Nelle ultime settimane, il coraggio e la creatività delle proteste francesi hanno generato nel pubblico italiano un misto di vergogna e incredulità. Ma come, noi ci siamo fatti fregare e mazziare per anni senza dire niente e questi fanno il diavolo a quattro per molto meno?
Inutile insistere sulla corruzione dei nostri sindacati confederali, sulla viltà di chi ancora usa lo spauracchio di Genova 2001 per giustificare la sua passività rispetto alla violenza della polizia o su fantasmagoriche ricostruzioni storiche o antropologiche sulla diversità dei francesi rispetto al presunto carattere subalterno dei popoli mediterranei.
“Chi parla male, pensa male, vive male”, diceva bene uno che di vivere male nello stagno della sinistra italiana se ne intende.
Allora è meglio ascoltare direttamente le parole, nate da una pratica arricchita da un dibattito politico e culturale sincero, che sorgono dal fuoco delle lotte.
E provare a imparare qualcosa perché ne abbiamo estremo bisogno.
Dopo l’annuncio del ricorso all’articolo 49.3 – che ha permesso l’approvazione della riforma delle pensioni senza il voto parlamentare – la mobilitazione contro tale riforma si è riaccesa. Scioperi, blocchi, manifestazioni diurne e marce notturne si moltiplicano e si rafforzano. Con una preoccupante fuga in avanti, il governo di Emmanuel Macron ha scelto di intensificare la sua brutalità. Nelle strade le squadre di polizia sono in agguato, intimidiscono, colpiscono, arrestano e feriscono. Ogni giorno i social network diffondono nuove spaventose immagini di abiezione da parte della polizia, e qualcuno si ostina ancora a incolpare le solite “mele marce”. In realtà, il governo lascia al movimento solo due opzioni. La prima, quella che il potere desidera, consiste nel tornare tutti a casa, più o meno terrorizzati ma sicuramente sconfitti. La seconda opzione sta nel rendere più articolata l’azione di piazza, mettendo in campo nuovi metodi e strategie per evitare la violenza e approfondire la solidarietà. Questo testo propone alcune strade in questo senso.
Questioni
Dopo aver fatto una coraggiosa apparizione in diverse città il 7 marzo, prima di eclissarsi parzialmente l’11 e il 15 dello stesso mese, il Cortège de tête [testa del corteo in cui, dal 2016, hanno iniziato a ritrovarsi militanti radicali decisi ad alzare la conflittualità e rispondere alla repressione, insieme ad altre, eterogenee, componenti][1] ha fatto irruzione nelle grandi città il 23 marzo, alimentato, arricchito e rinfocolato da una settimana di continue manifestazioni selvagge, in particolare a Parigi, dove la prospettiva di andare fuori dal percorso stabilito ha galvanizzato i manifestanti. La giornata di giovedì 23 marzo ha smentito la contrapposizione tra modalità selvaggia e modalità de tête, ponendo l’articolazione strategica delle due forme come sfida per la settimana successiva.
L’obiettivo di questo articolo non è quello di passare in rassegna tutte le implicazioni della giornata del 23 – altri probabilmente lo faranno meglio – ma di avanzare una proposta per contribuire all’articolazione di queste due modalità.
Da “La guerra delle foreste”, Tabor edizioni [QUI IL PDF]
Le vili creature dei boschi vivono senza legge, non obbediscono e non
rispondono a nessuno, perché ignorano ogni legame di dipendenza.
John Aubrey, storico
inglese del XVII secolo
Boschi e foreste rappresentano da sempre l’emblema del selvatico, del misterioso, dell’ingovernabile, sede di tutto ciò che è altro, diverso e nemico rispetto al consorzio civile. Il bosco, a meno che non gli si faccia assaggiare la razionalità di una ruspa, rimane estraneo alla modernità e alle sue leggi, irrimediabilmente ostile alla rapidità dei flussi, allo sfruttamento estensivo, alla concentrazione umana. Presi da questi pensieri, pubblichiamo il capitolo conclusivo di “La guerra delle foreste”, un agile libretto della casa editrice valsusina Tabor, invitandovi a dare un’occhiata a tutto il suo bel catalogo (www.edizionitabor.it). La storia parte dalle foreste e dai terreni incolti su cui si svolge la lotta dei Diggers (Zappatori) nell’Inghilterra del Seicento, una lotta di contadini poveri che occupano le terre sottraendole alle “enclosures” (recinzioni), per coltivarle e viverle insieme in un progetto comunitario ed egualitario che inevitabilmente si scontra con la nascente società borghese e capitalistica. Nel solco della tradizione religiosa millenarista, continuando a rifiutare autorità e divinità estranee e predatrici, i Diggers vogliono portare il paradiso sulla terra, raccogliendo il testimone delle sommosse contadine del XIII e XIV secolo, del Movimento del libero spirito e della ribellione anabattista di Münster del 1534. Restituire risorse alla collettività è una lotta di ieri e di oggi, così come sottrarre la vita umana all’impero delle merci: l’inciviltà della “foresta”, se sappiamo ascoltarla, ha ancora qualcosa da dirci.
La guerra delle foreste, Tabor edizioni
La foresta è, da sempre, un
dominio incantato. Che sia quello di Merlino, uomo dei boschi della leggenda arturiana,
o quello di Robin Hood, il territorio della foresta è un grande serbatoio di
sogni. Il popolo degli alberi vi conduce una vita oscura e misteriosa, e il
melo, albero magico di Merlino, o la quercia pluricentenaria della foresta di
Sherwood, rifugio di Robin Hood e dei suoi compagni, affondano le loro radici
nell’inconscio dell’uomo medioevale.
Ma tuttora la foresta continua a
proiettare l’ombra della sua inquietante alterità sul nostro immaginario. È un
luogo in cui l’umano non detta legge, in cui è facile perdersi e abbandonare la
propria umanità. Le fiabe della nostra infanzia, del resto, non raccontano
nulla di diverso. La foresta è il territorio in cui si perdono Pollicino e i
suoi fratelli, ormai alla mercé dell’altro, dell’umano regredito allo stato
bestiale; o ancora Cappuccetto rosso e il lupo che la aspetta ai margini del
bosco.
Parecchi romanzi recenti
riprendono – trasformandola e attualizzandola – l’ossessione della “selva
oscura”. Stephen King, ad esempio, racconta la storia di una bambina che si
perde nella foresta e viene perseguitata da una forza ostile[i].
La foresta ha qui un doppio volto: luogo inquietante e pieno di pericoli ma
anche territorio che può ammansirsi e da cui può sorgere il meraviglioso. Il
giornalista Vatanen, protagonista di L’anno
della lepre[ii], abbandona la
propria vita umana razionale (fatta di automobile, lavoro, moglie e figli) per
inoltrarsi nel bosco all’inseguimento della lepre che ha investito con l’auto.
O, ancora, nel romanzo La fune[iii], gli abitanti di un villaggio situato sul limitare di un’immensa foresta un mattino scoprono una fune che vi si inoltra. Seguendola lasceranno il loro villaggio per sprofondare nell’ignoto. La foresta è questo territorio che spalanca un altrove talvolta minaccioso. È l’animale, è l’albero, è l’altro da sé.
Marty Woods
Anche nelle nostre edizioni, Tabor,
con il fumetto Fondobosco[iv],
abbiamo intrapreso un’avventura analoga: quella di Pinot, boscaiolo delle Alpi che
si trova catapultato in un allucinante e apocalittico viaggio nel selvatico (e
nell’inconscio) innescato dagli spiriti dei larici oltraggiati dall’arroganza della
civiltà.
Il cristianesimo farà una gran
fatica a liberarsi dalle leggende legate alle foreste, dove al riparo dei grandi
alberi si nascondono le streghe, i maghi o i druidi, trovandovi il loro rifugio
naturale. Un’arcaica civiltà vi si è ritirata, quella della Dea madre e del
ciclico ritorno delle stagioni, quella dell’accordo tra umano e animale e tra
il principio maschile e femminile.
I poveri che vivono nelle foreste
all’epoca della rivoluzione inglese del 1649 conservano un certo numero di
pratiche e di credenze provenienti da tale civiltà, in particolare il ricorso
all’uso delle erbe e alla magia.
Questi miti e saperi agresti
sopravvivranno ancora a lungo, e gli uomini e le donne dei boschi potranno per
lungo tempo ancora nascondervisi con i propri intrighi, le proprie trame e le
proprie esistenze, agli occhi dei potenti potenzialmente sediziose oltre che
dissolute.
Possiamo rintracciarne una traccia anche in diversi film. Tra questi, La fiancée du pirate[v], in cui la protagonista vive in una capanna nel bosco vicino al villaggio e grazie ai suoi poteri si vendicherà degli abitanti del paese, colpevoli di aver maltrattato lei e sua madre. Anche qui, la vita al margine, nella foresta, dona alla donna una forza che proviene da un mondo arcaico, simboleggiato dal suo animale da compagnia, il caprone, e dal suo rapporto con la natura e la sessualità.
Reynolds Stone
Gli alberi sono anche i testimoni della storia e la loro tranquilla opacità ci lascia immaginare i tempi antichi in cui loro erano già lì. Nel film Vertigo[vi] di Hitchcock, il momento in cui i due personaggi principali si ritrovano in una foresta di enormi sequoie e risalgono i tempi osservando i cerchi concentrici di un tronco è una delle scene più enigmatiche del cinema. La mano guantata della protagonista indica due punti sul tronco mentre dice: «Qui sono nata… e qui sono morta». L’albero rappresenta qui il tempo che passa, testimone del tempo perduto.
Anche nel cinema più recente, e
nelle serie tv, che più di ogni altro genere contribuiscono oggi alla
costruzione dell’immaginario collettivo, la foresta continua a rivestire il suo
ruolo di “altro” contrapposto all’umano e alla sua razionalità: ad esempio, tra
le tante, Zone Bianche (2016), serie
poliziesca in cui è il bosco, con le forze arcaiche che vi risiedono, il vero,
ambiguo, protagonista nella catena di omicidi e sparizioni che colpisce il
villaggio di Villefranche.
La foresta e le sue creature
popolano il nostro immaginario, e camminando tra i suoi alberi, nelle Cévennes
come nelle Alpi o nei Pirenei, non ci sorprenderemo di scorgere con la coda
dell’occhio il guizzo di una fuga precipitosa, lo scatto furtivo di un abitante
dei boschi, di un troll o di un folletto, che si nasconde da noi, dai nostri tracciati
e… dai nostri bulldozer.
La foresta da vivere emerge come
tema chiave nei testi di Winstanley [principale portavoce del movimento
comunitario dei Diggers nell’Inghilterra del Seicento]: essa servirà ai «carpentieri, falegnami, tornitori,
costruttori di aratri, liutai e costruttori di altri strumenti musicali, e tutti
coloro che lavorano il legno».
È un bosco da usare quello descritto, ma a differenza dello sfruttamento
capitalista, si tratta di un uso collettivo e finalizzato al bene comune.
L’aumento demografico portò con sé una crescente pressione su foreste e terre demaniali da parte degli occupanti (squatters) che vi costruivano le loro capanne. La consuetudine garantiva loro il precario diritto di installarsi a meno di un miglio dagli insediamenti industriali. Altri costruivano le loro baracche illegalmente, e la lontananza dai poteri garantiva loro una maggiore tranquillità. Per lo più si trattava di artigiani (forgiatori, fabbri ferrai, arrotini, tessitori…), ma anche di banditi, commedianti, venditori ambulanti, predicatori e ogni sorta di nomadi e fuggiaschi.
The Diggers
Il bosco rappresenta quindi un
rifugio per i proscritti e per i poveri, oltre che una riserva di ispirazione per
i poeti. Il buio della foresta stende un insopportabile cono d’ombra sulle
carte di chi vorrebbe il controllo totale del territorio. Perciò è da sempre
tenuta in grande sospetto dai poteri d’ogni epoca, nel solco di «un’ostilità radicale, di
origine religiosa, tra le istituzioni umane e le foreste circostanti»[vii].
Beninteso, la storia cui abbiamo
accennato non è affatto conclusa, in Inghilterra come altrove. Di fronte all’emergenza
posta dalle distruzioni del capitalismo globalizzato, essa non fa che acquisire
importanza. E il legame di filiazione con gli uomini e gli eventi qui citati,
malgrado più di tre secoli di distanza, si mostra in tutta la sua evidenza. Dal
Messico al Brasile, dall’India al continente africano, fino a contrade a noi
più prossime, nei territori rurali di un’Europa forse non pacificata come
appare, la guerra dei boschi, delle terre e delle risorse è più attuale che
mai.
La sollevazione degli Zappatori è
destinata a risorgere ancora e ancora…
La foresta – ne siamo certi – non
ha ancora detto la sua ultima parola.
Noi, piuttosto, siamo ancora
capaci di sentirla?
[i] Stephen King, La bambina che amava Tom Gordon,
Sperling & Kupfer, 1999.
[ii] Arto Paasilinna, L’anno della lepre, Iperborea, 1994.
[iii] Stefan aus dem Siepen, La fune, Neri Pozza, 2013.
La storia, soprattutto se narra di anarchia e sovversione, può essere qualcosa di più intrigante delle noiose pagine di un manuale scolastico. Con Mario Buda viaggiamo tra la Romagna e gli Stati Uniti, in mezzo a scioperi, revolver e dinamite. Ma chi era in realtà questo enigmatico personaggio, la cui vicenda si intreccia anche a quella di Sacco e Vanzetti? E perché negli anni Trenta alcune fonti lo indicano come un collaboratore della polizia politica fascista? Si è davvero venduto e ha finito per fare l’infiltrato? A prendere per buone le carte di questura potrebbe sembrare così, ma se si scava più a fondo emergono le sorprese… anche perché diversi compagni continuano a dargli fiducia e dopo la Liberazione rientra senza strascichi nel movimento; chissà allora che non si riescano a dipanare i fili di una sorta di triplo gioco, con Buda che si fa passare per collaboratore del fascismo soltanto per suonarle meglio al regime. Alla fine dei conti, sbaglia chi crede che siano gli sbirri quelli più furbi!
Mario Buda, 1927
Mario
Augusto Buda nasce il 13 ottobre 1883 a Savignano di Romagna (dal 1933
Savignano sul Rubicone) da Federico, contadino, e Clarice Bertozzi. Ha una
sorella, Maria, e due fratelli, Primo e Carlo. Finite le scuole elementari
lavora come contadino e aiuto calzolaio. Nel 1899, sedicenne, è condannato a
dieci giorni di reclusione per furto in un negozio di ferramenta.
Nel
1904 presta il servizio militare a Forlì e tre anni dopo emigra negli Stati
Uniti. Si stabilisce dapprima nei dintorni di Boston, poi in Colorado, Illinois
e Wisconsin; si guadagna da vivere con lavori precari, per lo più giardiniere e
manovale, e si avvicina all’anarchismo diventando un sostenitore di «Cronaca
Sovversiva» di Luigi Galleani.
Alto
non più di un metro e sessanta, calvo e con i baffetti, ha occhi piccoli e naso
grosso: da qui il soprannome che gli affibbiano gli amici: “Nasone” o “Big
Nose”.
Negli
anni dal 1911 al 1913 torna a Savignano e lavora col padre come giardiniere,
per poi andare nuovamente in Massachusetts, dove viene raggiunto dal fratello
Carlo. Si stabilisce inizialmente a Framingham, lavorando in fabbrica, poi
passa un periodo di circa un anno a Roxbury, nei dintorni di Boston, impiegato
presso una lavanderia con lo stesso Carlo. Aderisce al locale Circolo educativo
mazziniano, prende parte alle attività militanti tra le quali l’organizzazione
di una Scuola moderna, le conferenze,
i pic-nic, le rappresentazioni teatrali, la partecipazione alle lotte sul
lavoro.
Conosce Nicola Sacco nel corso di uno sciopero a Hopedale nel 1913 e Bartolomeo Vanzetti tre anni più tardi in occasione dell’agitazione presso la Cordage Company a Plymouth.
Si
trasferisce in seguito a Wellesley, dove con Carlo apre una lavanderia di sua
proprietà. Il 25 settembre 1916, nel corso di una manifestazione a North Square
(Boston) contro l’intervento dell’esercito statunitense nella Prima guerra
mondiale, viene arrestato insieme a Federico Cari e Raffaele Schiavina. Al
processo si rifiuta di giurare sulla Bibbia ed è condannato a cinque mesi di
prigione. I suoi compagni raccolgono 1.200 dollari per garantirne il rilascio e
la sua condanna viene poi annullata in appello.
Nel
corso del 1917 con altri militanti, tra i quali Sacco e Vanzetti, varca il
confine messicano per stabilirsi in una casa comune nei dintorni di Monterrey,
città dove lavora sempre in una lavanderia.
Ritornato
negli Stati Uniti, si fa passare per Mike Boda o Mario Rusca, oppure per un tirolese
di Predazzo di nome Michael Wolf, e si stabilisce prima a Chicago, poi a Iron
River, infine a New York. La sua attività è ora quella di venditore di whisky,
olio, formaggio e pasta.
Nell’autunno del 1917 un attentato contro un commissariato di polizia di Milwaukee provoca la morte di dieci agenti. Non è un fatto isolato: a fronte di una repressione brutale e diffusa contro i Reds da parte delle autorità statunitensi e in particolare in risposta all’ordine di deportazione di Galleani nel febbraio 1919, gli anarchici si fanno sentire con scritti minacciosi e con una serie di azioni che fanno scalpore. Il primo maggio 1919 una trentina di plichi esplosivi sono spediti agli indirizzi di importanti esponenti della politica, dell’industria, della magistratura, della polizia e del giornalismo. Quasi tutti vengono intercettati dalle autorità. La notte del 2 giugno successivo si verificano all’incirca alla stessa ora sette esplosioni in sette città diverse: Boston, New York, Paterson, Filadelfia, Pittsburgh, Cleveland e Washington. Obiettivo sono le abitazioni di personaggi di primo piano dell’amministrazione, dell’industria e della magistratura, tra i quali il Procuratore generale Mitchell Palmer. Ingenti i danni materiali, una sola vittima: Carlo Valdinoci, stretto compagno di Buda e uno dei pilastri di «Cronaca Sovversiva», saltato in aria sul retro della casa di Palmer insieme all’ordigno che trasportava.
La casa del procuratore generale Mitchell Palmer a Washington dopo l’eplosione del 2 giugno 1919
In
sede storica è stata ipotizzata da più parti una partecipazione di Buda a
questi fatti, ma di certo non c’è nulla. Di lui in questa fase sappiamo infatti
poco, se non che risiede in Massachusetts e si dedica con assiduità alla
propaganda. Con la sua Overland, insieme al whisky e ai prodotti alimentari,
distribuisce vario materiale a stampa e gli ultimi numeri di «Cronaca
Sovversiva», che dal febbraio del 1918 il corriere American Express non
consegna più a causa delle pressioni del governo. In tale attività gira sempre
armato di revolver.
Nel
maggio 1920 la polizia è impegnata nell’indagine su una banda di italiani,
sospettata di una rapina fruttata sedicimila
dollari e di un duplice omicidio a South Braintree, il precedente 15 aprile.
Gli indizi portano a un certo Boda, che figurerebbe come il capo del gruppo.
Seguendo le sue tracce gli agenti di West Bridgewater arrestano Sacco e
Vanzetti, con l’accusa di aver partecipato ai fatti.
L’11 settembre 1920 i due sono condannati in primo grado. A mezzogiorno del 16 settembre un carro trainato da un cavallo e pieno di frutta, ma anche di quarantacinque chili di dinamite e di due quintali di pezzi di metallo, esplode all’angolo di Wall Street con Broad Street, tra lo United States Assay Office, il Sub-Treasury Building e il palazzo della J.P. Morgan & Company: il centro del capitalismo americano. La deflagrazione lascia sul selciato trentotto morti, centinaia di feriti e ingenti danni materiali. I colpevoli di questo “atto di guerra”, come titola il «New York Times» del 17 settembre, non saranno mai trovati. Alcuni decenni più tardi un altro libertario, Charles Poggi, farà a riguardo il nome di Buda.
Attentato anarchico a Wall street, 16 settembre 1920
Poco dopo l’attentato,
l’anarchico romagnolo salpa da Providence
verso Napoli e a novembre è di ritorno a Savignano, dove va ad abitare a casa
della madre, in via Castelvecchio 22.
Il
28 febbraio 1921 a San Mauro Pascoli i rossi si scontrano con una squadra
fascista accorsa da Cesena per affiggere dei manifesti. Intervengono i
carabinieri di Savignano e si accende una sparatoria, nel mezzo della quale
cade il maresciallo Pietro Ragni. Per la sua morte viene imputato Buda in
correità con altri sedici antifascisti. Incarcerato dal 1° marzo alla fine di
settembre, è assolto dalla corte d’appello di Bologna per insufficienza di
prove.
Nell’agosto successivo è denunciato per omessa dichiarazione di una pistola, che porta sempre con sé nel quotidiano tragitto tra Savignano, dove in una camera di casa sua fabbrica e vende pantofole e galosce, e Rimini, dove lavora per un periodo presso una calzoleria di via Gambalunga 17. A Savignano frequenta i compagni di ideale con i quali organizza un gruppo anarchico che promuove conferenze di propaganda in favore di Sacco e Vanzetti in vari centri del circondario, tra cui Gambettola e Santarcangelo, dove Buda è in stretto contatto con Amleto Fabbri, futuro segretario negli Stati Uniti del Comitato di difesa per Sacco e Vanzetti.
Effetti dell’esplosione del 1920 ancora oggi visibili al n. 23 di Wall Street
Dopo
l’ascesa del fascismo mantiene contatti epistolari con i libertari residenti in
Francia e negli Stati Uniti e fa circolare letteratura anarchica in modo
clandestino, come hanno modo di verificare i carabinieri facendo irruzione in
casa sua, il 18 settembre 1925.
Il
20 agosto 1927, tre giorni prima dell’esecuzione di Sacco e Vanzetti,
viene arrestato. Trattenuto nelle carceri di Forlì fino
alla fine di dicembre, è assegnato al confino
di Lipari per cinque anni. Presenta ricorso, ma invano. Qui ritrova Galleani e
condivide un’abitazione insieme ad altri confinati emiliani e romagnoli.
Sull’isola
riceve la visita del giornalista americano Edward Holton James e di Giuseppe
Dosi, commissario di polizia che si fa passare per giornalista italiano.
Entrambi intervistano Buda per tre giorni sulle circostanze che hanno portato
alla condanna a morte di Sacco e Vanzetti, affermando di ritenerli innocenti e
di volerne riabilitare la memoria. Buda ribadisce l’innocenza dei due anarchici
giustiziati e la propria estraneità ai fatti.
Su
suggerimento di James, dal quale comincia a ricevere del denaro, chiede
ripetutamente clemenza a Mussolini lamentando di essere stato confinato su
volontà del governo americano perché ritenuto implicato nell’affaire
Sacco e Vanzetti.
Il
1° marzo 1928 è tratto in arresto insieme ad altri tre confinati perché
sorpreso a cantare inni sovversivi nella sua abitazione. Viene condannato a tre
mesi che sconta nelle carceri di Messina.
Trasferito
a Ponza nel luglio del 1929, viene definito dal Ministero degli interni un
“irriducibile avversario del regime” e uno “strenuo e fanatico sostenitore
delle idee comuniste-anarchiche le più avanzate […], preconizzatore convinto
degli Stati Uniti di tutto il mondo, retti da Commissari del popolo sotto le
bandiere dei soviet di tipo russo”.
Nell’aprile
del 1932 James torna a fargli visita insieme al diciottenne Dante Sacco, figlio
di Nicola, che Buda aveva conosciuto da bambino.
Scontata
per intero la pena, il 19 novembre 1932 viene liberato con foglio di via
obbligatorio per Savignano. Qui riprende a lavorare nella produzione e vendita
di scarpe. Stando alle carte di polizia, diventa un fiduciario dell’OVRA (organizzazione
segreta della polizia politica fascista) e ottiene dalla prefettura di Forlì un
regolare passaporto per recarsi a Parigi con l’obiettivo di infiltrarsi negli
ambienti antifascisti di lingua italiana. Varca il confine nel febbraio del
1933 e si ferma in Svizzera e in Francia, prima di tornare in estate in
Romagna. Non abbiamo notizie di sue eventuali rivelazioni, ma il periodico
comunista «Bandiera Rossa» di Parigi del 9 settembre lo denuncia pubblicamente
come una spia.
A Savignano continua a lavorare come calzolaio e nel 1934 si sposa con rito religioso con Sara Randi. Nell’agosto del 1937 è di nuovo a Parigi dove frequenta, tra gli altri, Umberto Tommasini, Gino Bibbi e Giobbe Giopp con i quali stabilisce di compiere un attentato contro Mussolini per mezzo di un’autobomba che dovrebbe sorprendere le guardie ed esplodere all’interno del Viminale. Torna quindi in Italia con il compito di raccogliere informazioni su abitudini e itinerari del duce.
Dimostrazione per Sacco e Vanzetti in Union Square a New York, 9 agosto 1927
Per
i compagni è un militante fidato, per la polizia un informatore dal nome in
codice “Romagna”. Nel maggio del 1938 due antifascisti, Luigi Tocco e Luigia
Battaini, consegnano a Buda in un bar di Milano il denaro necessario
all’attentato. Ma il progetto sfuma e in agosto Tocco e Battaini sono
arrestati.
Nel
febbraio del 1942 la prefettura di Forlì ottiene da Roma la cancellazione del
suo nome dal novero dei sovversivi perché “serba regolare condotta politica […]
non dà luogo a rilievi [e] in varie occasioni si è reso utile al locale
organismo dell’OVRA”.
Nel
1944 muore la madre. Con la Liberazione riprende il suo posto nel movimento
anarchico locale, distribuisce la stampa libertaria e affigge «Umanità Nova»
sotto i portici di corso Vendemini. È conosciuto come un uomo colto e amante
della campagna. Muore il 1° giugno 1963 dopo essere stato ricoverato due mesi
presso il locale ospedale di Savignano. Lascia al nipote Vittorio alcuni libri
anarchici e una colt a tamburo. I funerali si svolgono in forma civile e la sua
figura viene ricordata sulla stampa anarchica dalle due parti dell’oceano.
Chi
è stato davvero Mario Buda? Un militante molto deciso o un abile
doppiogiochista? C’è davvero lui dietro alcune delle pagine più eclatanti della
lotta contro le autorità statunitensi? È stato un informatore, una spia o un
provocatore? E se sì, da quando? E ancora: le notizie che avrebbe dato alla
polizia avevano davvero qualche valore? Fino a che punto ha spinto il suo
doppio gioco e in favore di chi?
Troppi, ancora, i punti oscuri. Il mistero continua. Le ricerche anche…
Tecnici analizzano i resti della bomba di Wall Street, settembre 1920
Fonti utilizzate
Archivio centrale dello Stato, Casellario
politico centrale, b. 882, fasc. 3, “Buda Mario”.
Archivio centrale dello Stato, Confinati
politici, b. 162, fasc. “Buda Mario”.
Hugo Rolland, Il caso Sacco e
Vanzetti: nella storia e nella leggenda, manoscritto, Hugo Rolland Papers,
folder n. 86, International Institute of Social History, Amsterdam.
AB [Amedeo Bertolo], Infiltrati,
spie e provocatori nel movimento anarchico, «Bollettino dell’Archivio
Pinelli», n. 14, 1999.
Gli anarchici italiani negli Stati Uniti
d’America,
in Un trentennio di attività anarchica 1914-1945, Forlì, L’Antistato,
1953, pp. 121-176.
Paul Avrich, Sacco and Vanzetti in
Id., Anarchist voices. An Oral History of Anarchism in America, Edinburgh-Oakland,
AK Press, 1995, pp. 87-188.
Id., Ribelli in paradiso. Sacco, Vanzetti
e il movimento anarchico negli Stati Uniti, a cura di Antonio Senta, Roma, Nova
Delphi, 2015.
Robert d’Attilio [et al.], La salute è in voi.
Sacco, Vanzetti e la dimensione anarchica, Villafalletto, 2017.
Mike Davis, Buda’s Wagon. A Brief
History of the Car Bomb, Londra, Verso, 2007.
Carlo Donati, La prima autobomba? Un
carretto, «Quotidiano nazionale», 29 mar. 2007.
Lucio Febo, Buda, Mario, in Dizionario
biografico degli anarchici italiani, Pisa, BFS, 2003, v. 1, pp. 268-270.
Mimmo Franzinelli, I tentacoli
dell’Ovra. Agenti, collaboratori e vittime della polizia politica fascista,
Torino, Bollati Boringhieri, 1999.
Id., Sull’uso (critico) delle fonti di
polizia, in Cesare Bermani [et al.],
Voci di compagni schede di questura. Considerazioni sulle fonti orali e sulle fonti di polizia per la
storia dell’anarchismo, Milano, Centro studi libertari Archivio Pinelli,
2002, pp. 19-30.
Beverly Gage, The Day Wall Street
Exploded: A Story of America in Its First Age of Terror, Oxford-New York, Oxford
University Press, 2010.
Edward Holton James, The Story of Mario
Buda Before the Jury of the World, dattiloscritto [1928].
Id., L’innocence de Sacco et Vanzetti à
la lumière des évidences nouvelles. À la presse, aux groupements, aux hommes
impartiaux, Ginevra, 1929.
Id., Remember Sacco and Vanzetti, «The
Nation», v. 135, n. 3052, ago. 1932, p. 146.
Id., New Light Coming on the
Sacco-Vanzetti Case, «Unity», 15 ago. 1932, pp. 327 e ss.
Filippo Manganaro, Dynamite Girl.
Gabriella Antolini e gli anarchici italiani in America, Roma, Nova Delphi,
2013.
Parole chiare. La “buona guerra” degli
anarchici italiani immigrati negli Stati Uniti (1914-1920), Boston,
Gratis-Indesiderabili, 2018.
Ermanno Pasolini, Rubata la lapide
dell’anarchico Buda. L’uomo che fece saltare Wall Street, «il Resto del
Carlino», 30 ott. 2015.
Arianna Pescini, Bombe a Wall Street,
«Focus», dic. 2011.
Michele Presutto,“L’uomo che fece
esplodere Wall Street”. La storia di Mario Buda, «AltreItalie», n. 40, gen.-giu.
2010, pp. 83-107.
Antonio Senta, Ut redeat miseris,
abeat fortuna superbis. I primi anni del settimanale «Cronaca Sovversiva», «Il Presente e la
Storia», n. 91, giu. 2017, pp. 19-37.
Id. (a cura di), Voci anarchiche:
Concetta Silvestri e Charles Poggi, «Bollettino dell’Archivio Pinelli», n.
50, 2017, pp. 26-30.
Id., Luigi Galleani l’anarchico più
pericoloso d’America, Roma, Nova Delphi, 2018.
Robert Tanzilo, Milwaukee 1917. Uno
scontro tra italoamericani, Foligno, Editoriale Umbra, 2006.
Umberto Tommasini, L’anarchico
triestino, a cura di Claudio Venza, Milano, Antistato, 1984.
Morte di San Francesco, uno dei frati trascrive il Testamento, miniatura, manoscritto Vitt.Em.1167
Sorella povertà
Alla morte di Francesco (1226),
la scelta tra povertà o non povertà divide l’ordine da lui fondato in due
correnti: gli Spirituali, fedeli allo spirito della Regola e al suo Testamento,
praticanti la povertà assoluta, e i Conventuali, più propensi ad accomodarsi
con il mondo, ovvero ad accettare donazioni, godere di rendite e fissare in
conventi la propria stabile dimora.
Per la Chiesa in quanto
istituzione e sistema di potere, la concezione della povertà volontaria è
qualcosa di destabilizzante ed è infatti una delle principali leve con cui
viene attaccato il suo dominio nel basso medioevo. In fondo la povertà non
sarebbe che un mezzo per raggiungere la perfezione
e quindi l’eterna salvezza dell’anima, ma affermarla e praticarla finiva con il
mettere in discussione l’intero apparato di potere ecclesiastico che non
avrebbe potuto reggersi con i forzieri vuoti. Quindi, se da una parte non
sembra opportuno rinnegare in toto la povertà come valore cristiano, dall’altro
la Chiesa è ben attenta a contenerla entro precisi limiti, circoscritti dalla
catena dell’obbedienza che legava gli Ordini mendicanti alla casa madre di Roma.
Le Marche sono una delle aree di
maggior radicamento della corrente spirituale-pauperistica, che si raccoglie attorno
a Pietro da Macerata detto Fra Liberato e Pietro da Fossombrone detto Angelo
Clareno. Insieme a loro, le fonti registrano altri predicatori marchigiani di sorella povertà, come Corrado da Offida,
Tommaso e Trasmondo da Tolentino, Francesco da Falerone, Giovanni da Bolognola,
Vincenzo da Camerino, Francesco da Mondavio, Bonaventura da Cagli. Ulteriori zone
di influenza spirituale sono la Toscana con Ubertino da Casale e la Francia
meridionale con Pietro di Giovanni Olivi; quest’ultimo aveva indossato l’abito
francescano intorno al 1260 a Béziers, cittadina dove ancora aleggiava il
ricordo del genocidio di uomini, donne e bambini perpetrato appena qualche
decennio prima, per estirpare l’eresia catara, dal rappresentante pontificio Arnaud
Amaury al grido: «Uccideteli
tutti! Dio saprà riconoscere i suoi»[1].
Con il Concilio di Lione del 1274
papa Gregorio X, oltre a invocare una nuova crociata per la liberazione della
Terra santa, colpisce duramente gli ordini mendicanti togliendo loro il voto di
povertà e proibendo il formarne di nuovi. Gli Spirituali sono chiamati a
rientrare nei ranghi dell’ordine francescano egemonizzato dall’altra e più
potente fazione. Ma non tutti sono disposti ad accettare di buon grado quella
che ritengono un’indebita imposizione. Può il Papa contestare la Regola della
povertà, ispirata divinamente a
Francesco?
Il rifiuto parte proprio dalle Marche, scatenando l’inizio della persecuzione nei confronti dei frati dissidenti. Tra loro Angelo Clareno, nato con il nome di Pietro intorno al 1255 a Chiarino, tra Loreto e Recanati, ed entrato a quindici anni nei francescani di Fossombrone (o, forse, di Cingoli). Insieme ad altri viene segregato in convento, privato di confessione e sacramenti, inibito a colloqui con soggetti esterni, fino a quando oltre dieci anni dopo, nel 1289, il nuovo ministro generale dell’ordine Raimondo Gaufridi lo spedisce missionario in Armenia, insieme a Pietro da Macerata e qualche altro confratello ritenuto d’intralcio nella penisola.
Angelo Clareno, Artista sconosciuto, XVI secolo
Le «tribolazioni» francescane
Nel 1294 l’elezione a pontefice
di Celestino V, l’ex eremita Pietro da Morrone, sembra ribaltare le carte in
tavola. I più ferventi fautori della povertà evangelica ottengono infatti l’autorizzazione
a staccarsi dall’ordine sempre ben presidiato dai gaudenti Conventuali,
formando un’apposita congregazione di Pauperes
eremite domini Celestini. Clareno, intravedendo finalmente un auspicato futuro
di povertà e ascesi, fa rientro in Italia. Ma, come si sa, Celestino V è il
papa del gran rifiuto; dopo neanche
un anno di pontificato, messo sotto pressione dai maneggi di potere, capisce
che guidare la Santa sede non è cosa per lui e si dimette. Chiusa parentesi. La
prima decisione del nuovo papa Bonifacio VIII (1294-1303) è annullare tutte le
concessioni e i privilegi concessi dal suo predecessore: per gli Spirituali
rincomincia a tirare una brutta aria. Gli altri, i Conventuali, covano vendetta
contro quei miserabili frati che vorrebbero ridurre la comunità a campare senza
conventi, senza soldi, dispersa fuori dalle città: ai loro occhi sono tutti
quanti “dolciniani”, cioè eretici della peggior specie, senza sfumature né
eccezioni, da liquidare con ogni mezzo necessario.
Fra Liberato e Angelo Clareno emigrano di nuovo in cerca di un po’ di pace, questa volta in Grecia, ma anche lì li raggiunge la condanna del nuovo papa che li bolla come ribelli a ogni religione approvata e, lo si può immaginare, in quell’epoca ricevere una tale condanna, tanto più per un frate, erano dolori assicurati. Fra Liberato si fa coraggio e decide di tornare in patria per incontrare Bonifacio VIII e provare a farlo ragionare: l’Inquisizione non aspettava altro e solo per un soffio il frate riesce a sottrarsi alle grinfie del segugio domenicano Tomaso d’Aversa, per chiudersi fino alla fine dei suoi giorni nell’eremo di S. Angelo della Vena. Clareno capisce che è il caso di restare ancora un po’ in Grecia e solo dopo la morte di Bonifacio VIII rimette piede in Italia. Trascorre quindi alcuni anni ad Avignone dove, sotto l’ala protettrice del cardinale Giacomo Colonna, spera vanamente di ottenere qualcosa da papa Clemente V (1305-1314) o, almeno, di scongiurare un doloroso strappo tra i poveri eremiti e madre Chiesa.
Celestino V benedice Angelo Clareno e al confratelli, miniatura, manoscritto Vitt.Em.1167
Niente da fare, anzi la
situazione peggiora ancora con papa Giovanni XXII (1316-1334), acerrimo nemico degli
Spirituali che, da parte loro, nella reciproca accusa di eresia, lo considerano
nientemeno che il precursore dell’Anticristo: «perversus, maleficus, blasphemus, maledictus, a Deo
maledictus»[2].
Con la bolla Sancta Romana Ecclesia (1317),
dalla cattività avignonese il papa prende
di mira proprio i Francescani insubordinati, ricordando loro che l’obbedienza
al successore di Pietro è una virtù superiore alla povertà e, per ben
imprimerlo nelle loro teste, nel 1318 a Marsiglia fa bruciare sul rogo quattro Spirituali
irriducibili. La condanna papale è aggravata nel 1323 con la bolla Cum inter nunnullos che intende chiudere
la questione dichiarando una volta per tutte eretica la tesi della povertà di
Cristo e degli apostoli. In sostanza, i frati potevano essere poveri quanto
volevano, ma non era loro concesso di mettere in discussione la gerarchia
ecclesiastica e l’autorità del pontefice. Complessivamente, nell’arco di un
secolo e mezzo, si contano almeno una cinquantina di bolle pontificie inerenti
la repressione dei Francescani dissidenti[3].
Clareno, scomunicato, si
autodifende con passione e convinzione con una Epistola excusatoria e inizia a peregrinare tra vari monasteri raccogliendo
attorno a sé i cocci del francescanesismo spirituale. Con chi è ancora disposto
a seguirlo nonostante minacce, ritorsioni e repressione fonda il gruppo dei fratres de paupere vita, i Fratelli
della vita povera, o Fraticelli, organizzati come ordine francescano
indipendente che ormai non riconosceva più l’autorità della meretrix magna, ovvero di quella Chiesa
romana traditrice del Vangelo di Cristo.
Per confortare compagni e
discepoli condannati dalla Chiesa e braccati dall’Inquisizione, mostrando loro
le ragioni provvidenziali di tanto soffrire, Clareno scrive un Liber chronicarum contenente la storia
delle «sette
tribolazioni»
subite dal piccolo nucleo di francescani di cui egli stesso è parte ad opera di
chi ha abbandonato la via spirituale per quella materiale. Le tribolazioni erano state all’origine profetizzate da Cristo a
Francesco, in questi termini:
«si
daranno ad accumulare denaro, testamenti e legati; di conseguenza senza alcun
pudore si abbandoneranno a litigi, allontanandosi dall’amore alla santa
povertà, umiltà e orazione, e perseguiteranno con astio e maltrattamento quelli
che nella Religione gli si opporranno. […] Crederanno cosa sacroscanta
confonderli e opprimerli con frode; e riterranno giusto suscitare contro di
loro una guerra. […] Correranno dietro la dignità ecclesiale e gareggeranno tra
loro per apparire superiori agli altri. Chi cercherà di essere umile e zelare
la pura osservanza della promessa, procurando di elevarsi alle cose celesti,
sarà disprezzato come pazzo e schernito come inutile e buono a nulla. Quindi
ogni cattivo soggetto riverserà il puzzo della sua condotta contro i frati e
cercherà di scusare e sminuire le proprie scelleratezze»[4].
Nonostante la guida di Clareno, che comunque non ebbe successori della sua tempra, i dissidenti restano frammentati in mille rivoli diversi, come testimoniano i tanti nomi non esattamente sovrapponibili l’uno all’altro: Fraticelli, Fraticelli de paupere vita, pauperes Fraticelli, Fraticelli de opinione, pauperes Fratres, humiles Christi pauperes e altri[5]. Va anche detto che il termine Fraticelli non ricorre quasi mai negli scritti dello stesso Clareno e quando compare è sempre sulla bocca degli avversari, che raccolgono sotto tale nome un po’ tutto quel mondo francescano ai confini tra ortodossia ed eresia[6].
Cristo ispira a San Francesco la Regola, miniatura, manoscritto Vitt.Em.1167
Un’eresia moderata
Comincia quindi a prendere forma
una rete di contatti tra eremi e monasteri dell’Italia centrale, con al centro
il monastero del Sacro Speco di Subiaco, dove Clareno si era trasferito. I
Fraticelli conducono un’esistenza da eremiti, privi di ogni bene materiale,
vivono in luoghi appartati o ospitati in piccoli conventi, predicano agli
incolti villani e ai vagabondi, mendicano di che mangiare, aiutati per quanto
possibile dalla popolazione locale. Applicando alla lettera la Regola
francescana, potevano possedere solo una o al massimo due tuniche di vile
panno, senza mai sostituirle per tutta la vita: probabilmente non è solo
figurata la definizione di pauperculos
pediculosos (poveretti pidocchiosi) con cui venivano spesso chiamati.
A detta dei loro avversari,
aderivano ai Fraticelli e ai loro amici laici, detti Bizzocchi o Beghini, «quanti erano di costumi
guasti e corrotti, ed inoltre contadini stanchi di faticare ed artigiani
scioperati»[7].
Gente poco raccomandabile, insomma, la cui condotta era un campionario di «errori» e «nefandezze» che turbavano la vita
religiosa, sociale e politica[8].
Peggio ancora se si trattava di donne seguaci della «turba mendicante», che «col pretesto di chiedere
l’elemosina vagano per ville e castelli»,
cosa ritenuta quanto mai sconveniente. Infine, per qualche storico cattolico di
tempi a noi più vicini, l’eresia dei Fraticelli era malvagità assoluta, ovvero comunismo bello e buono:
«adunque i Fraticelli d’opinione furono i seguaci degli eretici Apostolici, dei Manichei, poi degli Albigesi e per conseguenza ancora i padri e gli antesignani del comunismo, del radicalismo e socialismo presente, propugnato da Proudhon, da Owen, da Hegel, da Fourier. Questi dissero: la proprietà è un furto; e i Fraticelli: i beni sono comuni. Ecco il comunismo. Il peggior male del mondo sono i governi; ogni potestà di principe è un avanzo di superstizione pagana. Ecco il radicalismo. La donna è libera, gridava Sansimon [Saint-Simon]; la donna è una preda comune, gridarono questi eretici. Ecco il socialismo misto e sensuale»[9].
Sacro Speco di Subiaco, rifugio di Angelo Clareno
La dottrina dei Fraticelli era
molto affine a quella dei temutissimi Apostolici di Gherardo Segarelli e dei
Dolciniani di Fra Dolcino e Margherita da Trento. La base comune partiva
dall’influenza della filosofia della storia di Gioacchino da Fiore interpretata
come susseguirsi di epoche: all’era del Padre e a quella del Figlio sarebbe
seguita quella dello Spirito Santo, caratterizzata da pace, amore e
solidarietà, in cui la nuova Ecclesia
spiritualis, ecumenica e tollerante, avrebbe soppiantato la vecchia
gerarchia ecclesiastica romana. Tuttavia, mentre i Fraticelli si ritengono
legittimi discendenti dell’ordine fondato da San Francesco, gli Apostolici
considerano i Francescani un ordine tra gli altri e non si ritengono soggetti
alla Regola. Soprattutto, quello dei Fraticelli è un movimento moderato che
cerca di rimanere prudentemente all’interno dell’ortodossia cattolica, seguendo
la via del ritiro dal mondo in eremi solitari, la via della resistenza passiva[10].
Un movimento fatto di «santi
e ribelli insieme»[11].
Tutt’altro radicalismo è dimostrato invece dagli Apostolici, che sulle montagne
della Valsesia, agli inizi del Trecento, resistono in armi alla crociata
dell’Inquisizione, unendo la loro lotta alla guerriglia delle popolazioni
montanare minacciate dalla prepotenza dei vescovi e ferme custodi
dell’autonomia della civiltà alpina. A loro, però, andò decisamente peggio
rispetto ai marchigiani che tutto sommato, a parte qualche rogo qua e là, se la
cavarono chinando il capo. Gli Apostolici vennero massacrati sulla cima del
loro ultimo baluardo, il monte Rubello; le loro guide, Dolcino, Margherita e
Longino furono catturate, torturate e bruciate[12].
La vocazione di Clareno al misticismo eremitico lo tiene lontano dallo scontro in campo aperto e perfino contro il malefico Giovanni XXII, che l’avrebbe assai volentieri abbrustolito in piazza, scrive ai suoi seguaci di non ribellarsi, «ma piuttosto di fuggire dal suo cospetto serbando fede, nel silenzio di eremi lontani, all’ideale da lui calpestato»[13]. Non per questo viene lasciato in pace. Nel 1334 l’inquisitore Simone da Spoleto tenta di catturarlo, vivo o morto, ma l’abate di Subiaco colpito dalla rettitudine e dalla levatura morale del suo ospite non lo consegna; Clareno può così fuggire nel Regno di Napoli fino ad approdare nel convento di S. Maria dell’Aspro, in Basilicata, dove sempre aspettando l’Apocalisse prossima ventura, muore nel 1337.
Gioacchino da Fiore
In quello stesso anno 1337 il
Fraticello Francesco da Pistoia viene consegnato al braccio secolare e fatto
salire sul rogo a Venezia. Altri due compagni sono bruciati a Montpellier nel
1354. Nel 1389 è la volta di Michele Berti da Calci, nella piazza di Firenze[14].
E ancora roghi a Firenze e Fabriano nel 1449-1450. Certo, non tutti si lasciano
martirizzare; i processi danno conto di abiure e ritrattazioni, più o meno
sincere, con conseguenti condanne al carcere, confische dei beni, espulsioni,
penitenze, scomuniche. Sotto processo vanno anche i protettori dei Fraticelli,
come accade nel 1336 ai vescovi e alle autorità di Camerino e Fermo e agli
ufficiali del comune di Matelica accusati di averli accolti, mentre due anni
dopo è la volta della città di San Ginesio[15].
Gli ultimi fuochi
A partire dal pontificato di Bonifacio
IX (1389-1404) la dissidenza eremitica francescana inizia progressivamente a
rientrare nel seno della Chiesa, in un percorso lungo e irto di ostacoli. Nel
frattempo, per non sbagliare, prosegue la persecuzione degli insubordinati. A
combattere una volta per tutte l’eresia dei Fraticelli marchigiani viene
chiamato nel 1425 Giacomo della Marca, poi fatto santo. Si racconta che mentre i
frati bruciavano nella piazza di Fabriano, Giacomo ebbe la prova definitiva che
si trattasse realmente di eretici: al suo naso giungeva infatti il puzzo di
carni arrostite, mentre se fossero stati santi le loro carni sul fuoco
avrebbero senza dubbio emanato buon profumo d’arrosto[16].
Negli anni immediatamente successivi le Marche continuano a essere territorio d’elezione dei poveri eremiti. Nel 1427 la popolazione di San Severino insorge contro il commissario pontificio, Astorgio Agnesi vescovo di Ancona, odiato sia per i suoi modi di governo sia in quanto noto inquisitore dei miti Fraticelli, che si vede costretto a far accorrere in tutta fretta in città le truppe pontificie per soffocare la sommossa. San Severino, scomunicata dal papa Martino V, sarà assolta e riappacificata solo nel 1428. In quello stesso anno, a poca distanza da lì, «ad terrorem et exemplum perpetuum» viene atterrato il castello di Maiolati, nella Vallesina roccaforte dell’eresia. Gli abitanti dispersi trovano scampo nei paesi vicini e solo dopo due anni ottengono la grazia di rientrare, ma con il divieto di ricostruire le mura del paese. Nel frattempo la fine di qualcuno non è ben documentata ma la si intuisce da una coeva nota di spesa degli inquisitori: «oleo et lignis pro comburendo hereticos»[17].
Il persecutore di eretici San Giacomo della Marca
L’ultimo processo inquisitoriale
di cui si ha notizia si svolge a Roma nel 1466 contro alcuni Fraticelli laziali
e di Maiolati, guidati da un certo Fra Niccolò di Cupramontana, sorpresi e
catturati durante un pellegrinaggio verso Assisi. Proprio Maiolati,
Cupramontana e territori limitrofi sono una delle ultime oasi dell’eresia.
Stando alle poco affidabili confessioni del processo, estorte come da prassi
con le peggiori torture, i fratres di
Maiolati sarebbero stati soliti abbandonarsi nottetempo a orge dionisiache,
«e peggio ancora non avrebbero dubitato di
dare la morte appena nato al frutto dei loro mostruosi congiungimenti,
passandoselo di mano in mano in una ridda bacchica intorno a un fuoco
infernale. Né infine avrebbero rifuggito dal ridurre in polvere quelle ossa
innocenti per immergerle nel vino, che conservato in un barilotto sorbivano poi
di volta in volta ad imitazione del mistero eucaristico»[18].
Da questa storia, di cui si
trovano fantasiose varianti distribuite nei paesi della Vallesina, trae origine
l’ingiuria popolare un tempo tipica di queste zone: «sei nato nel barilotto».
Le ultime battute della storia dei Fraticelli, che nel corso del XV secolo avevano fondato la cosiddetta Congregazione dei Clareni, si intrecciano alla storia degli Osservanti, altra corrente francescana che apprezzava la povertà ma con molto meno radicalismo rispetto ai precedenti Spirituali. Figure come Giovanni da Capestrano o Giacomo dalla Marca, dopo essere stati accaniti persecutori dei Fraticelli, recuperano dal movimento l’ideale di semplicità evangelica e, come Osservanti, dimostrano che il saio sbrindellato si può indossare anche all’interno di madre Chiesa. Il loro esempio, unito alla mutata situazione culturale ed ecclesiale, toglie terreno sotto ai piedi dei Fraticelli dando loro quel colpo di grazia che l’Inquisizione non era riuscita a infliggere. Gli eremi di montagna vengono abbandonati in un lento processo che si conclude solo intorno a metà XVI secolo, quando anche gli ultimi sedici insediamenti marchigiani vengono svuotati e i loro occupanti trasferiti nei conventi in prossimità o dentro i centri urbani.
Grzegorz Gwiazda, Heretic, 2014
Bibliografia
Luigi
Fumi, Eretici e ribelli nell’Umbria:
studio storico d’un decennio (1320-1330), Todi, Atanor, [1916].
Ciro da Pesaro, Il Clareno (studio polemico), Macerata, 1921.
Lorenzo Berardini, Frate Angelo da Chiarino alla luce della
storia, Osimo, Pax et bonum, 1964.
“Picenum Seraphicum”, 1974, n.
11: Spirituali e fraticelli nell’Italia
centro-orientale.
S. Iacobus de Marchia, Dialogus contra fraticellos: addita versione
Itala saeculi 15°, recensuit Dionysius Lasic, Falconara Marittima,
Biblioteca francescana, 1975.
Angeli Clareni Opera, Roma, Istituto storico italiano per il Medio
Evo, v. 1: Epistole, a cura di Lydia
von Auw, 1980; v. 2: Historia septem
tribulationum Ordinis Minorum, edizione critica a cura di Orietta Rossini,
introduzione e commento di Hanno Helbling, 1999.
Gian Luca Potestà, Angelo Clareno: dai Poveri Eremiti ai
Fraticelli, Roma, Istituto storico italiano per il Medioevo, 1990.
I Fraticelli: santi o eretici? Atti del convegno, Cupra Montana, 3 ottobre
1997, a cura di Riccardo Ceccarelli, Cupra Montana, [s.n.], 1998.
Società internazionale di studi
francescani, Centro interuniversitario di studi francescani, Angelo Clareno francescano. Atti del 34°
convegno internazionale, Assisi, 5-7 ottobre 2006, Spoleto, Fondazione
Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 2007.
Felice Accrocca, Un ribelle tranquillo. Angelo Clareno e gli
Spirituali francescani tra Due e Trecento, Assisi, Porziuncola, 2009.
Angelo Clareno, Libro delle cronache o delle tribolazioni
dell’ordine dei Frati Minori, in Fonti
Francescane, 3. ed., Padova, Editrici francescane, 2011, p. 1381-1440.
Arnaldo Sancricca, I “Fratres” di Angelo Clareno: da poveri
eremiti di papa Celestino a Frati Minori della Provincia di S. Girolamo de Urbe
attraverso la genesi del Terz’ordine regolare di S. Francesco in Italia,
Macerata, Simple, 2015.
[1] Secondo la storiografia
più recente questa notissima frase non sarebbe autentica, certamente reale è
invece il massacro di Béziers; cfr. Marco Meschini, L’eretica. Storia della crociata contro gli Albigesi, Roma, Bari,
Laterza, 2010.
[2] Da una lettera di alcuni
Fraticelli al comune di Narni, cit. in Mariano D’Alatri, Fraticellismo e Inquisizione nell’Italia centrale, “Picenum
Seraphicum”, a. 11, 1974, p. 306.
[4] Angelo Clareno, Libro
delle cronache o delle tribolazioni dell’ordine dei Frati Minori, in Fonti Francescane, 3. ed., Padova,
Editrici francescane, 2011, p. 1397-1398.
[5] Cfr. Clemente Schmitt, Introduzione allo studio degli Spirituali e
dei Fraticelli, “Picenum Seraphicum”, a. 11, 1974, p. 18.
[6] Cfr. Roberto Lambertini, “Non so che fraticelli…”: identità e
tensioni minoritiche nella Marchia di Angelo Clareno, in Società
internazionale di studi francescani, Centro interuniversitario di studi
francescani, Angelo Clareno francescano.
Atti del 34° Convegno internazionale, Assisi, 5-7 ottobre 2006, Spoleto,
Fondazione Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 2007, p. 232.
[7] Giacinto Nicolai, Vita storica di San Giacomo della Marca dei
minori protettore della città e diocesi di Napoli, Bologna, Mareggiani,
1876, p. 95
[8] Cfr. Mario Natalucci, Lotte di parte e manifestazioni ereticali
nella Marca agli inizi del secolo XIV, “Studia Picena”, a. 24, 1956, p.
141.
[9] G. Nicolai, Vita storica di San Giacomo della Marca dei
minori protettore della città e diocesi di Napoli, cit., p. 90.
[10] Cfr. Francesco Lombardi, Misticismo e utopia nei Fraticelli
marchigiani, in Il mondo delle
passioni nell’immaginario utopico. Giornate di studio sull’utopia, Macerata,
26-27 maggio 1995, a cura di Bruna Consarelli e Nicola Di Penta, Milano,
Giuffrè, 1997, p. 155-173.
[11] Felice Tocco, I Fraticelli, “Archivio storico
italiano”, a. 35, n. 238, 1905, p. 331.
[12] Cfr.: Corrado Mornese, Eresia dolciniana e resistenza montanara,
Roma, DeriveApprodi, 2002; Tavo Burat, Fra
Dolcino e Margherita: tra messianesimo egualitario e resistenza montanara, [S.l.],
Tabor, 2013.
[13] La lettera di Clareno è
riportata in F. Tocco, I Fraticelli,
cit., p. 342.
[14] Cfr. Anonimo fiorentino, Storia di fra’ Michele minorita, a cura
di Emanuele Trevi, Roma, Salerno, 1991.
[15] Cfr.: Arnaldo Sancricca, I “Fratres” di Angelo Clareno, Macerata,
Simple, 2015, p. 93-120; Mariano D’Alatri, L’inquisizione
francescana nell’Italia centrale del Duecento, con il testo del Liber
inquisitionis di Orvieto trascritto da Egidio Bonanno, Roma, Istituto storico
dei Cappuccini, 1996.
[16] Cfr. Umberto Picciafuoco,
I Fraticelli nel centro Marche e in
particolare a Cupra Montana, in I
Fraticelli: santi o eretici? Atti del convegno, Cupra Montana, 3 ottobre 1997,
a cura di Riccardo Ceccarelli, Cupra Montana, [s.n.], 1998, p. 57.
[17] Cfr. Giovanni Annibaldi, L’azione repressiva di Martino V contro i
ribelli di Jesi ed i Fraticelli di Maiolati, Massaccio e Mergo, “Picenum
Seraphicum”, a. 11, 1974, p. 410-411.
In questo scritto gli anarchici di una zona rurale degli Stati Uniti descrivono come le persone che vivono fuori dai grandi centri urbani hanno contribuito al movimento contro la violenza della polizia e contro la supremazia bianca istituzionale, sorto a Minneapolis ed estesosi al resto del paese in risposta all’assassinio di George Floyd. Gli autori di questa lettera sono anarchici e anarchiche che vivono nelle zone periferiche del Pacifico nordoccidentale, in mezzo a una maggioranza bianca e traboccante di suprematismo. Questo contesto differisce da altre aree rurali statunitensi: autori e autrici parlano solo della propria esperienza, senza volersi fare portavoce di altre comunità. Lo scritto, per motivi di sicurezza legati al fatto di vivere in piccoli contesti, esce in forma anonima, senza nomi né indicazione di luoghi specifici.
Ci svegliamo, ci
giriamo nel letto e prendiamo il telefono. Che notizie di ieri sera? Quali
informazioni, quale controinformazione? Ci sono stati sviluppi splendidamente
belli o impensabilmente tragici? Quali messaggi pieni di agitazione o di
euforia di amici e compagni? Immagini e parole non si distinguono più – ce ne
sono tante, tutte in una volta. Il 25 maggio, la polizia di Minneapolis ha
assassinato George Floyd, una delle innumerevoli vittime di un sanguinoso
retaggio di violenza razzista della polizia. Questa nazione è stata costruita
su terre depredate, genocidi indigeni, schiavitù nera, sfruttamento e
oppressione di tutte le persone di colore e sappiamo che quest’impero non
cederà il potere di sua spontanea volontà. Tuttavia, nel dolore e nella rabbia,
le persone in tutto il Paese si stanno sollevando in difesa delle vite e dei
corpi neri.
A Minneapolis, un
commissariato di polizia è stato occupato e dato alle fiamme. Ovunque vetrine
distrutte, merci espropriate e condivise. La Guardia nazionale, l’esercito
stesso, è stata chiamata per reprimere i disordini. I manifestanti stanno
morendo per la strada – fino ad ora solo una manciata di anime coraggiose e belle
se n’è andata ma temiamo che altre seguiranno. I nazionalisti bianchi stanno
cercando di cogliere l’attimo per realizzare i propri sogni di guerra razziale.
I liberali fanno gli straordinari per indebolire il movimento nelle strade.
Sappiamo che qualsiasi cambiamento radicale richiederà la distruzione
dell’intero sistema razzista e capitalista, e intorno a noi vediamo una nazione
sull’orlo dell’insurrezione e delle possibilità rivoluzionarie. Iniziamo a
vedere uno spiraglio che si apre, verso la libertà, ma ciò sarà possibile solo
se ci saranno abbastanza persone pronte a lottare al nostro fianco. Le città
sono in fiamme per la liberazione dei neri.
Ma che dire di noi, attivisti sperduti, nascosti tra le colline, nelle pianure e nei boschi? Non ci troviamo lì, al centro di questo movimento, almeno non quanto vorremmo. Siamo anarchici e anarchiche rurali, fisicamente lontani dalla metropoli. Abitiamo in questi luoghi più selvaggi perché ci offrono spazio per pensare, un ritmo più lento della vita, una connessione con la Terra – spazio per progetti autonomi e idee per espandersi e crescere fisicamente, come una felce che si dispiega, fuori dalla costante sorveglianza di sbirri, vicini, politici. Sarebbe facile impegnarsi in questa rivolta come osservatori o, forse, come consumatori. Controlliamo le notizie mentre ci occupiamo del fienile, della fattoria, mentre ripariamo il camion. Ci teniamo aggiornati mentre ci prendiamo cura del bestiame e delle creature selvatiche. Inviamo un messaggio a un amico – “Hai visto che è successo?!” – mentre ci occupiamo del frutteto, cacciamo i topi dalla tettoia di legno, controlliamo i pannelli solari, spazziamo via la merda. La vita rurale ha ritmi e routine incessanti. Vivendo a una certa distanza fisica dalle città, è facile sviluppare anche una distanza emotiva. Ma questo momento è troppo importante, troppo urgente per far finta di nulla.
Non viviamo in
città, ma sappiamo di essere collegati a essa. Dove viviamo, l’onnipresente
controllo della polizia viene sostituito dall’altro braccio del controllo dello
Stato razzista: suprematisti bianchi, nazionalisti bianchi e le milizie loro
associate. La maggior parte dei poliziotti delle piccole città e degli sceriffi
della contea sostengono questi gruppi, o in maniera esplicita o comunque per
affiliazione. Nelle zone rurali non è necessario un distintivo per terrorizzare
i cittadini neri e latini – bastano una pistola e una bandiera americana.
Anche se le riforme
o i tagli alla polizia (o, vogliamo sognare, la sua abolizione) attecchiscono nelle
città, qui la supremazia bianca si palesa su ogni camioncino con la
decalcomania Blue Lives Matter (Le vite dei poliziotti contano) e un fucile sul
sedile del passeggero. Le richieste di Trump di resistere alla lotta antirazzista
e antifascista non fanno che aumentare il pericolo per i BIPOC (Black, Indigenous,
People of Color – Persone nere, indigene e di colore) rurali, per le persone
visibilmente queer e trans, per antifascisti e antifasciste, e per tutte quelle
persone ritenute “altre”.
Quindi, cosa possiamo fare adesso, in quanto anarchici e radicali che vivono nelle comunità rurali? Come possiamo creare una solidarietà diretta con le zone metropolitane impegnate in una rivolta di massa? Come possiamo mobilitare le nostre comunità perché questa lotta per la liberazione dei neri giunga fino a noi? Ci siamo posti queste domande, sentendole riecheggiare anche sulle labbra di chi ci circonda. Con il mutare della nostra lotta, i nostri bisogni e le nostre strategie divergeranno: le città potrebbero aver bisogno di diventare rovine per essere ricostruite, ma i campi e le foreste non devono bruciare nel processo di trasformazione verso un mondo giusto e libero. Siamo tutti uniti, perché il nostro progetto è lo stesso: stiamo costruendo un mondo nuovo, erediteremo la Terra. E, come tutti in questo momento, ci chiediamo cosa fare, come collocarci in questo selvaggio e spaventoso momento di disordini e possibilità.
Vorremmo condividere
alcune idee che potrebbero essere utili per altri/e radicali rurali che stanno
cercando di partecipare a questo importante momento. Stiamo incespicando verso
il futuro in modo imperfetto; ci sono tante risposte quanti sono gli individui,
i progetti e i contesti. Ma il punto cruciale è questo: non dormirci sopra. Non
possiamo lasciar perdere ciò che sta accadendo solo perché siamo a ore di
distanza dalla rivolta più vicina. Riconosciamo che non esiste un “consenso
all’interno della comunità nera”, ma identifichiamo i radicali neri con i quali
condividiamo affinità – da un punto di vista storico, attuale e locale – e ne
seguiamo l’esempio. Dobbiamo trovare i nostri punti di connessione, unirci e
metterci al lavoro. Lo spiraglio diventerà un varco solo se continueremo a
spingere tutti insieme.
Offriamo sostegno e solidarietà nelle nostre comunità locali. La “comunità” è una serie di cerchi concentrici e sovrapposti di connessione e affinità. Offriamo spontaneamente e generosamente cura e solidarietà alle famiglie che abbiamo scelto e a quelle biologiche, ai nostri compagni e alle nostre compagne, di casa e di terra, ad amici e amiche, a vicini e vicine. Doniamo il nostro tempo e il nostro lavoro affinché altri progetti possano nascere, crescere e migliorare. Concentriamoci sulle esigenze degli afroamericani e degli indigeni delle nostre comunità. Ascoltiamo le voci di compagni e compagne neri/e e sosteniamo l’organizzazione da loro guidata.
Mobilitiamoci (anche) da casa. Cos’è giusto fare qui? Cosa è possibile? Andiamo con i piedi di piombo nell’importare direttamente le tattiche delle grandi città in quelle piccole. Pensiamo in modo strategico e impegniamoci in atti creativi, selvaggi e fantasiosi, favorendo le relazioni, con l’arte della guerriglia, il sabotaggio, ’organizzazione, la raccolta di fondi e d’informazioni, il mutuo soccorso. Parliamo con le nostre comunità bianche e non-nere di ciò che sta accadendo, in particolare con coloro che potrebbero pensarla diversamente da noi. Ascoltiamo ciò che le persone dicono e rispondiamo alle loro domande. Presentiamoci carichi d’entusiasmo alle dimostrazioni locali, perché sappiamo che reggere i cartelli di cartone all’angolo è una tappa importante per questa città.
Offriamo i nostri spazi rurali per il riposo e il
recupero per coloro che hanno
bisogno di staccare da ambienti stressanti o traumatizzanti. Siamo chiari sia
su ciò che possiamo o non possiamo offrire (pasti, letti, uso di spazi comuni,
acqua corrente) sia su altre considerazioni: il progetto di casa o di terra è
composto unicamente da residenti bianchi/e? La cittadina è sicura per le
persone di colore? Che dire di chi è visibilmente queer o trans o che appartiene
a un’altra categoria emarginata?
Identifichiamo i nostri nemici locali. Molti suprematisti bianchi vivono qui, in
mezzo al nulla. Individuiamoli e impariamo a conoscere le loro reti e le loro
capacità. Usiamo queste informazioni tatticamente per contrastare le loro
iniziative. Stiamo attenti a salvaguardare le nostre identità e a rimanere anonimi/e
perché un nemico ben armato non è qualcosa con cui scherzare, soprattutto quando
tutti in città conoscono il tuo viso e il luogo in cui abiti.
Ci armiamo e ci alleniamo a vicenda. La destra razzista è pesantemente armata. Compriamo armi e impariamo a sparare. Creiamo dei poligoni per condividere e sviluppare le nostre capacità.
Diamo soldi come riusciamo. Facciamo donazioni per fondi di cauzione, doniamo per acquistare
materiale per dimostrazioni, doniamo ad afroamericani/e e alle organizzazioni
guidate da loro. Doniamo il più generosamente possibile, soprattutto se
beneficiamo del privilegio bianco o di quello di classe, se stiamo ancora
ricevendo uno stipendio o se riceviamo un extra per la disoccupazione legata al
Covid.
Forniamo supporto tecnico. Potremmo anche vivere in una caverna ma alcuni/e di noi hanno internet e
linee telefoniche. Aiutiamo con la grafica e il web design. Ascoltiamo le
frequenze radio della polizia e inviamo aggiornamenti ai compagni e alle
compagne sul campo. In questo caso, non ha importanza dove ci troviamo.
Identifichiamo risorse e linee di approvvigionamento e distribuiamo le eccedenze. Quali risorse possiamo condividere? Come possono essere dirette a livello locale e verso le città in rivolta? Esistono prodotti CSA (Community Supported Agriculture: agricoltura sostenuta dalla comunità locale) che possono essere distribuiti gratuitamente alle famiglie BIPOC? Un erborista può creare pacchetti di cure mediche da inviare al fronte? I negozianti di attività rurali potrebbero avere in stock prodotti che sono esauriti nelle grandi città. Sono anche meno propensi a tenere sotto chiave le bombolette spray e i tronchesi, e possono essere meno sospettosi nei confronti di chi acquista vestiti neri supplementari, ombrelli e altri oggetti che potrebbero destare sospetti in una città.
Andiamo in città quando possiamo. È un lungo viaggio ma proviamo ad andarci. Andiamo a manifestare e fare rumore. Distribuiamo maschere, mettiamoci tra la polizia e i più vulnerabili, accorriamo come medici di strada e, sì, distruggiamo persino le vetrine. Seguiamo la folla, prestiamo attenzione a ciò che ci circonda, osserviamo attentamente chi chiama a un’escalation delle azioni o a una riduzione d’intensità. Partecipiamo alla lotta in questo modo perché sappiamo che lo Stato non reagisce se non di fronte a una minaccia e che centinaia o migliaia di persone nelle strade non possono essere ignorate a lungo.
Cerchiamo di
contribuire in tutti questi modi e innumerevoli altri, perché sappiamo che una
lotta fantasiosa, militante e responsabile per la liberazione dei neri deve
essere centrale nella lotta per il mondo che intendiamo costruire insieme.
Piccole città e zone rurali devono insorgere a fianco delle metropoli e le
nostre comunità rurali devono collegarsi tra loro per condividere sostegno,
risorse, idee e competenze. Il fronte rurale non rifletterà direttamente gli stessi
movimenti, gli stessi orrori e le stesse trasformazioni della città. Abbiamo le
nostre peculiarità, strategie, demoni e possibilità. Dobbiamo coinvolgere le nostre
diverse abilità e forze, trovando i modi per attivarle. Dobbiamo lavorare
diligentemente per degli obiettivi, con cura. Sappiamo che il cammino sarà
lungo e che, strada facendo, impareremo e faremo degli errori.
La liberazione dei neri è la liberazione umana. Diamoci dentro, farabutti/e!
malamente vanno le cose, in provincia e nelle metropoli malamente si dice che andranno domani malamente si sparla e malamente si ama malamente ci brucia il cuore per le ingiustizie e la rassegnazione malamente si lotta e si torna spesso conciati malamente ma si continua ad andare avanti malamente vorremmo vedere girare il vento malamente colpire nel segno malamente è un avverbio resistente per chi lo sa apprezzare.
Ancona, 14 novembre 2012
Tutto va malamente, si direbbe in questi tempi, ma a ben guardare non sempre la cose vanno male per noi, a volte una lotta riesce a colpire malamente, ad aprire crepe nei muri e nelle catene che tengono imprigionate le vite e i desideri di chi è oppresso e sfruttato. L’incertezza e la crisi di questi tempi sono anche possibilità che si aprono, vecchie certezze che crollano.
Vogliamo realizzare una rivista che nasce e intende mantenersi trasversale a diverse sensibilità e percorsi politico-culturali. Non sarà, quindi, diretta espressione di nessuna area politica, ma raccoglierà contributi dei vari gruppi, comitati, associazioni e individualità che vivono e operano sul territorio delle Marche, tra l’Appennino e la costa.
«Malamente» terrà insieme l’approfondimento e l’informazione, ma sarà anche uno strumento di comunicazione e di collaborazione. Le uscite periodiche potranno infatti dare continuità agli interventi politici, sociali e culturali espressi sul territorio, aggregando attorno al progetto editoriale diversi soggetti i cui percorsi si sono spesso incrociati rimanendo però a livello di convergenza episodica, anche perché privi di un canale strutturato quale la rivista intende appunto essere.
Le sue pagine, d’altra parte, non temeranno il confronto delle posizioni e il dibattito interno che potrà svilupparsi.
La rivista deve nascere dal basso, da quella buona parte della società che rifiuta il modello di sviluppo vorace, oppressivo e umiliante in cui viviamo, per cercare di aprire in ogni ambito del quotidiano nuovi spazi in cui sperimentare una trasformazione rivoluzionaria della società. Ciò che non vogliamo è replicare l’ennesimo spazio identitario legato ad una sub-cultura rivolta su se stessa. Inoltre, siamo consapevoli che una visione emancipatrice e rivoluzionaria delle lotte sociali non può essere calata dall’alto in basso come criterio di descrizione ideologica della realtà. Lo spirito del camminare domandando zapatista ci spinge a osservare, ascoltare, dialogare con gli individui e le collettività e con le loro contraddizioni. Una prospettiva rivoluzionaria non può vivere nell’isolamento di una minoranza ma deve provare a leggere la realtà con un senso comune maggioritario e plurale. La rivista vuole dunque promuovere fin dalla scelta del linguaggio, della grafica e delle relazioni che può costruire, una lettura delle possibilità di trasformazione a partire dalla “normalità”. Uno stile vivo e interessante, inteso come il colore e il ritmo della comunicazione e del linguaggio, è un veicolo potente di comunicazione e di incontro.
È nostra intenzione partire da una descrizione territoriale dei fatti che vogliamo raccontare, senza ridurci ad essere un raccoglitore sporadico di notizie e comunicati ma diventando uno spazio di approfondimento e discussione. Spesso infatti, chi vive in provincia corre il rischio di non riuscire a cogliere quanto la dimensione locale delle contraddizioni e delle lotte sia immediatamente collegata ad una dimensione più ampia. Assumere come naturali i confini e le gerarchie costruite dagli Stati e dal sistema economico significa accettare il campo di relazioni costruito dal potere. Le lotte, invece, possono e devono costruire le proprie nuove geografie.
Come si è detto, le porte saranno aperte alla collaborazione di molti soggetti che si dovranno relazionare in modalità antiautoritarie e libertarie, mantenendo alcuni punti fermi imprescindibili: anticapitalismo, antirazzismo, antisessismo, antifascismo, rifiuto della politica intesa come gestione del potere e arte di scegliere il male minore. Non ci interessa dare spazio a partiti politici istituzionali, specialisti nella gestione delle nocività e nell’amministrazione del disastro sociale e ambientale, indaffarati in finte riforme affinché nulla cambi.
Il progetto editoriale intende rivolgersi a un pubblico allargato residente nell’area territoriale di riferimento, anche con l’auspicio di trovare nuovi complici lungo la strada. Ma il desiderio è quello di non rimanere chiusi negli stretti limiti del localismo, pertanto saranno sollecitati e accolti contributi provenienti dall’esterno e ospitati articoli che sappiano guardare oltre le problematiche strettamente locali.
Il timone della rivista sarà rivolto a proporre uno sguardo sul presente che abbia a cuore la libertà. Orientato, quindi, alla necessaria critica sociale, dal momento che quello che non manca, anche qui nella periferica provincia, sono le buone ragioni per opporci a un’organizzazione sociale che mostra sempre più, se ancor ce ne fosse bisogno, la propria insensatezza prima ancora che insostenibilità. Sotto traccia, vi è il desiderio di rompere l’accerchiamento del progresso a tutti i costi e della mercificazione dell’esistente, per recuperare le capacità di saper agire nel mondo.
Ai lettori verranno proposti spunti per analizzare e criticare un sistema di potere fondato sulla più sfacciata arroganza del vantaggio dei pochi a spese dei tanti. Le problematiche da affrontare riguarderanno una vasta area di argomenti, come il mondo del lavoro e del precariato, la difesa dell’ambiente, la sanità pubblica, il diritto alla casa, l’antimilitarismo, la pedagogia, la questione femminile, le migrazioni, l’economia solidale, l’autodeterminazione alimentare, il contrasto alle derive securitarie e xenofobe e tanti altri aspetti della realtà sociale contemporanea.
La rivista ospiterà report delle iniziative, corrispondenze e aggiornamenti dalle realtà locali, inchieste, interviste, riflessioni sull’attualità e sulle lotte in corso, articoli di analisi politica e culturale, recensioni, brani del passato che valga la pena rileggere ecc. In particolare, la rivista vuole dare spazio ai soggetti che agiscono sul territorio, per mettere in comune attraverso le sue pagine quegli spunti di critica/alternativa sociale che portano boccate d’aria fresca in un presente che ne ha quantomai bisogno.
Malamente uscirà in formato cartaceo: scelta dettata dalla volontà di riappropriarci di un mezzo di comunicazione stabile e che induce alla lettura piana e riflessiva. Riteniamo infatti che troppo spesso molti contenuti vengano oggi veicolati esclusivamente online e finiscano per perdersi dentro il frettoloso consumo quotidiano della rete, tra un controllo alla casella mail, un commento sul forum e un like sul social network. Nell’ottica della libera circolazione dei saperi, alla rivista cartacea verrà comunque affiancato un sito internet dove scaricarla gratuitamente. Il sito darà la possibilità ai lettori di commentare ogni articolo e conterrà gli aggiornamenti del profilo twitter della rivista: un mezzo, ma non l’unico, con cui intendiamo costruire una rete di relazioni e contatti e attraverso il quale ricevere stimoli e spunti da approfondire numero dopo numero.