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Come non ho (ancora) creato la mia identità digitale

Di un giardiniere non identificato

Da Rivista Malamente n. 31, dic. 2023 (QUI IL PDF)

Quel che segue è il racconto di una piccola odissea in cui è incappato un giardiniere francese che voleva seguire un corso di formazione del Centro per l’impiego (racconto che è stato pubblicato sul sito di Pièces et main d’œuvre). Seguire il corso è obbligatorio per poter avviare la sua attività lavorativa, l’unico modo per iscriversi e pagarlo utilizzando i fondi messi a sua disposizione è tramite un sito che richiede di autenticarsi con identità digitale, ma se non possiedi uno smartphone non puoi attivare la tua identità digitale… La tradizionale burocrazia diventa ancora più odiosa facendosi amministrazione digitale.

L’identità digitale è un modo per garantire a cittadini e imprese la possibilità di identificazione e autenticazione elettronica sicura, tramite telefono cellulare (molti di noi avranno già avuto a che fare con lo SPID). L’evoluzione a cui si sta lavorando negli ultimi anni – proposta dalla Commissione europea nel giugno 2021 – è la definizione di un quadro normativo comune per l’European Digital Identity Wallet: un “portafogli” che integra identità digitale, certificati, pass e altri attributi personali. In questo, ovviamente, le grandi aziende informatiche non stanno a guardare, con Google che è già passata da Google Pay a Google Wallet.

Tramite il Portafogli digitale sarà possibile identificarsi e accedere ai servizi digitali pubblici e privati di tutta l’UE. Come oggi non è in realtà un obbligo possedere la carta d’identità cartacea o elettronica (quella a forma di tessera bancomat), ma non averla significa essere tagliati fuori da tutte le attività in cui viene richiesta; così potrà presto avvenire per l’identità digitale tramite app su smartphone: non sei obbligato a dotartene, ma se non la hai… problemi tuoi. L’accesso ai servizi, anche a quelli base, diventerà molto complicato.

La rete si stringe sempre di più: se possedere uno smartphone è già ora (in una certa misura) un obbligo sociale, presto potrà diventare un (quasi) obbligo civile e amministrativo. Per chi si ostinerà nel sogno proibito di vivere senza uno smartphone (in attesa che tutte queste informazioni digitali siano più comodamente ospitate in un chip sottocutaneo), l’esclusione dalla vita sociale e civile sembra la soluzione più logica.

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L’antifascismo non è una bandiera russa

Da Rivista Malamente n. 31, dic. 2023 

di Enrico Delfiume

Quando nel febbraio 2022 la Russia ha lanciato l’invasione su larga scala dell’Ucraina, in Occidente molti antifascisti e antifasciste hanno dovuto aprire gli occhi sulla complessità di uno scenario politico e culturale che era stato a lungo trascurato o male interpretato. Le istanze di liberazione sociale, politica e culturale nei paesi dell’Est Europa non sono sovrapponibili in pieno con le categorie ideologiche e non sempre sono leggibili con le simbologie che vengono utilizzate in Europa occidentale.

Durante la guerra civile in Donbass, la presenza di combattenti di esplicita fede fascista in entrambi gli schieramenti aveva prodotto la paradossale situazione per cui, su entrambi i fronti, si trovavano volontari e formazioni di ideologie contrapposte. Quando la Russia ha lanciato l’invasione con tutto il corollario di stragi di civili, terrorismo di Stato e minaccia nucleare, le dimensioni e le coordinate del conflitto sono cambiate.

In questi quasi due anni abbiamo deciso di ascoltare, andando direttamente in Ucraina o traducendo contributi originali, le voci di quanti si sono organizzati per combattere contro l’invasione e per contrastare nei propri paesi l’autoritarismo e la corruzione dei governi di Russia e Bielorussia.

L’utilizzo della retorica antifascista e anti-occidentale da parte del governo di Mosca è palesemente parte di una più ampia strategia dei nuovi attori geopolitici autoritari, come la Russia e l’Iran, per creare e articolare consenso all’interno e all’esterno, mentre praticano la repressione e utilizzano gruppi paramilitari di estrema destra per le proprie strategie militari.

Il caso della compagnia Wagner sarebbe sufficiente a tacitare ogni critica al riguardo. Abbiamo già chiarito come non sia per noi accettabile che chi si dice antifascista si presti a questo equivoco. Tanto più che i compagni e le compagne che combattono legittimamente in Ucraina contro l’invasione, seppure rappresentino una minoranza, tentano esplicitamente di combattere il fascismo anche a casa loro e non risparmiano critiche al governo di Kiev.

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À la guerre comme à la guerre

Da Rivista Malamente n. 31, dic. 2023 (QUI IL PDF)

Di Redazione

Abbiamo scelto di dedicare la copertina alla resistenza del popolo palestinese, oppresso da decenni e vittima in queste settimane di una brutale rappresaglia. La miccia questa volta è stata accesa dall’attacco di Hamas del 7 ottobre. Quello che è seguito è noto ai più, ma l’interpretazione degli eventi è fonte di discussione tra molti compagni e compagne.

Non c’è alcun dubbio che lo Stato di Israele, da decenni, perseguiti e opprima la popolazione palestinese, che attui una politica di sterminio, che occupi territori da cui dovrebbe solo andarsene. Ed è chiaro come in questa “nuova” guerra, ancora una volta, i palestinesi pagheranno il prezzo più alto. Il nostro cuore è con loro e siamo al fianco di tutte le manifestazioni a sostegno della resistenza palestinese che vengono vietate e criminalizzate nel nostro Occidente.

D’altra parte ci rifiutiamo di credere che un gruppo di potere come Hamas possa rappresentare da solo le legittime aspirazioni alla libertà del popolo palestinese; sempre che si possa parlare di un “popolo” palestinese come unità indistinta. Sosteniamo la violenza degli oppressi contro i loro oppressori, ma sappiamo ancora distinguere tra rivolta popolare (intifada) e barbarie indiscriminata come quella che ha colpito tanti civili israeliani e di altre nazionalità la mattina del 7 ottobre. Pertanto ci rifiutiamo di festeggiare per le azioni di uomini che anche all’interno di Gaza reprimono ogni dissenso alla loro linea jihadista.

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Luna di miele a Maiorca

Da Rivista Malamente n. 17, mar. 2020 (QUI IL PDF)

Di Miguel Amorós

La possibilità di spostarsi, viaggiare e soggiornare per brevi periodi “altrove”, tipicamente in estate, è oggi alla portata di molti, ma spesso si finisce per ammassarsi con altri simili negli stessi posti, influenzati dalle migliaia di travel blog, dai portali booking, dalle offerte economiche, dalle tratte low cost, da un immaginario vacanziero sempre più stereotipato. Eppure varrebbe la pena percorrere sentieri non battuti, cercare alternative inaspettate, per scoprire che la meraviglia può essere anche a distanza ragionevole da casa, può essere alla portata delle proprie tasche e altrettanto entusiasmante (se non di più) delle mete maggiormente in voga. Conosciamo bene il turismo di massa, che si abbatte ormai da decenni sul nostro litorale adriatico, così come avviene, forse in misura ancora peggiore, nelle Isole Baleari: territorio raccontato da Miguel Amorós in questo articolo. Ora, se qualcuno tra i nostri lettori e lettrici fosse andato in vacanza alle Baleari non si senta in colpa; non gli/le chiediamo di battersi il patto meditando sui propri peccati, perché qui non vogliamo mettere in discussione i comportamenti individuali (in qualche modo indirizzati e condizionati dal contesto sociale) ma il modello culturale sottostante. Il testo che segue è la trascrizione di un intervento tenuto il 27 ottobre 2016 all’Ateneu Lo Tort[1] di Manacor (Maiorca), che abbiamo ripreso dall’appendice del libro di Henri Mora, Désastres touristiques. Effets politiques, sociaux et environnementaux d’une industrie dévorante (L’échappée, 2022). Un secondo intervento, dedicato ai Pirenei catalani, lo pubblicheremo su uno dei prossimi numeri della rivista.

La distruzione costante e irreversibile della costa e dell’entroterra alle sue spalle non è un fenomeno esclusivo di Maiorca. Si verifica in tutto il Mediterraneo e i suoi effetti sono più o meno visibili ovunque, a seconda della speculazione immobiliare e della costruzione di tangenziali o circonvallazioni. La peculiarità delle Isole Baleari è che questo fenomeno può essere osservato allo stato puro e su scala ridotta, il che ne fa un laboratorio dove studiare l’involuzione di una società, circoscritta in un’area limitata e circondata dal mare, in funzione dell’adattamento delle sue risorse territoriali e dei suoi beni culturali (che sono beni comuni) a un’unica attività economica, privata, il cui solo obiettivo è l’arricchimento personale di chi la pratica.

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Queer Anarchy in St. Imier

Da Rivista Malamente n. 30, set. 2023 (QUI IL PDF)

Intervista di Vittorio a Anna, Eli, Fiona, Flip

Dal 18 al 23 luglio nella cittadina di Saint-Imier in Svizzera si è svolto il raduno anarchico internazionale a 150 anni dalla nascita del movimento anarchico organizzato (settembre 1872). Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Bakunin e Kropotkin portavano lunghe barbe arruffate e cravattini neri alla Lavallière. Oggi l’anarchismo è più vivo che mai, ma l’estetica e le pratiche che marcano lo stile di migliaia di giovani attivisti e attiviste sono senz’altro queer e al tradizionale nero si sono aggiunti tutti i colori dello spettro. Lo stile queer contraddistingue la maggior parte dei partecipanti tra i venti e i trent’anni a questo vivace campeggio, dove ogni giorno si condividono idee e pratiche di lotta in più di duecento workshop e eventi. Migliaia di giovani si sono incontrati in una polifonia gioiosa e creativa, a volte caotica e leggera, altre di una intensità e radicalità spesso ancora invisibili nello spazio pubblico del nostro disgraziato paese. Questa intervista raccoglie le voci di giovani militanti provenienti dagli USA, dalla Francia e dal Regno Unito, che vivono attualmente in diversi progetti di abitazione collettiva a Berlino. Nell’intervista presentiamo i partecipanti con i pronomi con cui hanno scelto di essere chiamati secondo il genere nel quale si identificano, secondo una pratica ormai consolidata in ambiente anglosassone. Abbiamo mantenuto nel testo la pluralità di identità utilizzando il maschile e il femminile in modo inclusivo, senza appesantire il testo con particolari segni ortografici.

Vittorio (he/him): Inizierei con una domanda molto elementare perché ho notato nello spazio dell’editoria anarchica, ma anche tra la gente che sta partecipando a questo incontro, l’associazione tra anarchia e queer. Cosa significa, questo per voi? È questo l’abbinamento perfetto? Il nuovo abbinamento? Di cosa stiamo parlando?

Eli (they/them): L’anarchia queer è la creazione del genere e dei ruoli di genere, e la creazione di reti di relazioni basate sull’amore, sulla cura reciproca, sull’impegno profondo per l’amicizia. Questa è l’etica delle comunità queer, e i movimenti e le comunità anarchiche hanno davvero bisogno di quest’etica, in modo da poter diventare spazi amabili e sostenibili, che creano una cultura in cui le persone rimangano e si impegnino a lungo termine. Quindi l’anarchia queer mi sembra una combinazione naturale e necessaria, perché penso che le relazioni del patriarcato e dell’eterosessualità cis siano molto dannose per tutte le persone coinvolte, compresi gli uomini cis. La politica queer offre un’alternativa che è molto più forte, che ha più probabilità di generare un futuro anarchico.

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Spunti di riflessione per una decrescita digitale

Da Rivista Malamente n. 30, set. 2023 (QUI IL PDF)

Di Nicolas Alep

Di formazione informatico, ma in rottura con il suo mondo di provenienza, Nicolas Alep si dedica ora, in particolare, alla critica dell’industrializzazione in agricoltura, tema su cui ha contribuito all’opera collettiva “Reprendre la terre aux machines”, pubblicata dall’Atelier Paysan per le edizioni Seuil nel 2021. Il seguente articolo è stato pubblicato in via preliminare sulla rivista “L’Inventaire” (n. 12, autunno 2022) e, in versione definitiva, come introduzione alla seconda edizione di “Contro il digitale alternativo” (La lenteur, 2023), libro scritto insieme a Julia Laïnae e in via di pubblicazione in traduzione italiana per le nostre Edizioni Malamente.

Mentre la corsa alla digitalizzazione di ogni ambito sociale si rivela essere una fonte infinita di nocività, diversi attori ci propinano l’idea che «un altro digitale è possibile»: più umano, più ecologico, più trasparente, più cooperativo. Le grandi aziende tecnologiche sono avvertire: gli alternativi del digitale desiderano convertire quella megamacchina per profitti che è Internet in uno strumento conviviale al servizio della democrazia e del benessere di tutti/e. Julia Laïnae e Nicolas Alep, nel loro pungente saggio, ne hanno per tutti: burocrati verdi, gruppi di lavoro per una transizione digitale “sostenibile”, cyberminimalisti per la riduzione del danno, supporter del software libero, degli open data e della tecnologia civica. Riaffermano una posizione che appare sempre più insostenibile per molti dei nostri contemporanei: difendere la vita sulla Terra e la libertà umana comporta necessariamente la de-informatizzazione del mondo.

Contro il digitale alternativo, scritto con Julia Laïnae, è un piccolo e corrosivo saggio in cui abbiamo esposto i motivi di fondo che ci separano da quanti sostengono la possibilità di una gestione positiva del digitale.[1] Spesso con buone intenzioni, queste correnti difendono una visione per cui “un altro digitale è possibile”: libero, aperto, cittadino, alternativo… visione alla quale noi contrapponiamo la necessità di una “inversione di tendenza tecnologica”. La critica principale che abbiamo ricevuto è che il libro non apre prospettive di azione, non è un programma politico e ancor meno una guida per “vivere meglio con la tecnologia digitale”. Per molti lettori questo è ovviamente frustrante. Ma allo stato attuale, e per diverse ragioni, non sarebbe onesto pretendere di poter scrivere un manuale d’uso per una vera uscita dal digitale.

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Walkiria Terradura e la Resistenza delle donne

Da Rivista Malamente n. 30, set. 2023 (QUI IL PDF)

Di Maria Laura Belloni

Lo scorso 5 luglio ci ha lasciati Walkiria Terradura, alle soglie di un secolo di vita. Una donna che ha attraversato quella lunga e travagliata epoca che fu il Novecento e che lei decise di vivere dalla parte di coloro che combatterono per la libertà. Fu comandante della squadra Settebello (sei uomini), divisione del V battaglione della V brigata Garibaldi “Pesaro”; quest’ultima costituita nel novembre del ’43 e comandata da Ottavio Ricci. A sceglierla come loro comandante, per il suo coraggio e la sua determinazione, furono proprio gli uomini che andarono a comporre le fila della squadra partigiana. Walkiria è stata medaglia d’argento al valore militare. Si era specializzata nel minare e far saltare i ponti: i nazifascisti spiccarono contro di lei otto mandati di cattura e giravano con una sua foto nella speranza, vana, di catturarla.

«Ho combattuto contro i tedeschi e contro i fascisti e sono orgogliosa di quella mia scelta perché so di aver contribuito anch’io a sconfiggere quelle dittature che allora soffocavano il mondo.»

Walkiria nacque a Gubbio il 9 gennaio 1924 dall’avvocato perugino Gustavo Terradura Vagnarelli e da Laura Piccotti, morta prematuramente all’età di ventotto anni. Una famiglia borghese (il nonno Enrico Terradura era un industriale) che coltivò da subito ideali antifascisti, e di questo Walkiria ne era orgogliosa e ne riconosceva l’importanza per la sua formazione politica e culturale. Terza di cinque figli, il primogenito Araldo Libero si arruolò nella Marina e fu rinchiuso in carcere per sette anni in Egitto, Enrico divenne partigiano in Jugoslavia, Lionella seguì il padre e la sorella sui monti e purtroppo Serenella morì ancora infante. I genitori, quasi premonitori, le avevano donato un nome che negli anni della lotta partigiana si presentava da sé e quando le venne chiesto quale nome di battaglia avesse avuto durante la Resistenza, la sua risposta fu: «Non ne avevo bisogno… Me lo avevano già messo i miei genitori alla nascita».

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Dio è morto in laboratorio

Da Rivista Malamente n. 30, set. 2023 (QUI IL PDF)

Riflessioni a partire dal libro “Il futuro della vita” di J. Doudna e S. Sternberg

Di Luigi

Il genoma di Homo sapiens – cioè il patrimonio genetico che definisce l’essere umano moderno – si è plasmato nel corso di circa 200.000 anni in base alle forze della selezione naturale, unite a mutazioni casuali. Oggi, da una decina d’anni a questa parte, il genere umano ha raggiunto la possibilità di progettare la propria evoluzione, sottraendola alle “leggi di natura”. Il fatto che gli scienziati possano controllare l’evoluzione e scriverla a loro piacimento è un cambiamento assoluto e radicale nella storia della specie umana, ed è impossibile prevedere dove condurrà. Ciò che ha reso possibile questa svolta senza precedenti nella storia della vita sulla Terra è la biotecnologia CRISPR-Cas9; una delle protagoniste di questa scoperta (Nobel per la Chimica nel 2020) è Jennifer Doudna, docente dell’Università di Berkeley, che insieme al ricercatore Samuel Sternberg ha recentemente scritto il libro di divulgazione scientifica Il futuro della vita. Come arriveremo a controllare l’evoluzione (Mondadori, 2022).

Il meccanismo CRISPR-Cas9 (che d’ora in poi, per brevità chiameremo solo CRISPR, pronuncia: crisper) è stato identificato studiando i batteri e il loro sistema di protezione nei confronti dei virus. Proviamo in poche righe a descrivere di cosa si tratta: nel momento in cui un batterio entra in contatto con un virus, sintetizza una replica esatta del DNA virale, originando una molecola di RNA che va ad associarsi alla proteina Cas9. Quando, successivamente, questa coppia si imbatte di nuovo nella stessa tipologia di virus, cioè quando il pezzo di RNA incontra nuovamente una sequenza di DNA che riconosce come complementare, interviene la proteina Cas9 che è in grado di tagliare la sequenza genica, distruggendo il virus nemico.

Il “bello” è che questo meccanismo d’azione è riproducibile in laboratorio e applicabile a tutti gli esseri viventi per scopi ben diversi dall’originale. In estrema sintesi: basta preparare una specifica sequenza di RNA complementare alla sequenza di DNA, nota, che si vuole andare a modificare; inserito il complesso CRISPR nella cellula, l’RNA farà da “guida” per raggiungere il pezzo di DNA bersaglio, portando così la proteina Cas9 nel punto esatto in cui deve intervenire con le sue forbici. A questo punto, sarà possibile eliminare la sequenza di DNA tagliata (e quindi inattivare un gene) oppure sostituirla con un’altra sequenza preparata in laboratorio (cioè sostituire un pezzo di DNA “difettoso” con uno “corretto”). Essendo ormai completamente mappato il genoma umano – cioè la doppia elica formata da circa sei miliardi di basi azotate adenina (A), citosina (C), guanina (G) e timina (T), che formano circa 20.000 geni, che a loro volta compongono le 23 coppie di cromosomi – è possibile intervenire in specifici punti del “codice della vita” per programmare quali caratteristiche e funzionalità dovrà avere un individuo.

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Quando l’immagine uccide l’immaginazione

Da Rivista Malamente n. 30, set. 2023 (QUI IL PDF)

Di Annie Le Brun, a cura di Martina Guerrini

Annie Le Brun (1942) è una poetessa surrealista, scrittrice e critica letteraria francese. Incontra André Breton a ventuno anni e prende parte alle attività del movimento surrealista dal 1963 agli ultimi anni prima dell’autodissoluzione del gruppo. È stata la compagna di vita del poeta surrealista, commediografo e traduttore croato Radovan Ivšić, scomparso nel 2009. Pubblichiamo il suo intervento in occasione del seminario “Le immagini contro l’immaginazione: la mercificazione del sensibile”, tenutosi il 3 maggio 2023 all’Accademia di Belle Arti di Roma; trascrizione e traduzione sono a opera di Martina Guerrini (che di Annie Le Brun ha tradotto e curato il volume “L’eccesso di realtà. La mercificazione del sensibile”, BFS, 2010).

Senza dubbio, come voi, non ho mai smesso di essere affascinata dalle immagini, ed è per questo che sono giunta a preoccuparmi del ruolo riservato loro nel mondo digitale, poiché stanno chiudendo orizzonti che prima aprivano. Tuttavia, se l’origine della mia attività critica non fosse più poetica che politica, non avrei misurato l’importanza vitale della posta in gioco. Vale a dire che il capitale, sempre alla ricerca di nuovi profitti, dopo aver sfruttato la superficie e le profondità del mondo, era in procinto di attaccare la nostra vita interiore.

Sono le tappe di questa mercificazione del sensibile che mi propongo di evocare qui, così come il ruolo crescente dell’immagine in questa oscura storia, da cui dipende la poca libertà che ci resta. Questo mi porterà a riprendere il percorso critico che ho sviluppato attraverso tre saggi successivi, Du trop de réalité, Ce qui n’a pas de prix e Ceci tuera cela, scritto in collaborazione con Juri Armanda.

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Il mio femminismo ha il velo

Da Rivista Malamente n. 30, set. 2023 (QUI IL PDF)

Intervista di Sergio Sinigaglia a Takoua Ben Mohamed

Arrivare bambina in un nuovo Paese, calarsi in una realtà sconosciuta, in un contesto dove spesso trovano spazio diffidenza, pregiudizi, intolleranza e anche razzismo, dove ti senti addosso gli sguardi che osservano con freddezza. Takoua Ben Mohamed (Tunisia, 1991) è giunta in Italia con la famiglia all’età di otto anni. Dopo aver vissuto per poco tempo in una piccola località alle porte di Roma, si è trasferita nella capitale, affrontando l’impatto della grande città. Ha preso presto coscienza della propria situazione maturando in fretta e iniziando il suo impegno sociale, culturale e politico. Grazie al suo talento da fumettista e illustratrice ha pubblicato graphic novel di successo, dove tratta temi come la condizione delle donne musulmane e dei rifugiati, il razzismo, la xenofobia. Tra i suoi libri: “Sotto il velo” (BeccoGiallo, 2016), “La Rivoluzione dei Gelsomini” (BeccoGiallo, 2018), “Il mio migliore amico è fascista” (Rizzoli, 2021). A fine maggio è stata a Senigallia, su invito dell’Associazione Le Rondini, dove ha prima fatto visita ad alcune scuole superiori e ha poi partecipato a un dibattito organizzato presso il Centro sociale Arvultura (alla presenza, tra gli altri, di studenti e studentesse della scuola di italiano per stranieri Penny Wirton). L’abbiamo intervista in questa occasione.

Sei arrivata in Italia che eri una bambina, che impatto hai avuto con il nuovo contesto?

Era il 1999, quindi un’altra Italia. Inoltre la mia prima residenza è stata in un piccolo paese vicino a Roma dove si conoscevano tutti quanti, dunque un ambiente piuttosto familiare, tenendo presente che un bambino ha una capacità di ambientamento più facile rispetto a un adulto, il quale ha già una sua identità, una sua cultura. Per me è stato un cambiamento abbastanza normale.

I problemi sono iniziati quando nel 2001 ci siamo trasferiti a Roma, il primo anno all’Eur poi nella zona Est, per cui sono passata da un ambiente dove tutti si aiutavano, dove le relazioni erano facili anche se eravamo l’unica famiglia di immigrati, a una situazione completamente diversa dove uscivi la mattina e tornavi la sera senza avere tempo neanche di conoscere i vicini di casa.

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