Intervista collettiva di Luigi agli scout e alle scout del CNGEI Sezione di Fermignano (PU) Da Rivista Malamente #23 (novembre 2021)
Può una rivista che si chiama “Malamente”, scritta e letta da dei poco di buono, parlare di scautismo? Forse qualcuno/a storcerà il naso, convinto che gli scout siano giovani soldatini di Cristo e di Baden-Powell o, al limite, bravi/e ragazzi/e in grado di accendere un fuoco e stringere nodi, ben disciplinati in un’organizzazione gerarchica.
Con questa intervista collettiva al Grufe – la Sezione scout di Fermignano (PU) –, vogliamo smontare alcuni pregiudizi consolidati ma fuorvianti.
Di Vittorio – Malamente #19 (ottobre 2020) [QUI IL PDF]
Rompere la paralisi
Quando
è stata estesa la zona rossa su tutta Italia ero a cena da amici. Al pomeriggio
ero andato a osservare la “frontiera” sul fiume Cesano, la provincia di Pesaro
era infatti già zona rossa, teoricamente inaccessibile. Sul ponte il solito via
vai, soltanto in alcune ore le pattuglie stazionavano pigramente ai lati della
strada. Improvvisamente la notizia è rimbalzata sui social e ci ha raggiunti
quando eravamo arrivati al dolce. Ci siamo accorti che l’epidemia e le sue
conseguenze sociali stavano facendo un salto di scala a cui non eravamo
minimamente preparati. Abbiamo telefonato ad altri amici che stavano lavorando
vicino a Modena: “tornate stanotte altrimenti rischiate di rimanere bloccati
là!”. Incertezza, timore e confusione informativa avrebbero dominato le
settimane successive un po’ per tutti e tutte.
Poi
è arrivato il lockdown e nella provincia adriatica qualcuno ha provato a
scherzare dicendo che per strada sembrava che il tempo si fosse fermato alla
domenica pomeriggio… ma a parte l’ironia è stato evidente che le conseguenze
economiche e sociali sarebbero state molto dure, specialmente per chi non aveva
un reddito fisso.
Ho
iniziato a parlare della necessità di “fare qualcosa” con molti amici e
compagni, cercando di capire se ci fosse qualcuno che si stava attivando in
questo senso. La Protezione civile era stata allertata, le forze dell’ordine di
ogni tipo e colore erano scese in strada come un esercito di occupazione e si
moltiplicavano le ordinanze restrittive, ma da parte di quello che resta dei “compagni”,
tra centri sociali, associazioni e piccoli partiti politici, nessuna iniziativa
concreta all’orizzonte, eravamo completamente impreparati.
Né privata né pubblica: la proprietà collettiva della terra nelle comunanze dell’appennino marchigiano
Di Luigi
Con questo articolo approfondiamo il tema delle proprietà collettive delle terre, presenti nelle zone montuose alpine e appenniniche con nomi e tradizioni diverse ma caratteristiche simili, conosciute nelle Marche come “comunanze”. L’articolo mette a fuoco il loro significato originario legato a un modello di vita comunitario e ne delinea il percorso storico dai tempi antichi ad oggi, in particolare per quello che hanno rappresentato nella costante lotta contro i poteri dominanti. Nei prossimi numeri ci proponiamo di ritornare sul discorso della proprietà collettiva, sul problema della riappropriazione e dell’accesso alla terra e sulle contraddizioni che nella società attuale pervadono un istituto come quello delle comunanze agrarie, fattosi spesso centro di potere clientelare, ormai ben lontano dall’antico e idealizzato spirito originario.
Cavalli al pascolo sui monti Sibillini
Di fronte ai disastri del liberismo da qualche tempo si fa un gran parlare di commons, di beni comuni e del loro governo. Tra questi rientrano quei territori di appartenenza collettiva, inalienabili e indivisibili, gestiti con modalità condivise e solidaristiche, che si presentano come espressione di autogoverno di una comunità. Né privata né pubblica, dunque, ma collettiva: un’altra forma di proprietà le cui origini risalgono a tempi antichi, largamente conosciuta nella storia e in una certa misura anche nel presente dell’appennino marchigiano. Il percorso storico della proprietà è infatti ben più accidentato di quanto possa apparire, disseminato di resistenze ed esperienze alternative e contrastanti il modello di proprietà privata come diritto soggettivo assoluto.
Queste esperienze si localizzano soprattutto nelle aree montane, su pascoli e boschi poco appetibili per l’avanzante agricoltura moderna, in zone impervie dove il mutuo appoggio è essenziale per fronteggiare le difficoltà della vita. La modalità di gestione collettiva delle terre non è solo un espediente tecnico o giuridico ma deriva dalle caratteristiche stesse della vita montana, in cui l’assetto comunitario è un valore preminente, superiore alle forme individualistiche. Questi terreni, come i beni collettivi in generale, non rispondono all’interesse esclusivo del dominus, del titolare della proprietà, sia esso una persona fisica o un ente, libero di sfruttarlo a suo vantaggio anche fino all’esaurimento della risorsa, ma vanno mantenuti per il bene della collettività, che comprende anche le future generazioni, e quindi salvaguardati.
La storia che vogliamo ripercorrere è quella della strenua difesa delle terre collettive e del modo di vivere comunitario contro le autorità succedutesi nei secoli. Forme che sono state spazzate via solo dal processo storico del capitalismo, che ha rotto i vincoli del vivere umano con la terra e in particolare con la montagna. Dal dopoguerra infatti, con lo svuotamento delle campagne in cambio di un salario garantito, di qualche aggeggio tecnologico con cui riempire la casa e del controllo poliziesco per le strade, si sono perse forme di autogestione e saperi millenari. Oggi, perciò, avvertiamo l’urgenza di recuperare una dimensione locale e comunitaria, la dimensione dell’autogoverno che pone in discussione ogni modalità di gestione verticistica e controllo statale. E, con essa, provare a ricostruire quei legami comunitari scardinati dalla società industriale, per ridare un senso autentico alla proprietà collettiva, senza ridurla ad un suo simulacro sottoposto a mire speculative o affidato a qualche ente di gestione.
I monti Sibillini
Terre collettive e usi civici nelle Marche
Per cominciare vanno distinte due diverse situazioni: le “terre collettive” e le “terre gravate da usi civici”. Le prime possono essere in proprietà aperta, cioè appartenere a tutta la collettività stanziata su un determinato territorio, oppure in proprietà chiusa, cioè riservata solo a certi soggetti ovvero ai discendenti di sangue (in linea maschile fino a tempi recentissimi) degli antichi proprietari originari, con esclusione dei nuovi residenti. Negli usi civici invece la collettività può solo trarre delle specifiche utilità (pascolo, legna, prodotti del bosco, caccia e pesca, acqua) ma la proprietà del terreno è di qualcun altro, in tempi antichi del feudatario poi passata in genere al demanio comunale.
Mentre il dominio collettivo è un fatto sociale prima ancora che economico, l’uso civico non presuppone necessariamente una comunità, in quanto riferito ai singoli individui che possono soddisfare le proprie esigenze personali o familiari. Pur non sottovalutando l’importanza degli usi civici, con il loro corollario di lotte tra proprietari e titolari dei diritti, sono le terre collettive che ci possono suggerire una reale alternativa al modello economico dominante. Le forme più note e diffuse si trovano nell’arco alpino orientale, ma sono presenti anche nel resto della fascia alpina e in tutta la dorsale appenninica fino all’Abruzzo. Nonostante le similitudini, non sono assimilabili a un unico modello in quanto un grande peso hanno le specificità e le tradizioni locali. I nomi, poi, sono i più vari: regole (arco alpino orientale), favole e faole (Lombardia), vicinie e vicinanze (arco alpino centro orientale), consorterie (Val d’Aosta), partecipanze (Emilia e Romagna), comunaglie (Liguria), università agrarie (Lazio e appennino centrale), patriziati (Ticino).
Nelle Marche sono conosciute come comunanze: “le comunanze hanno un regime rappresentativo per le deliberazioni d’interesse generale e sono amministrate da due massari che fanno ricordare i due consoli dell’antichità; negli statuti è sempre una sapiente previdenza, affinché gli interessi dei singoli siano in armonia con quelli della collettività. Il dominio comune si tripartisce in bosco, pascolo e terra coltivabile. Nel bosco ognuno fa provvista del combustibile per consumo della famiglia e del legname da costruzione per usi domestici e agrari. Il pascolo si esercita nei boschi di alto fusto, nei cedui dopo il taglio, nei prati naturali dopo la falciatura, nei campi seminativi dopo il raccolto. Ogni famiglia ha in uso esclusivo, ma temporaneo, qualche appezzamento coltivabile. I prodotti dei tagli dei boschi e della falciatura dei prati si dividono tra i comunisti”[1].
Praticamente inesistenti lungo la fascia costiera fatta eccezione, là dove il monte arriva a picco sul mare, per quelle di Fiorenzuola di Focara e di Sirolo, le comunanze hanno avuto invece una notevole diffusione nelle zone altocollinari e nella montagna appenninica. Protette dall’inospitalità che la montagna riserva a chi non la sa vivere, queste forme di proprietà collettiva si sono mantenute e tramandate nei secoli, mentre laggiù, tra le fertili e accessibili pianure e in riva al mare, il progresso e la sua scienza economica modellavano un mondo di diseguaglianze. Nel 1884 l’Inchiesta Jacini registra nelle Marche 351 comunanze distribuite in 37 comuni, su una superficie di 22.000 ettari, oltre a 97 terreni con diritti d’uso. In buona parte erano localizzate nella zona montuosa dei Sibillini, tra le province di Macerata e Ascoli. Nell’anconetano vengono citate le comunanze di Arcevia, Fabriano, Genga e Sassoferrato, mentre in provincia di Pesaro si trovano concentrate nelle zone montuose meridionali, attorno ai monti Nerone e Catria (Apecchio, Cagli, Cantiano, Frontone, Pergola, Piobbico, Serra S. Abbondio, Urbania), occupando porzioni significative della superficie totale dei terreni, fino al 61% dei terreni comunali di Frontone e al 41,3% di Serra Sant’Abbondio (secondo una rilevazione di inizio anni ottanta del Novecento)[2]. Quasi assenti sono invece nel Montefeltro, per via di una differente storia politico-istituzionale.
Vittorio Danielli, Le proprietà collettive e gli usi civici d’Italia, 1898
Proprio questa differente distribuzione territoriale, nel confronto tra il Montefeltro e i Sibillini, ci consente di cogliere come la proprietà collettiva sia un fattore positivo sia per quanto riguarda il tenore di vita delle comunità locali, che anche in tempi difficili possono contare su una risorsa certa, sia per la salvaguardia dei suoli e dell’ambiente, sottratti per il bene comune alla dissipazione individualistica delle risorse: “nelle Marche esistono due montagne; una, particolarmente ed uniformemente povera e dissestata: quella montefeltrana, la quale, fra le altre sue specificità, fa registrare anche quella di essere priva di proprietà collettive; un’altra a discreta tenuta ambientale e con un tenore di vita per certi aspetti migliore di molte aree collinari ed urbane: e questa coincide con la montagna maceratese ed ascolana, fortemente connotata dalla presenza delle comunanze e dalla cultura ecosistemica delle comunità locali che le hanno difese e conservate”[3].
D’altra parte le proprietà collettive non rappresentano isole felici aliene dai mali di questo mondo. Avidità ed egoismo, laddove il vivere comune si degrada, portano alla necessità di regolamenti prescrittivi, forme di controllo, multe e guardie campestri. Oltre all’attacco dei notabili esterni che minano confini e diritti, le comunanze devono fronteggiare anche le conflittualità interne, con gli utenti più agiati che acquisiscono la forza per piegare a proprio vantaggio le regole tradizionali. Non che con questo si voglia avvalorare la tesi della “tragedia dei beni comuni”, sostenuta dall’economista Garrett Hardin e dai suoi epigoni, secondo la quale gli individui sarebbero incapaci di gestire beni comuni in quanto a prevalere è sempre l’interesse del singolo, con la conseguenza dell’inevitabile esaurimento delle risorse qualora non intervengano regole di buona amministrazione imposte dall’esterno[4]. Se non vogliamo chiamare in causa Elinor Ostrom, economista di ben altra levatura che ricevette il premio Nobel sostenendo tesi esattamente opposte, basta guardare le tante storie di autogestione dove la condivisione prevale sulla prevaricazione. E poi, in fondo, nell’improbabile ipotesi che avesse ragione Hardin, in confronto alla tragedia del tempo presente, non avremmo davvero nulla da perdere.
Il monte Acuto visto dal monte Catria
Breve storia di “un altro modo di possedere”
Le comunanze nascono in tempi antichi, certamente pre-romani: ab immemorabili si legge nei primi atti scritti. Per molti secoli hanno dovuto fare i conti con la permanente ostilità da parte dei poteri costituiti e dell’ordine giuridico dominante e resistere al variare degli ordinamenti politici e sociali, anche facendo dell’isolamento montanaro la propria forza.
I Romani tendevano a non sprecare denaro e legioni per imporre la loro legge in queste zone impervie, poco abitate, poco produttive: “col loro pragmatico buon senso – scrive Joyce Lussu – avevano capito che non conveniva spingere alla disperazione e alla guerriglia le comunità che vivevano nei fortilizi naturali della montagna, con una padronanza del terreno che avrebbe messo in difficoltà anche un esercito molto agguerrito. Per cui, nelle Marche e altrove, si contentavano di ghettizzarle circondandole a valle con solide e fedeli colonie, e spesso non si preoccupavano nemmeno di pretendere il versamento di tasse, che sarebbero state comunque assai scarse e faticose da riscuotere”[5].
In epoca medievale le proprietà collettive cominciano a perdere i primi pezzi. Non è facile per le comunità resistere alle mire di feudatari, principi, comuni e signorie e se in alcuni casi mantengono tenacemente la propria autonomia, in altri in cambio di protezione assoggettano se stesse e le proprie terre al signore, al comune o all’autorità ecclesiastica, rimanendo con in mano il solo diritto d’uso delle stesse. È d’altra parte in questo periodo che si iniziano a raccogliere in forma scritta le norme consuetudinarie poste a fondamento delle comunità locali. In età moderna gli Statuti tramandano le regole, spesso assai dettagliate, sull’uso dei beni comuni e ciò che si era salvato delle comunanze riesce a mantenere la propria specificità mentre il volto agricolo delle Marche viene modellato dal regime mezzadrile che pervade e disegna l’intero territorio regionale, con i suoi contadini sottomessi al proprietario terriero e al fattore, attaccati con la propria famiglia al podere, dediti al lavoro e, più tardi, perfino orgogliosi di star meno peggio del bracciante.
Più in generale, lungo il corso dei secoli il processo di affermazione del modello capitalista in agricoltura va privando la tradizionale economia contadina dei diritti comunitari sulle terre e troverà il suo compimento quando riuscirà a gettare sul mercato una classe di proletari senza terra, adatti al funzionamento della fabbrica moderna. Se fino al Seicento permane in larga parte l’antica autonomia e le comunanze godono ad esempio di totale franchigia fiscale, successivamente l’aumento delle imposte è una delle leve per intaccare l’uso collettivo delle risorse: per farvi fronte si affittano i pascoli, si vende la legna, si spartiscono tra privati le terre agricole più fertili, si compromettono porzioni di bosco pur di coltivare e monetizzare.
Comunanze in provincia di Pesaro e Urbino
Comunanze in provincia di Ancona
A livello organizzativo, fino a metà Settecento tutto il potere decisionale è nelle mani dell’assemblea degli utenti (solo in casi eccezionali le deliberazioni vengono fissate dal notaio) poi, nel secolo successivo, la fisionomia cambia: la parola d’ordine diventa razionalizzare, la gestione burocratica e fiscale si complica, necessitando di nuove figure, istruite, che verbalizzino le sedute, tengano i libri contabili, regolamentino gli affitti e che man mano acquisiscono potere a scapito degli organi di autogestione democratica. Ecco nascere un vero e proprio corpo burocratico presto egemonizzato dalla borghesia cittadina. D’ora in poi, di fatto, le assemblee si limiteranno a eleggere gli amministratori: “a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento, alle assemblee degli utenti si sono sovrapposti organi ristretti con poteri di decisione e gestione, e gli affari relativi ai beni collettivi non si decidono più nelle adunanze plenarie sui prati e sotto i faggi di montagna, ma dai vertici amministrativi nelle residenze municipali e nelle case cittadine”[6].
La cultura giuridica ottocentesca affonda il colpo di grazia sulle proprietà collettive. Se la legge serve a codificare i rapporti di forza sociali, facendosi specchio di una società liberale e liberista, il destino della proprietà collettiva non può che essere l’emarginazione giuridica e ancor prima ideologica. Un’avversione verso comunanze e istituti simili, come ammette l’economista Ghino Valenti, dettata “dalla paura, diciamolo senz’ambagi, di fare una concessione, di cui il socialismo possa in avvenire giovarsi per raggiungere i suoi sconfinati ideali”[7].
La civiltà del diritto generata dalla Rivoluzione francese si incentra infatti sulla sacralità della proprietà privata individuale. La dimensione collettiva è respinta in quanto perturbatrice dell’ordine politico su cui si regge lo spirito del tempo e la presenza di consuetudini d’uso da parte della popolazione locale sui terreni viene vista come un retaggio di organizzazione feudale e un ostacolo alla moderna politica agricola. Lo smantellamento della proprietà collettiva prosegue con la legislazione civile napoleonica di inizio Ottocento, volta a ricondurre in proprietà comunale, amministrata dal Municipio, tutti i terreni fino allora goduti autonomamente dalle collettività. Per quanto riguarda i territori storicamente sottoposti allo Stato della Chiesa, come le Marche, grava nel 1801 il motu proprio di Pio VII per la demanializzazione e vendita dei beni collettivi, che però riesce solo marginalmente a intaccare i territori delle comunanze, anche per via della vigorosa resistenza messa in opera dalle comunità locali: “gran parte del brigantaggio attivo sulla montagna ascolana fra età napoleonica ed unificazione nazionale è motivato, fra l’altro, proprio dalla volontà di difendere comunanze o usi civici”[8].
Dal momento dell’unificazione italiana lo smantellamento prosegue inesorabile. Durante i lavori per l’Inchiesta Jacini (Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola) diverse rappresentanze comunali chiedono senza mezzi termini al regio commissario “di tagliare alle radici l’antica pianta e di far sparire le comunanze insieme coi diritti d’uso […] invocando dottrine di economia politica allora indiscusse, e l’interesse dei loro bilanci”[9]. Il concetto è ribadito dallo stesso Stefano Jacini nella relazione finale dell’Inchiesta in cui chiede al ministero “che venga affrettata la liberazione completa, non solo di nome ma anche di fatto, della proprietà rurale dai vincoli e gravami che la inceppano in più modi”[10]. Nella smania di abolire le collettività che permea la cultura giuridica del periodo va detto che si registra qualche eccezione tra giuristi, economisti e sociologi eterodossi, i quali riconoscono almeno il diritto di esistenza a queste forme alternative di proprietà, sempre, ben inteso, che non mettano in discussione il sistema generale della proprietà capitalista. Così ad esempio, viene fuori il provvedimento del 1894 sull’Ordinamento dei domini collettivi nelle Province dell’ex Stato Pontificio, presto reso inefficace, che in sostanza riconosceva la legittima esistenza della proprietà collettiva riconducendola sotto la tutela dello Stato.
Si è ormai capito che il dominio totalitario dello Stato e del mercato avanza a grandi passi, non risparmiando neppure quelle terre appenniniche che l’isolamento aveva protetto nei secoli. La legge fascista del 1927 sul “riordinamento degli usi civici” pretende di uniformare in un unico calderone situazioni e tradizioni diverse per cancellare tutto con un solo colpo di mano, anche se nella pratica le nuove figure dei Commissari “per la liquidazione degli usi civici” riusciranno a liquidare ben poco. Più tardi, con le “leggi sulla montagna” del 1952, 1971 e 1994 e con il Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004, la strategia dei poteri dominanti si affina non puntando più alla brutale soppressione dell’anomalia ma al suo recupero all’interno dell’ordinamento, come istituti tradizionali da tutelare, salvaguardare e valorizzare economicamente.
Terreni sul Monte Catria
Comunanze senza comunità
Ingabbiare quegli antichi assetti collettivi e comunitari nel costume troppo stretto del sistema politico moderno, facendo calare dall’alto forme giuridiche che appartengono a una cultura estranea e nemica, è un’operazione impossibile se non snaturandoli, ma necessaria all’autorità pubblica per esercitare forme di controllo.
Come dicevamo in apertura, la proprietà collettiva ha senso fintanto che esiste una comunità legata da un vincolo solidaristico e spontaneo, ma nel momento in cui viene a perdersi il legame con quegli specifici uomini e donne per fare riferimento a un cittadino in astratto, essa smarrisce il suo valore sociale. Nel mondo della merce la comunanza diventa un’azienda agro-silvo-pastorale che di valore conosce solo quello dei registratori di cassa, come se la sua giustificazione stesse nella produttività (ambientale, turistica, economica) che dimostra con una oculata gestione imprenditoriale. Le terre non più direttamente utilizzate vengono sfruttate magari affittandole a grandi allevatori o a industrie del legname ed ecco che la montagna casca dalla padella dell’abbandono alla brace dello sviluppo capitalista che ne fa mera appendice delle aree urbane. Quando, poi, si inizia a pensare alla valorizzazione dei territori come nicchie gastronomiche il cerchio si chiude: le loro tipicità le ritroveremo esposte sugli scaffali delle neomoderne boutique del gusto.
Il lago di Pilato sui monti Sibillini
Bibliografia:
Atti del convegno nazionale sulle comunanze agrarie e le terre dei comuni, con particolare riferimento all’appennino centrale: situazione attuale e prospettive future: Macerata, 3 ottobre 1970, [S.l., s.n., 1970?].
Francesco Bonasera, Le “comunanze agrarie” nelle Marche: considerazioni geografiche, «Annali della Facoltà di Economia e commercio [dell’Università di Palermo]», 33(1979), n. 2-3, p. 217-232.
Carla Catolfi, Le comunanze agrarie nella transizione al Novecento, in Nelle Marche centrali: territorio, economia, società tra Medioevo e Novecento: l’area esino-misena, a cura di Sergio Anselmi, [S.l.], Cassa di Risparmio di Jesi, 1979, v. 2, p. 1428-1473.
Vittorio Danielli, Domini collettivi ed usi civici della provincia di Pesaro ed Urbino, Senigallia, Tip. Puccini e Massa, 1908.
Vittorio Danielli, Le proprietà collettive e gli usi civici d’Italia: storia legislazione e dottrina con raffronto alle origini e vicende delle comunanze agrarie della provincia di Pesaro e Urbino, Pesaro, Nobili, 1898.
Gaspare Finali, Le Marche: ricordanze, Ancona, Morelli, 1896 (rist.: [Pesaro], Istituto per la storia del Risorgimento italiano-Comitato di Pesaro e Urbino, 2010).
Garrett Hardin, The Tragedy of the Commons, «Science», 1968, n. 162, pp. 1243-8.
Fondazione Medit Silva, Studi e ricerche sugli ordinamenti statutari delle proprietà collettive presenti nella Regione Marche e nell’Appennino centrale, Ancona, Consiglio Regionale delle Marche, 2013.
Olimpia Gobbi, Le Comunanze dei Sibillini fra XVII e XIX secolo: uso delle risorse e conflitti d’interesse, «Proposte e ricerche», 1994, n. 32, p . 65.
Olimpia Gobbi, Le terre collettive nell’esperienza delle comunanze agrarie marchigiane, «Archivio Scialoja- Bolla», 2004, n. 2, p. 97-123.
Paolo Grossi, “Un altro modo di possedere”. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, Giuffrè, 1977.
Massimo Guidetti, Paul H. Stahl, Un’Italia sconosciuta: comunità di villaggio e comunità familiari nell’Italia dell’800, Milano, Jaca Book, 1977.
Inchiesta Jacini. Atti della Giunta per la inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, v. 11: Relazione del commissario marchese Francesco Nobili-Vitelleschi, senatore del Regno, sulla V circoscrizione, t. 2: Provincie di Perugia, Ascoli-Piceno, Ancona, Macerata, e Pesaro, cap. 17: [Ghino Valenti], La proprietà collettiva nella zona montana, p. 487-516, Roma, Forzano, 1884 (rist.: Sala Bolognese, Forni, 1987); v. 15.1: Relazione finale sui risultati dell’Inchiesta, Roma, Forzani, 1884 (rist.: Sala Bolognese, Forni, 1988).
Indagine preliminare per lo studio delle comunanze agrarie dell’Appennino umbro-marchigiano, [a cura dell’Istituto Policattedra di Geografia], Rimini, Maggioli, 1983.
Corrado Leonardi, Ville e comunanze nella corte di Casteldurante nei sec. XIII-XVI, in Uomini, insediamenti, territorio nelle Marche dei secoli XIII-XVI, Ancona, Deputazione di storia patria per le Marche, 1981, p. 267-318.
Joyce Lussu, Le comunanze picene: appunti e immagini tra storia e attualità, Fermo, Andrea Livi, 1989.
Joyce Lussu, Tra comunità e comunanze all’ombra della Sibilla: divagazioni picene, «Proposte e ricerche», 1988, n. 20, p. 111-116.
Ghino Valenti, Il rimboschimento e la proprietà collettiva nell’Appennino, Macerata, Stab. tip. Mancini, 1887.
L’incendio del Morrone, i volontari, le istituzioni
Intervista di Luigi a Savino Monterisi
Ricorderemo l’estate 2017 per la siccità e il caldo soffocante. Ma anche per il gran numero di incendi boschivi che hanno mandato in fumo ettari su ettari di territorio: una piaga in realtà non nuova, che con alti e bassi si ripete ogni estate, tanto che dal 2010 a oggi la somma totale delle superfici bruciate in Italia raggiunge l’incredibile cifra di oltre 446.000 ettari, in pratica come se fosse andata a fuoco una zona vasta quanto il Molise[1].
Nonostante capiti ancora di vedere qualche sciagurato che lancia il mozzicone acceso dall’automobile, in realtà quella dell’incauto fumatore colpevole di innescare l’incendio è una figura in buona parte leggendaria. Ancora più improbabile è l’autocombustione e rarissimi gli inneschi per cause naturali (fulmini). Non altrettanto insoliti, invece, sono i roghi colposi, dovuti a irresponsabilità o distrazione, talvolta legati all’incapacità di gestire quell’utilizzo controllato del fuoco che, tradizionalmente, veniva messo in opera come strumento rapido ed economico per eliminare residui di colture, ripulire terreni incolti, stimolare la rigenerazione erbacea dei pascoli. Bisogna però prendere atto che la gran parte degli incendi sono di natura dolosa e non si tratta tanto dell’impulso distruttivo, patologico, della piromania, o di conflitti personali e ritorsioni di vario genere, quanto di ben precisi interessi speculativi. Distruggere boschi porta affari. È il businness degli incendi con tanto di mandanti, intermediari e idioti che appiccano le fiamme: un giro di affari che si lega innanzitutto al loro spegnimento, gestito per via aerea da società private, e poi, tramite amministrazioni compiacenti, alla bonifica delle aree colpite, allo smaltimento del materiale arso e al successivo rimboschimento o alla riconversione dei terreni a uso edificatorio.
Nell’estate appena trascorsa le regioni maggiormente colpite dal fuoco sono state Sicilia, Calabria, Campania e Lazio, ma un vasto incendio si è sviluppato e propagato per parecchi giorni anche sul parco della Majella in Abruzzo, interessando oltre tremila ettari di vegetazione di cui almeno duemila di boschi. Durante quelle terribili settimane tra fine agosto e inizi settembre abbiamo visto il coraggio e la volontà degli abitanti che si sono prontamente autorganizzati per combattere l’incendio, aiutati da volontari arrivati da vicino e da lontano, come le Brigate di solidarietà attiva che avevamo già imparato a conoscere durante l’emergenza terremoto.
Le istituzioni, al contrario, non hanno certamente brillato per efficienza. Sono innanzitutto mancate nella fase della prevenzione: già a giugno la Protezione civile stigmatizzava il fatto che sei regioni, tra cui l’Abruzzo, la cosiddetta “Regione verde d’Europa” o anche “Terra dei parchi”, non si fossero dotate di idonei strumenti per affrontare eventuali emergenze incendi[2]. Sono, inoltre, apparse del tutto disorganizzate e allo sbando nelle ore più calde, salvo mettere in mostra qualche loro rappresentante con ai piedi le scarpe da trekking, a uso dei fotografi: “le inutili passerelle a camicie di fuori e codazzi al seguito, i vertici un giorno sì e l’altro pure, gli insopportabili selfie le parole le chiacchiere gli annunci. E l’improvvisazione, l’inadeguatezza, la caduta dalle nuvole, i verbi coniugati al futuro quando il futuro è già passato. Sempre così. Oggi come sette mesi fa. Il terremoto, Rigopiano e poi gli incendi: le lezioni non insegnano nulla a questa classe dirigente roboante ed esibizionista”[3].
Per fronteggiare il fenomeno degli incendi hanno un ruolo a livello nazionale il Ministero dell’ambiente e il Dipartimento della Protezione civile, ma sono le Regioni a doversi dotare di un “Piano di previsione, prevenzione e lotta attiva contro gli incendi boschivi” e, nel momento dell’emergenza, a dover coordinare e gestire il lavoro delle squadre antincendio aeree e di terra. La situazione generale è cambiata in seguito alla Riforma Madia che nell’ambito della ristrutturazione della pubblica amministrazione ha sciolto il Corpo forestale, militarizzandone le funzioni[4]. La maggior parte dei forestali è infatti stata assorbita dall’Arma dei Carabinieri, con funzioni investigative e repressive, mentre solo una parte residuale ha portato le proprie competenze in materia di effettivo contrasto degli incendi boschivi nel corpo dei Vigili del fuoco, da sempre specializzato in interventi di spegnimento in aree urbane. Con, inoltre, inevitabili ritardi da parte di molte regioni nel trasferire ai Vigili del fuoco le convenzioni attivate con l’ex Corpo forestale[5].
Ai singoli Comuni è demandata la cura e tutela del territorio per mitigare il rischio incendi, nonché l’aggiornamento costante del catasto delle aree percorse dal fuoco al fine di predisporre vincoli di uso e quindi impedire speculazioni economiche sulle aree stesse. La legge 353 del 2000 (Legge quadro in materia di incendi boschivi), per quel che può valere una legge di fronte al tornaconto economico, è infatti chiara: per i successivi quindici anni le aree incendiate non potranno avere destinazione d’uso diversa da quella preesistente, per dieci anni sono interdetti la costruzione di edifici, così come il pascolo e la caccia, per cinque anni è vietato parlare di rimboschimento con finanziamenti pubblici. Le ragioni di quest’ultimo divieto – impedire che la stessa mano che ha interesse economico al rimboschimento sia anche quella che accende le fiamme – pare siano però sfuggite all’assessore regionale Andrea Gerosolimo, seguito a breve distanza dal presidente della Regione Abruzzo Luciano D’Alfonso, che a poche ore dal primo innesco scriveva: “superata la fase dell’emergenza e misurati gli ettari di bosco incendiato, ci attiveremo affinché sia possibile un sollecito rimboschimento anche in deroga alle norme vigenti”[6]. Una dichiarazione quanto meno inopportuna, visto che in ballo ci sono quasi 400 milioni di euro di fondi pubblici. Dichiarazione alla quale sono seguiti numerosi nuovi focolai.
I residenti e le associazioni ambientaliste presenti sul territorio, dopo essersi mobilitati per arginare e spegnere le fiamme si sono detti fermamente contrarie ai rimboschimenti: la natura è capace di fare il suo corso e di riportare la vita là dove oggi ci sono cenere e tronchi anneriti. Quello che è necessario sarà di essere presenti sul territorio montano, viverlo giorno dopo giorno, per non lasciarlo all’abbandono, al degrado, alle speculazioni di qualche avvoltoio. Siamo andati a parlare di tutto questo con Savino Monterisi del collettivo AltreMenti Valle Peligna, che dopo diversi anni passati a Roma è tornato a vivere a Sulmona e quest’estate si è ritrovato in prima linea come volontario sul fronte del fuoco.
Sulmona, 20 agosto 2017, il campanile dell’Annunziata. Studio fotografico Paradisi, Pratola Peligna
Ci racconti cos’è successo tra agosto e settembre su queste montagne che vediamo ancora completamente annerite?
Tutto ha inizio il 15 agosto con l’incendio nel comune di Rocca Pia, poi sono iniziati gli incendi del monte Morrone, a partire dal 19 agosto nel comune di Pacentro e, mano a mano, nei giorni successivi ci sono stati altri inneschi sempre sul Morrone, andando avanti verso Roccacasale. Quando qui di fronte a Sulmona sembrava che l’incendio si stesse per spegnere, è scoppiato un nuovo fronte dall’altra parte della valle, tra i comuni di Prezza e di Raiano, che di fatto ha spostato tutte le forze sul campo dal Morrone a lì, anche perché tirava un gran vento e il fuoco stava mettendo a repentaglio le abitazioni. C’è stata quindi una specie di mossa a tenaglia. E va detto che quanto successo in Valle Peligna si incastra alla perfezione nell’attacco che hanno subito tutte le aree interne del centro Italia, a partire dal Monte Giano, a Rieti, alla Marsica e poi più giù fino in Campania.
Non so per l’incendio di Rocca Pia, ma quello di Pacentro, del Morrone di Sulmona e della montagna di fronte sono iniziati nella stessa maniera, con lo scoppio di tre inneschi: ci sono delle foto in cui si vedono nitidamente i tre pennacchi di fumo concentrati nella stessa area. Ci sono ancora indagini in corso, ma pare che siano state ritrovate taniche di benzina con dei temporizzatori, quindi non parliamo di un rozzo innesco ma di una tecnica abbastanza sofisticata.
Sembra ci sia stata una precisa regia dietro questi incendi, voi che idea vi siete fatti?
Sicuramente sono incendi dolosi e sicuramente c’è una regia, questo è evidente. Anche il procuratore Bellelli ha affermato che dietro questi incendi ci sarebbe la mano di un “unico disegno criminale”. Ma questo lo dicono i fatti. Basta mettere in fila dei dati, a partire dall’estrema accuratezza con la quale il piano è stato messo in campo, l’uso dei temporizzatori, il posizionamento degli inneschi in zone impervie, in pendii molto ripidi, in giornate ventilate. Poi però non so dirti quale sia stata la regia, cioè chi materialmente sia stato, può essere stata un’organizzazione criminale così come un pazzo esperto di montagna. Non abbiamo prove.
La mappa degli inneschi
Abbiamo visto che molti volontari, e anche tu stesso, vi siete autorganizzati per aiutare a spegnere l’incendio, com’era la situazione?
Per tre giorni si è cercato di spegnere l’incendio solo attraverso lo sgancio di acqua dai Canadair e dagli elicotteri. Il terzo giorno la gente s’è rotta di questa storia e ha detto: se nessuno si organizza, ci organizziamo da soli e saliamo noi a spegnere le fiamme. Così, spontaneamente, ha preso ed è salita sopra. C’è da dire che qui in Valle Peligna non c’è una grossa cultura degli incendi. L’ultimo importante incendio è del 1994, sul monte Playa nel Massiccio del Genzana, dove anche lì la gente si era organizzata autonomamente, però stiamo parlando di più di vent’anni fa. Prima di quello, il Morrone era già stato interessato da altri due incendi, nel 1974 e 1978.
I primi a salire sono stati dei ragazzi che la domenica mattina, quando è scoppiato l’incendio del Morrone, si trovavano in un rifugio dove erano andati a passare una nottata. C’era fuoco sulla strada carrabile e quindi hanno dovuto lasciare i mezzi lassù e sono scesi a piedi, passando da un’altra parte della montagna che non era ancora interessata dalle fiamme. Arriva il mercoledì, con la montagna che brucia e i Vigili del fuoco fermi a valle: questi ragazzi hanno deciso di risalire, almeno per andarsi a riprendere i mezzi. Il giorno successivo, vedendo che la cosa era fattibile, quello stesso gruppo di persone è di nuovo tornato sul monte per iniziare a spegnere le fiamme basse che avanzavano verso nord.
Il giovedì sera i Vigili del fuoco iniziano a lamentarsi dicendo che i volontari erano d’intralcio perché impedivano il lavoro dei Canadair: una cosa falsissima, io stesso quando sono stato sopra ho visto che non c’era davvero nessun problema di questo tipo. Tant’è che se parli con gli ex Forestali che si sono occupati di antincendio ti dicono che quando scoppiava un incendio la prima cosa che facevano era andare nella piazza del paese a reclutare volontari, creando di fatto una squadra antincendio, ovviamente mettendoli in sicurezza e facendo loro fare quello che potevano. È mancato proprio questo.
Poi il prefetto ha imposto al Comune di Sulmona di emettere un’ordinanza contro i volontari, impedendo di fatto a chiunque di salire sopra. Chi voleva dare una mano si sarebbe dovuto andare a registrare al Centro operativo comunale. Noi la mattina siamo andati lì, ci saranno stati almeno un centinaio di ragazzi pronti, con le pale e tutto. Aspettiamo un po’ ma non si vede nessuno, dopo un’oretta capiamo che ci stavano a fare la melina e allora ce ne siamo andati sopra per i fatti nostri. È davvero sembrata un’esca per non tenerci in mezzo alle scatole, una serie di disorganizzazioni continue.
L’incendio al Parco della Majella. Foto di Savino Monterisi
Le istituzioni come si sono mosse?
Intanto c’è la Regione, che dovrebbe predisporre un piano antincendio. A fine giugno alcune associazioni ambientaliste hanno scritto una nota alla Regione Abruzzo chiedendo conto della mancanza di un piano adeguato, poi la Regione in qualche modo si è adeguata e, come forze aggiuntive antincendio, prescrive una squadra composta da quattro Vigili del fuoco per ogni provincia – cioè in totale sedici Vigili del fuoco – più un elicottero. Ai primi di agosto un barbecue sfugge di mano a dei ragazzi a Campo Imperatore, dove erano radunate moltissime persone per una rassegna organizzata dalla Camera di commercio; prende fuoco una pineta per non so quanti ettari e addirittura il fuoco arriva fino quasi a Rigopiano, ovviamente senza che si riuscisse a spegnerlo. Le forze in campo erano veramente debolissime.
In generale, abbiamo visto grossi problemi di disorganizzazione legati al fatto che quest’anno, per la prima volta, la gestione dello spegnimento spettava ai Vigili del fuoco e non alla Forestale, sciolta dal decreto Madia. Io non sono uno di quelli che dice che la Forestale debba essere ricostituita, non mi interessa la discussione in questi termini, quello che mi interessa è che ci sia un corpo specializzato per lo spegnimento degli incendi boschivi. Il problema, infatti, qual è? Che quando prima scoppiavano gli incendi sostanzialmente ci si divideva tra i Vigili del fuoco che si mettevano a protezione delle strutture e la Forestale che, insieme ai volontari, attaccava l’incendio nel bosco. L’incendio può essere attaccato in due modi, entrambi importanti: dall’alto, con lo sgancio di acqua, e dal basso, con l’azione dell’uomo che va a spegnere le fiamme basse nel sottobosco. C’è stato quindi questo passaggio di consegne delle operazioni di spegnimento che sicuramente non ha aiutato, ed è mancato l’ente che materialmente prendeva le persone e le portava su ad attaccare le fiamme.
Poi ci sarebbe anche l’Ente Parco della Majella: in fase di prevenzione non ha fatto nulla e addirittura per tutta la prima settimana dell’incendio il direttore era in vacanza, è rientrato quando la situazione era già da un pezzo sfuggita di mano. Da parte del Parco della Majella abbiamo visto una sostanziale insussistenza. Cioè, quella è casa loro, quelli sono i loro boschi, il loro territorio, ma non sono stati in grado di organizzare niente: abbiamo visto una completa assenza.
Volontari al lavoro sulla linea tagliafuoco. Foto di Savino Monterisi
A un certo punto sono intervenute anche le Brigate di solidarietà attiva?
Sì. Allora, da una parte il Comune di Sulmona si è messo completamente nelle mani del DOS, il Direttore delle operazioni di spegnimento, che gli diceva di non mandare i volontari in montagna e che l’incendio l’avrebbero spento con i Canadair. Invece il Comune di Pratola Peligna, che è il comune successivo a Sulmona verso il fronte del fuoco, si era organizzato per costruire una linea tagliafuoco. Il lunedì successivo, quindi otto giorni dopo lo scoppio dell’incendio, le fiamme sono arrivate alla tagliafuoco che di fatto le ha contenute, anche se essendo una giornata molto ventilata della roba incendiaria ha saltato la linea facendo ripartire l’incendio al di là. A parte questo, si è però visto che la tagliafuoco era un argine abbastanza efficace.
Quindi il Comune successivo, Roccacasale, ha detto: facciamola anche noi, e ha lanciato degli appelli per la sua costruzione. Lì sono intervenute le Brigate di solidarietà attiva, che già conoscevamo. Ci hanno contattato da Pescara, sono arrivati in tantissimi e insieme abbiamo cominciato ad aprire questo varco in mezzo al bosco. La situazione era preoccupante perché mentre a Sulmona e Pratola l’incendio incontrava le case a valle, ai piedi della fascia montana, a Roccacasale per la prima volta il fuoco incontrava un paese nel mezzo del fronte, quindi c’è stata una grande mobilitazione, sia da parte della valle sia da fuori.
Monte Morrone, pale vs fiamme
Come si costruisce materialmente una linea tagliafuoco?
La tagliafuoco è un’apertura nel bosco, larga diversi metri. Vanno avanti tagliatori esperti con le motoseghe che abbattono gli alberi e tagliano tronchi e rami, poi le persone dietro prendono questi pezzi tagliati e li buttano dal lato opposto rispetto a dove dovrebbe arrivare l’incendio e poi, ancora dietro, passa gente con rastrelli che cerca di eliminare tutto quanto può fungere da combustibile, quindi pigne, aghi, rametti eccetera.
La tagliafuoco di Pratola è stata in realtà fatta con mezzi meccanici, lì i volontari sono intervenuti pochissimo, si trattava infatti di una vecchia strada che è stata allargata con le ruspe e poi la linea si ricongiungeva a un canalone di ghiaia che scende dalla montagna. A Roccacasale era ben diverso perché si è intervenuti ad aprire quello che era un sentiero di montagna dove le ruspe non potevano arrivare. Si è fatto tutto a mano, per quattro giorni di fila… una fatica enorme! Pensa solo al problema di portare acqua da bere per tutte le decine di persone che erano a lavorare lì in mezzo alla montagna, ad agosto, con 35 gradi.
Sulmona, 12 settembre 2017, assemblea pubblica in Piazza XX settembre
Oggi, a incendio spento e con la montagna in queste condizioni desolanti, che prospettive ci sono? Andare in deroga alla legge che vieta l’immediato rimboschimento è una soluzione o è solo un modo per specularci sopra?
Il nostro post-incendio inizia già cinque ore dopo lo scoppio dell’incendio, quando l’assessore regionale Gerosolimo, che tra l’altro non era qui perché è rientrato in valle solo il martedì mattina, a distanza scrive un post in cui parla di rimboschimento in deroga. Fa quasi un’operazione emotiva, come se volesse tranquillizzare le persone dicendo: non vi preoccupate, faremo il rimboschimento in deroga, ripianteremo tutto e subito. Secondo me, ci sta anche che lo abbia fatto in buona fede, da politico, ingenuo, ma da politico. Però, man mano che il fuoco si andava attenuando, in molti hanno cominciato a rendersi conto che questo discorso era folle, perché se noi cominciamo a parlare di rimboschimento in deroga potremmo fare proprio il gioco di chi ha messo fuoco e ha interessi economici in questo.
Inoltre, il rimboschimento non è immediatamente efficace per una serie di ragioni. Intanto perché se il problema è quello di prevenire il rischio idrogeologico con la piantumazione, allora bisogna mettere piante già grandi, che però sono più soggette al trauma dello spostamento, e comunque per contenere il rischio idrogeologico ci sono anche altre soluzioni. E soprattutto bisogna considerare che la natura ha una grande forza, una grande capacità di rigenerarsi da sola. Il monte Playa, bruciato nel 1994, se lo andiamo a vedere adesso è diventato un bosco impenetrabile, perché in realtà l’incendio è nutrimento per il terreno di un bosco. Quindi sarebbe più opportuno aspettare qualche anno, almeno i cinque anni previsti dalla legge, e poi, se alcune zone della montagna per qualche motivo non si fossero riprese, intervenire con un rimboschimento mirato, se necessario.
In città si è generato un dibattito contro il rimboschimento, anche noi come AltreMenti abbiamo fatto una serie di interventi, tra i quali un’assemblea pubblica in piazza XX Settembre, al centro di Sulmona, con più di duecento persone. E allora l’assessore regionale, dopo le sue dichiarazioni a caldo e, mettiamo, in buona fede, quando gli cominciano ad arrivare una serie di rapporti che dimostrano come il rimboschimento non serva e altri che mettono in guardia dal rischio di speculazioni… poteva anche fare una smentita! E invece addirittura è stato chiesto lo stato di calamità, che prevede la gestione dell’emergenza e la nomina di un commissario che decide su tutto, annullando totalmente la possibilità di partecipazione democratica della gente.
Il 13 settembre si è tenuta una riunione in Regione, convocata dal governatore D’Alfonso per parlare proprio di rimboschimento con i sindaci di tutti i comuni colpiti, il presidente della provincia e il prefetto. Il Comune di Pratola ha detto subito che era contrario e anche il Comune di Sulmona aveva approvato all’unanimità il rifiuto del rimboschimento. Al che l’assessore Gerosolimo, un paio di giorni prima, scrive un post dove dice che essendo lui rappresentante del territorio, farà la volontà del territorio. Alla riunione D’Alfonso non ha gioco facile, prova a spostare un po’ la questione, ma tutti i sindaci fanno capire che l’urgenza non è il rimboschimento, ma la bonifica e la messa in sicurezza del territorio. Quindi per adesso il rimboschimento non parte, ma li conosciamo bene questi… non possiamo cantare vittoria. L’assessore Gerosolimo? Non si è presentato. I suoi fedelissimi lo hanno giustificato dicendo che non è andato perché non era invitato; cioè un assessore regionale alle aree interne, in un tavolo tecnico della Regione in cui si parla di aree interne bruciate, non ci va perché non invitato… Si capisce quanto sia stata strumentale la sua posizione. Se voleva rappresentare il territorio a quel tavolo si poteva e si doveva presentare.
Volontario in azione. Foto di Savino Monterisi
Visto che si è creata in questa Valle una certa mobilitazione e c’è voglia, ma anche necessità, di autorganizzarsi, è ipotizzabile una sorta di coordinamento popolare che vigili sulla messa in sicurezza del territorio, senza dover sempre dipendere dall’agire delle istituzioni?
Già quest’estate, quando stavano bruciando le montagne attorno a Sulmona, alcune associazioni ambientaliste si erano organizzate con dei “gruppi di controllo territoriale” per presidiare il massiccio del Genzana, perché si riteneva che quello sarebbe potuto essere il luogo dei successivi inneschi. Questo tipo di controllo possiamo pensare di riproporlo la prossima estate in maniera diffusa su tutto il territorio. Con una recente assemblea abbiamo avviato un percorso, che è anche un esperimento, proprio in questo senso, a partire dal monitoraggio di tutta l’attività post-incendio. Ci siamo dati il nome di “Territori uniti per la prevenzione”, anche se va detto che qui siamo in zone dove non c’è una grande cultura politica e dell’agire politico. Ma intanto ci stiamo muovendo.
Anche a livello nazionale si sente sempre più spesso parlare di messa in sicurezza del territorio, da lanciare come campagna politica. Intanto a metà ottobre siamo stati a Bergamo, al controvertice G7 sull’agricoltura, dove uno dei tavoli tematici è stato su “territorio e ambiente”. Vogliamo dire alla politica che non ci servono le grandi opere e che una sola e utile grande opera è la messa in sicurezza del territorio. Qui in Abruzzo in particolare, tra terremoto, nevicate e incendi c’è assolutamente una grossa necessità di questo.
Dopo l’incendio la rinascita. Foto di Savino Monterisi
[1] Cfr. Le Mani sporche degli incendi, dossier a cura dell’Ufficio comunicazione dei Verdi, 2017.
[2]Incendi, sei regioni ancora senza flotta aerea, http://www.repubblica.it/cronaca/2017/06/18/news/incendi_regioni_flotta_aerea_curcio-168458874.
[3] Lilli Mandara, Morrone, brucia anche l’onore, http://www.lillimandara.it/labruzzo-che-non-ricorda.
[4] Decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177, Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera a), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche.
Una casa aperta, anzi due
Intervento di Stefano Boni
Durante i primi giorni di agosto del 2017 si è svolto a Roncitelli, piccolo paese di campagna sulle colline di Senigallia, un incontro informale che ha riunito cento persone per due giornate conviviali in cui si è discusso di un nuovo progetto di comunità intenzionale. L’iniziativa nasce attorno a due famiglie che hanno deciso di vivere un quotidiano meno isolato, condividendo spazi e tempi di vita. Vivono in due nuclei abitativi vicini e collegati da un terreno agricolo biologico, in una zona con una ricca storia sociale e un bellissimo quanto fragile ecosistema rurale. Vogliono aprire le proprie case a una socialità allargata ad altre famiglie e singoli basata sulla condivisione, la produzione artistica e contadina, l’ecologia e l’attenzione a forme di educazione rispettose della libertà e autonomia dei bambini. Il progetto è tuttora un cantiere aperto che coinvolge molte persone e rappresenta il tentativo di unire nella vita quotidiana passioni, lavori, responsabilità politica e personale. Stefano Boni è intervenuto come amico e come antropologo attento al rapporto tra la dimensione individuale e quella collettiva nei processi politici di liberazione che sono in corso nella nostra società. Il suo breve discorso è stato seguito da una lunga assemblea (e da una festa ancora più lunga…) che ha messo a confronto tante esperienze concrete maturate in altri luoghi con i desideri degli abitanti del posto che cercano attivamente, e non sempre con successo, nuovi punti di riferimento e relazioni nel territorio delle Marche. Stefano ha proposto alcune idee preziose per evitare i problemi più comuni che sorgono in questo tipo di esperienze e per coniugare spontaneità e informalità con il necessario senso pratico. Su queste pagine continueremo a seguire lo sviluppo di questo progetto a Senigallia e, come per le esperienze di autocostruzione che abbiamo iniziato a conoscere nel numero 8, vorremmo allargare il nostro sguardo ed ascolto ad altre esperienze che stanno nascendo nei nostri territori e che racconteremo nei prossimi numeri.
Roncitelli, Senigallia, foto di Cristina PanicaliL’idea principale di oggi è quella di condividere tra noi e cercare di concretizzare, per quanto possibile, idee e progetti che potranno nascere e svilupparsi in questo contesto. Vi racconto intanto, brevemente, la mia esperienza personale, fatta di due periodi di vita collettiva. Il primo, dal 1999 al 2003, a Casa Gatti, vicino a Siena. Eravamo fondamentalmente giovani, con anche un po’ di bambini, ed è stata una bella esperienza, abbastanza “festaiola” ma si facevano anche tante cose insieme, dall’orto a iniziative di divulgazione e altro. Poi, dal 2011, sempre vicino a Siena, nel comune di Murlo, vivo in un’esperienza più familiare, che comprende adesso tre famiglie con sei bambini. In tutti questi anni, un po’ per mio interesse personale, un po’ come riflessione di ricerca, mi sono continuamente interrogato su questo bisogno di progettualità collettiva e comunitaria che si sta diffondendo in tutta Italia, ragionando sugli aspetti positivi ma anche sulle cause di molti fallimenti.
La ragione fondamentale di questa voglia di collettività è secondo me l’insoddisfazione rispetto al sistema esistente in cui apparentemente siamo super liberi, ma in realtà ci sono binari ben precisi in cui si dovrebbe percorrere la propria vita. Un primo aspetto di questa insoddisfazione è l’individualismo: l’idea di percepirsi come individui scissi da dinamiche di collettività. Riprendere il senso dello stare insieme, del costruire insieme, di essere comunità permette invece il mutuo appoggio, permette cioè di venirsi incontro quando ci sono momenti di difficoltà dei singoli, permette ai bambini di crescere insieme, che è una cosa che si sta perdendo sempre di più ma che per i bambini è fondamentale, cioè crescere in una comunità di bambini piuttosto che davanti a uno schermo, permette infine di percepire la piacevolezza del lavoro collettivo, fatto con persone a cui vuoi bene e che senti un po’ come fratelli e sorelle. Tutte queste sono cose che rendono la vita più piacevole.
Roncitelli, Senigallia, foto di Cristina Panicali
Un secondo motivo di insoddisfazione è che spesso siamo ridotti al ruolo di consumatori. La libertà è una libertà di consumo piuttosto che un protagonismo nel crearsi un percorso di vita. Stando insieme si riescono invece a fare cose che da soli non si potrebbe, si riesce a riassumere un protagonismo anche nella parte produttiva, nella parte dell’organizzazione, della proposta culturale o politica che sia, e anche nel fare artigianale che è stato tendenzialmente devastato dall’industrializzazione, messo proprio fuori mercato, quando invece è qualcosa che ci fa sviluppare delle competenze che poi ci torneranno utili sotto diversi punti di vista.
La terza ragione di insoddisfazione riguarda la produzione che è sempre più tossica. Mi riferisco alla produzione delle multinazionali e delle grandi industrie, che di certo non genera benessere. I loro prodotti non sono sani, non sono pensati per noi ma per fare profitti, mentre ripensare a delle forme di autoproduzione che seguano la nostra morale, la nostra etica, è qualcosa che secondo me libera degli spazi di immaginazione e creatività, oltre alla soddisfazione di vedere che insieme agli altri si possono riprendere in mano pezzi della propria esistenza.
Alcune di queste esperienze di vita collettiva vanno bene, creano collettività, auto-reddito, permettono di promuovere una cultura alternativa. Un altro grande valore è che sono esperienze prefigurative, cioè che attraverso il piccolo portano a immaginare come potrebbe essere una società gestita in quel modo, una società di mutuo appoggio piuttosto che una società di concorrenza o meritocratica, una società di produzione artigianale piuttosto che di produzione industriale. È chiaro che non la si realizza dall’oggi al domani, ma intanto, nel piccolo, si prefigura un’alternativa sistemica all’esistente. Questo è importante perché oggi abbiamo proprio difficoltà a immaginare un’alternativa reale: nel costruire piccole cose la si comincia invece a mettere a fuoco.
Detto questo, bisogna però essere consapevoli che raramente queste realtà si consolidano nel corso del tempo. È vero che spesso un progetto che fallisce rinasce poi sotto altre forme, ma questa dinamica deve portarci a ragionare su quali sono le cause di questi fallimenti almeno momentanei. Dunque, perché falliscono? La prima delle difficoltà ricorrenti che ho visto è l’eccesso di riflessione astratta. Spesso i gruppi nascono sul teorico, iniziano a discutere di grandi principi etici e finisce che ci si scazza sul nulla, perché ancora non c’è nulla di concreto. Questo investimento emotivo sul “come dovrebbe essere” è una causa di fallimento anticipato, prima ancora di riuscire a partire. Perciò il mio primo consiglio è di cominciare a fare, anche perché chi ci sarà nel fare le cose non è probabilmente quello che aveva parlato nell’assemblea ideologica iniziale, e anche perché i problemi reali del fare le cose insieme li vedi quando le fai piuttosto che quando ne parli. L’invito è quindi a sperimentare in maniera dinamica, nel fare piuttosto che nel pensare.
Roncitelli, Senigallia, foto di Cristina Panicali
Il secondo problema che emerge in tutte le esperienze è la cura della parte relazionale ed emotiva del gruppo. È una cosa fondamentale, che spesso anch’io all’inizio sottovalutavo: “oddio adesso tocca fare l’autocoscienza, raccontarsi gli scazzi personali…”. I gruppi sopravvivono se ci sono delle relazioni trasparenti, relazioni di sintonia emotiva, che non vuol dire dover andare d’accordo con tutti, né tantomeno che tutti devono diventare i tuoi migliori amici, ma vuol dire saper affrontare le difficoltà relazionali, metterle a fuoco e andare oltre. Sono le relazioni a costituire il gruppo e se le relazioni per una qualche ragione diventano bacate, tutto il gruppo collassa, a volte senza neanche dirsi la vera ragione per cui è collassato. Il processo di gestione del conflitto si può fare in mille modi, soprattutto con delle riunioni relazionali. Noi facciamo riunioni ogni tanto: una su due è relazionale, l’altra è organizzativa. Ci possono volere anche diverse riunioni per sciogliere dei nodi sui conflitti relazionali.
C’è poi la questione della proprietà. Questo è un altro ricorrente tema di conflitto che tendenzialmente si risolve adottando delle regole molto chiare. Si può anche iniziare sperimentando, ma a un certo punto bisogna che tutti abbiano chiare le regole, perché lasciare allo spontaneismo e all’improvvisazione va bene sul breve periodo ma sul lungo termine tende a creare scontenti. Quindi: chiarezza.
Un’altra questione fondamentale è che il gruppo richiede assunzione di responsabilità individuali e non delega di problemi individuali al gruppo. A volte ci si immette nel gruppo per scaricarsi di problematiche individuali: ho difficoltà a gestire i bambini e mi illudo che il gruppo in qualche modo risolva la mia problematica; ho difficoltà a trovare un salario e mi metto in gruppo sperando di… Questi sono atteggiamenti che vanno bene solo se c’è accanto anche un’assunzione di responsabilità. Mi devo chiedere di che cosa ha bisogno il gruppo? Come contribuisco al progresso del gruppo? Queste sono domande importanti, che valgono anche per le piccole cose. Ad esempio: la giornata di oggi come è stata organizzata? Quali sono stati gli sforzi per metterla in piedi? Che cosa posso fare affinché chi s’è sbattuto sia un po’ più leggero, perché chi ci ha messo i soldi possa rientrare? Qual è la responsabilità che mi posso prendere per rafforzare il gruppo?
In un contesto come quello dove siamo ora, in cui ci sono situazioni abitative accanto a progetti collettivi che nasceranno, quanto detto significa distinguere la parte domestica dalla parte progettuale, in modo da non far cadere solo su chi ci vive la fatica (anche a volte la pesantezza) della gestione della parte progettuale collettiva. Anche solo per organizzare una festa il lavoro è molto, a beneficiarne sono in tanti ma non è che chi abita qui faccia di lavoro il “festaiolo”, ha anche lui la sua vita e i suoi impegni. In generale, il gruppo si deve quindi interrogare su come fare per alleggerire la pesantezza di una situazione domestica che si apre a progettualità collettive.
Una modalità organizzativa che secondo me può funzionare molto bene è il lavoro per gruppi di affinità. Evitare cioè di pensare a una sorta di regia centrale di tutto quanto, ma coinvolgere le persone su progettualità specifiche sulle quali hanno voglia di essere coinvolte. Ci sarà chi si prende la responsabilità di lavorare per il forno, chi per l’orto collettivo e così si creano vari gruppi di gestione che nel loro ambito sono sovrani. Mettere tutto insieme diventa invece parecchio più complicato. Ecco, questi sono in estrema sintesi i piccoli consigli che ho per gli amici e le amiche di Roncitelli.