fallimenti almeno momentanei. Dunque, perché falliscono? La prima delle difficoltà ricorrenti che ho visto è l’eccesso di riflessione astratta. Spesso i gruppi nascono sul teorico, ini­ziano a discutere di grandi principi etici e finisce che ci si scazza sul nulla, perché ancora non c’è nulla di concreto. Questo investimento emotivo sul “come dovrebbe essere” è una causa di fallimento anticipato, prima ancora di riuscire a partire. Perciò il mio primo consiglio è di cominciare a fare, anche perché chi ci sarà nel fare le cose non è probabilmente quello che aveva parlato nell’assemblea ideologica iniziale, e anche perché i problemi reali del fare le cose insieme li vedi quando le fai piuttosto che quando ne parli. L’invito è quindi a sperimentare in maniera dinamica, nel fare piut­tosto che nel pensare.

Roncitelli, Senigallia, foto di Cristina Panicali
Roncitelli, Senigallia, foto di Cristina Panicali

Il secondo problema che emerge in tutte le esperienze è la cura della parte relazionale ed emotiva del gruppo. È una cosa fondamentale, che spesso anch’io all’inizio sottovalutavo: “oddio adesso tocca fare l’autocoscienza, raccontarsi gli scazzi personali…”. I gruppi sopravvivono se ci sono delle relazioni trasparenti, relazioni di sintonia emotiva, che non vuol dire do­ver andare d’accordo con tutti, né tantomeno che tutti devono diventare i tuoi migliori amici, ma vuol dire saper affrontare le difficoltà relazionali, metterle a fuoco e andare oltre. Sono le relazioni a costituire il gruppo e se le relazioni per una qualche ragione diventano bacate, tutto il gruppo collassa, a volte senza neanche dirsi la vera ragione per cui è collassato. Il processo di gestione del conflitto si può fare in mille modi, soprattutto con delle riunioni relazionali. Noi facciamo riunioni ogni tanto: una su due è relazionale, l’altra è organizzativa. Ci possono volere anche diverse riunioni per sciogliere dei nodi sui conflitti relazionali.

C’è poi la questione della proprietà. Questo è un altro ricorrente tema di conflitto che tendenzialmente si risolve adottando delle regole molto chiare. Si può anche iniziare sperimentando, ma a un certo punto biso­gna che tutti abbiano chiare le regole, perché lasciare allo spontaneismo e all’improvvisazione va bene sul breve periodo ma sul lungo termine tende a creare scontenti. Quindi: chiarezza.

Un’altra questione fondamentale è che il gruppo richiede assunzione di re­sponsabilità individuali e non delega di problemi individuali al gruppo. A volte ci si immette nel gruppo per scaricarsi di problematiche individuali: ho difficoltà a gestire i bambini e mi illudo che il gruppo in qualche modo risolva la mia problematica; ho difficoltà a trovare un salario e mi metto in gruppo sperando di… Questi sono atteggiamenti che vanno bene solo se c’è accanto anche un’assunzione di responsabilità. Mi devo chiedere di che cosa ha bisogno il gruppo? Come contribuisco al progresso del gruppo? Queste sono domande importanti, che valgono anche per le piccole cose. Ad esempio: la giornata di oggi come è stata organizzata? Quali sono stati gli sforzi per metterla in piedi? Che cosa posso fare affinché chi s’è sbattuto sia un po’ più leggero, perché chi ci ha messo i soldi possa rientrare? Qual è la responsabilità che mi posso prendere per rafforzare il gruppo?

In un contesto come quello dove siamo ora, in cui ci sono situazioni abi­tative accanto a progetti collettivi che nasceranno, quanto detto significa distinguere la parte domestica dalla parte progettuale, in modo da non far cadere solo su chi ci vive la fatica (anche a volte la pesantezza) della gestione della parte progettuale collettiva. Anche solo per organizzare una festa il lavoro è molto, a beneficiarne sono in tanti ma non è che chi abita qui faccia di lavoro il “festaiolo”, ha anche lui la sua vita e i suoi impegni. In generale, il gruppo si deve quindi interrogare su come fare per allegge­rire la pesantezza di una situazione domestica che si apre a progettualità collettive.

Una modalità organizzativa che secondo me può funzionare molto bene è il lavoro per gruppi di affinità. Evitare cioè di pensare a una sorta di regia centrale di tutto quanto, ma coinvolgere le persone su progettualità spe­cifiche sulle quali hanno voglia di essere coinvolte. Ci sarà chi si prende la responsabilità di lavorare per il forno, chi per l’orto collettivo e così si creano vari gruppi di gestione che nel loro ambito sono sovrani. Mettere tutto insieme diventa invece parecchio più complicato. Ecco, questi sono in estrema sintesi i piccoli consigli che ho per gli amici e le amiche di Roncitelli.

Roncitelli, Senigallia
Roncitelli, Senigallia