Auto-ricostruzione nel cratere. Come tornare ad abitare i territori colpiti dal sisma (#14)

Intervista di Luigi a Sara Campanelli (ARIA Familiare), Chiara Braucher (Emidio di Treviri) e Stefano Mimmotti. Da Malamente #14, maggio 2019 [QUI IL PDF]

In un precedente numero di Malamente (#8, settembre 2017) avevamo parlato di autocostruzione di case, concentrandoci in particolare sull’utilizzo di legno e balle di paglia. Torniamo ora sullo stesso argomento, calandolo nel contesto della ricostruzione post terremoto dell’Appenino centrale. Siamo stati nei pressi di Camerino, ospitati nella casetta di legno provvisoria di Stefano e Simona, e abbiamo discusso delle possibilità di auto-ricostruzione, in cantieri aperti ai volontari, insieme a Sara Campanelli dell’associazione ARIA Familiare [Associazione rete italiana autocostruzione] e Chiara Braucher del gruppo di ricerca Emidio di Treviri. L’auto-ricostruzione ci sembra particolarmente interessante sia perché consente la riappropriazione comunitaria e la condivisione gratuita di un “saper fare” che non dovrebbe essere esclusivamente delegato a imprese specializzate, sia perché non riguarda solo il mettere in piedi un edificio, ma comporta la creazione di legami sociali sul territorio e la ricostruzione di relazioni umane, a partire dallo stare insieme, volontariamente, attorno a un progetto di vita molto concreto. Ci sembra, insomma, una buona strada per tornare veramente ad “abitare” i territori interni colpiti dal terremoto del 2016 ed evitare che un giorno questi paesi si ritrovino pieni di case ristrutturate ma vuote perché prive di tessuto sociale.

Partiamo da voi stessi: come siete entrati in contatto attorno al tema dell’auto-ricostruzione nel cratere del sisma?

Sara: Con Stefano e Simona ci siamo incontrati per la prima volta nel novembre 2016 a Fermo, a una piccola fiera post sisma dedicata all’edilizia (Riabita). Io era stata invitata a parlare di costruzioni leggere, naturali e loro erano interessati alla possibilità di auto-ricostruirsi la casa che si trova in condizione di inagibilità di tipo E, cioè un edificio che risulta inutilizzabile in ogni sua parte. Mi ricordo una frase che mi disse Simona: “se devo rimanere a Calcina e ricostruire non voglio più avere le pietre intorno a me”. Dopo poco tempo mi hanno chiesto di diventare il loro tecnico incaricato per seguire la pratica sisma, così mi sono iscritta all’elenco speciale dei professionisti abilitati.

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Costruire stando in mezzo alle api (#5)

Costruire stando in mezzo alle api
Intervista a Tommaso di Apicoltura Corbecco

L’apicoltura Corbecco è presente da parecchi anni sulle nostre colline. Fa parte del circuito Genuino Clandestino ed è una realtà che riesce a “funzionare” basandosi su una mentalità e un modello organizzativo ben distanti dalla tipica impresa aziendale. Il suo percorso e le sue prospettive si inseriscono nelle sperimentazioni di un modello di economia alternativa al sistema economico dominante, un modello fatto di relazioni orizzontali, reti territoriali e partecipazione. In questa intervista Tommaso ci racconta la sua storia, il legame con il territorio e il mondo agricolo, le difficoltà superate e da superare, la lotta costante ai condizionamenti che il mercato vorrebbe imporre, il concetto di “garanzia partecipata”, i limiti della certificazione biologica e tanto altro.

Tommaso e le api - Foto di Andrea Simonetti
Tommaso e le api – Foto di Andrea Simonetti

 

Ci racconti come e quando hai iniziato la tua attività di apicoltore?

Appena quindicenne, dopo aver rubato un saggio sulle api dei primi del Novecento in un banco di libri usati, vengo travolto da un forte interesse e curiosità appassionanti. Io e Alessandra ci cimentiamo con i primi sciami naturali intorno al 2001, dopo che ci era morto il primo alveare acquistato in un impeto di fascinazione. La nostra attività si sviluppa nel contesto del gruppo di acquisto solidale di Pesaro, che è stato uno dei primi Gas della nostra zona. In quell’ambito ho avuto la possibilità di vendere i primi barattoli, che all’epoca erano più che clandestini, e questo mi ha permesso di cominciare a far esperienza e sperimentare il mondo dell’apicoltura senza alcun tipo di ansia imprenditoriale e senza dovermi porre troppi problemi, soprattutto quelli che derivano dall’aprire una partita iva sostenendo costi ingiustificati in quello che, se non si è figli d’arte, costituisce un salto nel buio. Questo fu possibile solo perché ero inserito in una piccola comunità che proteggeva questa mia ricerca personale. Nel frattempo per campare facevo altri mestieri: lavoravo come operaio, poi come imbianchino e poi nei cantieri in bioedilizia.

In seguito questa passione per le api è diventata una cosa importante e richiedeva un sacco di tempo. A un certo punto ci siamo resi conto che se volevamo portarla avanti bene dovevamo dedicarci a pieno. Con grande tranquillità e senza aver idea se fosse un mestiere remunerativo, ho quindi deciso di abbandonare i cantieri per fare dell’apicoltura la mia attività prevalente. Solo più tardi abbiamo aperto l’azienda agricola e abbiamo aumentato i volumi della produzione, sempre un passo alla volta. Non abbiamo mai comprato api ma sempre riprodotto i nostri alveari dandoci il tempo di crescere con loro. Esiste un rapporto tra il volume di miele e il numero di alveari che un singolo apicoltore riesce a produrre e a gestire. Penso che facendo apicoltura biologica il livello a cui siamo noi oggi rappresenta circa questo limite. Questo equilibrio fatto di attitudini e compromessi con il mercato ci consente di tirare fuori un reddito dalla nostra attività, cosa che non è affatto scontata. Un’altra volta magari parleremo delle ore di lavoro necessarie a far quadrare il cerchio e come affrontiamo il problema dell’autosfruttamento…

Su che territorio sono presenti le arnie e che tipologie di miele producete?

Il modo in cui gestiamo gli alveari sul territorio è legato alle modalità con cui abbiamo avviato l’attività. All’epoca abitavamo in affitto in una casa alle Cesane, la zona collinare vicino a Urbino, senza terra e senza possibilità di installare un laboratorio. Infatti lavoravamo il miele in condizioni molto precarie, praticamente in una camera da letto. Non avendo terreni di proprietà e d’altra parte non essendo le Cesane un posto particolarmente produttivo, una nostra caratteristica è stata fin da subito quella di cercare di allargare l’areale. Ci siamo ritrovati a spargere in giro gli alveari presso case di amici e aziende affini praticando un po’ di nomadismo. Questo ci ha dato la possibilità di entrare in profondità nelle caratteristiche dei territori esplorandoli attraverso le api. Ora le sensazioni che mi evocano un bosco, un frutteto o una brughiera arsa sono fortemente condizionate da questa specie di lente deformante che porta occhi compositi come un’ape e da cui dipendono anche gli interessi legati alla botanica.

In particolare abbiamo iniziato a sperimentare i mieli monoflora, in un periodo in cui ancora nelle nostre zone la produzione era quasi esclusivamente concentrata su acacia e millefiori. La scelta di puntare sui monoflora è stata per noi una scelta importante e non casuale in una realtà in cui fino a dieci o quindici anni fa il miele era per tutti quello liquido, tipo Ambrosoli, sempre uguale a se stesso in tutta Italia e in tutte le stagioni. Parlare di monoflora e di differenti cristallizzazioni ci permette invece di veicolare tante informazioni, di mostrare come il miele è un prodotto della biodiversità e profondamente legato al territorio. Noi stessi abbiamo con il tempo scoperto questo mondo e vendendo miele cerchiamo di trasmettere questa esperienza. Oggi mi muovo in un raggio di una cinquantina di chilometri da casa, con una quindicina di postazioni diverse, generalmente presso amici e in aziende agricole biologiche. Non nascondiamo alcune piccole “follie” come un apiario stanziale in Toscana e alcune postazioni in Basilicata, che giustifichiamo perché fanno parte di questa ricerca di sapori.

Louis Masai, street art - Londra, Whitecross Street, particolare
Louis Masai, street art – Londra, Whitecross Street, particolare

 

Quali sono le differenze principali tra il tuo miele e quello delle grandi aziende industriali che troviamo in vendita nella grande distribuzione?

Le differenze sono tante, a partire dalla qualità del miele e dal trattamento degli alveari. Di recente si è ricominciato a parlare in modo massiccio di frodi e adulterazioni del prodotto ma, al di là di questi casi estremi, quando si lavora su grandi quantitativi i compromessi sono all’ordine del giorno per massimizzare tempi e profitti. Nella logica industriale questo è del tutto normale; tuttavia sono pratiche insensate dal punto di vista della qualità del prodotto. Per la grande distribuzione si lavora acquistando delle partite e, mettendole insieme per fare dei miscugli il più possibile simili a se stessi, si perde qualunque specificità. Tutto viene omogeneizzato e pastorizzato, per cui si guadagna in stabilità del prodotto ma tantissime proprietà se ne vanno via. Poi c’è tutta la gestione degli alveari. L’apicoltura industriale è un’apicoltura che spreme al massimo la produzione dell’alveare. Io non ho una visione vegana, ma riconosco che per ottimizzare al massimo, l’industria mette in opera un vero e proprio sfruttamento, con costi ambientali anche importanti. Inoltre, come tutta l’agricoltura “convenzionale” anche l’apicoltura vive di chimica, di trattamenti per controllare i parassiti. Soprattutto negli anni Ottanta e Novanta alle api hanno dato veramente di tutto portando alla situazione difficile che abbiamo oggi, perché il risultato è stato selezionare parassiti e problematiche sempre più virulente e aggressive e, d’altra parte, api sempre più deboli, molto produttive ma anche molto fragili, sempre più dipendenti dall’intervento dell’uomo. Sostanzialmente una catastrofe per l’ecosistema, come tutta l’agricoltura intensiva.

Va però detto che sul nostro territorio l’apicoltura industriale non ha raggiunto livelli come quella statunitense, dove le grandi aziende possono avere anche quindicimila alveari. Da noi si ragiona nell’ordine dei mille al massimo perché l’apicoltura ha, anche storicamente, una tradizione tra virgolette sana. Esiste cioè una costellazione di medi e piccoli produttori che comunque hanno un senso, una storia, che affondano le radici in tradizioni locali. Spesso, quindi, il miele che viene venduto all’ingrosso non è il prodotto di grandi aziende industriali, ma proviene da tante realtà medio-piccole e di partenza avrebbe anche una certa qualità. Poi però il grossista lo rovina lavorandolo e standardizzandolo per commercializzarlo sugli scaffali della grande distribuzione. Anche qui nelle Marche la situazione è principalmente questa. Da un punto di vista esclusivamente economico, visto l’aumento costante del prezzo del miele (la domanda aumenta ed è sempre più difficile produrlo) e i quantitativi importanti che produciamo, a un’azienda come la nostra converrebbe sicuramente lavorare con i grossisti. Tuttavia la scelta di produrre cibo per la gente è obiettivo ben più gratificante dell’incasso di fine stagione o di qualche giorno di ferie in più, per cui ad oggi invasettiamo direttamente per la vendita al dettaglio lasciando al grossista solo le eccedenze. È raro trovare un’azienda delle nostre dimensioni che invasetta così tanto prodotto.

Q Cassetti, Robbing The Hive
Q Cassetti, Robbing The Hive

 

Una domanda a bruciapelo: ti consideri un “piccolo imprenditore”?

La mia apicoltura è di tipo artigianale ma può essere assimilabile anche a un’idea di realtà contadina, che va un po’ oltre; l’apicoltore non si limita infatti ad avere delle api e produrre del miele, ma è una persona che è inserita in un contesto di campagna e ha un rapporto diretto con l’ambiente circostante. Detto questo, per forza di cose mi sono trovato a dover fare l’imprenditore, cioè ad essere all’altezza di tutta una serie di richieste e questa situazione la vivo quotidianamente come un importante conflitto interiore. Questo senso di inadeguatezza e una certa consapevolezza sono indispensabili per non caderci dentro. Dentro quella mentalità imprenditoriale che poi porta a fare una serie di scelte che diventano concorrenziali, arroganti, arriviste. In questo è fondamentale non essere soli e circondarsi di un contesto fatto di una socialità vasta, rifiutando di affidarsi ai classici “consulenti” di sistema. Questo aiuta nelle piccole o grandi scelte che ci si trova ad affrontare e che determinano lo spartiacque tra cosa sono e cosa non voglio essere come realtà produttiva.

L’apicoltura inoltre richiede precisione, tempi serrati e una presenza continuativa. La misura è data semplicemente dall’osservazione e dall’imitazione delle api nella loro metodicità e nel loro ritmo di lavoro instancabile. Questo significa ripetizione, ottimizzazione, automatismi, quantità. Potrebbe costituire il seme marcio di una visione eccessivamente intensiva. È indispensabile mettere dei limiti alla crescita e allo sviluppo di un’attività, sostituendo l’industrializzazione con la diversificazione. Siamo anche noi agricoltori biologici e ci occupiamo dell’ecosistema come della persona nel suo insieme. Nella mia vita ho dovuto fare un percorso di decrescita per capire qual è la direzione che voglio dare al mio lavoro e questo, secondo me, fa la differenza con la mentalità dell’imprenditore. In questo ovviamente il passo è stato stabilito con chiarezza dalla presenza costante della mia compagna Alessandra e dalla sua visione femminile nel lavoro. Queste consapevolezze sono diventate concrete grazie all’incontro con Genuino Clandestino, proprio mentre mi stavo chiedendo dove mi avrebbe potuto condurre una logica di tipo imprenditoriale e cosa si può fare concretamente in direzione ostinata e contraria. Ed è stato il momento per capire che il castello che avevo costruito non sarebbe dovuto rimanere esclusivamente una mia proprietà, ma poteva essere rimesso in gioco all’interno di un circuito e diventare volano di altre iniziative.

Così l’apicoltura Corbecco è diventata una società di fatto a cui ognuno contribuisce con il proprio lavoro e con una cassa comune da cui attingere in base ai bisogni individuali. È stato semplice perché per ora siamo soltanto in tre. Il nostro nuovo socio è un compagno con cui abbiamo sempre fatto a metà di tutto, anche quando in tempi più duri non c’era niente da dividere. Abbiamo bisogni simili, 2+3 figli a carico e la musica, lo studio e l’attività politica valgono come le ore di lavoro. Come recita il nostro documento di garanzia siamo una società a sentimento. I lavori di cura, i turni per i pasti piuttosto che l’orto di casa sono parte integrante della nostra piccola economia. Questa impostazione è mutuata dalla vita contadina cui assomigliamo pur rimanendo a cavallo (o in bilico) tra l’essenza rurale e la realtà aziendale. Speriamo a breve di liberare risorse per far partire nuove iniziative e diversificare il nostro lavoro. Formalmente utilizziamo quella che si potrebbe definire una partita iva collettiva che è la forma meno costosa di essere in regola da un punto di vista assicurativo e contributivo. Un salto di qualità determinante sarebbe riuscire a costituire una cooperativa che possa raggruppare e tutelare le attività produttive affini del nostro territorio, mantenendo contabilità separate per quanto riguarda il lavoro e proprietà collettiva dei mezzi di produzione.

Q. Cassetti - Under the golden light
Q. Cassetti – Under the golden light

 

Prima hai fatto un riferimento a una visione vegana, che non ti appartiene, ma come ben sai negli ultimi anni è emersa con forza una sensibilità antispecista all’interno dei movimenti. L’apicoltura è una forma di allevamento, quindi anche se non raggiunge livelli macroscopici di sfruttamento come nell’allevamento di animali da carne o nella produzione di latte, da un certo punto di vista è comunque una forma di dominio dell’uomo su un’altra specie. Per noi, in redazione, questo è un discorso aperto e con molti punti interrogativi. Tu cosa ne pensi? Quando sei nei mercati hai mai dovuto affrontare le rimostranze degli antispecisti?

Il miele è ancora un prodotto che sta su un confine. Se troppo spesso il vegano, ma soprattutto l’antispecista che non lo fa per scelta personale ma in modo militante, diventa violento nei confronti di chi non la pensa allo stesso modo, verso il miele questa violenza è mitigata. C’è sempre un margine di dialogo e di ragionamento. Se invece fossi un allevatore di altri animali con certe persone non potrei neanche parlare e già questo fa capire che in certi atteggiamenti c’è qualcosa che non va.

Il discorso sullo sfruttamento dell’alveare è un discorso davvero molto complesso. A mio parere non si tratta di una pratica di dominio e non soltanto perché non si pratica l’apicidio ma perché noi, facendo apicoltura, in realtà non facciamo altro che creare le condizioni perché le api possano dare il meglio, cosa che si verifica anche naturalmente in determinate circostanze. Mi spiego: ad una famiglia di api bastano 12 chili di miele per svernare, ma in stagione ne può raccogliere anche 50 o 60. L’apicoltore, con il suo lavoro, contribuisce a fare in modo che questa situazione si verifichi non solo in qualche caso ma che la gran parte delle famiglie di api possa produrre molto più miele di quanto in realtà le serve. In sostanza, si tratta di creare le condizioni per poter prelevare un di più.

L’utilizzo di tecniche particolarmente invasive da noi non esiste, anche se ci sono forme di contenimento tipo la “gabbietta” per le api regine, che è una pratica dal mio punto di vista pesante ma a cui in situazioni di emergenza non escludo di ricorrere. In ogni caso non mi sottraggo a un confronto su questi argomenti che credo andrebbe sviluppato in dei gruppi misti, con la partecipazione anche di vegani o antispecisti, perché non si risolve la cosa con un atteggiamento dogmatico per cui tutti quelli che si occupano di animali sono dei nemici.

Q. Cassetti - Hive Alive
Q. Cassetti – Hive Alive

 

Sui tuoi barattoli di miele c’è il marchio della certificazione biologica. Come ci sei arrivato e che valore gli attribuisci?

Quello è stato un passaggio per me molto importante e molto combattuto. Eravamo in una fase in cui non c’era ancora Genuino Clandestino ma capivamo che i Gas non bastavano più. Bisognava uscire fuori delle assemblee di nicchia in cui si parlava di produzioni virtuose e trovare il modo di proporre un paniere serio e completo, che potesse comunicare con tutti. Da questa esigenza è nata l’esperienza dei negozi a gestione partecipata. Gli empori di Fano e Urbino sono nati dopo tre anni di riunioni in cui un gruppo di produttori, insieme a delle figure che avevano interesse ad investirci, si confrontavano e scontravano immaginando come sarebbe dovuto essere il negozio dell’“altra economia”, rispettoso del produttore, del consumatore e del territorio. L’idea che potessero nascere dei negozi eticamente vicini al mio modo di vedere le cose e di produrre era una prospettiva decisamente attraente.

È stato quindi un percorso stimolante anche se, purtroppo, l’interesse privato alla fine ha prevalso sull’interesse collettivo. Nonostante la prodigiosa buona volontà di chi si è messo in gioco, questi ambienti della cosiddetta economia solidale non hanno assolutamente gli anticorpi sufficienti a isolare le logiche del profitto utilitaristico e quindi di fatto non sono stati in grado di portare avanti quelle che erano le istanze etiche dell’operazione. Questo è accaduto sotto vari aspetti. Uno dei fronti su cui abbiamo perso riguarda proprio la certificazione biologica. All’epoca delle assemblee costitutive io ero in un gruppo di lavoro che cercava di elaborare alternative alla certificazione biologica ufficiale. Ci sono piccoli produttori che lavorano bene ma non hanno le forze di certificarsi e d’altra parte sappiamo che le certificazioni vengono date da società pagate dagli stessi produttori, che fanno le porcate che vogliono. Spingevo invece per far passare una prima forma ancora embrionale di “garanzia partecipata”, proponendo una commissione interna al negozio che valutasse autonomamente i produttori. Al mio fianco c’erano però soggetti che avevano anche loro tutto l’interesse a non voler un negozio con certificazioni bio, ma per motivi opposti ai miei: perché tacitamente lavoravano con metodi convenzionali, con diserbanti nei campi e antibiotici nelle stalle. Alla fine la decisione non è venuta dai gruppi di lavoro, ma è stata la cooperativa che ci metteva i soldi e il rischio d’impresa a stabilire che il negozio sarebbe stato certificato biologico. Per questo sono stato in certo senso costretto a intraprendere anche la strada della certificazione biologica. Quando ho registrato l’etichetta ho messo la fogliolina del marchio bio, ma con a fianco la scritta “aderisce alla campagna Genuino Clandestino”. È una dicotomia stridente, che racconta le contraddizioni e gli sforzi del mio percorso.

Q. Cassetti - Sweet Twins
Q. Cassetti – Sweet Twins

 

Intravedi il rischio che anche Genuino Clandestino possa diventare un brand che va ad imporsi su una certa fetta di mercato?

È innegabile che Genuino Clandestino sia un logo incredibilmente attraente e non manca chi ha provato ad avvicinarsi perché aveva interesse a utilizzarlo come un marchio. Io come ho detto vengo dal percorso dei Gas, le mie scelte produttive non sono mai state dettate dalla ricerca del profitto in quanto tale. C’era di fatto e c’è tutt’ora una comunità a cui devo rendere conto, ci sono cioè persone che in me ripongono fiducia. E la fiducia è una cosa seria. Se io adesso penso di aver trovato un compromesso positivo tra la necessità di avere un reddito e le scelte lavorative è grazie al fatto che sono cresciuto in questo mondo. Nel mio percorso, e in quello che sarà di Genuino Clandestino, è assolutamente centrale il sistema di garanzia partecipata, di cui si era già iniziato a parlare nel circuito dei Gas. Citando dal manifesto di Genuino Clandestino: “i sistemi di garanzia partecipata sono lo strumento fondamentale per tessere relazioni fra città e campagna e sperimentare reti economiche alternative”.

Quando parli di una comunità a cui rendere conto il riferimento va a un contesto di nicchia, mentre l’agricoltura di massa è guidata da altre logiche ed è stata colonizzata anche nell’immaginario dal capitalismo più spinto e dal marketing più aggressivo, basti pensare a quello che è stato l’Expo di Milano. Un movimento come Genuino Clandestino tende a trasformare l’agricoltura dominante o, almeno in questo momento, punta a una specie di secessione, a collocarsi cioè in un ambito dove ci si possa garantire un proprio equilibrio sperando di non essere travolti dalla retorica dell’agricoltura mainstream?

Posto che è difficile per ora capire dove stiamo andando, il desiderio di fondo è creare delle realtà che sperimentino un’autonomia dal sistema, sviluppate su una base territoriale forte e su relazioni quotidiane partendo da bisogni primari come quello del fare la spesa. Sono piccoli embrioni di relazioni economiche alternative, che si basano su regole differenti da quelle del mercato. Posso essere solidale e sentirmi vicino con altri produttori che pur provenendo dal mio stesso percorso hanno fatto un salto grande, indebitandosi e sacrificandosi alle richieste del mercato. Questa di fatto è una sconfitta perché molte avanguardie sono state puntualmente riassorbite dal sistema, per cui alla fine ci si ritrova dentro le contraddizioni da cui si stava scappando. Questa consapevolezza secondo me è un po’ più matura dentro Genuino Clandestino che altrove. Se in ambito RES [Rete di economia solidale] parlare di anticapitalismo è diventato quasi un tabù, viene da chiedersi che fine hanno fatto i nostri alternativi e pionieri del primo biologico.

La realtà dei mercati di Genuino Clandestino che vedo qui in zona fa ancora fatica a ricollegarsi con il mondo agricolo del territorio. Il nostro è un collettivo di compagni con una certa idea dello stare insieme, molto legato anche all’aver fatto delle scelte al di fuori dell’economia ordinaria. In prospettiva c’è il desiderio che il nostro mercato diventi un vero e proprio mercato dei contadini del territorio che sono disposti al confronto e ad autogestire i propri progetti con pratiche assembleari. Non si richiede nessuna appartenenza. Per noi fare politica è esclusivamente la partecipazione. Non abbiamo alcun interesse a farlo diventare un mercato in regola gestito da un qualche organizzatore, perché perderemmo il valore dell’autogestione, dell’assemblea di mercato che elabora un messaggio politico da trasmettere. In questo siamo profondamente diversi da tutti gli altri mercati in città.

Oltre a questo, va detto che un progetto di costruzione di un’economia alternativa non può basarsi solo sul prodotto biologico ed etico ma deve saper conquistare anche gli altri piani autorganizzando il soddisfacimento di sempre più bisogni di beni e servizi. Per fare questo stiamo sperimentando dei rapporti economici fatti di scambi e il meno possibile legati all’euro. Oltremercato ha avviato un laboratorio a livello provinciale che punta a riscoprire le monete sociali con la finalità di tiraci fuori dall’euro in un’ottica mutualistica. Abbiamo delle reti sul territorio che già esistono e che possiamo pensare di tirare fuori dal sistema economico dominante per ricondurle al semplice e diretto incontro tra i bisogni di qualcuno e l’offerta di servizi e prodotti da parte di qualcun altro, in modo multireciproco. Si tratta di chiudere dei piccoli cerchi e almeno provare a fare ragionamenti di questo tipo guardando alle possibilità di un modo di vita che non sia per forza collegato all’economia del debito in cui viviamo oggi.

Per quanto riguarda la realtà di Expo non mi va di entrare in merito. È stato un baraccone mediatico di slogan svuotati di senso a sostegno del modello agroindustriale che combattiamo; ma la vera macchia nera è piuttosto l’Expo dei popoli che ci ha fatto vedere come siano state riassorbite totalmente delle istanze che erano invece nate dalla base. In questo senso dobbiamo fornirci di strumenti adeguati, per non lavorare inutilmente e non regalare le nostre conquiste culturali al potere.

Q. Cassetti - Love Bee Hive
Q. Cassetti – Love Bee Hive

 

In questo quadro virtuoso di economia alternativa riesce però difficile collocare il modello insostenibile della metropoli moderna. D’altra parte, però, anche il solo fatto di costruire un’economia che seppur circoscritta ha una base resistente è già un passo avanti, è quanto meno un punto su cui appoggiare una leva per tentare una trasformazione radicale della società. Vi siete posti questo problema del rapporto tra campagna e città?

Per l’approvvigionamento anche solo dal punto di vista alimentare della metropoli non abbiamo risposte in questo momento, ma sicuramente è un problema che ci poniamo. Teniamo presente che l’agricoltura industriale, finalizzata al profitto, non solo non è il modo migliore ma è un pessimo modo per produrre cibo, basti pensare al consumo di energia e agli sprechi che genera. Un sistema diverso di produrre e distribuire non è detto che non sia applicabile su larga scala, soprattutto in un territorio come l’Italia dove forse è più attuabile che altrove.

Genuino Clandestino nasce proprio come alleanza tra movimenti contadini e movimenti urbani. Il nostro collettivo, come ognuno dei nodi della rete, nasce tra un gruppo di contadini resistenti e degli attivisti di un centro sociale di città, intorno a dei progetti da una parte legati all’agricoltura e dall’altra all’attività politica sul territorio. Non è una problematica ma il nostro punto di forza, la centralità del rapporto tra campagna e città è stata ben presente fin da subito. Accanto a Genuino Clandestino, c’è una realtà come Ri-Maflow di Milano e il progetto “Fuorimercato” che stanno cercando di mettere in piedi: una piattaforma di logistica per risolvere il problema dell’approvvigionamento di cibo in città. Questo significa che ci si sta provando anche in contesti metropolitani e che anzi questi costituiscono uno stimolo ad organizzarsi per i nodi più periferici.

Se noi pensiamo di voler nutrire il mondo con l’agricoltura contadina bisogna che iniziamo a darci questi strumenti. Rifiutando la delega e il controllo, attraverso l’autodeterminazione dei territori cominciare a riorganizzare strati di società in un’ottica integrale[1] e autogestionaria.

Q. Cassetti - Lemniscatic Dance
Q. Cassetti – Lemniscatic Dance

 

[1] Il concetto di cooperazione integrale è stato sviluppato inizialmente da una parte del movimento cooperativo e autogestionario catalano in questi termini: “una cooperativa integrale è uno strumento per costruire un contro-potere di base autogestito, auto-organizzato e con democrazia diretta. Questo strumento può aiutare a superare l’attuale stato di totale dipendenza dalle strutture dei sistemi e degli stati, attraverso uno scenario di totale libertà e in cui ciascun individuo può svilupparsi con condizioni paritetiche e pari opportunità”. Dal sito <http://cooperativa.cat/it/che-cose-la-cic>.

Post-terremoto: percorsi di autocostruzione con le balle di paglia (#8)

Post-terremoto: percorsi di autocostruzione con le balle di paglia
Di Luigi

La ricostruzione delle zone terremotate, a distanza di un anno dal sisma e nonostante le molte e ripetute promesse delle istituzioni, appare ancora un lontano miraggio. Almeno fino a novembre nelle zone rosse, ovvero i centri storici e gli agglomerati rurali più danneggiati, non si potrà spostare nemmeno una pietra (ordinanza del Commissario straordinario alla ricostruzione, n. 25 del 23 maggio). Le SAE (soluzioni abitative di emergenza), cioè le tanto attese “casette”, arrivano con il contagocce, gli sfollati hanno fatto posto ai turisti estivi negli alberghi della costa e ognuno continua ad arrangiarsi come può per mantenere dignità e vivere sociale. C’è chi parla, a ragione, di “strategia dell’abbandono” per questo tratto di montagna appenninica. Noi abbiamo provato a esplorare l’intrigante anche se non facile strada dell’autocostruzione con balle di paglia, in compagnia dell’architetta ascolana Sara Campanelli la cui intervista trovate nella seconda parte dell’articolo.

Per un abitare non convenzionale

Le sequenze sismiche che nella seconda parte del 2016 hanno colpito le zone appenniniche del centro Italia, oltre alla tragedia dei morti e feriti, hanno distrutto o seriamente lesionato moltissime abitazioni, ponendo i residenti di fronte all’urgenza di trovare un nuovo tetto. Nell’immediato dell’emergenza si dorme in tenda, in roulotte, da amici e parenti lontani, poi si contano i giorni, le settimane e i mesi parcheggiati in qualche alberghetto sulla costa, con la lontana speranza che prima o poi si aprano i cantieri per la ricostruzione. Intanto i più fortunati ricevono un container di latta, torrido in estate e gelido in inverno, che trasforma ogni goccia di pioggia in martellate assordanti, oppure casette temporanee prodotte da qualche ditta aggiudicatrice di qualche appalto al ribasso, che arrivano, come abbiamo visto ad Amatrice, già gonfie di umidità e di mille altri difetti. Oltre a essere impersonali e tristi come la burocrazia che le ha prodotte. Per non parlare del famigerato “modello” dell’Aquila con le sue costosissime C.A.S.E. piazzate nel mezzo del nulla, prive di qualunque identità e i cui abitanti sono e rimangono, per sempre, ospiti.

Anche se ad ogni disastro tutti si affrettano a dire il contrario, sappiamo per esperienza che la ricostruzione calata dall’alto affoga nella lentezza esasperante della burocrazia ed è terreno fertile per speculatori senza scrupoli. Ci chiediamo allora se siano pensabili percorsi immediati di autocostruzione dopo l’emergenza terremoto, nell’attesa che sia possibile ristrutturare le precedenti case o in alternativa ad esse. Senza, con questo, volerla fare troppo semplice: l’autocostruzione di un edificio presuppone, al di là dei vari permessi per poterlo fare in maniera legale, una discreta capacità e tanta buona volontà, disponibilità di un terreno e di sufficiente denaro, l’esistenza di un tessuto sociale di aiuto e supporto nell’impresa. Tanto fattori che rendono quest’ipotesi non facilmente percorribile e nemmeno si può pretendere che in determinate situazioni sia la più adatta.

Ai profani può sembrare un azzardo, ma in realtà perfino chi non ha mai giocato con i Lego potrebbe diventare costruttore della propria casa, avviando un percorso che coinvolge e mette in relazione un gruppo di persone, dalla progettazione alla realizzazione. L’autocostruzione non è infatti un atto solitario. Così come non dovrebbe esserlo il successivo abitare. Non si tratta, quindi, solo di mettere in piedi un luogo abitabile ma anche di cominciare a ritessere quei legami sociali che il sisma, e ancor prima lo spopolamento delle zone rurali e montane, hanno messo a dura prova. Come scrive Andrea Staid nel suo ultimo libro Abitare illegale, “costruire recuperando le architetture vernacolari, la memoria popolare e la saggezza di costruire creando ambienti di vita sani e confortevoli, risparmiando energia, producendo un’impronta ecologica minima, crea occasioni di nuova coesione sociale, proprio per questo è ostacolata dai poteri forti che, lasciando fare, perderebbero il grande business che arriva dopo ogni emergenza”[1].

Il percorso di autocostruzione delle abitazioni può diventare un buon viatico per mettere in piedi un tessuto sociale il cui obiettivo a lungo termine non sia solo la trasformazione della vita quotidiana in piccole comunità marginali, ma l’apertura di percorsi alternativi e conflittuali all’organizzazione sociale determinata dall’industria e dalle metropoli. D’altra parte, mantenendo i piedi per terra, le relazioni sociali sono processi che si costruiscono sul lungo periodo e non è ragionevole pianificare artificialmente relazioni di comunità che possano durare nel tempo. Né si può confidare sul fatto che l’unione delle forze per risolvere l’urgenza della questione abitativa determini di per sé la condivisione di valori di autogestione e solidarietà.

In ogni caso, il problema principale è che la maggior parte di noi non detiene più quel saper fare necessario che si tramandava di generazione in generazione, prima che la mercificazione di ogni dettaglio della vita lo facesse cadere nell’oblio. Non siamo più capaci di realizzare un tavolo o un cesto di vimini, figuriamoci di costruire una casa! Scrive, ancora, Staid: “gli esseri umani hanno quasi sempre costruito la propria abitazione con l’aiuto di qualche familiare o amico e questa pratica funzionava. Sono state le società industriali a cambiare questa dinamica, a togliere con leggi e cavilli burocratici la possibilità di costruirsi la propria casa: stiamo parlando di una storia recente, degli ultimi due secoli, fino ad allora durante quasi tutta la storia dell’umanità la costruzione delle abitazioni è stata un’attività informale e su piccola scala”[2].

La sfida è allora quella di cercare di riprendere in mano, individualmente e collettivamente, uno dei tanti saperi che la società industriale ha fatto dimenticare. Anche se, finché le tecniche di costruzione non torneranno a essere un patrimonio collettivo comune, è necessario che il gruppo di autocostruttori sia coordinato da esperti, cioè da coloro che hanno esperienza, che hanno già provato e sperimentato, che siano professionisti del settore o semplicemente persone capaci. Per mantenersi all’interno di quanto prescritto dalla legge è inoltre indispensabile la presentazione di un progetto firmato da un professionista abilitato e l’espletamento delle pratiche burocratiche al fine di ottenere il “permesso di costruire”. Come base di questo percorso, se si vuole costruire “in regola”, mantenere rapporti pacifici con l’ufficio tecnico comunale è senza dubbio consigliabile.

Sappiamo che qualche resistente dell’entroterra, con l’aiuto di solidali e al di fuori della burocrazia dei regolamenti edilizi, si è già costruito case più o meno provvisorie in legno, a fianco dell’abitazione lesionata. Quello su cui vorremmo porre l’attenzione in questa sede è però un materiale da costruzione antico e allo stesso tempo innovativo: le balle di paglia. La casa in paglia non è la casa del porcellino sfigato ma un edificio solido e durevole, oltre che economico, ecologico, confortevole e antisismico.

L’edilizia in terra cruda impastata con un trito di paglia ha radici antiche, anche nei nostri territori, benché si trattasse di un’architettura povera, spesso strutturalmente precaria, che ha lasciato traccia in molti toponimi come Pagliare, Casette, Cascine, Casalina, Casine, o con radice Capann-. Ancora nel 1934, l’Indagine sulle case rurali in Italia segnalava nelle Marche, in particolare nel maceratese e nell’ascolano, 1.401 abitazioni costruite in terra e paglia con la tecnica detta a maltone[3]. Un contadino di Sant’Elpidio a Mare ricorda così la costruzione collettiva delle abitazioni che coinvolgeva famiglia e vicinato: “quando si costruiva una casa di terra era una festa per noi bambini, perché si riuniva tutto il vicinato e le donne si tiravano su le sottane per pistare la terra che doveva diventare morbida come la massa del pane”[4]. Sono le case dei braccianti giornalieri, dei poveri, di chi si arrangia a sopravvivere nell’economia contadina, che nel dopoguerra, con l’esodo dalle campagne, vengono abbandonate alla rovina. In quelle superstiti l’anima in terra viene il più possibile occultata, quasi si trattasse di un marchio di misera e infamia, e chi continuava ad abitarle nei decenni successivi svelava con un misto di reticenza e pudore cosa si nascondeva sotto l’intonaco[5]. Oggi la paglia è un materiale edile di tutta dignità, con cui si realizzano case perfino più belle e accoglienti di quelle convenzionali.

Dopo i terremoti dell’Aquila nel 2009 e dell’Emilia nel 2012 ci sono stati diversi esempi di ricostruzione autogestita, anche in paglia, talvolta osteggiati dalle autorità locali e nazionali. Un caso abbastanza noto è quello del villaggio di Pescomaggiore, un piccolo borgo di origini altomedioevali alle porte del Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, a una decina di chilometri dall’Aquila, dove il sisma ha danneggiato o distrutto buona parte delle abitazioni. Qui il Comitato per la rinascita di Pescomaggiore, in realtà nato già due anni prima del terremoto per contrastare il progressivo abbandono del paese, ha deciso di realizzare un villaggio autocostruito e autofinanziato su terreni concessi in comodato da alcuni compaesani a poche centinaia di metri dal paese. Con le balle di paglia e l’aiuto di centinaia di volontari, tra 2009 e 2013 sono state realizzate alcune unità abitative a minimo impatto ambientale, che hanno rimesso in moto un tessuto solidale oltre a essere costate al metro quadro circa un quinto rispetto agli alienanti appartamenti del progetto C.A.S.E. Una volta superata l’emergenza abitativa il nucleo di nuove case potrebbe conoscere una nuova destinazione sociale e turistica[6]. Un altro esempio finito all’attenzione delle cronache, questa volta nel modenese, è la casa in canapa, legno e calce di Mina Bardiani, costruita nel terreno antistante la vecchia abitazione inagibile[7].

Vecchia casa in terra e paglia a Ponte Torale (Corridonia)
Vecchia casa in terra e paglia a Ponte Torale (Corridonia)

 

Costruire edifici con balle di paglia

Le case di paglia nascono in Nebraska nella seconda metà dell’Ottocento, con l’arrivo dei pionieri in zone povere di pietre e legname da costruzione e la contestuale nascita delle macchine imballatrici. La tecnica cade successivamente in disuso, a vantaggio del cemento e dei materiali prodotti industrialmente, fino alla sua riscoperta a partire dagli anni Settanta del secolo scorso e al nuovo impulso datole negli anni Novanta da Barbara Jones, che ha saputo adattarla alle esigenze climatiche britanniche. La prima costruzione documentata, in Nebraska, risale al 1886, seguita in rapida successione da altre ancora oggi in buono stato di conservazione; in Gran Bretagna la prima casa è del 1994, in Italia del 2004, a Pramaggiore in provincia di Venezia.

La paglia è un sottoprodotto della coltivazione dei cereali, si tratta in sostanza dello stelo della pianta morta, da non confondere con il fieno che è invece erba verde essiccata. È un materiale flessibile che va trattato con tecniche proprie per sfruttarne al meglio le caratteristiche naturali e originali, piuttosto che sforzarsi di impiegare le balle semplicemente come fossero mattoni extra-large. Le modalità di realizzazione di una casa in paglia sono due (ma vi possono essere anche approcci ibridi): la tecnica detta “Nebraska” o autoportante, in cui le balle sorreggono il peso del tetto, oppure l’utilizzo del legno per la struttura portante e delle balle per il riempimento delle pareti.

Al momento, in Italia non è possibile costruire edifici con muri in paglia autoportanti, ma la normativa tecnica è in fase di aggiornamento e le NTC 2017 (Norme tecniche per le costruzioni), in uscita entro fine anno, potrebbero intervenire e modificare questo aspetto. Resta fondamentale, in ogni caso, progettare un buon tetto e delle buone fondamenta, ossia un buon cappello e buoni stivali per la casa. Le fondamenta non devono necessariamente prevedere una gettata di calcestruzzo, anzi, ci sono diversi metodi che presentano vantaggi in termini di resistenza all’umidità, economicità, facilità di costruzione, bellezza e impatto ambientale, perfino copertoni d’automobile riempiti di ghiaia – tecnicamente potremmo chiamarli “giunti elastomerici” – possono essere una valida soluzione. Per quanto riguarda l’intonaco è importante l’utilizzo di un materiale traspirante, come la calce o la terra cruda.

Nonostante la paglia sia un materiale facilmente infiammabile, le case in paglia sono perfettamente resistenti al fuoco. Questo perché le balle, oltre a essere racchiuse all’interno dell’intonaco, essendo molto compresse non consentono l’alimentarsi di eventuali fiamme. È lo stesso discorso che si può fare per la carta: se è facile bruciare un foglio è invece molto difficile dar fuoco a un elenco telefonico. In ogni caso, bisogna prestare attenzione in cantiere alla paglia sciolta che inevitabilmente si deposita durante la costruzione. Maggior pericolo proviene invece da acqua e umidità, causa di muffe e funghi: inutile dire che le balle vanno mantenute asciutte prima, durante e dopo la costruzione, in particolare sui lati superiore e inferiore. Anche la resistenza ai terremoti è un punto a vantaggio delle case in legno e paglia, che si comportano molto meglio di altri edifici in mattoni e cemento. Sono infatti più leggere e flessibili, per questo sviluppano minore accelerazione durante una scossa e assorbono le ondulazioni senza produrre rotture strutturali. La paglia è inoltre un ottimo isolante sia acustico che termico, mantiene cioè il calore in inverno e il fresco in estate permettendo di conseguenza un notevole risparmio sui costi di riscaldamento e climatizzazione, risparmio che arriva anche all’ordine del 75% all’anno rispetto alle comuni abitazioni moderne[8].

Il risparmio energetico è sul lungo termine una delle principali voci di economia, mentre per i costi di realizzazione si ha ovviamente una grande differenza tra l’autocostruzione e la costruzione affidata a un’impresa specializzata del settore. La paglia è infatti un materiale di per sé molto economico, una balla costa intorno agli 1-2 euro e per una casa di 150 mq ne occorrono circa 400, ma la manodopera incide molto. Tutto dipende dalle proprie capacità, da quanto tempo e determinazione si hanno e dalle braccia di parenti e amici che arrivano in aiuto. Aiuto che può essere ricambiato, andando così a costruire un circuito solidale. Un’altra valida via per il risparmio è l’organizzazione di corsi di formazione in cantiere, non mancheranno i volontari che arrivano per imparare la tecnica e, intanto, danno una mano alla costruzione. Ci sono poi i costi legati agli altri materiali e all’attrezzatura e, infine, va tenuto presente il coinvolgimento, di solito ben remunerato, di una serie di progettisti, certificatori, collaudatori e anche professionisti vari per tutto quanto non si è grado di gestire in autonomia (impianti elettrici e idraulici, infissi etc.). Ipotizzando una stima realistica dei costi, con l’autocostruzione e il contenimento al massimo delle spese si può arrivare a dover sborsare sugli 800 euro al mq.

Pilgrim Holiness Church, Nebraska 1928
Pilgrim Holiness Church, Nebraska 1928

 

Intervista a Sara Campanelli di Ascoli Piceno, socia di ARIA Familiare (Associazione rete italiana autocostruzione), architetta specializzata in architettura naturale dello studio arch.Officina e dello spin-off dell’Università di Camerino EcCo Italy.

Cos’è e di cosa si occupa l’associazione ARIA Familiare?

ARIA è un’associazione nazionale che promuove l’autocostruzione e l’autorecupero abitativi, prediligendo l’uso di materiali naturali, locali e sostenibili. In particolare, l’intento di ARIA è di trovare una via legale e percorribile da tutti per l’autocostruzione ed è quanto è riuscita a fare finora in Toscana, con una delibera inserita nel regolamento edilizio regionale. L’autocostruzione implica infatti una relazione collaborativa tra un insieme di persone che aiutano gli autocostruttori proprietari, siano familiari, amici, volontari o corsisti che vengono a imparare la tecnica. Ma la presenza di questi soggetti è un grosso problema dal punto di vista del rispetto di quell’infinità di regole che riguardano la sicurezza nel cantiere.

Anche se a livello burocratico ci sono ancora cose da affinare, nel 2015 la Regione Toscana ha emanato le “Linee di indirizzo per la sicurezza nei cantieri di autocostruzione e di autorecupero” che sono un buon traguardo raggiunto da ARIA e, soprattutto, un ottimo punto di partenza perché ora chiunque voglia intraprendere questa strada verso l’autocostruzione può farlo in maniera tutto sommato tranquilla. Grazie a quella determina (la 251 del 2015), le aziende sanitarie di riferimento della regione hanno ora idea di che cosa significhi lavorare in autocostruzione e quindi è tutto più semplice. Nelle altre regioni invece l’autocostruzione non è contemplata, a meno che non ci sia un progettista particolarmente convinto e preparato che riesca a trovare dall’altra parte un ufficio tecnico comunale in grado di capire queste cose e, appunto, un’Asur che non vada a bloccare il cantiere.

Qui in provincia di Ascoli Piceno, a Grottammare, ad aprile dell’anno scorso abbiamo realizzato in legno e balle di paglia un ampliamento di 40 mq di una casa. Abbiamo organizzato un corso e la gran parte della struttura è stata tirata su in cinque giorni con il lavoro di dieci corsisti. Per prima cosa ho però dovuto spiegare all’ingegnere quello che avevamo in mente, anche perché è difficile trovare tecnici che siano già preparati su questo tipo di architettura autocostruita. Noi siamo stati fortunati perché l’ingegnere, oltre a fare il calcolo della struttura portante, è andato all’Asur riuscendo a far loro capire come, con un piano di sicurezza adeguato, il lavoro sarebbe stato fattibile. Alla fine ce l’abbiamo fatta a fare tutto in regola, ma non è stato semplice, tanto che a un certo punto sul cantiere è arrivata la macchina dell’Asur e… panico: sono scappati tutti! [ride]

In realtà, la Regione Marche indice ormai da diversi anni un bando di concorso che destina dei fondi all’autocostruzione. Ma si tratta di un approccio molto limitato perché passa attraverso la cooperative, quindi più soggetti, più famiglie che volessero partecipare al bando e autocostruire una o più abitazioni devono riunirsi in cooperativa, con tutte le complicazioni che questo comporta. ARIA Familiare vuole invece che sia data la possibilità anche al singolo individuo di autocostruire, o autorecuperare, in maniera più snella.

Il progetto di Grottammare non era però affiliato ad ARIA, anche perché è nato in poche settimane, i proprietari volevano andare molto spediti e quindi non c’è stato il tempo per aprire l’associazione di riferimento sul cantiere. ARIA è infatti un’associazione nazionale che sta iniziando a configurarsi a livello locale tramite associazioni federate che gestiscono i cantieri in autocostruzione. Così è ad esempio per ARIA Familiare Rimini che ha seguito i lavori, grandi e importanti, di due abitazioni.

Cingoli (MC), casa di paglia 45K
Cingoli (MC), casa di paglia 45K

 

ARIA può essere un riferimento per il mutuo appoggio tra chi ha intenzione di autocostruire la propria casa? Penso a un circuito di solidarietà in cui si va come volontari ad aiutare nella costruzione di case di altri e poi, a loro volta, altri volontari daranno una mano nell’autocostruzione della propria casa.

ARIA dovrebbe fare proprio questo, sia a livello nazionale che a livello locale. Creare dei circuiti di muto appoggio e solidarietà è quello che tutti noi auspichiamo. Nel riminese questo meccanismo si è innescato: i cantieri di Susanna e Giampietro a San Lorenzo in Correggiano e di Alice e Sauro a Viserba sono partiti quasi contestualmente e c’è stato uno scambio attivo tra i due. Noi che eravamo volontari abbiamo dato una mano da uno, poi fatto il corso dall’altro e magari la sera ci si incontrava e si cercava di cenare e stare insieme. Si è creato a livello umano un bel circuito.

Inoltre c’è da dire che questi cantieri possono offrire delle buone opportunità. A Grottammare hanno partecipato ai lavori persone che non conoscevo, tra cui due giovani architetti, un ingegnere, studenti, due disoccupati. Uno di questi disoccupati è stato poi qualche mese anche nel cantiere di Rimini e ora sta portando avanti una sua attività. Più in generale, si stimola il recupero di tutta quella fascia di artigiani, di persone che sanno lavorare il legno o altri materiali, che il mercato dell’edilizia convenzionale mette spesso da parte, ma le cui abilità sono invece di fondamentale importanza.

Rimini, cantiere di Alice e Sauro.
Rimini, cantiere di Alice e Sauro.

 

Dopo l’esperienza di Grottammare com’è continuato nelle Marche il percorso di ARIA, anche in relazione al terremoto e alle possibilità, se ce ne sono, di una ricostruzione autogestita?

Dopo il cantiere di Grottammare, sulla scia di quanto fatto in Toscana da ARIA Familiare, noi progettisti marchigiani abbiamo cercato di spingere in quella stessa direzione, coinvolgendo il presidente dell’ordine degli architetti di Ascoli, Valeriano Vallesi, che è sensibile a queste tematiche, e trovando una sponda istituzionale in Anna Casini, che è un’architetta ascolana ed è anche vicepresidente della Regione Marche. Da parte della Regione c’era un certo interesse, anche perché loro avevano già quel bando per l’autocostruzione in cooperativa, di cui ti ho detto, che però andava sempre deserto. Abbiamo organizzato una bella conferenza ad Ancona, dove abbiamo affrontato tutte le tematiche connesse all’autocostruzione, alla fine io ero molto fiduciosa e speravamo davvero di riuscire a far inserire anche da noi una delibera sul modello di quella toscana. Era il 16 giugno 2016, il 24 agosto c’è stata la prima forte scossa di terremoto, che ha interrotto tutto.

Io sento di avere in mano un minimo sapere sui materiali naturali in edilizia, una prospettiva di costruzione e ricostruzione diversa da quella tradizionale, diversa dalle solite casette appaltate che arrivano e non arrivano, con i loro giri di soldi, e allora mi sono chiesta che cosa potessi fare io, da ascolana e soprattutto da tecnico progettista, per questa situazione. Come posso mettere a servizio quelle quattro competenze che ho? Il giorno dopo il terremoto, il 25 agosto, ero per qualche motivo nella zona di Amatrice, in quei posti inavvicinabili, dove ho conosciuto una ragazza che ha un fratello che fa l’allevatore lì. Ho pensato che avrei potuto fare il progetto di una stalla, i fondi non erano un problema perché tantissime persone erano pronte a fare una donazione. Avrei potuto trovare dei volontari per realizzarla, cioè i giocatori di rugby della squadra ascolana che già avevano scavato giorno e notte ad Arquata del Tronto, e avrei coinvolto anche degli artigiani, tra i tanti che conosciamo con lo spin-off universitario (di cui poi ti parlerò), che si occupano di materiali per edilizia non convenzionale. Avevo parlato con Laura Comella, presidente di ARIA Familiare, e avevamo il loro appoggio; c’era già anche un nome per il progetto, un gioco di parole simpatico sui verbi allevare e alleviare: “Noi alleviamo pecore e paure”. Insomma potevo fare tanto, ma poi nella realtà non si riesce a fare niente perché a livello burocratico, di leggi, di permessi, abbiamo le mani legate.

Qualche settimana dopo mi ha contattato una famiglia di Amatrice che aveva perso la casa, aveva perso tutto, ma si era già autorganizzata per costruire una piccola casetta sul terreno di una vicina che glielo avrebbe dato gratuitamente. Il terreno non era edificabile, ma pensavano che in quel particolare contesto di emergenza se uno si poteva autofinanziare una piccola struttura anziché stare nelle tende o nelle roulotte non avrebbe incontrato troppi ostacoli. Da noi volevano capire la differenza tra le casette in legno tradizionali e quelle in paglia, per poter decidere cosa costruire. Sono quindi andata ad Amatrice, insieme alla mia collega Isabella Cocci e al presidente dell’ordine Valeriano Vallesi e abbiamo spiegato i vantaggi di queste tipologie abitative. Siamo anche rimasti a pranzo, accampati nella cucina: la cosa che mi ha fatto più riflettere sono stati i loro sguardi persi. Purtroppo anche quel progetto non è andato avanti perché il Comune non ha rilasciato i permessi.

Rimini, cantiere di Alice e Sauro.
Rimini, cantiere di Alice e Sauro.

 

Va detto che questi ostacoli posti da parte delle amministrazioni sono, almeno in parte comprensibili, perché si tratta di zone di Appennino spesso protette e sottoposte a vincoli e anche, soprattutto, perché c’è il timore di una ricostruzione affrettata, come già successo in passato, con strutture fatte senza criterio che magari alla prossima scossa vanno giù. Parlare di “autocostruzione” nel post-sisma, qui da noi, è veramente difficile, perché per autocostruzione la mentalità comune si immagina quelle superfetazioni fatte nel dopoguerra, ampliamenti vari, ammassi di metri cubi che hanno poi subito vari condoni e sono diventati volumetrie che purtroppo vediamo oggi in giro. Posso anche capire questa diffidenza, ma comunque rimane per me molto doloroso dal punto di vista umano. Gli sguardi di quelle persone di Amatrice mi hanno fatto capire che l’autocostruzione, per l’esperienza che ho io dei cantieri vissuti, sarebbe un buon metodo per ridare loro la speranza di una comunità che si è persa con il terremoto. Perché il vicino di casa è morto, l’altro è andato a finire nell’albergo a San Benedetto e tu stai in questa situazione di vuoto: l’autocostruzione è perfetta a livello umano, perché non basta dare una casetta o un container a queste persone, ma ci si deve preoccupare dal punto di vista psicologico, di sensazioni, di comunità da ritessere.

In seguito è nato un coordinamento costituito da otto ordini degli architetti, paesaggisti, pianificatori e conservatori delle province di Ascoli e limitrofe, che coprono tutto il territorio del cratere, chiamato “Fermi restando in epicentro”. In quei giorni ci siamo molto confrontati, c’erano sempre mille telefonate. Una delle proposte venne da Valeriano, che propose di farci assegnare dei container dalla Protezione civile per utilizzarli come presidio sul territorio, in modo che le persone sarebbero potute venire da noi a chiedere qualunque informazione per capire come muoversi nella burocrazia, come ripartire, come cominciare a ricostruire. Ma allora, ho pensato, invece di farci dare un container perché non realizziamo noi stessi un piccolo modulo in paglia insieme ai residenti del posto? Bastava trovare un comune che ci offriva uno spazio. Passata l’emergenza la casetta sarebbe rimasta all’amministrazione, che ne avrebbe potuto fare una sede per le associazioni, un presidio turistico o quello che volevano. L’idea è stata accolta con favore dal coordinamento. Ma anche su questo ci hanno tagliato le gambe. Anche perché, c’è da dire, le scosse ci sono state per molti mesi a seguire e ogni nuova scossa rimetteva tutto da capo. E poi noi non siamo lo studio Boeri che può contare su sponsor importanti, viene qui, costruisce il Polo Food e trova la strada spianata per fare tutto. Certo, noi non ci siamo scordati la proposta fatta, ma a parte che ogni tanto si ripete una scossa, l’ultima l’abbiamo sentita pochi giorni fa, dobbiamo trovare un’amministrazione comunale consapevole e studiare proprio a livello di piani regolatori in che punto sia possibile posizionare la struttura.

Rimini, cantiere di Alice e Sauro.
Rimini, cantiere di Alice e Sauro.

 

Al momento, che tu sappia, ci sono cantieri per case in balle di paglia, in autocostruzione o meno, aperti nella zona del sisma?

Dopo il terremoto sono venuti fuori diversi contatti, abbiamo tenuto anche varie conferenze in cui ci invitavano a parlare di questa tipologia costruttiva. Una signora di Roccafluvione, con casa inagibile, diceva che avendone la possibilità avrebbe voluto ricostruire con questa tecnologia, poi ha però avuto altre problematiche. Lo stesso una famiglia tra Camerino e San Severino ci ha contattato e vorrebbe iniziare i lavori, vedremo nei prossimi mesi quello che riusciremo a fare, cercando anche di ammortizzare le spese con l’autocostruzione. Il problema è che di solito l’autocostruzione funziona in questo modo: il padrone di casa ospita a dormire i volontari, si preoccupa dei pasti ecc., ma come puoi capire in una condizione post-sisma, dove gli stessi residenti hanno perso tutto, ospitare altre persone è complicato. Come si fa, banalmente, a preparare da mangiare se non c’è una cucina agibile…?

Rimini, cantiere di Alice e Sauro.
Rimini, cantiere di Alice e Sauro.

 

Chi ha una casa da ricostruire, penso più che altro a case singole fuori dai centri storici, perché immagino che nei centri storici ci siano tutti altri vincoli e problemi, è consigliabile che pensi a paglia e legno, piuttosto che a mattoni e cemento?

“Noi non vogliamo più vedere pietre”: questo ho sentito dire da loro. Una casa come quella crollata non la vogliono più. Spesso si tratta di case in pietra, magari già carenti nelle fondazioni, sulle quali sono stati fatti successivamente lavori che ne hanno appesantito la struttura. Oggi penso sia auspicabile avere una casa fatta con struttura portante in legno, quindi con una risposta alle scosse molto migliore della pietra o del cemento armato, coibentata con un materiale come la paglia dalle ottime capacità di isolamento. Così si ha una casa molto più leggera ed elastica che anche se torna chissà quale terremoto rimane in piedi, oltre ad avere vantaggi in termini economici, soprattutto per la grande efficienza termica che presentano queste costruzioni.

Per i centri storici effettivamente la situazione è diversa. Non so come si metteranno le cose, se si vorrà ricostruire tutto “com’era e dov’era”, ma c’è tanta gente che si oppone a questa idea. Quello che noi proporremo saranno comunque le metodologie di autocostruzione e l’utilizzo di materiali naturali, non penso solo alla paglia ma anche, ad esempio, a mattoni fatti in calce e canapa o in argilla cruda, che però vanno intonacati e si perde la pietra faccia a vista com’era prima. Al momento, comunque, cosa si andrà a fare ancora non è chiaro a nessuno.

Rimini, cantiere di Alice e Sauro.
Rimini, cantiere di Alice e Sauro.

 

Prima hai accennato allo spin-off dell’Università di Camerino (cioè, in poche parole, una società che si appoggia a un’università e ne utilizza economicamente i risultati della ricerca), puoi raccontare come nasce e cosa si prefigge di fare?

Devo partire da una decina di anni fa, quando sui banchi dell’università io e Isabella abbiamo incominciato a studiare queste tecniche di costruzione e allora non c’erano così tante persone interessate a questo mondo. Ricordo quando andammo dalla professoressa e dal fisico tecnico, con i quali adesso condividiamo lo spin-off, e proponemmo di studiare la paglia come materiale da costruzione: “e che famo la capanna dello zio Tom?” fu la prima risposta! Da lì però è nato tutto il discorso, fino ad oggi. Nel frattempo, per la tesi di laurea sono stata in Sud America a studiare le case fatte in terra cruda con la tecnica del pisé, poi, uscita dall’Università, ho avuto la fortuna di vincere una borsa di studio che mi ha portato a Vienna per un po’ di tempo. Lì ho lavorato in uno studio con alcuni dei pionieri della passive house del Nord Europa. Ho imparato tante cose dal punto di vista dell’efficientamento energetico, ma il punto debole è che per quelle soluzioni ci vogliono un sacco di soldi e grazie… se ho tutti quei soldi è facile fare la casa passiva, più interessante è invece riuscire a mantenere quei livelli ma con attenzione ai costi, alla portata di budget limitati.

Nel 2013 sono rientrata in Italia e da allora lavoriamo allo spin-off, anche se si è ufficialmente costituito quest’anno con il nome EcCOItaly. Quello che vogliamo generare è una rete di piccole imprese che lavorano nel campo dei materiali edili naturali (paglia, legno, canapa, sughero, calce ecc.), anche per riattivare il concetto dell’artigianato, creare quindi una sorta di database di aziende selezionate con l’obiettivo di superare quell’edilizia convenzionale che ha devastato le nostre coste e le nostre colline. Dentro lo spin-off faremo anche formazione, faremo ricerca sui materiali, abbiamo un fisico tecnico che studia il mondo dell’edilizia visto dall’estrazione dei materiali fino al loro smaltimento ultimo, stiamo anche cercando di capire come collaborare con l’associazione ARIA Familiare. Insomma, ci sono tante cose in ballo. L’idea di fondo è stimolare una condizione diversa dell’abitare.

Rimini, cantiere di Alice e Sauro.
Rimini, cantiere di Alice e Sauro.

 

Note

[1]Andrea Staid, Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini in Occidente, [Milano], Milieu, 2017, p. 152.

[2]Ivi, p. 22.

[3]Istituto centrale di statistica del Regno d’Italia, Indagine sulle case rurali in Italia, Roma, Istituto poligrafico, 1934. Cfr. Case di terra e paglia delle Marche, testi [di] Ercole Sori, ricerche fotografiche [di] Aldo Forlani, Ascoli Piceno, D’Auria, 1999.

[4]Augusta Palombarini, Le case di terra, in Sergio Anselmi, Gianni Volpe, L’architettura popolare in Italia. Marche, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 180.

[5]Cfr. Ivi, p. 171-190.

[6]Pescomaggiore EVA (Eco villaggio autocostruito), <http://www.pescomaggiore.org/progetto-eva>.

[7]Cfr. <http://www.equilibrium-bioedilizia.it/en/node/698>.

[8]Cfr. Barbara Jones, Costruire con le balle di paglia: manuale pratico per la progettazione e la costruzione, Firenze, Terra Nuova, 2011, p. 20.

 

Bibliografia

Sergio Anselmi, Gianni Volpe, L’architettura popolare in Italia. Marche, Roma-Bari, Laterza, 1987

Case di terra e paglia delle Marche, testi [di] Ercole Sori, ricerche fotografiche [di] Aldo Forlani, Ascoli Piceno, D’Auria, 1999.

Barbara Jones, Costruire con le balle di paglia: manuale pratico per la progettazione e la costruzione, Firenze, Terra Nuova, 2011.

Athena Swentzell Steen [et al.], Le case in paglia: come costruire edifici, uffici, capanne o cottage sostenibili, economici, efficienti e sicuri utilizzando le balle di paglia, Bologna, Arianna, 2013.

Andrea Staid, Abitare illegale. Etnografia del vivere ai margini in Occidente, [Milano], Milieu, 2017.