ORA: l’esperienza di una moneta sociale

Intervista di Luigi ad alcuni/e promotori/trici della rete di moneta sociale ORA, da Rivista Malamente n. 24 (mar. 2022).

(QUI IL PDF)

Esistono moltissime esperienze di monete sociali, alternative, complementari, locali… ognuna con le sue caratteristiche ma accomunate dal tentativo di uscire dalle logiche monetarie “ufficiali”, per costruire sistemi territoriali di scambio basati sul mutualismo e la solidarietà. Uno di questi progetti è avviato ormai da diversi anni in provincia di Pesaro e Urbino, sviluppato dalla rete di economia solidale che ruota attorno a Oltremercato, il mercato contadino autogestito nato da un’assemblea di produttori che condividono le pratiche e il manifesto di Genuino Clandestino. La moneta si chiama ORA ed è, in sostanza, un’unità di misura dello scambio, un intermediario tra domanda e offerta di beni e servizi che permette il “dare” e “avere” senza bisogno di far circolare euro. Qualcosa di ben più strutturato di un semplice baratto. Si tratta di un sistema che rimette in discussione il nostro rapporto con il denaro: le ORE non vengono accumulate nelle mani di qualcuno, anzi spingono tutti i membri a partecipare alla vita della comunità, con quello che sanno fare o produrre, incoraggiano gli scambi e le relazioni solidali. La vitalità del progetto si fonda su una comunità locale ispirata ai principi della fiducia, della reciprocità e della cooperazione, con il fine di promuovere l’autogestione e l’indipendenza dal sistema delle merci e con la visione, in prospettiva, di una radicale trasformazione sociale a partire da una concreta alternativa di vita al capitalismo.

Voi fate parte di una rete che già da qualche anno promuove una “moneta sociale”, chiamata ORA, come mezzo di scambio alternativo all’euro. Andando subito al pratico: come funziona questo meccanismo? Come si innesca quel circuito a più soggetti che supera i limiti del baratto (dare/avere) tra due persone?

UBA. Dal punto di vista pratico è in sostanza un baratto tra più persone, fatto in tempi diversi, facilitato da un programma gestionale che tiene conto degli scambi. Quando una persona si iscrive apre un conto che parte da zero e può iniziare subito a scambiare beni e servizi con tutti gli altri: ogni volta che vende qualcosa il suo conto sale di qualche ORA, ogni volta che acquista scende. La somma di tutti i conti è sempre zero. Un esempio per capirci meglio: io vado da Michelina a fare un lavoro di muratura e mi faccio pagare in moneta sociale – poniamo cinque ORE – quindi registro la transazione che accredita a me queste cinque ORE e le addebita a Michelina; domani con le mie ORE posso andare a fare la spesa alimentare al Gas Nomade[1], il mio conto scenderà e salirà quello del Gas Nomade, e così via.

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Noi umani, futuri superflui

Origini e prospettive del transumanesimo

Interviste di Le Comptoire e Sciences Critiques a Pièces et Main-d’Œuvre [QUI IL PDF]

Qui e seguenti: Will Ferreira

In un futuro non troppo lontano ci aspetta un cambio radicale dell’idea stessa che abbiamo di “essere umano”, perché chi gestisce la scienza e le macchine – la tecnocrazia – potrà configurare l’umano a suo piacere, tramite manipolazioni genetiche e fusione di corpo e tecnologia. La selezione delle caratteristiche del nascituro, soppianterà la gravidanza affidata al caso: non è questione di chiedersi “se” succederà, ma “quando” succederà.

L’ibridazione dei corpi con dispositivi elettronici (impianti, protesi, organi artificiali, interfacce uomo-macchina) è già in atto. Enfatizzata come accorgimento medico per fronteggiare malattia e vecchiaia, celebrata dal tifo nazionale per le prodezze e vittorie paraolimpiche, non maschera il suo scopo di fondo che è la gestione totale della vita. Sebbene, per l’essere umano potenziato, ciò che prima era “vita” si trasforma in mero “funzionamento”.

La nostra epoca è segnata dall’escalation dello sviluppo tecnologico, il cui incedere non è lineare ma esponenziale, con riduzione sempre più spinta del tempo necessario affinché nuove tecnologie riconfigurino il mondo. E se qualcosa può essere fatto, possiamo stare certi che verrà fatto. Non ci sono remore morali o pregiudizi etici che tengano. Salvo poi, come apprendisti stregoni, non saper più controllare le forze evocate.

Siamo di fronte a uno scenario che sembra degno della peggiore fantascienza, ma in realtà avanza a grandi passi nei più spregiudicati laboratori della ricerca. Fino a quando, come accaduto per ogni tecnologia, arriverà il momento in cui il transumanesimo ce lo ritroveremo così familiare da non accorgercene più e da non poter più ricordare com’era, prima, la vita in società. Eppure gran parte degli umani, per fatalismo o indifferenza, sembrano non preoccuparsi dell’imminente disfatta della specie. Resistiamo e resisteremo, noi “scimpanzé del futuro“.

Il Manifesto degli scimpanzé del futuro è un libro di Pièces et Main-d’Œuvre: una critica appassionata e radicale del transumanesimo, cioè del tentativo di riprogettare artificialmente le basi della condizione umana, superando i limiti biologici del corpo per poterlo “potenziare” e “migliorare”. Gli scimpanzé del futuro, nel mondo che tali tecnologie si apprestano a forgiare, saranno quelle persone che avranno voluto conservare la propria imperfetta umanità.

Pubblichiamo qui una traduzione ridotta di due interviste a Pièces et Main-d’Œuvre: Non viviamo più in democrazia ma in tecnocrazia di Alizé Lacoste Jeanson (ALJ) per “Le Comptoire” e Il transumanesimo: una logica di guerra applicata all’evoluzione di Edouard V. Piely (EVP) per Sciences Critiques.

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La vita è un gioco, a punti

Di Captain Swing [QUI IL PDF]

Tutto è misurabile al giorno d’oggi. Le «rigogliosità non qualificabili» della vita – per dirla con Vaneigem – vengono tranquillamente incasellate, pesate e ricondotte alla loro «forma economica», la sopravvivenza. Tutto molto razionale ed efficiente. E così, se la giornata si compone di piccole azioni quotidiane, perché non scorporarle e attribuire loro un valore? Che ci si sia alzati dal letto col piede giusto o con quello sbagliato poco importa, purché le regole del gioco della vita siano chiare: una sequenza di punti da guadagnare, di classifiche da scalare, di bonus da ottenere ci aspettano là fuori. Quanto più ci si comporta bene e si adotta uno stile di vita sostenibile, tanto più aumenteremo il nostro punteggio.

Stiamo parlando dei wom, voucher digitali che rappresentano l’unità di misura con la quale si soppesa il valore sociale generato dalle azioni quotidiane degli individui, permettendo di premiare i comportamenti virtuosi (in attesa che le regole del gioco vengano implementate per punire i comportamenti viziosi, dissoluti, immorali, criminosi). Per ogni minuto di azione positiva si guadagna un wom. Il presupposto di partenza è che ci siano azioni individuali che generano delle “esternalità positive”, che hanno cioè un valore sociale, quantificabile. Queste azioni, opportunamente registrate, fanno guadagnare punti che poi, raggiunte certe soglie, possono essere spesi sotto forma di voucher nell’economia reale.

Dietro questo gioco c’è l’azienda Digit srl, spin-off universitario già sviluppatore di una pletora di soluzioni tecnologiche che quando va bene sono inutili ma molto più spesso veicolano una visione del mondo in cui la tecnologia ha già vinto la partita, ha già imposto la forma attorno alla quale si deve modellare la materia organica e all’essere umano non resta che asservirsi alla sua logica e alle sue modalità di relazione.

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Bernard Charbonneau e il “sentimento della natura” come forza rivoluzionaria

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Non è di una domenica in campagna che abbiamo bisogno, ma di una vita meno artificiale“.

Il nome di Bernard Charbonneau (1910-1996) è frequentemente associato a quello del più noto Jacques Ellul: entrambi sono considerati precursori dell’ecologia politica e del pensiero della decrescita. Originari di Bordeaux, amici, quasi coetanei, hanno condiviso per oltre mezzo secolo molte inquietudini, fatta eccezione per la fede religiosa: protestante Ellul, agnostico Charbonneau. Ellul, che riconosceva di dover a Charbonneau molte sue ispirazioni – “Charbonneau mi ha insegnato  a pensare e mi ha insegnato ad essere un uomo libero” – lo presentava come “il primo a superare la critica del macchinismo e dell’industria per accedere a una visione globale della tecnica come potere strutturale della società moderna”[1]. Charbonneau è infatti tra i primi a interrogarsi sulle profonde trasformazioni introdotte dal progresso tecnico, su come l’aumento della produzione materiale si accompagni al venir meno della libertà individuale. Ne desume la necessità di arrestare la crescita economica, che ormai diventata fine a se stessa non è compatibile con la salute dell’uomo e della terra.

Disegno di Valérie Paquereau 2018

Negli anni Trenta è per alcune stagioni vicino agli ambienti di Esprit e di Ordre nouveau (che non ha niente a che vedere con l’omonimo movimento di estrema destra del dopoguerra) e partecipa alla corrente di pensiero detta del “personalismo”, che intendeva rompere con le ideologie dominanti del secolo cercando una via alternativa tanto al capitalismo liberale quanto al comunismo. Se ne distacca quando capisce di non riuscire a far accogliere in pieno la sua analisi critica della società tecnoscientifica e l’urgenza di suscitare un’azione collettiva per riorientare la società contro il culto della tecnica, della produzione, dello Stato.

Dopo essere stato marginalizzato e misconosciuto nel dopoguerra dominato anche a sinistra dalla fascinazione per il progresso e l’espansione economica, Charbonneau ha esercitato una discreta influenza nel post-Sessantotto, con l’emergere delle lotte ecologiste. Lotte che non ha solo teorizzato ma alle quali ha partecipato in prima persona, in particolare all’interno del Comitato di difesa della costa aquitana. Nella seconda parte della sua vita si ritira con la famiglia in un paesino nei pressi di Pau, ai piedi dei Pirenei, continuando a insegnare storia e geografia nei licei della provincia sud-ovest: la sua eredità sta venendo oggi sempre più riscoperta, pur restando ancora quasi del tutto sconosciuta in Italia.

In difesa della costa aquitana, Guethary, settembre 1975

Il merito principale di Charbonneau è aver sottoposto a una critica complessiva la moderna società industriale – cioè l’organizzazione sociale fondata sul lavoro coatto e sulla produzione di merci – denunciando il mito del progresso in quanto illusorio e distruttivo. Quella che lui chiama la Grande Mue è la grande mutazione che stiamo vivendo, un concetto più ampio di quello di “rivoluzione industriale”: l’epoca in cui la tecnoscienza ha rimodellato il pianeta a sua immagine e somiglianza e, con esso, ha ridisegnato radicalmente l’essere umano, il suo stare al mondo e la sua mentalità. Si tratta di una mutazione epocale, paragonabile per la sua portata soltanto alla trasformazione prodotta dall’introduzione delle tecniche agricole nel neolitico, che non riguarda solo l’economia o qualche singolo aspetto della società, ma l’intera condizione umana.

A tutto questo Charbonneau oppone un progetto rivoluzionario a partire dalla vita quotidiana, alla cui base siano le comunità che abitano i territori, che riconducono la produzione nelle proprie mani, che capovolgono le pratiche e l’immaginario coltivando rapporti umani contrari a quelli della società tecnoindustriale. Questa rivoluzione deve passare anche, e soprattutto, attraverso un nuovo rapporto con la natura, intendendo con questo termine ciò che sfugge ai tentacoli del sistema industriale, che ne resta ai margini e si sottrae alle sue costrizioni. Alla natura è strettamente legata la libertà, un concetto che deve scendere dall’ideale filosofico per farsi materia quotidiana: “la libertà è essere libero… non essere definito come tale”[2], ma essere liberi non è possibile se non scardinando il sistema tecnico che toglie responsabilità e potere decisionale al soggetto umano. La natura rappresenta quindi uno spazio di libertà per l’individuo e di autonomia per le comunità: “una manifestazione di anarchismo concreto”.

Nella società industriale la natura è ovunque sottomessa, ma allo stesso tempo viene anche ricostruita artificialmente a uso e consumo di un’umanità che ha completamente smarrito ogni profondo legame con essa. L’ambiente naturale diventa quindi sia un serbatoio di materie prime per le esigenze dell’industria, sia la meta dei fine settimana per un tempo che è chiamato “libero” solo in funzione di quello occupato dalla produzione. Alla fine, tutti possono oggi dichiararsi “amanti della natura”, intendendo il più delle volte un suo surrogato, ovvero il parco naturale, il percorso turistico di montagna, lo spazio verde urbano o il documentario del National Geographic.

Henriette e Bernard. Maison du Boucau, Saint-Pé-de-Léren, 1990 circa

Charbonneau di fronte a tutto questo, ponendo già negli anni Trenta le basi di una nuova ecologia politica, afferma che il “sentimento della natura” – espressione ripresa dal geografo anarchico Élisée Reclus – non è solo un capriccio letterario, ma una “forza rivoluzionaria”. Le sentiment de la nature, force révolutionnaire è il titolo di un suo lungo articolo del 1937. Tanto più la società incatena l’uomo con i suoi imperativi di produzione e consumo, tanto più il “sentimento della natura” è una reazione a queste costrizioni: una viva ricerca di libertà. In questo senso non manca in Charbonneau anche un recupero della dimensione spirituale dell’essere umano e del suo stare su questa Terra, che equilibri la dimensione materiale dell’esistenza. L’emozione che suscita il contatto diretto con la natura – e anche quell’alleanza con la natura che sta alla base dell’abitare e vivere un territorio – è un grande stimolo alla volontà di cambiare il mondo per edificare una società ecologista e libertaria.

Qui di seguito proponiamo la traduzione di alcuni estratti presi da varie opere di Charbonneau.

Il sentimento della natura, forza rivoluzionaria, 1937

Per tutti coloro che hanno ancora un genuino desiderio di vivere, che non vegetano nello stomaco del mostro sociale, non c’è che una soluzione: attendere la fine del lavoro. Vivere per mesi una vita rallentata. Per l’adulto, il termine “vacanze” finisce per essere significativo come lo è per uno studente recluso in un collegio, proprio perché la società attuale è chiusa come un collegio. Per molti giovani, al di là delle ipocrisie filosofiche, il viaggio in montagna o al mare rappresenta il solo momento di vita possibile. Invano cercano di persuaderci che il tempo libero è divertimento; piuttosto, è il lavoro artificiale imposto dall’attuale società che merita di essere trattato con ironia. Il nostro tempo libero è un affare secondario? In realtà è il solo momento in cui possiamo vivere senza secondi fini, con la camicia sbottonata, giocando, conoscendo e assaporando la gioia di placare la nostra fame e la nostra sete.

Per i giovani di oggi, il sentimento della natura non è la vaga emozione di fronte a uno spettacolo, è una sete che nasce dal desiderio di vivere, un sentimento tragico, antagonista alla vita quotidiana che conduciamo; se resta inespresso è solo perché alberga nel più profondo di noi stessi. Ma è ora il momento in cui questo conflitto ha raggiunto una tale violenza che preme per mostrarsi alla nostra coscienza. È strano che la montagna sia per alcuni l’unica salvezza, è strano che non possiamo vivere davvero se non quando, zaino in spalla, guadagniamo l’ingresso di una valle; perché non possiamo vivere se non fuggendo il nostro lavoro, la nostra famiglia, la nostra patria? Fuggiamo senza voltarci indietro: la montagna, in altri tempi terra di rifugio per i popoli vinti, è oggi l’asilo di coloro che non trovano pace se non quando la sua ombra cala sui giorni feroci delle città. Scappiamo anche da noi stessi, ma dal momento che il nostro io non è che un io sociale, stiamo scappando dalla nostra società civilizzata.

Charbonneau ed Ellul – Archivio B. Charbonneau

Finché ci saranno governi ben organizzati, i ministri della polizia faranno bene a diffidare dei giovani che escono da soli per percorrere sentieri isolati: sono certamente spiriti malvagi, molto più di certi senatori comunisti. “Ma sono così carini, hanno idee generose e vaghe, non fanno politica” – senza dubbio, ma è sempre possibile che a lungo termine uno spirito malvagio finisca per prendere coscienza delle sue esigenze. I governi diffidino di questi giovani entusiasti, posseduti dallo spirito di giustizia, dal sentimento di miseria comune; diffidino anche dell’amore autentico per la natura perché se un giorno, abbattendo brutalmente le sottili costruzioni della politica, un movimento si opporrà alla più raffinata delle civiltà, questo sentimento sarà la sua forza essenziale.

Possiamo dire che fino alla metà del XIX secolo, non avendo l’umanità vissuto troppo lontano dalla natura, il sentimento della natura non ha mai avuto grande considerazione nella vita sociale. Questo sentimento si è sviluppato nella misura in cui un paese o una classe hanno visto la loro vita trasformata dalla civiltà industriale, manifestandosi con più forza tra le classi ricche e in quei paesi dove hanno maggiormente inciso le conseguenze del progresso tecnico: Inghilterra, Stati Uniti, Germania, Francia. In questi paesi la classe “naturista” è stata per prima la borghesia poi, nell’ordine, gli impiegati e gli operai; ai Touring club borghesi hanno risposto più tardi i Naturfreunde (gli Amici della natura) socialisti. […] Il sentimento della natura ha inizialmente penetrato la classe borghese, con manifestazioni che possono riassumersi in una parola: turismo. […] La borghesia non sfugge al suo destino, che è di vivere in maniera sempre più artificiale anche quando cerca di ritornare alla natura. […] Il sentimento della natura, per come si esprime comunemente nella borghesia, ha subìto una doppia deviazione: materialista e idealista. Il borghese torna alla natura per riposarsi o per vedere un bello spettacolo: la natura è per lui un giardino pubblico in mezzo a terreni occupati da fabbriche e campi. La considera una parentesi che non ha nulla a che vedere con la sua vita di tutti i giorni: amicizie delle vacanze, entusiasmi delle vacanze, amori delle vacanze; per due mesi il borghese s’illude di amare, di affezionarsi, poi, a settembre, come dice M. Martin “chiude le valigie e ritorna agli affari seri”.

Le jardin de Babylone, 1969

La seconda rivoluzione industriale, quella degli idrocarburi e della chimica, si sta imponendo nelle campagne europee. La macchina va troppo veloce per il pensiero: il suo utilizzo precede sempre la coscienza dei suoi effetti. La motosega non lascia più il tempo di riflettere come l’ascia. Se si può abbattere una quercia in qualche minuto, ci vuole comunque un secolo per farla crescere. Il trattore non è più appannaggio dei grandi proprietari terrieri, i prodotti chimici diminuiscono il lavoro del contadino, ma visto che bisogna pagarli, alla fine ci si ritrova comunque a lavorare. La piccola impresa agricola non è più redditizia. Il progresso tecnico significa concentrazione, la meccanizzazione genera grandi aziende. Il ruscello irriga terreni saturi di chimica e basta qualche pompa per prosciugarlo. Cos’è diventata la vita segreta delle valli? Il lavoro diventa veramente lavoro, cioè lavoro di fabbrica. Tra non molto i contadini reclameranno il loro diritto di passare le vacanze in campagna.

Lettera di Jaime Semprun per la riedizione di Jardin de Babylone, 2001 – Archivio B. Charbonneau

La rivoluzione agricola ha raso al suolo la campagna francese, lasciando solo una distesa, polverosa o fangosa, dove il trattore, a perdita d’occhio, traccia la sua linea. Indifferente ai rilievi, al passato, va. Se il trattore ti consente di lavorare tre volte più velocemente, devi lavorare tre volte di più per pagarlo.

Tutta la vita umana è espressione della natura, nulla di essenziale può essere aggiunto ad essa: nel migliore dei casi, l’artificio può semplicemente camuffare un vuoto. Il cielo è blu sulla nostra testa e l’acqua chiara scorre tra le nostre dita; il nostro cuore batte e i nostri occhi sono aperti. Cos’altro potremmo chiedere? Tutto quel che c’è di più bello e più forte, dal più semplice al più sublime, non l’ha inventato nessuno: le nuove invenzioni, nel migliore dei casi, sono solo nuovi pretesti per vecchie gioie. Bevi in ​​una giornata assetata e mangia al momento della fame, tuffati nell’onda e prendi un pesce, scherza con l’amico o bacia gli occhi dell’amica. Tutto ciò che possiamo acquisire è solo un’aggiunta, l’essenziale ci è stato dato il ​​giorno della nostra nascita.

Gli uomini si sono radunati nelle città per sfuggire alle forze della natura. E ci sono riusciti fin troppo bene; l’abitante della città moderna tende a essere completamente inglobato in un ambiente artificiale. Non solo per via della folla, ma perché tutto ciò che lo circonda è fabbricato dall’uomo, per l’utilità umana. In mezzo alle case, gli uomini hanno riportato la terra e costruito uno scenario; gli avventori dei giardini pubblici sono troppo numerosi: guardare ma non toccare. Il costo delle megalopoli aumenta ancora di più delle loro dimensioni. Bisogna far arrivare più energia, più acqua. Bisogna assicurare il trasporto dei cittadini, sbarazzarsi dei cadaveri e di altri scarti. Riciclando l’acqua delle fogne, la città è ridotta a bere la propria urina. Propongo di stimare in franchi il metro quadrato o il metro cubo d’aria pura, come i kilowatt. Il XIX secolo aveva le sue galere industriali, il nostro ha l’inferno quotidiano dei trasporti. La megalopoli non può essere salvata che dal sacrificio, ogni giorno più spinto, delle sue libertà.

Se il paesaggio rurale è il risultato di un matrimonio tra terra e uomo, la città moderna è una costruzione in cui le ragioni umane – a volte impazzite – hanno vinto.

Selezione dall’archivio B. Charbonneau, 2019

Se non affrontiamo gli effetti sulla natura e sull’uomo della civilizzazione industriale e urbana dobbiamo considerare probabile la fine della natura con, per qualche tempo, una confortevole sopravvivenza nella spazzatura: solida, liquida o sonora. E se qualche incidente sconvolgerà la grande macchina, non saranno più solamente i pesci a marcire all’aria aperta, ma gli uomini fisicamente e soprattutto spiritualmente asfissiati.

La natura resta l’indispensabile superfluo della società industriale. I mass media diffondono quotidianamente il mito del Mare, della Montagna o della Neve. Il turista non è che un voyeur, il suo viaggio si riduce al monumento o al sito classificato d’interesse. Ovunque l’artificio cerca di restituirci la natura. Isolato dalla natura nella sua auto, il turista guarda con occhio sempre più indifferente il piatto documentario che passa dietro al finestrino. Ammirare i ghiacciai attraverso le finestre di un palazzo non impedisce di lamentarsi se il riscaldamento è troppo basso. Un turista non vive, viaggia; appena mette piede a terra, il clacson del pullman lo richiama all’ordine; il turismo e la vita autentica si mescolano tra loro come l’olio fa con l’acqua. Con la società capitalistica il turismo è diventato un’industria pesante. Le agenzie turistiche fabbricano in serie prodotti standard, il cui valore è quotato in borsa. Non ci sarà più natura in Francia, ma autostrade che condurranno da fabbrica a fabbrica – chimica o turistica.

Notre table rase, 1971

Non dobbiamo difendere la natura in sé, ma la natura abitata, il diritto alla campagna che implica dei duri compiti. I naturalisti furono i primi a scoprire l’ecologia. Ma se ci atteniamo alla difesa di biotopi e specie, trascuriamo l’essenziale del problema, che è umano, e rimaniamo soddisfatti di riforme ad hoc. Alla fine la natura sarà salvata da qualche riserva – naturale perché protetta dalla polizia – dove solo l’ambientalista certificato potrà entrare e anzi non vedrà di cattivo occhio i terreni militari chiusi al pubblico. Per lui, più un territorio è inabitabile, più è interessante: è per questo che difende le zone inospitali più delle campagne. Come il protettore dei siti d’interesse, il naturalista vede solo il suo lavoro e per salvare la natura è pronto a privarne l’uomo. Eppure è il primo a sapere che l’uomo non vive dello spettacolo della natura e che rifiutargli l’acqua e il pesce è ucciderlo.

Non credo che eviteremo lo scontro con la società attuale, anche se sarebbe bello se scomparisse senza lotte. La rivoluzione verde (o ecologica, se preferite: non mi interessa la parola, è la cosa che conta per me) mette in discussione, molto più del socialismo, i principi e gli interessi della società borghese in cui viviamo. Ci saranno da combattere niente meno che Dio e il portafoglio: la Chiesa e il supermercato. Eviteremo la violenza, la guerra? Chi ama la campagna ha di meglio da fare che giocare al piccolo soldato, ma temo che i rapporti tra il movimento ecologista e la nostra società rimarranno pacifici solo nella misura in cui il movimento resterà confinato nel recinto in cui è stato parcheggiato. Non vedo come potrà evitare atti di sabotaggio punibili dalla legge, che in questo caso si applicherà con più rigore rispetto a quando si tratta di inquinamento dei fiumi. È probabilmente quando vedremo versare il suo sangue che sapremo che la rivoluzione del 2000 è nata.

Le Système et le chaos. Critique du développement exponentiel, 1973

L’azione della tecnica è automatica, precede la riflessione. Il suo ritmo troppo veloce eccede la previsione; quando crediamo di coglierne gli effetti, è già oltre. […] L’uomo dunque non è più il fine di questa evoluzione che lo supera, ma soltanto la sua provvisoria giustificazione; la macchina non è più il mezzo di cui una società si serve, ma la potenza che la modella: i cambiamenti tecnici determinano trasformazioni economiche che provocano a loro volta trasformazioni sociali: nel nostro mondo ossessionato dall’efficacia, queste seguono e non precedono. La tecnica allora fa la storia, perché domina le forze naturali e le forze spirituali si rifiutano di controllarla. Le nostre rivoluzioni non modificano più le condizioni sociali e non riescono a stare al passo di quelle generate dalle tecniche. La macchina a vapore ha fatto di più per cambiare la società che non i principi del 1789, se la libertà non si è stabilita sulla terra, la fabbrica sì.

Le Système et le chaos, 1973

La società industriale vede bene il deficit delle società sottosviluppate o del passato, ma ignora il suo; anche perché giudica alla luce dei propri criteri. Per percepire i costi naturali e umani, bisogna aver scelto la natura e l’uomo.

La ragion d’essere e il difetto di ogni apparato è di sostituirsi all’uomo fisico o spirituale. Ogni meccanizzazione si paga con una perdita di coscienza; alcuni ne approfitteranno per porla altrove, ma non è questo che succede di solito. Guidare bene un’auto vuol dire non pensarci più e agire automaticamente, la riflessione è troppo lenta per il ritmo della macchina. Così il suo automatismo conquista l’uomo che talvolta trova la pace in questa incoscienza; se certi operai soffrono alla catena di montaggio, molti ci stanno bene, nella gradevole consapevolezza del loro vuoto interiore. Forse il progresso dell’organizzazione risponde al segreto desiderio dell’uomo: fabbricare l’automa che un giorno si incaricherà di pensare e vivere al suo posto.

Chronique de l’an deux mille, 1974

Si è visto che la crescita esponenziale mentre risolveva problemi ne poneva di nuovi; aveva costi di ogni genere: economici, ecologici, sociali. Si è scoperto che ogni azione è ambigua; la produzione può essere anche chiamata distruzione della materia prima: la produzione di legno rade il bosco. La stessa cosa si può dire in due modi. La civiltà dell’igiene è allo stesso tempo una civiltà della spazzatura. […] Se non ci si interroga più sui costi delle proprie azioni, allora le conseguenze saranno per lo più negative: potremmo allungare all’infinito questo catalogo di produzioni distruttive di una società che si rifiuta di mettere in discussione le conseguenze dell’economia. Non dobbiamo dimenticare che si tratta di una crescita esponenziale: la curva irresistibilmente decolla e si raddrizza, e tende verticalmente, cioè all’assoluto. Ma lo spazio-tempo della Terra è finito… Più andiamo, più pagheremo caro vantaggi che s’assottigliano. All’inizio i benefici della crescita sono evidenti: con pochi milioni abbiamo potuto guadagnare mesi sulla traversata atlantica, ma per guadagnare tre ore abbiamo investito miliardi. Così come le centrali atomiche, costeranno care. E non sarà solo in dollari, ma in un’organizzazione raffinata, in una disciplina implacabile: in libertà.

Le totalitarisme industriel, 2019

Le Feu vert, autocritique du mouvement écologiste, 1980

Un bel giorno, il governo sarà costretto a praticare l’ecologia. Senza farci illusioni possiamo pensare che, a meno di una catastrofe, il cambiamento ecologico non sarà dovuto a un’opposizione minoritaria e sprovvista di mezzi, ma alla borghesia dominante, il giorno in cui non potrà fare diversamente. Saranno i vari responsabili della rovina della terra che organizzeranno il salvataggio di quel poco che rimane e che, dopo l’abbondanza, gestiranno la penuria e la sopravvivenza. Poiché queste persone non hanno pregiudizi, credono tanto nello sviluppo quanto nell’ecologia: in realtà credono solo nel potere, facendo ciò che è inevitabile.

L’amante della natura è perfettamente integrabile nel sistema industriale come gestore delle riserve naturali o dei parchi nazionali, che fungono da alibi per le necessità industriali, immobiliari, fondiarie e turistiche, nella proporzione di un’allodola per un cavallo. In questi spazi-reliquia, amministrativamente congelati, il naturalista può soddisfare la sua passione per la natura intatta come l’etnologo quella per le società tribali chiuse in altre riserve e musei. Ma tra la natura provvisoriamente riservata e la cultura del cemento e dell’asfalto, quello di cui gli individui saranno privati è la campagna in cui l’agricoltore vive e preserva la terra per tutti. Non essendo né bestia né angelo, né orso né ecologista incaricato di studiarlo e ospitato come tale nel parco nazionale, posso solo rifiutare una società che mi proibisce di vivere la mia patria: la terra.

La chiave del problema non è nella natura o nell’uomo, ma nel loro rapporto, soprattutto in uno spazio profondamente umanizzato come l’Europa delle città e delle campagne. L’ecologismo ha un solo modo per risolvere la contraddizione tra natura e uomo: eliminare quest’ultimo. […] L’amante della natura ha una sola soluzione da offrire all’uomo: la riserva naturale estesa su tutto il pianeta. E, per finire, la partenza per Saturno o il suicidio dell’ultimo elemento perturbatore: il direttore di questo museo. […] Ma la coscienza attiva della natura è una questione di morale o, piuttosto, di etica: è un risveglio dello spirito. La protezione della natura affonda più nella libertà che nella materia.

Producendo un superfluo che può essere aumentato indefinitamente, l’industria del tempo libero è uno dei motori dello sviluppo e, poiché la natura è il suo oggetto principale, è la causa numero uno della sua devastazione. Solo la guerra può sprecare ancora più energia e spazio. Questo svago standardizzato e concentrato, perché organizzato, non ha motivo di essere se non per i profitti degli operatori turistici. La sua giustificazione è di fornire a tutti ciò che in realtà distrugge: natura e libertà.

Henriette e Bernard

Bibliografia su Bernard Charbonneau

Bernard Charbonneau: une vie entière à dénoncer la grande imposture, sous la direction de Jacques Prades, Ramonville, Érès, 1997.

Daniel Cérézuelle, Écologie et liberté: Bernard Charbonneau, précurseur de l’écologie politique, Parigi, Parangon, 2006.

Bernard Charbonneau: habiter la Terre. Actes du colloque du 2-4 mai 2011, Université de Pau et des pays de l’Adour, 2012.

Daniel Cérézuelle, Bernard Charbonneau, in 20 penseurs vraiment critiques, coordonné par Cédric Biagini, Guillaume Carnino et Patrick Marcolini, Montreuil, L’Échappée, 2013.

Bernard Charbonneau, Jacques Ellul, Nous sommes des révolutionnaires malgré nous: textes pionniers de l’écologie politique, Pargi, Seuil, 2014.

Bernard Charbonneau & Jacques Ellul: deux libertaires gascons unis par une pensée commune, présentation et choix d’extraits par Jean Bernard-Maugiron, [Bordeaux], Les Amis de Bartleby, 2017.

Daniel Cérézuelle, Bernard Charbonneau ou La critique du développement exponentiel, Lione, Le Passager clandestin, 2018.

https://lagrandemue.wordpress.com (sito dedicato al pensiero di B. Charbonneau).


[1] Le due citazioni: Patrick Chastenet, Entretiens avec Jacques Ellul, Parigi, La Table Ronde, 1994; Jacques Ellul, Une introduction à la pensée de Bernard Charbonneau, in “Ouvertures. Cahiers du Sud-Ouest”, n. 7, 1985, p. 41.

[2] B. Charbonneau, L’État, (1949); nuova edizione: Parigi, R&N, 2020.

Perché opporsi alla tirannia tecnologica

Ad uso delle giovani generazioni.

Di Pièces et Main d’Oeuvre [QUI IL PDF]

Nel 2015 il gruppo Pièces et Main d’Oeuvre (che in realtà non si definisce né “gruppo” né “collettivo”, ma atelier di bricolage e di cui abbiamo già pubblicato un contributo su Malamente #15) è stato invitato a una discussione pubblica organizzata da studenti di Grenoble a partire da alcune domande: “che cosa hanno gli smartphone di così speciale da monopolizzare la nostra attenzione? L’uso di internet avvicina le persone o le allontana? Quando l’utilizzo di nuove tecnologie diventa eccessivo e dannoso per la salute (fisica e mentale)? Perché i giovani sono i più colpiti da tutto questo?”. Abbiamo tradotto la traccia del loro intervento perché ci sembra che senza tanti giri di parole descrivano efficacemente la perdita di autonomia e di libertà in cui siamo immersi, talvolta senza rendercene conto. In conclusione trovate anche una loro breve presentazione. Se volete seguire le attività del gruppo o ordinare il loro catalogo date un’occhiata al sito www.piecesetmaindoeuvre.com oppure contattateli direttamente (BP 27 – 38172 Seyssinet-Pariset). Intanto proviamo a contrastare i nostri tempi, ad aprire spazi di autonomia e a individuare i responsabili della “tirannia tecnologica”!

Sono passati alcuni anni da quanto a una conferenza alla FNAC [libreria] di Grenoble, Didier Marsacq, ricercatore al CEA (Commissariato per l’energia atomica) specializzato in micropile a combustibile per cellulari, dichiarava: “certamente, queste pile costeranno più care rispetto a ricaricare un telefono da una presa elettrica, ma il nostro target sono gli adolescenti, immaturi e meno razionali, e pensiamo che saranno attratti dalla tecnologia senza fili” (individuato per il suo senso del commercio, questo ricercatore è stato successivamente reclutato dal gruppo Sogeti come direttore commerciale per le vendite di soluzioni di cybersicurezza).

“Perché i giovani sono i più colpiti?” Perché i ricercatori vogliono che le loro invenzioni fruttino, gli industriali vogliono vendere sempre più gadget ai consumatori, i pubblicitari e gli addetti al marketing vi hanno identificato come i perfetti ingenui. Guardate come disprezzano i vostri diciassette anni. Vi piace essere dei “target” nel loro mirino?

Oltre alla vostra supposta “immaturità”, i venditori giocano sul fatto che voi non avete conosciuto che un mondo di chincaglieria elettronica. Ignorate come si possa vivere senza smartphone, computer, internet e altri dispositivi (in attesa dell’ultimo iWatch di Apple, senza il quale si vive bene lo stesso, non trovate?). Non avete l’età per poter paragonare la vita di prima (meno di vent’anni fa) e quella di oggi. Soprattutto, come vivreste senza queste tecnologie, nel mondo di queste tecnologie? Sareste informati della prossima serata senza uno smartphone? Senza Facebook? I vostri amici vi darebbero appuntamento senza Whatsapp? Osereste dire a scuola che non avete uno smartphone? O cercare un lavoro d’estate senza essere raggiungibili in ogni momento? Difficile, a meno di sopportare sarcasmi, incomprensioni, rifiuti.

Sapete come noi che lo smartphone e internet ci sono imposti. Per vivere nell’e-mondo, insieme ai suoi contemporanei, ognuno deve essere equipaggiato di interfacce di connessione. Altrimenti è come nuotare sott’acqua senza bombola d’ossigeno.

Ciò non è accaduto naturalmente. Voi non siete nativi digitali per via di un processo spontaneo, ma per volontà di Didier Marsacq e dei suoi colleghi, ingegneri, ricercatori, industriali, commercianti. La generazione dei vostri genitori, che è cresciuta in un altro tipo di mondo, non ha mai avuto voce in capitolo su questa rivoluzione. Nessuno l’ha consultata per sapere se desiderasse precipitare in un mondo digitale e se questo nuovo mondo gli sembrasse più invidiabile di un altro. Al contrario, il “techno-gratin” [insieme dei pezzi grossi della ricerca e dell’amministrazione, i cui legami determinano e sostengono lo sviluppo tecnologico] preoccupato di possibili opposizioni, ha messo in campo delle procedure per evitare ogni rifiuto (lo smacco degli OGM gli aveva insegnato la prudenza).

Non si tratta di rispondere ai bisogni reali, ma di trovare degli sbocchi redditizi per una tecnologia: “quando un concetto appare in rottura o avanti rispetto ai tempi lanciamo degli esperimenti che consistono nell’immergere degli individui in un ambiente futuro simulato, così da realizzare dei test di utilizzo. I prodotti progettati appaiono in questo modo maggiormente sensati per gli utilizzatori”. Così si presenta l’Idea’s laboratory del CEA-Minatec [www.ideas-laboratory.com; si tratta di un complesso dedicato alle micro e nano tecnologie, situato a Grenoble]. Un laboratorio in cui ricercatori, sociologi, designer, artisti, si domandano quali prodotti tecnologici potrebbero essere accettabili per la popolazione. Esempio: degli occhiali a “realtà aumentata”? È un nostro urgente bisogno? No, certamente. Ma i manipolari dell’Idea’s Lab ce lo vogliono vendere e hanno i mezzi per farcelo accettare, per acclimatarci a mutazioni tecnologiche che non abbiamo richiesto.

Secondo voi, che cosa cambia maggiormente le nostre vite: il colore del partito politico al potere o internet? Il mondo cambia perché abbiamo questo o quell’altro politico o perché l’informatica e le reti permettono di fare delle transazioni finanziarie globali alla velocità della luce? Avete capito che la tecnologia è politica fatta con altri mezzi, i più efficaci in effetti.

La politica, in democrazia, è affare di tutti. A ogni cittadino è richiesta la sua opinione negli affari collettivi. Non avendo mai deciso collettivamente di vivere in un mondo digitale, accelerato, iperconnesso, possiamo dire che stiamo vivendo sotto una tirannia tecnologica.

Per voi questa vita è normale. Gli animali nati allo zoo ignorano che potrebbero correre nella savana e per questo non soffrono – si pensa – a essere allevati in cattività. E voi? Di che cosa ignorate di soffrire?

Vi si dice che le nuove tecnologie sono “neutre”, né buone né cattive, e che bisogna solamente evitare il “cattivo utilizzo” o il loro uso “eccessivo”. Questa menzogna non resiste a un mini questionario:

1) Chi decide che un utilizzo sia buono o cattivo, e per chi? In quali circostanze?
2) Si possono salvaguardare gli utilizzi buoni ed eliminare quelli cattivi?
3) Si è mai riusciti, una volta in tutta la storia delle tecnologie, a eliminare i supposti cattivi utilizzi?

Risposta: la tecnologia è sempre buono e cattivo utilizzo. La tecnologia è ambivalente: ora buona, ora cattiva. Pretendere di distinguere è voler separare le due facce di una stessa medaglia. Questa è una banalità che però va ribadita senza sosta, tanto la propaganda è insistente.

E adesso la vera questione: in cosa la tecnologia (e tutti i suoi usi) cambia il mondo, le nostre vite, i nostri corpi, la nostra relazione con lo spazio e il tempo, con gli altri, con noi stessi? Internet e lo smartphone accelerano la vita sociale, fino a rendere estenuanti le giornate di lavoro (essere raggiungibili in ogni momento, rispondere immediatamente, fare dieci cose contemporaneamente, etc.) sopprimendo ogni tempo “morto” in cui si poteva ancora riflettere, avere delle idee, pensare per sé. La continua sollecitazione dall’esterno (ho ricevuto un messaggio? perché non mi risponde? cosa stanno facendo i miei amici? che succede altrove?) ci priva del legame vitale con la nostra interiorità. Da questa perdita derivano molte patologie individuali e sociali: depressione, sofferenza sul lavoro, sentimento di vuoto, suicidio, dipendenze, violenza etc.

Le nuove tecnologie ci separano dai noi stessi, ma fanno anche da schermo nei confronti del mondo reale, sensibile. Ci impediscono di comprendere la realtà con i nostri sensi, le nostre capacità di analisi. Con il naso sul GPS o sulle mappe dello smartphone non sappiamo più leggere il paesaggio, né orientarci nello spazio. La protesi elettronica ci mutila delle nostre facoltà. E che importa, direte voi: io, appunto, ho la mia protesi tecnologica! Ma quando si guasta, quando avete finito la batteria, quando perdete il vostro aggeggio tecnologico: panico generale. Siete del tutto dipendenti. E nemmeno lo specialista in tossicodipendenze potrà risolvere il problema.

Ma, ancor più grave: state perdendo il gusto dell’autonomia. Il piacere naturale di cavarsela contando sulle proprie forze (e l’aiuto degli amici). Per noi, studenti, non c’è maggiore soddisfazione di esser capaci di pensare e agire da soli. I vostri genitori hanno cercato di incoraggiarvi a diventare individui autonomi. Ma viviamo nell’epoca della “nomofobia” (paura incontrollata di rimanere sconnessi dalla rete di telefonia mobile), l’epoca in cui vivere sei mesi senza internet è una tale prodezza che merita un libro [si veda: Thierry Crouzet, J’ai débranché: comment revivre sans internet après une overdose, Parigi, Fayard, 2012]. La perdita di autonomia è irreparabile, visto che facilita il compito dei manipolatori, venditori di gadget e imbroglioni politici, amputando il nostro spirito critico, la nostra capacità di dire “no”. Le chiacchiere infestano internet, non solamente perché internet accelera la loro diffusione, ma perché domandando tutto a Google perdiamo l’abitudine di giudicare da soli. Ecco perché la “scuola digitale” è anche un crimine contro il pensiero.

Noi abbiamo scritto dei libri per illustrare le distruzioni delle nuove tecnologie: danni all’ambiente e alla salute, controllo generalizzato e perdita di libertà, etc. Vogliamo ora attirare la vostra attenzione su due punti in particolare:

1) Al di là di smartphone e internet, le nuove tecnologie occupano molti altri campi. Dai microchip elettronici RFID che invadono ogni centimetro del quotidiano e fanno del nostro ambiente un mondo-macchina pilotabile a distanza, ai robot che ci rimpiazzano in quasi ogni aspetto delle nostre vite, passando per i primi cyborg e i primi “organismi viventi artificiali”, un mondo nuovo si prepara senza di noi. Il suo carattere principale: l’eliminazione dell’umano. Ci stiamo trasformando in “oggetti comunicanti”, il mondo di domani sostituisce il governo degli individui con l’amministrazione delle cose.

2) La vostra generazione conoscerà gli effetti del cambiamento climatico, causato dalle “nuove tecnologie” degli ultimi cento anni (automobili, industrie, agricoltura industriale etc.).

Ma non è questo il solo lascito delle generazioni precedenti. In ciascuna di esse ci sono stati dei refrattari che hanno rifiutato di lasciarvi queste ferite. Queste minoranze hanno perso, in generale, ed è il loro scacco – e la potenza dei loro nemici – che ha così disfatto questo mondo. Avevano contro di loro i forsennati dell’industrializzazione, come quel presidente di industrie chimiche che strillava: “le generazioni future non ci daranno problemi, faranno come hanno fatto tutti!”.

Voi non siete responsabili del mondo che vi abbiamo lasciato, ma siete responsabili di quello che lascerete. Ci si dice che bisogna “vivere nel proprio tempo” (cioè che non abbiamo scelta). Noi pensiamo che il coraggio, oggi come ieri, sia di vivere contro il proprio tempo.

Persone della vostra età, nel maggio Sessantotto, avevano scritto: “Spegnete la tele, scendete in strada”.

Noi vi diciamo:

Gettate i vostri schermi, scendete in strada.
Lasciate la realtà virtuale per la vita reale.

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Pièces et Main d’Oeuvre: una breve presentazione

Pièces et Main d’Oeuvre, atelier di bricolage per la costruzione di uno spirito critico a Grenoble, è attivo dall’autunno 2000 con diverse modalità d’azione: inchieste, manifestazioni, riunioni, libri, volantini, manifesti, opuscoli, interventi sui media e su internet, etc.

Pièces et Main d’Oeuvre non è il nome di un collettivo, ma di individui politici. Noi rifiutiamo il pensiero politicamente corretto del gregarismo, che accorda valore solo a ciò che viene detto “collettivamente”, per ridurlo a conformismo, a pigrizia e a incapacità, nell’anonimato del gruppo. Non sollecitiamo persone “che facciano parte”, vogliamo invece allearci ogni volta che sia possibile e necessario, con altri che “facciano” per loro stessi.

Come rifiutiamo di identificarci con gli anonimi, quelli che non hanno mai la parola, così rifiutiamo di metterci sul piano dello specialismo tecnico, cioè quello stratagemma del sistema per depoliticizzare le prese di decisioni e spossessare i membri della società della loro responsabilità politica. Il rifiuto riguarda anche i “contro-esperti”, ovvero la trappola del sistema tecnico per infiltrare e ricondurre le opposizioni alla tirannia tecnologica.

In breve: pensiamo che la tecnologia – non le sue “derive” – sia l’aspetto fondamentale dell’odierno capitalismo, dell’economia planetaria globalizzata. La tecnologia è la continuazione della guerra, cioè della politica, fatta con altri mezzi. Se la polizia è l’organizzazione razionale dell’ordine pubblico – della città – e la guerra un atto di violenza per imporre la propria volontà agli altri, questa razionalità e questa violenza si fondono e culminano nella tecnologia. La tecnologia è il fronte principale della guerra tra chi ha il potere e chi non lo ha, quello che comanda gli altri fronti. Ogni innovazione tecnologica comporta infatti, a cascata, un peggioramento dei rapporti di forza tra sfruttati e sfruttatori su tutti i livelli.

Quanto alla nostra pratica, sappiamo che non si vince sempre con la forza numerica delle masse, ma anche che non si vince mai senza di loro e ancora meno contro di loro. Nessuno, ad oggi, ha trovato altri mezzi di trasformare le idee in forza materiale, e la critica in atti, che la convinzione delle larghe masse.

Noi sosteniamo che le idee siano decisive. Le idee hanno delle ali e delle conseguenze. Un’idea che vola di cervello in cervello diventa una forza d’azione irresistibile e trasforma i rapporti di forza. È per prima cosa una battaglia d’idee che noi, senza potere, lanciamo al potere, quindi dobbiamo essere innanzitutto produttori d’idee. E per produrre idee facciamo leva per prima cosa sulla critica sociale, alimento e condizione primaria, sebbene insufficiente, di ogni azione.

Se la critica impiega ogni mezzo, è l’inchiesta che li rende disponibili. Se siamo riusciti a seminare qualche dubbio, ad esempio sulle nanotecnologie e le tecnologie convergenti, sulla biometria, la tecnologia RFID e le neurotecnologie, sugli smartphone e ciò che vi è correlato, sulla distruzione del territorio e la cannibalizzazione operata dal sistema tecnico sull’ecosistema, lo abbiamo fatto a forza di inchieste, di continui contributi scritti e di interventi in occasione di eventi.

Una critica di cui possiamo enunciare alcuni tratti fondamentali.

Anticipare. Contestare prima piuttosto che a cose fatte. Essere offensivi piuttosto che sulla difensiva. Fare la differenza concentrandosi sui punti deboli piuttosto che girare attorno alle ovvietà. Studiare i sintomi attuali per risalire alla radice dei mali. Portare delle prove, lasciando al sistema il compito della sua difesa. Non denunciare mai le malefatte senza denunciare i malfattori. Non rispondere alle loro manovre diversive e di recupero. Non abbandonare mai la battaglia contro le necrotecnologie.

Speriamo che a Grenoble e altrove si moltiplichino i critici e le loro inchieste, che leghino il locale al globale, il concreto all’astratto, il passato al futuro, il particolare al generale, per demolire la tirannia tecnologica ed elaborare da tecnopoli a tecnopoli una conoscenza e una resistenza comuni.

Elementi fondamentali di critica anti-industriale (#5)

Elementi fondamentali di critica anti-industriale
Di Miguel Amorós [QUI IL PDF]

Come abbiamo fatto nello scorso numero (Malamente #4), anche questa volta diamo spazio alla critica anti-industriale pubblicando la prima traduzione italiana di un contributo di Miguel Amorós, scritto in occasione del campeggio anti-industrialista dell’8 luglio 2010 a Fellines (Girona) e per le “Jornadas en defensa de la Tierra” del 20-22 agosto 2010 allo spazio sociale La Barajunda di Hervás (Cáceres). Quella portata da Amorós è una critica non solo e non tanto del settore industriale, ma della “società industriale” in cui ci troviamo a vivere, dove ogni aspetto dell’esistenza individuale e sociale (il lavoro, il tempo libero, l’alimentazione, la salute etc.) è colonizzato dalla logica totalizzante dell’industria, che marginalizza sempre più ogni possibilità di intervento diretto e autonomo sulle condizioni della propria vita, lasciate in mano a tecnici e specialisti dei vari settori. Tutto questo mentre il progresso, come ideologia sociale, maschera l’assalto che le ragioni dell’industria e dell’economia conducono sulla vita umana e sui territori, considerati un loro terreno di conquista. Nonostante la redazione non sia unanimemente concorde con questo tipo di lettura della società contemporanea (e delle possibilità del suo superamento), ritiene che siano temi importanti da conoscere e discutere per un agire consapevole.

Micheal Kerbow - Their Refinement of the Decline
Micheal Kerbow – Their Refinement of the Decline

Il proposito di questo contributo è di segnalare le linee maestre seguite dalla critica reale del capitalismo nella sua fase ultima, che abbiamo chiamato anti-industriale. La questione sociale è stata inizialmente sollevata a partire dallo sfruttamento dei lavoratori nelle officine, nelle fabbriche e nelle miniere. La critica sociale è stata prima di tutto una critica della società classista e dello Stato ma, in una fase successiva del capitalismo, la questione sociale è emersa dalla colonizzazione della vita e dallo sfruttamento del territorio. Intendendo per territorio non il paesaggio né l’“ambiente”, ma l’unità dello spazio e della storia, del luogo e di chi lo abita, della geografia e della cultura. La critica sociale passò ad essere critica della società di massa e dell’idea di progresso. Lungi dal respingere la precedente critica sociale, corrispondente a un tipo di capitalismo crollato, la ampliava e prolungava, inglobando aspetti nuovi come il consumismo, l’inquinamento, l’autonomia della tecnoscienza e l’apparenza democratica del totalitarismo. La critica anti-industriale non nega affatto la lotta di classe, ma la conserva e la supera; per di più, la lotta di classe non può esistere nei tempi che corrono se non come lotta anti-industriale. D’ora in poi, chi parla di lotta di classe senza riferirsi espressamente alla vita quotidiana e al territorio ha in bocca un cadavere.

Michael Kerbow - Diminishing Returns
Michael Kerbow – Diminishing Returns

Possiamo seguire il corso storico, tra gli anni Trenta e Novanta del secolo scorso, della comparsa dei primi elementi di critica anti-industriale, a cominciare dalla critica della burocrazia. La burocrazia è il risultato della complessità del processo produttivo, della necessità di controllo della popolazione e dell’ipertrofia dello Stato, del quale le organizzazioni “operaie” sono un’appendice. A un determinato livello di sviluppo, quello nel quale proprietà e gestione si separano e dove coloro che eseguono gli ordini restano totalmente subordinati a coloro che coordinano e decidono, gli strati superiori della burocrazia che operano nelle diverse sfere della vita sociale – la cultura, la politica, l’amministrazione, l’economia – sono realmente la classe dominante. La società capitalistica burocratizzata si trova divisa tra gestori ed esecutori, o meglio, tra dirigenti e diretti. Tale divisione ci riconduce a un’altra precedente, quella esistente tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, che è la base dello sviluppo burocratico. Il lavoro manuale perde la sua creatività e la sua autonomia a causa del sistema industriale che, favorendo la standardizzazione, la parcellizzazione e la specializzazione, lo riduce a una pura attività meccanica controllata da una gerarchia burocratica. Il beneficiario della meccanizzazione non è solamente il capitalista, è la macchina stessa. Per l’organizzazione del lavoro e della vita sociale che implica, chi ci rimette in primo luogo è il lavoratore, ma è tutta la popolazione che sarà sottomessa alle esigenze della macchina. La fabbrica, la macchina e la burocrazia sono i veri pilastri dell’oppressione capitalista. La critica della burocrazia e della macchina completa la critica dello Stato e del lavoro salariato e introduce la critica della tecnologia.

Lo sviluppo unilaterale della tecnologia, orientato verso il rendimento e il controllo, serve alla sottomissione, non alla libertà. Un’esistenza modellata da tecnocratici secondo standard di produzione è una forma di vita schiava. La scienza e la tecnica evolvono sotto il segno del dominio, che è dominio della natura e dell’essere umano. Ma una critica della scienza e della tecnologia non significa un rifiuto della conoscenza razionale e del metabolismo con la natura. Si tratta del rifiuto di un tipo di scienza e di un tipo di tecnologia che generano potere e oppressione. E accettazione di quelli che non alterano le condizioni di riproduzione di una società egualitaria e libera. Quelli che rispettano le necessità di una vita rurale e urbana equilibrata, a misura dei bisogni e dei desideri umani. In nome della Ragione. Ma se avanza sotto la tutela della conoscenza tecnificata, questa stessa ragione, sottomessa agli imperativi del potere, si autodistrugge. La fede nel miglioramento della condizione umana attraverso la conoscenza scientifica, l’innovazione tecnica e l’espansione economica, in altre parole, la fede nel progresso, resta messa in discussione. La critica della scienza, della tecnologia e del sistema industriale è una critica del progresso. Allo stesso modo è una critica delle ideologie scientiste e progressiste; in primo luogo dell’ideologia operaista, tanto nella sua versione riformista che in quella rivoluzionaria, basata sull’appropriazione, in nome del proletariato, del sistema industriale borghese e della sua tecnologia.

Michale Kerbow - A New Religion
Michale Kerbow – A New Religion

Il capitale non consiste solamente di denaro, mezzi di produzione o sapere accumulato; è il polo attivo di un rapporto sociale mediante il quale genera profitti a scapito del lavoro salariato. Quando questo rapporto cessa di limitarsi alla produzione e riguarda tutti gli aspetti della vita degli individui, lo sfruttamento capitalista cambia qualitativamente e il conflitto sociale si estende alla vita quotidiana, ora dominata dal veicolo privato e dalla frenesia del consumo, inquadrata in un’architettura miserabile. Alla critica del lavoro si aggiungono quella della società dei consumi e quella dell’urbanesimo e, soprattutto, quella della vita quotidiana che ne consegue, prima delineata come critica alla morale sessuale borghese e rivendicazione dei diritti delle donne. La costruzione di uno stile di vita libero deve sradicare dalla vita la logica alienante della merce. Il metodo per fare questo, l’autogestione, dev’essere messo in opera contro la logica capitalista, altrimenti non sarebbe altro che autogestione dell’alienazione. Il compito dei futuri organismi comunitari, che negli anni Sessanta alcuni identificarono con i Consigli operai e altri con le comuni o i municipi liberi, non può dunque consistere nella gestione dell’esistente, ma nella sua trasformazione rivoluzionaria. La sovranità reale degli individui emancipati non significa assolutamente la “umanizzazione” del lavoro o la “democratizzazione” del consumo, ma la soppressione di entrambi e la loro sostituzione con una nuovo tipo di attività unitaria liberata dai condizionamenti.

La crisi ecologica espulse dalla critica della vita quotidiana l’ottimismo tecnologico, la fiducia in un possibile uso liberatore della tecnologia, e condannò l’operaismo, la fede in un ruolo emancipatore del proletariato industriale e nel carattere potenzialmente rivoluzionario dei conflitti del lavoro. Fenomeni come l’inquinamento, le piogge acide, il consumo di combustibili fossili, l’utilizzo di additivi chimici e pesticidi, l’enorme accumulo di rifiuti, etc., dimostrarono che il regno della merce non solamente condannava la maggioranza della popolazione alla schiavitù salariata e all’alienazione consumista, ma in più minacciava la salute e metteva in pericolo la vita sulla Terra. La lotta contro il capitale non è dunque semplicemente una lotta per una vita libera, ma è una lotta per la sopravvivenza. L’abolizione del lavoro e del consumo non si possono effettuare dall’interno, attraverso una pretesa radicalizzazione dei conflitti per il salario e l’occupazione, visto che cioè che urge è lo smantellamento completo della produzione, diventata qualcosa d’avvelenato e inutilizzabile. La sua “autogestione” è più che alienante, tossica. La crisi ecologica rivela dunque i limiti della crescita produttiva e urbana, condizione sine qua non dell’accumulazione capitalista attuale, quando lo sviluppo economico si è trasformato nell’obiettivo unico della politica.

Michael Kerbow - Fool_s Gold
Michael Kerbow – Fool_s Gold

L’industrialismo incontrò il suo primo ostacolo nella cosiddetta “crisi del petrolio”, di fronte alla quale “il mercato” e lo Stato reagirono con la costruzione di centrali nucleari. I pericoli che la produzione di energia nucleare comportava per ampi settori della popolazione e soprattutto la militarizzazione sociale nascosta che portava con sé suscitarono una forte opposizione. Dall’unione tra la critica della vita quotidiana e la critica ambientalista, specialmente nel suo versante antinucleare, nacque durante gli anni Ottanta la critica anti-industriale. L’anti-industrialismo tenta di fondere gli elementi di critica sociale nuovi e precedenti: la sua negazione del capitalismo è allo stesso tempo antistatale, antipolitica, antiscientista, antiprogressista e anti-industriale.

I nuovi fronti di lotta aperti, inglobati nel concetto di “nocività”, erano difficilmente difendibili, poiché la fine del ciclo fordista del capitale, caratterizzato dalla sconfitta del movimento operaio tradizionale, l’industrializzazione della cultura e l’inizio della globalizzazione, comportavano un crollo della coscienza e un aumento dell’ecologismo neutro. Riducendo i problemi a delle questioni ambientali ed economiche e ignorando la critica sociale precedente, gli ambientalisti aspiravano a convertirsi in intermediari del mercato della degradazione, fissando con lo Stato i limiti di tolleranza delle nocività. In effetti, gli ambientalisti assunsero presto il ruolo di consulenti politici e imprenditoriali. D’altra parte, la distruzione del contesto operaio e la completa colonizzazione della vita quotidiana avevano aumentato notevolmente la capacità della popolazione di sopportare l’insopportabile. Le classi una volta pericolose si trasformavano in masse addomesticate. L’offuscamento della coscienza si tradusse rapidamente in declassamento, perdita d’esperienza, incapacità di vivere in società e ignoranza, ragione per la quale la conoscenza della verità non ha condotto alla rivolta. I legami sociali, dissolti dalla merce, facevano difetto. La critica anti-industrialista si ampliava fino a comprendere l’ambientalismo e la società massificata.

Michael Kerbow - Hollow Pursuits
Michael Kerbow – Hollow Pursuits

La mancanza di resistenza permise al capitalismo degli avanzamenti senza precedenti, esacerbando tutte le sue contraddizioni e peggiorando il livello di vivibilità del mondo. La convinzione industrialista della crescita come obiettivo primario della vita sul pianeta sfociava in una crisi biologica. Il riscaldamento globale, in un contesto di deterioramento generale, diede impulso al capitalismo “verde”, basato sullo “sviluppo sostenibile”, i cui frutti sono stati gli organismi transgenici, le automobili di lusso con motore a basso consumo, gli agro-combustibili e le energie rinnovabili industriali. Le aggressioni contro il territorio si sono moltiplicate: autostrade, treni ad alta velocità, linee ad altissima tensione, “parchi” eolici e “giardini” solari, urbanizzazione illimitata, inceneritori, discariche di sostanze tossiche e radioattive, regolazione dei bacini idrici, modifiche dei corsi d’acqua, antenne per la telefonia mobile, abbandono e trasformazione della campagna in banlieue… A tutto ciò bisogna aggiungere i progressi nell’artificializzazione dell’esistenza (di cui le nanotecnologie sono il punto culminante), il proliferare di comportamenti psicotici e il radicarsi di una società panottica e criptofascista come risposta istituzionale ai pericoli dell’anomia. Benché il principale nemico del capitalismo sia il capitalismo stesso e le maggiori minacce gli provengano dalla sua stessa natura, una resistenza minoritaria si è potuta sviluppare grazie a conflitti locali di diversa natura, principalmente contro le grandi infrastrutture, ed è così che la critica anti-industriale ha potuto avanzare in varie direzioni e sotto nomi diversi, incontrando, a seconda dei disastri, attivisti e propagandisti che denunciavano tanto i disastri riguardanti il territorio che l’addomesticamento e la rassegnazione dei suoi abitanti, persone che comprendevano che non si poteva porre rimedio ad alcun problema impantanandosi nella politica, persone che non separavano un’aggressione specifica dalla società che la causava.

La società industrialista è arrivata alla soglia al di là della quale la distruzione dell’habitat umano è irreversibile e, di conseguenza, il controllo assoluto della popolazione è obbligatorio. La difesa di una vita libera, a cominciare dalla libertà dalle protesi tecnologiche, ricca di relazioni, è come minimo una difesa del territorio e una lotta contro ogni condizionamento che provenga dal controllo sociale, dal lavoro, dalla motorizzazione o dal consumo. Ma questo non è che il suo momento difensivo. La fase offensiva è disurbanizzatrice, deindustrializzatrice, ruralizzatrice e decentralizzatrice. Deve riequilibrare il territorio e mettere il locale e il collettivo in testa alle sue preferenze. Si tratta inoltre di una lotta per la memoria e per la verità, per la coscienza libera e contro la manipolazione dei bisogni; è, quindi, una lotta contro le ideologie che tutto questo occultano e deformano come il cittadinismo, la decrescita o quelle che si trovano in dei manuali per adolescenti vergini del tipo “l’anarchia in dieci facili lezioni” (municipalismo, stirnerismo, bonannismo, etc.). Il capitalismo nella sua fase attuale è eminentemente distruttivo e, di conseguenza, è in guerra contro il territorio e le persone che lo abitano. L’autodifesa è legittima, ma costituisce solo un aspetto del conflitto territoriale. Questo è una battaglia per l’autonomia nell’alimentazione, nella mobilità, nell’educazione, nella salute, nell’abitare e nel modo di vestire; un darsi da fare per la solidarietà, per la comunità, per l’agorà e per l’assemblea; per il “comicio”, l’“ayuntamiento general” o il “concejo abierto”, che sono alcuni dei nomi usati nella Penisola iberica per designare la pratica della libertà politica durante le epoche precapitalistiche.

La critica anti-industrialista non arriva come una novità confezionata e a disposizione di chi voglia farne uso. Essa riassume e abbraccia tutti gli elementi della critica sociale precedente, ma non è un fenomeno intellettuale, una teoria speculativa frutto di menti privilegiate disposte a lunghe ore di studio e meditazione. È il riflesso di un’esperienza di lotta e di una pratica quotidiana. È presente un po’ ovunque, sotto una forma o l’altra, come intuizione o come abitudine, come mentalità o come convinzione. Nasce dalla pratica e torna costantemente ad essa. Non vive nei libri, negli articoli, nei circoli iniziatici o nelle torri d’avorio; è il frutto tanto del dibattito quanto dello scontro. In una parola: è figlia dell’azione, questo è il suo ambito e non può sopravvivere lontano da lui.

Michael Kerbow - Witching Hour
Michael Kerbow – Witching Hour

Sui modi di combattere il dominio tecnologico: l’anti-industrialismo di Miguel Amorós (#4)

Sui modi di combattere il dominio tecnologico:
l’anti-industrialismo di Miguel Amorós
Di Luigi [QUI IL PDF]

Tutto sarebbe ordine e armonia, se non ci fosse ancora e sempre l’uomo. L’industria e l’economia, aiutate dalla scienza e dalla tecnica, hanno fatto del loro meglio per soddisfare i capricci stravaganti dei consumatori. Sono loro che, usando ed abusando in modo “irrazionale” di queste istituzioni, hanno messo il pianeta in questo stato. E adesso, ecco che non vogliono più i rifiuti che hanno prodotto!
Bertrand Louart

Blu. Street Art - Roma
Blu. Street Art – Roma

Miguel Amorós è un teorico e militante rivoluzionario valenzano, già redattore della rivista di critica radicale «Encyclopédie des Nuisances», conosciuto in lingua italiana per diversi suoi saggi pubblicati in particolare dalle edizioni Nautilus di Torino. Proponiamo qui, in prima traduzione italiana, il suo intervento Cos’è e cosa vuole l’anti-industrialismo?, tenuto all’Incontro di difesa del territorio organizzato nel maggio 2014 dalla Libreria associativa Transitant a Palma di Maiorca.

La nostra epoca, l’epoca del capitalismo tecno-industriale, è profondamente differente da tutte quelle che l’hanno preceduta, se non altro per il suo correre testardamente verso la distruzione delle basi stesse della vita sul pianeta. Due secoli di progresso tecnologico hanno infatti ridotto il mondo in cui viviamo in una pattumiera, per cui uomini e donne sono costretti ad adattarsi ai veleni che infestano la terra, l’acqua, l’aria. Nonostante il manto dell’ideologia scientista e del progresso, è un dato di fatto che l’odierna civiltà provochi il disastro ecologico.

La tecnologia, non le sue presunte “derive”, è l’aspetto fondamentale del dominio contemporaneo. Essa nasce per scopi ben precisi, in sostanza accrescere potere e profitti, prendendo una determinata direzione e ignorando le mille altre possibili. D’altra parte non sono certo bisogni e aspettative di uomini e donne a guidare l’innovazione tecnologica, casomai è il contrario: è quest’ultima che crea i primi. La presunta neutralità della scienza non è infatti di questo mondo e se lo sguardo va oltre l’immediata applicazione pratica si deve riconoscere che è illusorio pensare di disporre liberamente della tecnologia e di impiegarla per i propri fini. Non diciamo nulla di nuovo. Lo sosteneva, ad esempio, il lungimirante filosofo tedesco Günther Anders già negli anni Sessanta: “non basta affermare che bisogna utilizzare la tecnica per scopi buoni invece che cattivi, per compiti costruttivi invece che distruttivi. Tale argomento, che si ode fino alla noia sulle bocche di tanti uomini di buona volontà è indiscutibilmente miope. Ciò che oggi dobbiamo chiederci è se disponiamo così liberamente della tecnica. Non ci si può limitare a sostenere questo potere discrezionale. In altre parole, può darsi benissimo che il pericolo che ci minaccia non consista nel cattivo uso della tecnica, ma sia implicito nell’essenza della tecnica in quanto tale”[1].

Testi come quelli di Amorós che qui proponiamo alla lettura invitano ad alzare lo sguardo dagli aspetti più immediati ed esteriori della tecnologia, dagli apparenti vantaggi di questa o quella applicazione, per cercare di comprendere nel più ampio contesto sociale e storico le nefaste ricadute del suo avanzamento. Ogni nuova tecnologia, infatti, non tende a integrarsi nel mondo preesistente, piuttosto fa sì che sia il mondo a doversi adattare ad essa, colonizzando ogni aspetto del vivente. In questo senso, l’introduzione dell’automobile non ha solamente permesso alle persone di spostarsi più velocemente da un posto all’altro – le distanze che l’automobile permette di percorrere, oggi si devono percorrere – ma ha prodotto una società completamente diversa, imponendo tra l’altro nuovi ritmi di lavoro e distruggendo la conformazione e la vivibilità degli agglomerati urbani. E la televisione? E internet?

Lo sviluppo della tecnica, o meglio delle tecniche, è connaturato al nostro stare al mondo, mentre il progresso tecnologico determina il regresso umano, rendendo antiquato l’uomo e le sue facoltà; ogni suo avanzamento è un colpo inferto all’autonomia e alla libertà dei viventi. Per “autonomia” si intende la possibilità per i singoli e le comunità di determinare le proprie condizioni di vita attraverso la propria attività: uno scenario che stiamo irrevocabilmente perdendo mentre la tecnica moderna impone condizioni di vita e si rende, essa sì, autonoma dall’intervento umano. In altre parole, non è più l’uomo a padroneggiare lo strumento ma è la macchina a tenere in pugno l’uomo, mentre il sistema tecno-industriale nel suo complesso mira a modellare un mondo in cui le attività umane non siano più d’intralcio alla circolazione delle merci. Così come nella produzione sono gli ingranaggi a dettare i ritmi alle mani, e non viceversa, anche al di fuori del lavoro possiamo illuderci di controllare l’automobile o il telefonino, mentre siamo del tutto asserviti al loro uso sociale.

Come accennato in apertura, “tecnologia” non è solo il moderno complesso industriale ma anche l’ideologia del progresso che lo accompagna. Un dogma che ha accomunato a lungo borghesia e proletariato, detentori del potere e movimenti rivoluzionari. Oggi è irragionevole pensare di contrastare l’ideologia del progresso appellandosi a una qualche forma di decrescita controllata, che ha lo scopo di tirare le briglie e cercare di governare un sistema andato fuori binario. Un’opposizione ecologista che si mantiene composta e rispettosa delle regole del gioco è quanto di meglio possa chiedere la perpetuazione del sistema di dominio, ben lieto di renderla compartecipe – illuminata – della gestione del disastro. Non sappiamo quindi che farcene delle litanie delle associazioni ecologiste, degli esperti, perfino degli industriali e degli uomini di Stato sulla necessità di uno sviluppo sostenibile per “salvare il pianeta”, che si guardano sempre bene dal mettere in discussione l’ideologia del progresso e dal rifiutare questo sistema tecno-industriale e la sua mortifera quotidianità. Nessuno nega che le battaglie quotidiane siano battaglie per obiettivi parziali, ma perdono il loro senso se non si è capaci di inserirle in un immaginario rivoluzionario radicalmente altro: “la società industriale – ha scritto Bertrand Louart – si è resa in gran parte indispensabile e i valori che la fondano, con le sue merci, hanno colonizzato gli spiriti al punto che più nessuno osa immaginare qualcos’altro che un diverso modo di gestione del macchinario, ma mai la sua rimessa in discussione radicale”[2].

L’anticapitalismo, quindi, non può prescindere da una prospettiva anti-industriale, di sabotaggio dello sviluppo, innanzitutto per preservare i territori in cui viviamo. Il cuore del discorso non è tanto lo sbarazzarsi delle cianfrusaglie tecnologiche prodotte nel secolo della plastica e dell’elettricità, quanto l’eliminazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura, che fa tutt’uno con lo sbarazzarsi di cui sopra. Ciò che serve, in fin dei conti, è quella necessaria lucidità critica che sia di indirizzo all’agire; un cambiamento radicale nei modi di pensare che guidi la messa in pratica di modelli alternativi, in conflitto e antagonisti alla civiltà che conosciamo. “Il pensiero anti-industriale – scrive Amorós – non rappresenta una nuova moda, una critica puramente negativa del pensiero scientifico e delle ideologie progressiste, né un volgare primitivismo che propone di tornare a un qualche momento della Storia. Non è neanche una semplice denuncia dell’addomesticamento del proletariato e del dispotismo del capitale. Ancor meno è un qualcosa di tanto mistificatore quanto una teoria unitaria della società, riserva di caccia dell’ultima delle avanguardie o dell’ultimo dei movimenti. Va al là di tutto questo. È lo stadio più avanzato della coscienza sociale e storica. È una determinata forma di coscienza, dalla cui generalizzazione dipende la salvezza dell’epoca”[3].

Miguel Amorós, Cos’è e cosa vuole l’anti-industrialismo?

La corrente anti-industriale emerge, da un lato, dal bilancio critico del periodo che si chiude con lo scacco del vecchio movimento operaio autonomo e con la ristrutturazione globale del capitalismo; nasce dunque tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo passato. Dall’altro lato, sorge dal nascente tentativo di ritorno alla terra di questa epoca e dalle rivolte popolari contro la presenza permanente di fabbriche inquinanti nei centri urbani e contro la costruzione di centrali nucleari, zone urbanizzate, autostrade e dighe. È al tempo stesso un’analisi teorica delle nuove condizioni sociali che tiene conto del contributo dell’ecologismo e una lotta contro le conseguenze dello sviluppo capitalista, anche se non sempre le due cose stanno insieme.

Possiamo definirlo come una teoria critica e una pratica antagonista nate dai conflitti provocati dallo sviluppo della fase ultima del regime capitalista, che corrisponde alla fusione dell’economia e della politica, del Capitale e dello Stato, dell’industria e della vita. A causa della sua novità, e anche per l’estensione della sottomissione e della rassegnazione tra le masse declassate, riflessione e lotta non sempre vanno mano nella mano; l’una postula obiettivi che l’altra non sempre vuole assumere; il pensiero anti-industrialista lotta per una strategia globale di conflitto, mentre la sola lotta si riduce a tatticismo, cosa che va a solo beneficio del dominio e dei suoi sostenitori. Le forze mobilitate non sono quasi mai coscienti del loro compito storico, mentre la lucidità della critica non arriva sempre a rischiarare le mobilitazioni.

Il mercato globale trasforma continuamente la società conformemente alle sue necessità e ai suoi desideri. Il dominio formale dell’economia nella vecchia società di classe si trasforma nel dominio reale e totale nella moderna società tecnologica di massa. I lavoratori oggi massificati sono prima di tutto consumatori. La principale attività economica non è industriale, ma amministrativa e logistica (terziaria). La principale forza produttiva non è il lavoro, ma la tecnologia. In compenso i salariati sono la principale forza di consumo. La tecnologia, la burocrazia e il consumo sono i tre pilasti dello sviluppo attuale. Il mondo della merce ha smesso di essere autogestibile. È impossibile umanizzarlo: bisogna prima smantellarlo.

Tutte le relazioni degli esseri umani tra loro e con la natura hanno perso il loro carattere diretto e si trovano mediate da cose, o meglio da immagini associate a cose. Una struttura separata, lo Stato, controlla e regola questa mediazione reificata. Così, dunque, lo spazio sociale e la vita che lo abita sono modellati in accordo con le leggi di queste cose (le merci, la tecnologia), quelle della circolazione e quelle della sicurezza, originando tutto un insieme di divisioni sociali: tra cittadini e rurali, dirigenti e diretti, ricchi e poveri, integrati ed esclusi, veloci e lenti, connessi e sconnessi, etc. Il territorio, una volta sgomberato dagli agricoltori, si converte in una nuova fonte di risorse (una nuova fonte di capitali, un decoro e un supporto delle macroinfrastrutture, un elemento strategico della circolazione). Questa frammentazione spaziale e questa disaggregazione sociale appaiono oggi sotto forma di una crisi che presenta diversi aspetti, tutti in relazione tra loro: demografici, politici, economici, culturali, ecologici, territoriali, sociali… Il capitalismo ha superato i suoi limiti strutturali, o detto in altra maniera, ha toccato il tetto.

La multiple crisi del nuovo capitalismo sono il risultato di due tipi di contraddizioni: quelle interne, che sono causa di forti ineguaglianze sociali, e quelle esterne, responsabili dell’inquinamento, del cambiamento climatico, dell’esaurimento delle risorse e della distruzione del territorio. Le prime non escono dall’ambito capitalista dove restano dissimulate come problemi del lavoro, affari di credito e deficit parlamentari. Le lotte sindacali e politiche non prospettano mai di uscire dal quadro che incornicia l’ordine stabilito; ancora meno si oppongono alla sua logica. Le contraddizioni principali sono quindi prodotte o dal contrasto tra l’esaurimento delle risorse planetarie e la domanda infinita che esige lo sviluppo, o dall’urto tra i limiti che impongono la devastazione e la distruzione illimitata che sono implicate nella continua crescita. Queste contraddizioni rivelano la natura terrorista dell’economia di mercato e di Stato nei confronti dell’ambiente e della vita della gente. L’autodifesa di fronte al terrorismo della merce e dello Stato si manifesta tanto sotto forma di lotte urbane che rifiutano l’industrializzazione del vivere – o come anti-industrialismo – che come difesa del territorio contro l’industrializzazione dello spazio. I rappresentanti del dominio, se non possono integrare queste lotte sotto gli abiti di un’opposizione “verde”, rispettosa delle loro regole del gioco, le presentano come un problema minoritario di ordine pubblico, per poterle così reprimere e schiacciare.

In un momento in cui la questione sociale tende a presentarsi come questione territoriale, solo la prospettiva anti-industriale è capace di considerarla correttamente. Di fatto, la critica allo sviluppo è la critica sociale per come esiste oggi; nessun’altra è veramente anticapitalista perché nessuna mette in causa la crescita o il progresso, i vecchi dogmi che la borghesia ha trasmesso al proletariato. D’altra parte, le lotte di difesa per la salvaguardia del territorio, sabotando lo sviluppo, fanno sì che l’ordine della classe dominante vacilli: nella misura in cui riusciranno a riformare un soggetto collettivo anticapitalista, queste lotte non saranno altro che la moderna lotta di classe.

La coscienza sociale anticapitalista emerge dall’unità della critica e della lotta, vale a dire della teoria e della pratica. La critica separata dalla lotta diviene ideologia (falsa coscienza); la lotta separata dalla critica diviene nichilismo e riformismo (falsa opposizione). L’ideologia difende spesso un ritorno impossibile al passato, fornendo un eccellente alibi all’inattività (o all’attività virtuale, che è la stessa cosa), anche se la sua forma più abituale si ritrova nella sfera economica del cooperativismo o nella sfera politica del cittadinismo (versione europea del populismo). La vera funzione della prassi ideologica è la gestione del disastro. Tanto l’ideologia quanto il riformismo separano l’economia dalla politica per proporre soluzioni all’interno del sistema dominante, che sia in un campo o nell’altro. E poiché i cambiamenti derivano dall’applicazione di formule economiche, giuridiche o politiche, entrambi negano l’azione, che sostituiscono con succedanei teatrali e simbolici. Rifuggono un confronto reale, dal momento che vogliono a tutti i costi rendere compatibili le loro pratiche con il dominio, o almeno approfittare delle sue lacune e delle sue crepe per sopravvivere e coesistere. Vogliono gestire degli spazi abbandonati e amministrare la catastrofe, invece di sopprimerla.

L’unione appena citata tra la critica e la lotta procurano all’anti-industrialismo un vantaggio che non possiede nessuna ideologia: sapere tutto ciò che vuole e conoscere gli strumenti necessari per raggiungere il suo scopo.  Essa può presentare in maniera realista e credibile i tratti principali di un modello alternativo di società, società che diventerà palpabile appena sarà superato il livello tattico dei coordinamenti, delle associazioni e delle assemblee, per raggiungere il livello strategico delle comunità combattenti. Cioè appena la frattura sociale potrà esprimersi nel senso di “noi” contro “loro”. Chi sta in basso contro chi sta sopra.

Le crisi provocate dalla fuga in avanti del capitalismo non fanno nient’altro che affermare, per contro, la pertinenza del messaggio anti-industriale. I prodotti dell’attività umana – la merce, la scienza, la tecnologia, lo Stato, gli agglomerati urbani – si sono complicati rendendosi indipendenti dalla società e ergendosi contro di lei. L’umanità è stata schiavizzata dalle sue stesse creazioni incontrollate. In particolare, la distruzione del territorio dovuta a un’urbanizzazione cancerosa si rivela oggi come la distruzione della società stessa e degli individui che la compongono. Lo sviluppo, come il dio Giano, ha due facce: ora, le conseguenze iniziali della crisi energetica e del cambiamento climatico illustrate dall’estrema dipendenza e ignoranza della popolazione urbana, ci mostrano la seconda faccia, nascosta. La stagnazione della produzione di gas e petrolio annuncia un futuro in cui il prezzo dell’energia sarà sempre più alto, il che rincarerà il prezzo dei trasporti, provocherà crisi alimentari (accentuate ancor più dal riscaldamento globale) e causerà crolli produttivi. Nel medio termine, le metropoli saranno totalmente invivibili e i loro abitanti si troveranno nella situazione di scegliere tra ricostruire il loro mondo in modo diverso o scomparire.

L’anti-industrialismo vuole che il decadimento inevitabile della civiltà capitalista porti ad un periodo di smantellamento di industrie e infrastrutture, di ruralizzazione e decentramento, o per dirla in altro modo, che avvii una transizione verso una società giusta, egualitaria, equilibrata e libera e non verso un caos sociale di dittature e guerre. A tal fine, l’anti-industrialismo rende disponibili sufficienti armi teoriche e pratiche che possono sfruttare i nuovi gruppi e le comunità ribelli, semi di una civiltà diversa, liberata dal patriarcato, dall’industria, dal capitale e dallo Stato.

[1] Günther Anders, L’uomo è antiquato, v. 2: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 113.

[2] Bertrand Louart, Il nemico è l’uomo, Torino, Quattrocentoquindici, 1999, p. 71-72.

[3] Miguel Amorós, Noi, gli anti-industriali, «Nunatak», n. 19, estate 2000, p. 46 e «XXmila leghe sotto i mari» (catalogo Nautilus), n. 10, 2011, p. 6.

Rompere l’assedio tecnologico (#0)

Rompere l’assedio tecnologico
Di Luigi

Cath Everett
Cath Everett

 

Il capitalismo ha avuto bisogno dell’industria per imporre la propria organizzazione sociale e trova nella tecnologia asservita alle sue logiche di profitto la migliore alleata per perfezionare il proprio dominio: “sebbene la nascita del capitalismo non sia dipesa dallo sviluppo industriale, è evidente che è solo grazie all’industria che questo ha potuto realizzare tutte le aspirazioni che il suo programma di sottomissione economica conteneva” (Los Amigos de Ludd, Utopia e miseria del mondo industriale, bollettino n. 2).

Chiunque serbi ancora un residuo di semplice buon senso non può che constatare quanto la tirannia tecno-industriale stia vincendo la guerra contro l’umanità e, avendo rotto gli equilibri che hanno da sempre regolato l’ordine naturale, stia avvelenando e distruggendo il pianeta e le forme di convivenza possibili. D’altra parte non siamo convinti, come vorrebbe una facile lettura deterministica della storia, che il collasso della civiltà industriale sia imminente e inevitabile. Purtroppo la faccenda potrebbe andare avanti scovando sempre rinnovate stampelle e questa non è affatto una lettura rassicurante: “la peggiore catastrofe sarebbe l’assenza di catastrofe”, diceva qualcuno.

Che la tecnologia industriale non sia affatto neutrale dovrebbe essere ormai assodato. Non è adattabile allo sfruttamento o all’emancipazione a seconda di come la si guardi, ma è figlia di un sistema di dominio ben preciso, e intollerabile. La macchina in astratto esiste infatti solo nella menzogna secondo la quale i congegni riducono e alleggeriscono il lavoro umano, ma nella realtà ci si imbatte in una molto concreta meccanizzazione che è inseparabile dall’uso capitalistico per cui è nata, ovvero il progredire nella sottomissione di chi non ha e nell’innalzamento dei profitti di chi ha. Alla faccia di presunte scienze pure e disinteressate, il fine (che è spesso in prima battuta l’applicazione militare) condiziona la ricerca scientifica indirizzandola su precisi binari a scapito di mille altri possibili percorsi mai battuti. Ed è pertanto difficile, se non come esercizio di fantasia, un riutilizzo positivo di tecnologie pensate e sviluppate nel contesto di dominio del capitale, che in queste condizioni – e solo in queste – mostrano la loro vera utilità ed efficacia.

Steve Cutts - Man
Steve Cutts – Man

 

La tecnologia, quindi, non è semplicemente un mezzo escogitato dall’uomo per produrre più agevolmente, ma invadendo la totalità delle sfere della nostra vita materiale, ha rimodellato i rapporti tra gli uomini e con la natura nel segno di un crescente asservimento dei bisogni alle esigenze della produzione, e non viceversa, in un circolo vizioso per cui l’industria crea le necessità umane e poi vi provvede. E, questo, senza conoscere limiti: la sottomissione tecnologica della natura è un processo in perenne espansione, a prescindere dalle nocività che genera e dalle rovine che si lascia alle spalle. Senza contare che, il più delle volte, una nuova tecnologia serve solo a riparare i danni causati da una tecnologia precedente.

L’“obsolescenza programmata” ci offre un comodo punto di vista per riconoscere come la tecnologia sia al servizio del capitale e l’innovazione serva per prima cosa a far lievitare conti in banca e solo come effetto collaterale a migliorare aspetti della quotidianità. Un simpatico esempio tra i tanti è dato dall’introduzione sul mercato delle calze in nylon al posto di quelle in seta negli anni quaranta. La DuPont, accortasi che il nuovo prodotto era troppo resistente alle smagliature e che questo sarebbe stato negativo per i consumi e quindi per i propri profitti, richiese ai ricercatori di progettare una fibra meno durevole. O ancora, tornando alla questione del dove la ricerca scientifica viene indirizzata: è mai possibile che nessuno abbia interesse a risolvere tecnologicamente il problema della distruzione di foreste perché noi occidentali ci si possa pulire il culo con quattro veli? Rispetto al vecchio uso di giornali, acqua o foglie, oggi, in questo campo, possiamo ritenere di avere raggiunto un progresso?

Per non parlare dell’invasione delle materie plastiche, altamente inquinanti e indistruttibili, nella modalità usa e getta di cui l’umanità non sentiva alcun bisogno ma che in poco tempo è diventata la regola e oltre a causare danni ambientali irreparabili ha colonizzato perfino le coscienze. Basta guardarsi intorno per accorgersi di come vivere senza plastica, o meglio sarebbe dire senza rifiuti di plastica, è oggi non solo praticamente impossibile ma anche difficilmente concepibile.

Steve Cutts - Man
Steve Cutts – Man

 

Il fatto più grave è che mentre nei millenni di storia umana preindustriale la tecnica è sempre stata legata al saper fare ed era pensabile come conquista comune della collettività, padroneggiabile, ora le abilità sono un qualcosa di obsoleto, superfluo se non controproducente. Il macchinario ha infatti preso il sopravvento su una massa di utilizzatori che da esso dipendono senza comprenderlo né poterne aver alcun controllo: “la tecnologia, come già il mercato, non è un destino dal quale non ci si può affrancare, non è un’entità astratta che regola dall’alto le nostre vite e che al massimo possiamo controllare nei suoi effetti più devastanti, bensì la risultante di una precisa volontà di sopraffazione del capitale che ha costruito sullo spossessamento delle capacità tecniche dell’uomo il suo potere” (Per la critica della tecnologia, Bologna, Acrati, 2004).

Stefano Boni, nel suo bel libro Homo comfort: il superamento tecnologico della fatica e le sue conseguenze (Milano, elèuthera, 2014) confronta la contemporanea ipertecnologia con la tecnica ipotecnologica preindustriale: mentre la seconda richiede soggetti abili ed esperti, passa attraverso un processo di apprendimento, deriva strumenti e materiali dal mondo naturale circostante lasciandosi dietro scarti non tossici e dà forma a prodotti unici e durevoli, la prima prevede un atto umano anonimo e privo di creatività, dipende da fonti energetiche non direttamente controllabili, decontestualizza la produzione dall’ambiente introducendo le nozioni di rifiuto e inquinamento e genera prodotti in serie destinati a un rapido consumo. Ma se l’ipotecnologia prevede un certo grado di umana fatica, l’ipertecnologia promette di alleviare l’esistenza (certo, permangono mansioni faticose non eseguibili dai sistemi artificiali, ma per quelle ci sono i nuovi schiavi). Sudare è oggi antiquato: l’unico modo socialmente accettabile per farlo pare sia tra le mura di una palestra, pagando.

Però, obiettano i difensori dell’“unico mondo possibile”, la speranza di vita nella società ipertecnologica è in aumento. Vero, ma a quale prezzo? L’avvelenamento dei territori e la perdita del saper fare, come già detto, ma anche una progressiva perdita di contatto con la materialità della natura che non risparmia nessuno dei cinque sensi. Quello che i nostri corpi quotidianamente toccano, vedono, gustano, ascoltano e annusano, soprattutto per chi vive in contesto urbano, è in massima parte artificiale, il più possibile schermato dal contatto contaminante con la natura. Il prezzo è il trionfo dell’inorganico sull’organico.

Il macchinario, inoltre, apparecchiando un mondo di tecnocomodità, costruisce il consenso passivo delle masse: chi rifiuta i comodi benefici della tecnologia è fuori dal tempo del progresso, è un barbaro, una minaccia. Così, legandoci ad una dipendenza totale, la tecnologia impone le sue regole e si fa innanzitutto ordine sociale: “non si tratta di trovare una strada per il riorientamento di un determinato sistema tecnico, bensì di smantellare il fondamento ideologico che lega la società all’insieme delle necessità ingenerate dal sistema tecnico sotto la forma concreta che noi oggi subiamo (la forma industriale sviluppata)” (Los Amigos de Ludd, Note preliminari, bollettino n. 1).

In conclusione, non è possibile conciliare libertà e tecnologia, dal momento che in una società tecnologicamente avanzata l’individuo perde il controllo sulle circostanze della propria vita. E le nuove tecnologie, una volta introdotte, determinano con tale prepotenza l’assetto della società che alla fine ci si trova costretti al loro utilizzo. Rompere l’assedio tecnologico vuol dire aver l’audacia di mettere in discussione e provare a reinventare l’intero sistema di produzione e di consumo. Con questo non vogliamo proporre un bucolico ritorno al passato, cosa né possibile né desiderabile, non esaltiamo la zappa e la fatica e non sottovalutiamo le forme del dominio che hanno afflitto l’umanità nelle società preindustriali, così come non idealizziamo i modi della convivenza sociale prima del capitalismo. Se guardiamo al passato è per comprendere attraverso quali percorsi si sia arrivati all’oggi e, una volta appurato che così non va, ragionare sulle soluzioni per uscirne.

Il che non significa chiedersi come potremmo vivere senza questo o quell’apparecchio. La posta in gioco è più alta: non è possibile salvare alcuni aspetti “positivi” della tecnologia e rifiutare il resto, visto che l’intero sistema scientifico-tecnologico dominante è un sistema olistico, non scomponibile nelle sue componenti ma tutt’uno con l’assetto politico ed economico. Allora, l’unica domanda sensata per affrontare il superamento della tecnologia assoggettata al dominio è: “come possiamo sovvertire l’esistente, nonostante i rapporti di forza ci siano avversi?”.

Steve Cutts - Man
Steve Cutts – Man

 

Qui di seguito ripubblichiamo una autointervista dei Los Amigos de Ludd, gruppo spagnolo che tra 2001 e 2004 ha pubblicato un interessante «Bollettino d’informazione anti-industriale», uscito in edizione italiana a cura di ACRATI (Aggregazione contro la rovinosa avanzata della tecnologia industriale). Il Bollettino è consultabile presso la Biblioteca Travaglini di Fano.

Critica del nuovo mondo felice che si avvicina
Autointervista de Los Amigos de Ludd

Cosa comporta per voi il riferimento a Ludd e ai luddisti?

I luddisti erano lavoratori e lavoratrici inglesi che in un periodo compreso tra il 1811 e il 1813 si resero protagonisti di un movimento insurrezionale e agirono distruggendo i macchinari industriali. Si davano il nome collettivo di Generale Ludd o Re Ludd (o nomi simili). Attualmente, nel mondo anglosassone è comune che chiunque si opponga al progresso tecnologico venga tacciato con disprezzo di luddismo; ciononostante, sono in molti, dagli anni ’80 e ’90, coloro che in America hanno innalzato la bandiera del luddismo (con diverso rigore, naturalmente). Le azioni contro coltivazioni transgeniche in Francia, Belgio e Regno Unito, i sabotaggi contro il treno ad alta velocità in Italia, le occupazioni rurali nello stato spagnolo, i movimenti contadini di resistenza in Brasile e in India, tutto ciò è un ulteriore segno di una ribellione contro un progresso tecnoscientifico che sempre più si svela per quello che è: la strategia pianificata di uno sfruttamento senza fine. Sintetizzando, possiamo affermare che per noi il luddismo rappresenta un esempio di opposizione popolare attiva a una tecnologia che la tirannia industriale del capitalismo vuole imporre.

Tuttavia, mi risulta che il vostro livello operativo non sia molto alto.

Non siamo per l’esattezza un movimento di massa. Per il momento ci limitiamo a stendere un salutare discredito nei confronti della società industriale.

Steve Cutts - Man
Steve Cutts – Man

 

Ma in che misura pensate che il luddismo sia trapiantabile nel presente?

I trapianti non sono la nostra passione. La questione è un’altra. Bisogna comprendere che i luddisti reagirono contro un tipo di tecnologia che era la manifestazione evidente della distruzione accelerata delle loro comunità e delle loro forme di vita. I luddisti reagirono non solo contro i danni provocati dalle macchine, ma anche contro il sistema macchinista in sé e il tipo di produzione che implicava. Questo è un punto importante. In qualche modo avvertirono che il male stava tanto nel possesso e nello sfruttamento privato dei macchinari quanto in un tipo di organizzazione meccanizzata della produzione e del lavoro, che ai loro occhi comportava l’irruzione di una nuova vita con leggi antisociali. Detto in altri termini, essi intuirono che la tecnologia industriale poteva corrispondere solo a una determinata forma di sfruttamento della natura umana all’interno del suo habitat di convivenza: la forma capitalista, che ha bisogno di distruggere i legami comunitari, di isolare gli individui e di privarli di ogni mezzo che possa offrire loro una possibilità di autonomia materiale.

Ma non sarà questo un modo troppo benevolo e idealista di giudicare il passato preindustriale e le sue comunità?

È la nostra epoca che necessita di critici più severi. Oggi si tende piuttosto a idealizzare il presente. Noi non sosteniamo un improbabile ritorno al passato. Ciò che intendiamo mettere in evidenza è che la società industriale – con il suo ideale di progresso – ha falsificato tutta la nostra visione del passato. Oggi sappiamo che la creazione su scala universale di un Mercato e di uno Stato – un tempo limitati più o meno all’ambito nazionale, oggi planetario – ha occultato la storia su piccola scala di forme di organizzazione sociale e comunale più eque e razionali e meno nocive per l’ambiente naturale, che convissero con forme di potere o con sistemi religiosi che, sebbene inaccettabili, non opprimevano completamente, o non sempre e non in tutti i luoghi come accade oggi, l’autonomia sociale della comunità. Tutto ciò apparirà come una verità sospetta per le menti progressiste di oggi, che tendono a vedere il passato come un’epoca oscura e superata. Quando in epoche precedenti le popolazioni si ribellavano contro l’iniquità e la giustizia arbitraria dei potenti (nobiltà, ricca borghesia, clero e Corona) sapevano quantomeno che erano i loro mezzi di sostentamento – la terra, il legname, i cereali o i pascoli – che erano in gioco. Non separarono mai i loro ideali sociali – per quanto poveri fossero – dai loro mezzi diretti di sussistenza (che, in quel momento, erano ancora nelle loro mani). E nemmeno dai loro mezzi diretti di autogoverno (l’assemblea o il consiglio): oggi qualunque rivendicazione sociale deve passare attraverso il dominio astratto del mercato, attraverso la burocrazia dello Stato o del riformismo sindacale. Ogni conflitto si gioca intorno a mediocri esigenze che obbediscono alla logica economica dei potenti (che si tratti del potere d’acquisto o dei diritti civili). L’identificazione della ricchezza con il “denaro” è oggi a tal punto banale, e lo è dai tempi di Balzac, che quasi nessuno si chiede se esista una forma di vita che non sia merce acquistabile. Si lavora senza posa per undici mesi per poter vedere o mangiare una trota di fiume, fare il bagno in mare o fuggire dal feroce rumore delle città. Il riposo feriale è la burla sinistra del potere ad uso dei suoi schiavi. Nella società del capitalismo industriale la maggior parte delle lotte si focalizza su contrattazioni che riguardano condizioni di vita già di per sé deteriorate: si chiede una migliore distribuzione del reddito, ma non si mette in discussione ciò che in realtà è possibile ottenere attraverso tale reddito (una sopravvivenza in una periferia urbana? migliori superstrade nelle quali morire più velocemente? più polisportive? maggior consumo di surrogati?); si discute di salario, ma non della natura stessa del lavoro salariato; si chiede una maggiore protezione sociale di fronte al Mercato, ma non si mette in discussione l’esistenza stessa antisociale del Mercato; si cerca rifugio nello Stato e si dimentica che è stato questo che ha reso possibile che il terreno sociale divenisse il campo di battaglia della guerra economica del capitalismo. Intanto, la biosfera si va deteriorando di fronte a un assalto dissipatore sempre più crescente. Lo sfruttamento capitalista non sarebbe mai stato possibile se non si fossero industrializzate le nazioni e le popolazioni. L’opposizione tra la campagna e la città non può essere una scelta da fine settimana: nella distruzione di ogni forma di vita rurale e comunitaria è ben chiara l’origine del dominio totale che oggi subiamo.

Steve Cutts - Man
Steve Cutts – Man

 

Se ho compreso bene, voi criticate la società industriale che è nelle mani del potere capitalista, ma accettereste un tipo di società industriale governata dal potere autorganizzato della gente.

Hai capito piuttosto male. Per noi la società industriale, la sua organizzazione del tempo e del lavoro, la sua nocività e l’utilizzazione delle sue tecnologie è consustanziale al modello economico del capitalismo. Le due cose sono inseparabili.

Ma se siete così interessati a criticare la società capitalista non dovreste riprendere l’analisi marxista dell’economia politica e farla finita con queste critiche ad effetto alla tecnologia e al progresso scientifico?

Pensiamo che la maggior parte della scuola marxista abbia subito il fascino della rivoluzione capitalista della produzione, così come del macchinismo e della classe lavoratrice urbana. Qui inizia il problema. Marx salutò la nascita della classe proletaria come un qualcosa di benefico: credette che dal negativo – la miseria totale della classe lavoratrice industriale – sarebbe derivato il positivo – il comunismo. Per questo egli vide la rivoluzione capitalista e l’economia borghese come un momento critico ma necessario, il momento in cui si sarebbe generata quella classe rivoluzionaria che avrebbe conquistato il potere. L’economia borghese avrebbe imposto le condizioni oggettive per questo cambiamento fondamentale: la distruzione di tutti i vecchi legami comunitari e lo spossessamento totale degli individui. La questione, in buona sostanza, era che la classe lavoratrice prendesse le redini del movimento progressivo della Storia e si lasciasse alle spalle il vecchio mondo. Crediamo che questa visione dell’antagonismo sociale sia povera e storicamente ingannevole. Quindi, riteniamo che non ci sia alcun progresso nella Storia, e nemmeno che dal negativo estremo debba scaturire l’estremo positivo. Il processo di degrado sociale a cui la rivoluzione industriale ha dato impulso distrusse, certamente, i legami con un passato pieno di ombre e di luci, ma non fu di grande aiuto perché si forgiasse una classe con una chiara coscienza di emancipazione. Principalmente perché le generazioni nate dalla rottura avevano perduto il contatto con pratiche di socialità diretta, saperi non frammentari, beni comunitari, tecniche di produzione semplici, mutuo appoggio, ecc. Il marxismo più ortodosso accettò per buona la visione progressista della storia, ereditata dal pensiero liberale capitalista. Benedisse la Scienza e la sua applicazione industriale.

Steve Cutts - Man
Steve Cutts – Man

 

Considerate anche la Scienza come un alleato oggettivo del potere capitalista?

La mera formulazione di questa domanda contiene già in sé la sua risposta. Nell’Età moderna la Scienza necessita di grandi quantità di mezzi e di un gigantesco campo di sperimentazione per sviluppare le sue indagini; le imprese e lo Stato offrono entrambe le cose: denaro e tutto il corpo sociale sul quale sperimentare con le sue innovative scoperte. In cambio la Scienza deve accettare criteri di produttività elevati, specializzazione, divisione del lavoro e disciplina industriale… ah!, dimenticavamo, anche un rigoroso silenzio complice allorquando qualche esperimento sfugge dalle mani e produce una catastrofe, il che non è infrequente.

Mi sembra che voi giochiate a terrorizzare la gente presentando un’idea della tecnologia e della scienza come prodotti di un incubo totalitario. Forse le vostre osservazioni erano utili per un’epoca – quella più oscura – della civiltà industriale. Ma oggi, non lo potete negare, la moderna tecnologia si pone al servizio delle comodità della gente, non la priva dei suoi modi di vita, ma crea invece le condizioni di un benessere sempre rinnovato.

Forse lei guadagnerà un buon stipendio nel corso della sua vita pubblicando queste sciocchezze. Per quanto ci riguarda, pensiamo sia naturale che la tecnologia di consumo appaia oggi come una compensazione miracolosa in un mondo in cui tutti i veri valori necessari all’umano sono proibiti. Nella società divisa qualunque offerta tecnologica appare come una benedizione: ai moderni schiavi che hanno perduto perfino la capacità di riunirsi, non rimane altro che rafforzare il proprio isolamento con strumenti tecnici sempre più perfezionati. In tal modo, l’imprigionamento appare loro ancora sopportabile.

Esagerate davvero…

La nuova società che vogliono imporre si prepara a sopportare allegramente la sua crescente disumanizzazione. Per quanto riguarda la coscienza, sarà necessario rendersi insensibili al degrado delle relazioni umane – degrado in uno stato già molto avanzato –, perdere ogni prospettiva di autonomia personale e collettiva. Per quanto riguarda invece le conquiste materiali, sarà necessario accettare la possibilità di ricostruire tecnicamente la biosfera – e la sostanza umana – per preparare entrambe a uno sfruttamento economico di dimensioni mai viste. A partire da qui molti sceglieranno la propria modalità di sopravvivenza o di adattamento. Noi, nella misura delle nostre possibilità, cercheremo alleati che non accettino le condizioni di questa resa della coscienza.

Steve Cutts - Man
Steve Cutts – Man

 

 

Expo insegna: la devastazione e il saccheggio come modalità di governo (#1)

Expo insegna: la devastazione e il saccheggio come modalità di governo
Di Gianluca

Primo Maggio 2015, Milano, corteo No Expo - Foto di Michele Lapini
Primo Maggio 2015, Milano, corteo No Expo – Foto di Michele Lapini

 

Sei mesi di Expo, ormai prossimi alla conclusione, possono darci una chiave di lettura del presente. Questa grande fiera dello sfruttamento e dell’ipocrisia, passerella luccicante del capitale e delle sue pratiche predatorie, ha retto l’urto dello scandalo a seguito delle inchieste per corruzione e malaffare, mentre i movimenti non sono riusciti ad inficiarne la retorica paternalistica e trionfalistica.

Dopo la fiammata del 1° maggio il nulla. Un incendio isolato, ripiegato su se stesso, come un fiore che nasce, cresce ed appassisce in un sol giorno. A seguire il deserto. Disgregazione diffusa e totalizzante per un movimento che arranca dietro a se stesso e ai propri fantasmi. Nel frattempo, dall’altra parte della barricata, il nemico ha sperimentato il nuovo assetto che vuole imprimere al paese. L’esposizione universale va letta non solo come lo specchio di un paese sotto attacco, dunque, ma può diventare la cartina di tornasole per una guerra che è già cominciata e di cui vanno colte le implicazioni e le possibili strategie di contrasto. Niente, o molto poco, resta da difendere: tutto da conquistare, da reinventare. A partire dalle diverse sacche di resistenza anticapitalista che, nonostante tutto, continuano ad avere la forza e la potenzialità per imporre una rottura, una battuta d’arresto. Non è l’unità a tutti i costi ciò che serve ai movimenti, ma un linguaggio in comune ed una definizione chiara di chi è il nemico e degli obiettivi che si pone. L’Expo non è solo la fotografia nitida di ciò che le classi subalterne hanno subito negli ultimi anni, ma principalmente una dichiarazione d’intenti: un futuro negato in un paese totalmente ristrutturato.

Primo Maggio 2015, Milano, distruzione creativa - Foto di Michele Lapini
Primo Maggio 2015, Milano, distruzione creativa – Foto di Michele Lapini

 

La capacità di leggere questa sottile differenza potrebbe essere la condizione per proiettarci in avanti, al di là del grande evento, oltre una sconfitta che rischia di fagocitare anni di esperienze maturate nelle lotte contro le grandi opere. Perché a voler guardare bene la sfida che ci si pone è il sabotaggio di una sola grande opera: un unico, enorme, articolato modello di accumulazione, che allo sfruttamento del lavoro accompagna il saccheggio dei territori, dotandosi di una pratica politica autoritaria che non ammette intralci. Sentiamo infatti ripetere continuamente che il paese sta cambiando e non ci si possono permettere battute d’arresto. Il governo delle grandi intese non si stanca di ripeterci che il mondo ci guarda e non possiamo permetterci brutte figure. Da qui lo scandaloso accordo con i sindacati confederali che hanno accantonato il diritto di sciopero nei sei mesi precedenti l’esposizione e durante l’intera durata della stessa. Medesima retorica, possiamo affermarlo oggi, con cui si annuncia la stretta sugli scioperi perché, dal sito archeologico di Pompei al settore dei trasporti, non si possono creare disagi in un momento così delicato. Bisogna sacrificare, ancora, dignità e vita al supremo interesse della ripresa economica.

Lo si diceva anche per la TAV ed oggi non ci crede più nessuno: non possiamo fermare il progresso per le rivendicazioni di qualche montanaro affezionato alla propria terra e alla propria salute. L’analogia tra il modello TAV e il modello EXPO sta tutta qui: imporre la trasformazione dei territori, sacrificarne gli interessi degli abitanti ed impedirne ogni rivendicazione attraverso la militarizzazione e la santificazione politico-mediatica di grandi opere e grandi eventi. A questo modello dobbiamo guardare come al nuovo modus operandi della classe dirigente, una sorta di colonialismo interno che dopo la mercificazione dei beni comuni mira alla conquista della terra e alla sua svendita agli interessi del grande capitale.

Primo Maggio 2015, Milano, corteo No Expo - Foto di Michele Lapini
Primo Maggio 2015, Milano, corteo No Expo – Foto di Michele Lapini

 

La gentrificazione e lo sventramento dei quartieri popolari ad uso e consumo di residence e centri commerciali, le trivelle lungo tutta la dorsale adriatica, la TAV, il ruolo delle grandi cooperative che in cambio della gestione dei mega appalti ricevono in pasto i diritti dei lavoratori: la grande opera da fermare è tutta in questo modello coperto dalla retorica dell’interesse nazionale al di sopra di tutto e tutti. Sabotare queste sperimentazioni è un compito arduo ma non demandabile, per soddisfare l’aspirazione a stravolgere lo stato di cose presenti.

Torna alla mente, di nuovo, il 1° maggio milanese. E viene da pensare che nell’isolamento e nella dispersione in cui annaspano i movimenti, si ha sempre più bisogno di certe fiammate. Quantomeno per restituire a chi non è più disposto a subire e temporeggiare la consapevolezza che possiamo sabotare prima di tutto questa atmosfera di calma apparente. In fondo agli annunci trionfalistici del nemico, dietro al velo delle sue menzogne, risiede un po’ della nostra verità. Va tutto bene, sentiamo echeggiare ovunque. Sappiamo che non è vero ed è nostro il compito di generalizzare questa consapevolezza. Di fronte a ciò, il grido di rabbia e disperazione del primo maggio, seppure soffocato nella narrazione tossica dei media mainstream e dal retrocedere di pezzi di movimento terrorizzati dalle conseguenze delle proprie aspirazioni rivoluzionarie, è un sussulto di dignità che irrompe in un quotidiano avvilente e ci indica una strada. Non certo l’unica, ma quantomeno un segnale che può essere colto da chi sente l’esigenza di rispedire al mittente la paura e l’incertezza per un futuro insondabile ed un presente negato.

Primo Maggio 2015, Milano, corteo No Expo - Foto di Michele Lapini
Primo Maggio 2015, Milano, corteo No Expo – Foto di Michele Lapini

Bellavita selvaggia. Potere ed economia nelle società primitive (#3)

Bellavita selvaggia. Potere ed economia nelle società primitive
Presentazione di Andrea Staid

Andrea Staid è docente di antropologia culturale, fa parte del collettivo redazionale delle edizioni Elèuthera ed è autore di diverse ricerche e pubblicazioni di storia ed etnografia, in particolare di etnografia dei migranti. Pubblichiamo la trascrizione della presentazione del suo libro “I senza Stato. Potere, economia e debito nelle società primitive” (Bèbert, 2015) tenuta dall’autore presso l’Archivio storico della FAI di Imola il 7 novembre 2015, compresa parte della discussione che ne è seguita. Questo testo ci porta a riflettere su come tutte le culture e le organizzazioni sociali siano relative e, soprattutto, su come lo Stato e l’economia di profitto non abbiano sempre caratterizzato la storia dell’uomo. Ci piace come Andrea parli di tutto ciò con parole chiare, semplici, ben documentate sulla scorta degli studi antropologici ma senza necessità di ricorrere a linguaggi specialistici. E come l’ottica da cui si pone non sia la ricostruzione di una mitica e ideale società primitiva, ma la possibilità di attualizzare nella società contemporanea gli spunti più interessanti che i racconti etnografici hanno disvelato sulla gestione del potere, l’economia e la vita comunitaria.

Tdzao, monti Sapa, Vietnam, 2012. Foto di Andrea Staid
Tdzao, monti Sapa, Vietnam, 2012. Foto di Andrea Staid

 

Dagli Inuit ai No Tav

Vi ringrazio per avermi invitato a discutere con voi questo libro. Il mio principale ambito di ricerca riguarda il mondo dei migranti, mentre questa che presento oggi è una riflessione più filosofico-antropologica. Io non sono stato negli anni sessanta tra gli indios Guaranì, gli Inuit eschimesi o gli Irochesi in Nord America, però ho studiato queste cose e ho anche avuto occasione di insegnarle in ambito universitario. E così mi è nata la voglia di lavorare a questo libricino, volutamente breve, sfrondandolo dell’apparato accademico di lunghe note e citazioni per andare invece a cogliere l’essenziale. Vuol essere una specie di “antipasto” che vada a stimolare l’interesse attorno a queste tematiche; chi ne fosse incuriosito potrà poi andare ad affrontare libri “veri” come quelli di Pierre Clastres, Marshall Sahlins, David Graeber o altri antropologi.

Essendo io una persona da sempre attenta alle critiche e ai conflitti contro gli Stati nazione, mi interessava riflettere su quella che è stata l’esperienza delle società primitive senza Stato. Uso appositamente il plurale perché le società primitive sono tante e differenti e certamente non tutte avevano le caratteristiche che descriverò oggi. Voglio inoltre dirvi subito che io non sono un “primitivista” e questo non è un libro dove si inneggia al ritorno ad un’epoca d’oro, è piuttosto il tentativo di indagare su un archivio umano di esperienze reali, per poterne cogliere alcuni spunti attualizzabili nel mondo contemporaneo.

L’aspetto che principalmente mi interessa è demistificare l’idea che da sempre l’uomo abbia vissuto con lo Stato. Fare una critica allo Stato qui, in una sede anarchica, è una cosa abbastanza facile, ma spesso mi capita di presentare questo libro in situazioni diverse e di solito cito quanto dice Harold Barclay, un anziano antropologo libertario, che suscita sempre un attimo di scalpore: oggi ci sono all’incirca 196 Stati ufficialmente indipendenti che ricoprono l’intero pianeta, 158 di questi, cioè la gran parte, sono emersi dal dominio coloniale, quindi sono recenti e sono stati imposti con la forza. In altre parole: fino all’altro ieri non vivevamo in società statali. Ciò non significa che prima il mondo fosse perfetto, ma ci serve per smontare dal punto di vista antropologico l’assunto che vivere con uno Stato sia una cosa normale. Invece non è così, si tratta di un processo culturale e perciò relativo. Altri aspetti su cui mi soffermo sono quelli del potere e dell’economia. Anche il potere, inteso come dominio, sembra quasi che sia un dato naturale ma in realtà non è sempre stato così, non è un fatto naturale vivere in un mondo dove vige lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Molto importante è inoltre l’aspetto economico, perché dal mio punto vista l’istituzione degli Stati nazione e del potere coercitivo nasce proprio grazie alla creazione del surplus e di una concezione del lavoro legata al salario invece che alla comunità.

Nella parte introduttiva di questo libro ho cercato di legare l’interesse dell’antropologo sulle società primitive con l’oggi, andando a vedere quei movimenti a-statali che secondo me rappresentano esperienze interessanti nella società attuale. In primo luogo faccio riferimento al movimento No Tav. Lo cito non tanto per la lotta conflittuale contro il treno ad alta velocità (una causa che io sposo in pieno), quanto perché questo movimento ha rimesso in questione la democrazia parlamentare, la delega politica, quella che nel libro chiamo la “tirannia del numero”, cioè il fatto che una minoranza di italiani votino delle persone che vengono delegate a Roma e che deliberano su territori a chilometri di distanza, dove vive una comunità che invece non può decidere sulle sorti del proprio territorio. Altro esempio è quello del movimento siciliano No Muos, cioè delle lotte di vari gruppi contro il militarismo sovranazionale che ha deciso di installare in un determinato territorio delle antenne che molto probabilmente produrranno gravi danni, anche in termini di salute, per le comunità che vivono lì. Queste persone rifiutano di accettare tutto ciò, creano conflitto ed è interessante andare a vedere come nei momenti di lotta queste comunità comincino a produrre qualcosa di differente rispetto all’organizzazione sociale del potere che conosciamo.

Un ulteriore esempio che mi serve per spiegare perché ritengo utile guardare le esperienze delle società primitive senza Stato è quello del Rojava in Kurdistan. Abbiamo assistito a una vera e propria metamorfosi della lotta del popolo kurdo che fino alla fine degli anni novanta lottava per la creazione di uno stato nazionale kurdo, mentre oggi oltre ad alimentare la resistenza contro Daesh (lo Stato islamico) lotta per la liberazione ma soprattutto per creare il “confederalismo democratico” cioè delle zone autonome a-statali di democrazia diretta. Il senso di questa democrazia diretta, come lo ha analizzato anche David Graeber, si sovrappone con il concetto che io ho di anarchia, cioè con la gestione diretta della società da parte di chi abita un determinato territorio, di chi vive quotidianamente la comunità.

Tdzao, monti apa, Vietnam, 2012. Foto di Andrea Staid
Tdzao, monti apa, Vietnam, 2012. Foto di Andrea Staid

 

Il capo amerindiano

Per quanto riguarda il “potere”, attraverso gli studi antropologici del Novecento analizzo la sua organizzazione nelle società amerindie. Per amerindiani o amerindi intendo le popolazioni autoctone delle Americhe, che possiamo considerare suddivise in due grandi gruppi: gli indiani nell’America settentrionale e gli indios in Messico e America centrale e meridionale.

La figura del capo amerindiano è in realtà la cosa più lontana possibile da quella che è la nostra concezione di “capo”. Il capo amerindiano è svuotato completamente della funzione comando-obbedienza. È piuttosto il paciere del gruppo, colui che ha il dovere e il diritto della parola, ma non può impartire ordini a nessuno. Una caratteristica del capo è di essere perennemente indebitato con la comunità, il che è esattamente il contrario di quello che succede oggi, visto che oggi siamo tutti indebitati con i “capi”, con le gerarchie economiche che ci comandano. Nelle società primitive era il contrario, come spiega in queste righe Pierre Clastres: “l’indebitamento del capo garantisce che rimanga esterno al potere, che non ne diventi l’organo separato. Prigioniero del suo desiderio di prestigio, il capo selvaggio accetta di sottomettersi al potere della società pagando il debito che costituisce ogni esercizio di potere. Intrappolando il capo nel suo desiderio, la tribù si assicura contro il rischio mortale di vedere il potere politico staccarsi e ritorcersi contro di essa: la società primitiva è una società contro lo Stato”[1].

Clastres in sostanza sostiene che queste non sono società senza Stato, ma contro lo Stato. Hanno cioè compreso il pericolo che può derivare dall’accentramento di potere nelle mani di pochi e fanno di tutto per delimitarlo. Come lo fanno? Gestendo il potere. Su quest’aspetto hanno scritto in molti, potremmo citare nomi illustri come Foucault o Derrida, ma a me piace citare persone che fanno parte del mondo libertario, oltre che personalmente della mia vita, come Amedeo Bertolo o Eduardo Colombo, attivisti libertari che hanno scritto passaggi fondamentali sul potere e che hanno capito come la funzione del potere tra esseri umani sia ineliminabile, nel senso che si può anche eliminare il potere-dominio ma non il potere relazionale. L’importante è distribuirlo a tutti. La distribuzione del potere determina un alto grado di uguaglianza in queste società e soprattutto un alto grado di libertà.

Lavoratori delle comunità indigene, risaie Vang Vieng, Laos, 2011. Foto di Andrea Staid
Lavoratori delle comunità indigene, risaie Vang Vieng, Laos, 2011. Foto di Andrea Staid

 

Quei selvaggi lavoravano tre ore al giorno…

Il discorso sul potere si rispecchia nel discorso relativo al lavoro. Credo che nelle nostre vite il potere coercitivo, cioè il potere comando-obbedienza, lo incontriamo facilmente quando andiamo a lavorare. Lì devi obbedire, perché ti viene dato un salario. Nelle società primitive di cui vi sto parlando le cose andavano diversamente. Non che fossero società senza economia, erano società economiche ma che sviluppavano un’economia senza profitto, cioè senza surplus. Spesso siamo portati a pensare, grazie a illustri economisti come Adam Smith i cui libri si sono imposti nelle scuole, che l’homo œconomicus sia sempre esistito. Questa è una cosa falsa e per fortuna non sono io a dirlo, ma tantissimi antropologi ed economisti del Novecento che si sono occupati di queste tematiche e hanno concluso che per la maggior parte della sua storia l’umanità non ha vissuto in un’economia di profitto. Se potessimo mettere la storia umana lungo una retta di mille metri vedremmo che soltanto gli ultimi centocinquanta sono popolati dall’economia del profitto, nella restante parte, in linea di massima, le comunità umane hanno sviluppato un’economia del dono.

L’economia del dono però non è una cosa semplice. Marcel Mauss negli anni venti del Novecento ha scritto un trattato molto interessante, in cui spiega come l’economia del dono regoli le relazioni e gli scambi fra gli esseri umani. Ciò significa che l’economia del dono è una vera e propria economia di scambio. Non ci riferiamo al “dono” come banalmente potremmo intenderlo oggi, per Natale o per il compleanno, ma il dono in queste società regola le relazioni, per cui io ti do una cosa adesso e so che tu mi darai qualcos’altro un domani. È un meccanismo che si basa sulla fiducia, che purtroppo oggi è difficile concepire perché abbiamo decostruito la solidarietà tra esseri umani. D’altra parte perfino nella società contemporanea possiamo rintracciare situazioni di economia del dono, penso agli spazi libertari e autogestiti dove non c’è scambio monetario, ma anche a situazioni più complesse come ad esempio la “banca del tempo” che è una trovata apprezzabile e in alcuni contesti soprattutto in periodi di crisi comincia a funzionare. La banca del tempo è di fatto economia del dono ma chiaramente, se la vediamo funzionare in paesi di montagna o di campagna, al di fuori di piccole realtà la cosa è più difficile.

A questo punto è necessario demistificare anche un’altra lettura che spesso viene riproposta, ovvero il presunto passaggio dall’epoca mitica del baratto alla moneta. In realtà l’epoca del baratto non è mai esistita. C’era invece il dono che è una cosa ben differente perché il dono, se l’individuo si riconosce nella comunità, funziona, mentre il baratto semplicemente non funziona. O meglio, può anche funzionare, ma giusto per divertimento. Se io produco il pane e tu le scarpe, tu il pane lo vuoi tutti i giorni e a me le scarpe durano due anni, come facciamo a barattare? Non è così funzionale a livello economico. Il dono invece lo è, il dono è funzionale perché quando io avrò bisogno delle scarpe so che tu me le darai. Ma per avere questa economia basata sul dono ci deve essere un riconoscimento dell’individuo nella comunità e della comunità nell’individuo.

Tra gli Inuit, una popolazione dell’Artico, il concetto di dono è addirittura più avanzato rispetto alla modalità che abbiamo descritto del dare, ricevere, restituire. Peter Freuchen, un osservatore occidentale, racconta di una battuta di caccia a cui aveva partecipato: lui non era riuscito a catturare nessuna preda, mentre al cacciatore locale era andata meglio. Una volta tornati al campo anche lui ha ricevuto una parte di cibo e per questo ha ringraziato. Al che gli è stato fatto seccamente notare che non avrebbe dovuto ringraziare: “Inuit” significa “umanità” e umanità significa condivisione, permettere come minimo che tutti possano sopravvivere in un territorio. Addirittura in molti racconti etnografici si legge che il miglior cacciatore era quello che mangiava meno di tutti, perché essere il migliore voleva dire dare di più agli altri, far sì che la comunità si accorgesse che c’era tanto da condividere.

Un altro aspetto interessante viene descritto tra i primi da Marshall Sahlins in un libro molto bello, Economia dell’età della pietra. Sahlins era un marxista, partiva con idee ben chiare sul mondo del lavoro, ma racconta di come andando a vedere negli anni settanta questi popoli ritenuti sottosviluppati e rimasti fermi nella storia si sia reso conto che il loro metodo di lavoro se lo sarebbero sognato i moderni operai sindacalizzati. Mentre quest’ultimi lottavano per le otto ore, quei selvaggi lavoravano tre o quattro ore al giorno. E non è vero che non avessero da mangiare o che vivessero in un’economia di sussistenza. Al contrario, erano economie dell’abbondanza che venivano mantenute volutamente sottoproduttive, questo per non creare quel surplus che avrebbe portato a divergenze interne alla comunità. È infatti attraverso il surplus che viene fuori il dominio, perché nel momento in cui si concentra nelle mani di qualcuno, il rischio è che venga fatto valere per creare sperequazione e diseguaglianza rispetto agli altri.

A questo proposito vi leggo un brevissimo brano sui Kapauko della Nuova Guinea, tratto proprio dal libro di Sahlins. Si tratta di un racconto etnografico degli anni settanta del Novecento, quindi di una situazione recentissima nella storia dell’umanità, seppur difficile da attualizzare: “avendo i Kapauko una concezione equilibrata della vita, pensano di dover lavorare soltanto a giorni alterni. Una giornata di lavoro è seguita da una di riposo allo scopo di riacquistare la forza e la salute perdute. Questo monotono alternarsi di lavoro e svago è reso più piacevole dall’inserimento nel loro calendario di periodi di vacanze più lunghi, trascorsi danzando, facendo visite, pescando o cacciando. Di conseguenza, generalmente si notano soltanto alcune persone avviarsi verso gli orti, le altre si prendono il loro giorno di riposo”[2]. Vediamo come ci sia una concezione del lavoro completamente diversa dalla nostra. Quando gli antropologi parlavano con questi indigeni facevano addirittura fatica a far loro capire la parola “lavoro”, visto che in quelle società il lavoro era semplicemente una parte della giornata, non era un tempo separato impiegato con la finalità di un salario.

Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid
Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid

 

Il debito

Dopo potere ed economia, l’ultimo capitolo del libro lo dedico alla questione del “debito”. Anche questo concetto, come ho già accennato prima parlando del comportamento del capo, era completamente diverso nelle società primitive rispetto ad oggi. Il fatto che uno solo, un capo ma privo di potere coercitivo, fosse continuamente indebitato con la comunità e che quindi fosse quello che lavorava di più e doveva sempre donare agli altri, garantiva la libertà degli eguali nelle società primitive. Quando invece hanno cominciato a stratificarsi le società statuali e l’economia del profitto basata sul surplus, il concetto di debito si è completamente ribaltato. Oggi tutti noi si può dire che siamo indebitati con un’oligarchia che ha i soldi e il potere coercitivo.

Così ce lo spiega Clastres: “nessuna divisione in una minoranza di dominanti (il capo e i suoi clienti) che comanderebbe a una maggioranza di dominati (il resto della comunità) che ubbidirebbe. Le società melanesiane ci offrono piuttosto lo spettacolo opposto. Per quanto si possa parlare di divisione, ci si accorge in effetti che, se divisione c’è, è solamente quella che separa una minoranza di lavoratori ricchi da una maggioranza di fannulloni poveri: ma, e qui si toccano i fondamenti stessi delle società primitive, i ricchi sono tali solo grazie al loro lavoro, i cui prodotti sono consumati dalla massa oziosa dei poveri. In altri termini, la società nel suo insieme sfrutta il lavoro della minoranza che circonda il big-man”[3]. In altre parole i capi, per essere tali, devono continuamente donare a quelli che non fanno niente. Ma quelli che non fanno niente non andranno la sera davanti al fuoco a raccontare le tradizioni della comunità. Noi siamo abituati a situazioni completamente diverse, anche se devo dire che io personalmente ho la fortuna di trovarmi a lavorare in una cooperativa libertaria dove il capo è effettivamente un capo amerindiano: è quello che lavora più di tutti, che non percepisce salario e che non ci pensa nemmeno a dare ordini sul lavoro, ma ha la sua autorevolezza.

Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid
Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid

 

Primitivo attuale

In conclusione, possiamo dire che questo libro presenta il punto di vista di un antropologo libertario che cerca di interpretare le esperienze delle società primitive e di ricodificarle nel contemporaneo. A me piacerebbe dar ragione ai primitivisti, costruire da domani un mondo dove si viva di nuovo di caccia e raccolta e dove siamo tutti liberi ed eguali. Ma, a parte il fatto che non tutte le società primitive erano perfette e credo che dei passi avanti l’umanità li abbia fatti, ritengo più stimolante attingere a quanto di interessante si trova in queste società per ricodificarlo nel tempo presente e cercare di mutare subito la nostra vita quotidiana. Ad esempio cercare di riprodurre negli spazi che frequentiamo la concezione del potere distribuito, non gerarchico. Oppure cominciare a pensare alle possibilità di vivere con un’economia di condivisione e dono. Chiaramente queste modalità di relazione sono più fattibili in piccoli centri, in piccole comunità, e d’altra parte io non voglio fare il politologo e dare risposte sui macrosistemi. Si può però sperimentare, perché siamo noi che dovremmo decidere come vivere, quali relazioni mettere in pratica nella nostra quotidianità. Anche se, va detto, la critica che fanno molti libertari all’organizzazione di queste società primitive, e che ritengo sensata, riguarda la forte pressione comunitaria sulle scelte individuali: la soggettività individuale, che per me rimane fondamentale, rischia infatti di venire compressa dalla comunità.

Un’ultima cosa che voglio dirvi su questo libro riguarda le illustrazioni. Sono disegni di Giulia Pellegrini. Con lei ho discusso molto su queste tematiche e abbiamo insieme cercato di ragionare sul modo di affrontarle artisticamente; le illustrazioni che trovate non sono quindi solo un contorno al testo, ma parte integrante del libro.

Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid
Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid

 

Qual è la collocazione spaziale e temporale di queste società primitive di cui ci hai parlato? A che luoghi e a quali epoche storiche fai riferimento? Esistono ancora oggi dei popoli indigeni che vivono con questo tipo di organizzazione sociale ed economica?

Prima di tutto spiego cosa intendo per “società primitive”, termine che a me non piace perché accomuna diverse singolarità tra loro differenti. Ci sono infatti i Guaranì, gli Inuit, i Kapauko e così via. Ma, generalizzando, possiamo intendere per primitive quelle società che presentano un livello minimo di stratificazione sociale, che in genere vivono di caccia, raccolta o praticano un’agricoltura limitata e, per usare parole di Clastres, nelle quali il corpo politico non è separato dal corpo sociale. Un grave errore sarebbe di ritenerle società immutabili nella storia. Si sono invece mosse, sono mutate dentro il flusso della storia e quindi non c’è un periodo fisso in cui collocarle; gli esempi che vi ho portato sono racconti etnografici degli anni sessanta e settanta del Novecento, ma quelle società esistevano da tempo immemorabile. Ovviamente sono anche diverse a seconda dei luoghi in cui si sviluppano.

Ancora oggi in Polinesia ci sono varie comunità che vivono su modelli simili a quelli di cui abbiamo parlato. Adriano Favole in La bussola dell’antropologo riporta etnografie da lui fatte in quelle zone tra il 2008 e il 2013 e racconta che ad esempio la maggior parte di queste comunità non vende i frutti della terra, farlo sarebbe un insulto al loro modo di vita, perché la terra è di tutti. Nella seconda metà del Novecento, quando in molte parti del mondo si sono sviluppate le lotte di liberazione dal colonialismo, in Polinesia gli antropologi trovavano comunità che, forse ingenuamente, sostenevano di non riconoscersi in questa necessità di liberazione nazionale visto che il mare è di tutti, la terrà è di tutti. Facevano piuttosto un altro tipo di lotta, che era una lotta di resistenza, di diserzione dai comandi dei colonialisti per continuare a vivere come avevano sempre vissuto. Questo ha prodotto una cosa interessante, cioè che in Polinesia ci sono ancora migliaia di persone che vivono con un’economia del dono e della condivisione, mentre se guardiamo a cosa è successo in Africa vediamo che la lotta anticolonialista ha finito per produrre la distruzione totale delle economie preesistenti e nuovi Stati nazione che hanno determinato condizioni ancora peggiori di quelle degli Stati nazione europei. Con questo non voglio dire che una strada sia stata migliore o peggiore dell’altra, non è mio interesse mettermi a giudicare su questo tipo di scelte.

Quelle che ho visto con i miei occhi sono le popolazioni Hmong, Tà Ôi, Dao, Giay, Tay, che ho conosciuto dal 2010 fino alla scorsa estate nei territori che noi chiamiamo Vietnam, Thailandia, Laos, Cina, ma loro in realtà non si riconoscono in nessuno di questi Stati, parlano una propria lingua e hanno una propria cultura. Sono comunità schiacciate dall’avanzata continua del capitalismo (anche se in Cina, Laos e Vietnam ci sarebbe il comunismo). Ora i regimi hanno quantomeno smesso di massacrarle ma i territori in cui vivono sono depredati e stanno diventando terreno per il turismo indigenista, che è una cosa terribile: arrivi a Bangkok e le agenzie turistiche ti propongono di fare il giro per andare a visitare gli indigeni. Una specie di zoo degli umani!

Vi consiglio anche di leggere l’antropologo James Scott. Al contrario di quanto ho fatto io che mi sono avvicinato a questi studi da attivista anarchico, lui non era un libertario ma capisce di esserlo proprio attraverso l’etnografia. Dopo trent’anni di studi etnografici in Asia scrive L’arte di non essere governati, Dominio e arte della resistenza ed Elogio dell’anarchismo. Secondo lui nel Sud-Est asiatico la maggior parte della popolazione, quindi non solo le piccole comunità, vive con l’arte di non essere governata. Sono società statali ma in realtà gli abitanti non si riconoscono affatto nello Stato. Non lo attaccano direttamente in maniera conflittuale ma più che altro non fanno quello che viene loro imposto di fare. Io mi sono reso conto abbastanza bene di questa cosa la scorsa estate quando sono stato in Nepal, dopo il terremoto; a Kathmandu a trenta giorni dal terremoto era evidente l’impossibilità totale di creare “zone rosse”. In Durbar square, la piazza principale con bellissime costruzioni antiche di templi, crollati o pericolanti, c’erano tutti i cartelli di “zona proibita” ma in realtà i motorini sfrecciavano ovunque, le signore vendevano gli ortaggi in strada ecc. Questo non vuol dire che sia una società più bella della nostra, ma mi è parso chiaro come nella quotidianità della gente ci sia veramente quest’arte di non essere governati.

Mi pare che nello sviluppo storico dell’umanità siano i criteri del dominio e della conquista ad aver maggiormente inciso, rispetto a quelle società primitive che invece vivevano in pace nelle loro comunità a-statali. Secondo te perché nella lunga storia umana alla fine sono riuscite ad imporsi la società statuale e l’economia del profitto?

Una risposta univoca non si può dare. Di certo, a mio parere, non ci sono stadi evolutivi nella storia della società umana, con passaggi necessari da un assetto a un altro come ci diceva la teoria marxista. Sul perché a un certo punto si introduca l’organizzazione di tipo statuale, con tutto ciò che ne consegue, gli antropologi hanno elaborato diverse ipotesi. Una di queste riguarda la figura del capo e il fatto che in caso di guerra detenesse il potere di tipo comando-obbedienza. Era un’eccezione legata alle necessità di un momento particolare, il momento dell’azione. Ma il prolungarsi delle battaglie deve aver determinato, a un certo punto, che questo potere diventasse stabile concentrandosi nelle mani di qualcuno. Un’altra lettura parte invece dal potere religioso. In queste società c’erano degli sciamani e probabilmente, a causa di calamità naturali o del prolungarsi di situazioni di carestia, un gran numero di persone ha sentito il bisogno di una protezione slegata dalla realtà quotidiana, portando in questo modo ad una cristallizzazione del potere religioso. In ogni caso, la formazione di gerarchie sociali è un processo che non si è compiuto dall’oggi al domani ma ha avuto bisogno di tempi molto lunghi.

Illustrazione di Giulia Pellegrini
Illustrazione di Giulia Pellegrini

 

Cosa ne pensi delle attuali pratiche di scambio e di condivisione rappresentate da tutto quello che gira attorno alla sharing economy?

Il capitalismo soprattutto in tempo di crisi è ben capace di sfruttare a suo vantaggio determinate tematiche come quella della condivisione, che è una buona economia, facendoci sopra il suo guadagno. Prima dicevo che la condivisione e il dono sono economie senza profitto, la sharing economy è una invece cosa differente ma che comunque rimane un passaggio perlomeno interessante. Se prendiamo l’esempio del car sharing e pensiamo all’abolizione in città di tutte le macchine private per lasciare solo macchine condivise, non sarebbe male. Ma qual è la differenza? È che nella sharing economy ci sono soldi che girano e c’è dietro qualcuno che fa profitti. Anche quello del coworking è un discorso stimolante, si lavora fianco a fianco con persone diverse, si crea uno scambio di saperi, si risparmia sulle bollette. A Milano negli ultimi anni c’è stato davvero un boom del coworking, ma anche qui la cosa pazzesca è che c’è qualcuno che lucra sui centimetri di tavolo che prendi in affitto. La sharing economy per come la conosciamo oggi è più che altro una soluzione per il capitalismo in crisi.

All’inizio della presentazione hai detto che ti occupi principalmente di etnografie dei migranti, qual è la tua visione sul fenomeno delle migrazioni oggi? Quali sono secondo te la strategie da adottare?

Partiamo dal dato di fatto che tutte le culture umane sono impure, tutte sono in transito. Ma fermarsi a quest’affermazione sarebbe semplicistico, è evidente che da dieci anni a questa parte stiamo affrontando un fenomeno che ha raggiunto una consistenza molto maggiore di quella a cui erano abituate le nostre società. Il perché, lo abbiamo sotto gli occhi. Non voglio far demagogia ma la colpa è dell’Occidente, è di quegli Stati che sono andati a colonizzare il mondo, che hanno depredato interi territori dove adesso è impossibile creare economie sostenibili, che hanno infine voluto esportare la democrazia. Avesse almeno garantito un minimo di vita degna e invece in certe zone adesso si sta molto peggio di prima e quindi le persone sono costrette ad andarsene. Ho raccolto molte testimonianze in questi anni di lavoro etnografico, molti migranti vengono qui perché scappano da una situazione economica impossibile, da guerre, da carestie.

Il discorso sarebbe lungo, ma andando proprio al nocciolo della questione io sono convinto che sia possibile creare un mondo che sappia accogliere e che sappia nutrirsi di questi fenomeni migratori, ma non c’è una via di mezzo: deve cambiare strutturalmente la società neoliberale che conosciamo. La soluzione non è al suo interno. A me ad esempio non piace parlare di “integrazione”, anche se il termine può essere usato con una valenza positiva, perché significa che qualcuno deve inserirsi nel mio corpo e io nel suo, mentre io più che integrare vorrei scambiare, vorrei trovare assieme la soluzione per la coabitazione e per un’intercultura reale. Anche il multiculturalismo non è un concetto che mi soddisfa, perché indica un separare le differenze e renderle poi omogenee in un insieme assurdo. Pensare di trovare una soluzione a tutto questo senza cambiare completamente lo stato delle cose nella fortezza Europa, nella fortezza Occidente, credo sia impossibile.

 

[1] Pierre Clastres, Archeologia della violenza, Milano, La Salamandra, 1982, p. 121.

[2] L. Pospisil, in Marshall Sahlins, L’economia dell’età della pietra: scarsità e abbondanza nelle società primitive, Milano, Bompiani, 1980, p. 67

[3] P. Clastres, Prefazione, in M. Sahlins, L’economia dell’età della pietra, cit., p. 11.