Ieri (07 maggio) a Kiev, in una località che è stata tenuta segreta per motivi di sicurezza, si è svolta la commemorazione di tre volontari internazionalisti caduti in combattimento a Bakhmut il 19 aprile, quasi impercettibili tra le centinaia di vite che vengono falciate ogni giorno dalla guerra sul lato ucraino e russo.
Questi tre uomini hanno però un significato particolare perché raccontano una storia minoritaria ma per noi molto importante all’interno della tragedia in corso. Dmitriy «Leshy» Petrov, Finbar «Chia» Cafferkey e Cooper «Harris» Andrews erano tutti e tre internazionalisti e attivisti antifascisti nei loro paesi. La piccola celebrazione in forma privata ha coinvolto decine di attivisti ucraini e di altre nazionalità, insieme ad alcuni familiari giunti dall’estero per l’occasione.
A Kiev dall’inizio della guerra esiste infatti una piccola ma resiliente rete di volontari/e, attivisti/e, militanti che nonostante e contro le difficoltà della guerra lottano per l’emancipazione sociale, sostengono lotte sindacali, forme di mutuo appoggio, forniscono sostegno materiale ed emotivo alle vittime della guerra e mantengono viva una elaborazione politica critica verso la società ucraina mentre al tempo stesso partecipano alla sua difesa. La cerimonia è stato un momento di emozione intensa, in cui sono emerse le biografie di questi uomini che nel momento della morte hanno mostrato controluce le aspirazioni, le passioni, le difficoltà di milioni di esseri umani che lottano per la liberazione in questo mondo in fiamme.
La propaganda russa anche in Italia sta tentando in questi giorni, inutilmente, di infangare il loro nome e la loro traiettoria di lotta con fantasiose ricostruzioni che raccontano una inesistente collaborazione o subordinazione alle forze neonaziste ucraine. Chi conosce la storia, l’etica e la pratica di questi compagni caduti o chi si sia preso il disturbo di passare anche solo qualche giorno in Ucraina nell’ultimo anno e mezzo capisce che quelle che circolano sui canali filorussi sono solo manipolazioni e infamie.
Tuttavia è importante fermarsi a raccontare e approfondire la storia e il profilo di questi attivisti perché essi mostrano una ricchezza umana, un coraggio e una capacità di visione del futuro che dobbiamo difendere e rafforzare nella nostra pratica quotidiana. Nelle loro biografie, infatti, la guerra non appare come un valore in sé o come qualcosa da celebrare, ma come un elemento tragico e inevitabile nei conflitti per l’emancipazione delle classi subalterne. C’è un filo rosso che unisce le lotte nelle metropoli degli Stati Uniti e della Russia, nelle campagne dell’Irlanda e del Rojava, con quello che sta succedendo oggi sul fronte est dell’Ucraina.
Giudici della giustizia italiana levatevi la maschera e ridateci la forca!
Almeno la morte libera: si sale sul palco, si getta un grido alla folla e tutto finisce…
Meglio la morte, meglio la forca, la ghigliottina, la fucilazione!
Ridateci la forca! Almeno quella uccideva; era come l’attimo fuggente!
L’ergastolo è la tortura senza fine, è la disperazione eterna.
Carlo Molaschi, “Pagine libertarie”, 15 nov. 1921
«Ridateci la forca!», urlava cent’anni fa l’anarchico Carlo Molaschi ai giudici italiani che avevano appena rimesso in libertà un attentatore al re – Antonio D’Alba – dopo che nove anni di isolamento nel carcere di Santo Stefano gli avevano fatto perdere la ragione.
Mentre scriviamo queste righe non sappiamo come andrà a finire lo sciopero della fame di Alfredo Cospito, che ad oggi ha superato i cento giorni facendogli perdere più di quaranta chili di peso. Cospito è accusato di una “strage” che non ha provocato neanche un ferito – un ordigno fuori da una caserma dei carabinieri – qualificata come “strage contro la sicurezza dello Stato” (neanche piazza Fontana, la stazione di Bologna e Capaci sono state definite in questi termini). Per questo pende su di lui l’ergastolo ostativo, cioè senza possibilità di accedere ad alcun beneficio, rinchiuso in regime di 41-bis.
Non è un “errore giudiziario”: Cospito è un anarchico, un fiero nemico dello Stato, uno a cui prudono le mani e che ha già rivendicato un fatto come aver sparato alle gambe – all’indomani del disastro di Fukushima – a un manager di Ansaldo nucleare. Gesto per il quale ha già quasi finito di scontare dieci anni di carcere. Il suo sciopero della fame non è una scelta disperata, ma è parte di un percorso consapevole e di grande dignità. Su di lui si sta consumando la vendetta del potere, a futuro monito per chiunque osi ancora pensare e praticare, nelle molte e diverse forme possibili, l’idea di rivoluzione sociale.
Il regime carcerario 41-bis vuol dire sbattere una persona in cella e “buttare via la chiave”, come qualche forcaiolo ogni tanto invoca contro il mostro di turno. Vuol dire rimanere chiuso ventidue ore al giorno in una cella singola la cui finestra dà sui muri della prigione, dividere due ore con al massimo altre quattro persone scelte dalla direzione, avere diritto a un solo colloquio al mese senza contatti fisici e con vetro divisorio a tutta altezza, niente giornali, controllo e censura della corrispondenza in entrata e in uscita, limitatissimi i pacchi dall’esterno così come i libri che si possono tenere in cella (massimo cinque). È un lento annientamento fisico e psicologico, al quale sono condannati in Italia circa 700 detenuti. Come molti strumenti eccezionali, nati per far fronte a una “emergenza”, anche il 41-bis è stato poi reso ordinaria amministrazione, normalizzato e accettato nel silenzio generale.
Oggi non si usano più le tenaglie arroventate, ma lo Stato tortura lentamente con un metodo vessatorio che ha poco a che vedere con la presunta finalità di interrompere le comunicazioni tra “dentro” e “fuori”. Il lungo sciopero della fame di Cospito ha sollevato il velo su questa vera e propria tortura democratica che si consuma giorno dopo giorno nelle nostre carceri. Il movimento di solidarietà che si sta facendo sentire nelle piazze non chiede pietà per Cospito (né lui la vorrebbe) e neanche che lo Stato di diritto mostri la sua solidità permettendosi di umanizzare i regimi speciali di detenzione (questo lasciamolo dire ai “sinceri democratici”); chiede invece che la tortura cessi in maniera definitiva per tutti e tutte e che, in prospettiva, si incominci a discutere della necessità di liberarsi dal carcere in ogni sua forma, per una società che non ne abbia più bisogno.
In questo numero della rivista parliamo anche di altri argomenti che ci stanno a cuore (modelli di vita alternativi al sistema, nuove generazioni in lotta, recupero abitativo delle aree interne, utopia, storie sovversive, critica al mondo neotecnologico ecc.). Lo facciamo come sempre con articoli, interviste, traduzioni.
Non parliamo invece (ancora) di un’altra questione emersa in questi mesi e che ci riserviamo di approfondire: la costruzione a Pesaro di un laboratorio biotecnologico a livello 3 di bio-sicurezza, gestito dall’Istituto zooprofilattico sperimentale dell’Umbria e delle Marche. Si tratta di un laboratorio con annesso stabulario in cui verranno condotte su animali – come si legge nero su bianco nei documenti approvati dal Comune – «sperimentazioni e manipolazioni, in vivo e in vitro, di agenti virali pericolosi per la salute animale e dell’uomo». Sebbene siano previste elevate misure «di bio-contenimento e bio-sicurezza nei confronti di agenti infettivi», si sa che la prudenza non è mai troppa e che il rischio di incidente irreversibile (che sia per “errore umano” o per altre cause) è dietro l’angolo. La ricerca biotecnologica sta trasformando il mondo intero in un laboratorio e tutti noi in cavie, a vantaggio del profitto e del controllo sul vivente da parte di pochi, ci vorrebbe far vivere in un’epoca di emergenza permanente abituandoci a un mondo in cui non esiste confine tra applicazioni civili e militari degli agenti patogeni, tra il loro studio per difendersi da minacce esterne e la loro produzione come minaccia in quanto tale.
Ancora una volta, saremo tra quelli e quelle che resistono.
L’ultima volta che quella piazza ha visto delle grida così arrabbiate era un’altra epoca, prima della pandemia, prima della nuova guerra, prima che l’incubo dei fascisti al governo diventasse una triste possibilità. Era il 2019 e la piazza di Civitanova Marche si era accesa contro Pillon e il suo ridicolo papillon con una frizzante manifestazione senza chiedere permessi.
Poi cosa è successo? Perché ci siamo svegliati una mattina d’estate con l’inquietante uccisione di Alika Ogorchukwu sul marciapiede della provincia marchigiana? Il commissario regionale della Lega, Marchetti, il giorno dopo l’omicidio si distingue per una dichiarazione da fanta-fascismo: «la Lega vuole lavorare con serietà e concretezza per garantire sicurezza agli italiani […] non permetteremo che gli italiani continuino a vivere nella paura». Forse, nel loro mondo dei sogni, per gli squilibrati come Filippo Ferlazzo, squadrista per caso più che per vocazione, ci sarebbe un bel posto di lavoro come guardia di frontiera.
In tanti si sono accapigliati sul decidere se questo delitto, subito diventato virale sul web, fosse o meno un delitto razzista e se dovesse o meno essere inserito nella serie di cronaca nera aperta dal bullo di CasaPound Mancini a Fermo e continuata dal fallito leghista Traini a Macerata. La manifestazione del 6 agosto ha visto succedersi sulla stessa piazza due anime distinte e distanti. Un primo corteo partito in tutta fretta alle due del pomeriggio di un sabato estivo si è risolto come da copione nell’abbraccio tra sindaco di destra e locale comunità nigeriana, all’insegna della fratellanza universale. Fortunatamente, un paio di ore dopo, un secondo corteo organizzato dal Coordinamento antirazzista italiano ha provato a dare un senso alla giornata portando in strada rabbia e determinazione.
Eppure, cosa rimane nella memoria collettiva? Alcuni fotogrammi: il brutale omicidio di un nero povero da parte di un bianco, la storia di una persona che disturbava, che non valeva molto e che quindi è stata uccisa sotto gli occhi di tutti. Non è necessario che il movente razzista sia dichiarato: le pratiche istituzionali e informali di inferiorizzazione che colpiscono gli uomini e le donne nere, tutti i giorni, le trasformano in bersagli privilegiati della frustrazione e del risentimento che si scaricano sempre verso il basso. Pare che Ferlazzo, il giorno prima di uccidere Alika, abbia avuto un diverbio con il datore di lavoro: perché non è saltato al suo collo? Il razzismo, fomentato per anni da Salvini, Meloni e dai loro cosplayer locali, indica, anche a persone disturbate come Ferlazzo, dove si può colpire. Le linee sono già tracciate, lo spettacolo fa il resto. Già in passato avevamo visto come la consapevolezza degli effetti del razzismo fosse chiara e diffusa tra le giovani generazioni che avevano raccolto anche nelle Marche l’onda lunga di Black Lives Matter. Cosa manca per ribellarsi?
Sono alcuni anni che raccontiamo l’involuzione della nostra regione ma non perdiamo la speranza e l’attenzione verso i segnali di resistenza e di cambiamento, anche se oggi non si può proprio parlare di movimenti sociali né di forte antagonismo, purtroppo.
Il Pride regionale di Pesaro 2022 ha visto tuttavia una crescita nella qualità e nella quantità della partecipazione, mentre a Monte Urano si è svolto a fine luglio il primo festival transfemminista “FemFest”, facendo arrabbiare gli appassionati della trimurti “dio, patria e famiglia”. I temi della differenza e dell’identità di genere sono diventati persino mainstream, nei negozi alla moda delle piccole città marchigiane l’identità queer e il femminismo vendono bene come brand per adolescenti. Se da una par-te la società dello spettacolo digerisce tutto dall’altra, però, qualche elemento positivo di rottura e di innovazione generazionale arriva anche qua e non solo l’estetica ma anche la soggettività inizia forse a cambiare.
Ma non basta. Gli effetti del cambiamento climatico ci stanno prendendo a schiaffi da mesi, siccità, ondate di calore, sono stati il basso continuo di questa estate. Servono risposte urgenti, ovunque, ma intanto l’impianto più inquinante e negativo per il clima della nostra regione, la raffineria Api di Falconara, continua a bullizzare gli attivisti che dicono la verità, come nel caso di Roberto Cenci, onesto e ostinato ambientalista locale, a cui va la nostra solidarietà, portato in tribunale dall’azienda della famiglia Peretti per un paio di servizi usciti in tv. Peccato che poi in tribunale ci sia posto anche per Api: a luglio 2022 sono arrivati gli avvisi di garanzia per disastro ambientale e altre nocività che accompagnano il capitalismo fossile per diciassette indagati dell’azienda e per un ex-controllore dell’Arpam, l’agenzia regionale per l’ambiente.
Il processo è all’inizio ma secondo noi a Falconara non è solo l’aria a puzzare di marcio. Contrastare l’eco-mostro è diventato un obiettivo fondamentale, non più rimandabile e non certo delegabile ai tribunali, come dimostra la triste storia dell’Ilva di Taranto.Infine la guerra in Ucraina, dopo i primi mesi i riflettori si sono abbassati ma le conseguenze sociali, eco-nomiche e politiche del conflitto scavano in profondità. Anche sul nostro territorio sono state accolte tante persone con generosità ma la popolazione rimane divisa sulle cause e sulle ragioni del conflitto in corso e forse la generosità diminuirà quando aumenteranno le bollette del gas. Le Brigate Volontarie per l’Emergenza hanno mandato un loro delegato a Kiev per provare a capirci qualcosa di più e per esplorare la possibilità di sostenere la piccola ma tenace scena anticapitalista e antifascista ucraina. Vi raccontiamo anche questa storia internazionalista e vi lasciamo a questo nuovo numero della Rivista, ricco come sempre di racconti, reportage e interviste, dalle Marche, dall’Italia e dal mondo.
Non sapevano che fosse impossibile, allora lo hanno fatto. Mark Twain
Facciamola semplice: sono tempi duri, niente sarà più come prima.
Questa consapevolezza si fa strada in noi, e non è l’eccesso di durezza di questi tempi a preoccuparci, ma la mancanza di lucidità nel continuare ad aspettare che la tempesta virale passi per tornare alla vita di sempre. È urgente fare nostri questi tempi duri, non aspettarne altri, perché la necessità di fermare il disastro riempie il presente di possibilità.
In questo numero proprio perché è più difficile viaggiare in tempi pandemici vi portiamo a fare un giro per il mondo, raccontando altri disastri più “classici” dal punto di vista di chi ha coraggio e rabbia da vendere: neo-colonialismo in Africa, brutalità di Stato in Brasile, campi di concentramento per migranti a Lipa in Bosnia.
Nei tempi duri però non siamo del tutto scoperti. Lo sforzo per costruire altri modi di vivere è costante e tenace anche nei nostri territori. La polisportiva Ancona Respect compie 20 anni di storia e non solo ha difeso il calcio popolare ma lo ha aperto anche alle bambine e alle ragazze, il collettivo Caciara proprio nella sventurata Ascoli si batte per mantenere pubblica la biblioteca comunale, le donne di tutte le età scendono di nuovo in strada per rispondere alle aggressioni della giunta di Acquaroli, Ciccioli e altri “nazisti dell’Illinois” che vogliono trasformare le Marche in una distopia familista.
Raccontiamo anche come è nata e come si sta rafforzando l’opposizione alla didattica a distanza nelle Marche. L’uso e l’abuso della rete internet e delle piattaforme digitali, proprietà dei soliti padroni del mondo, da salvagente d’emergenza per non sentirsi soli durante il primo lockdown è diventato un ingombrante e dannoso strumento autoritario che attanaglia la scuola italiana. Siamo alla terza ondata e l’imbuto digitale di marca Google in cui sono scomparsi milioni di studenti viene messo in discussione da una minoranza che sta crescendo. Quella di Priorità alla Scuola è anche una bella storia di auto-organizzazione ai tempi del Covid-19 e non a caso il suo motore sono le donne che stanno soffrendo e pagando di più l’impatto dell’epidemia e dell’incompetenza istituzionale.
Lo sviluppo del digitale porta con sé contraddizioni e rischi enormi che si avvistano quando si ascolta il dibattito sulla Intelligenza Artificiale. Per aumentare la nostra ostilità nei confronti di chi vuole trasformarci in una funzione algoritmica e lavora anche nelle nostre università è necessario studiare meglio e di più. Per questo abbiamo ricordato che anche un rapinatore può scrivere di filosofia, forse meglio di chi non ha mai messo in discussione una banca, Bernard Stiegler insegna.
Oggi poi si fa fatica anche a scendere in piazza per una manifestazione pacifica e paciosa. Le giuste precauzioni anti-covid sono diventate anche una scusa per restringere gli spazi di manifestazione e di espressione e in troppi si stanno abituando. La storia ci insegna che tocca prendersi qualche rischio per difendere la libertà. La rivoluzione non sarà su Zoom. Per questo, ad esempio, ci riempie sempre di gioia e di speranza leggere di guerriglie che parlano più lingue e che hanno la pelle di tanti colori, come quella condotta con coraggio e intelligenza contro i fascisti dal Corno d’Africa al Monte San Vicino. Per questo abbiamo il dovere di portare con forza e con rabbia, fuori dalle mura delle carceri del nostro paese, le voci di chi oggi è privato e privata della propria libertà, di chi si è ribellato e di chi ha perso la vita per mostrarci con la lotta che non sempre “lontano dagli occhi” vuol dire “lontano dal cuore”.
Diciamocelo: la cosiddetta “classe dirigente” non ha idea di come uscire da questa situazione. Per mesi il governo italiano, in buona compagnia con quello degli altri paesi, è stato incapace di elaborare un piano decente, riducendosi poi, di fronte al disastro imminente della “seconda ondata”, a imporre soluzioni improvvisate. Ha fustigato gli irriducibili furbetti della movida, chiuso a doppia mandata – nonostante il rispetto dei protocolli di sicurezza – i luoghi dello sport, dello spettacolo e della cultura, abbandonato al suo simulacro digitale e ai colpi di testa dei vari governatori il sistema scolastico. Nessuna strategia di potenziamento della sanità territoriale, nessuna mossa fatta per decongestionare il trasporto pubblico nelle ore di punta, tanto per dirne due. E poi la trovata del divieto di uscita notturna, per di più esteso a prescindere su tutto il territorio nazionale: una misura poliziesca e militare che non ha nessuna ragionevole efficacia nel contenimento dell’epidemia.
Insomma, una sbandierata di solerzia e rigore basata sulla distinzione tra l’essenziale (l’economia) e il superfluo (tutto il resto). La logica dei famigerati DPCM è infatti una sola: salvaguardare produzione e circolazione di merci. Per questo le persone improduttive vengono relegate in casa, mentre chi ancora un lavoro ce l’ha può uscire per lo stretto necessario allo svolgimento della propria mansione. Cosa che in altro contesto si chiama “semilibertà”. Al momento, qui nelle Marche, per ogni esigenza di movimento fuori dal proprio comune bisogna sopportare l’umiliazione dell’autodichiarazione scritta, e in ogni caso si resta alla mercé dello sbirro di turno che può non considerare valida la giustificazione.
Se è necessario adottare precauzioni di distanziamento fisico, in particolare al chiuso, che lo si faccia senza tanto urlare alla “dittatura sanitaria!”, ma basta con la retorica della colpevolizzazione dei comportamenti individuali amplificata a dismisura dai media e con l’accettazione di qualunque sopruso in nome dell’emergenza pandemica. Basta con provvedimenti che sono repressivi più verso le libertà di base che verso il contagio. Non siamo ossessionati dalle mascherine, anzi riteniamo utile indossarle quando necessario, questo non vuol dire mentre si cammina al parco alle sette di mattina. Soprattutto se poco dopo si è costretti – e qui non c’entra la responsabilità del singolo ma l’amministrazione della società – a salire su un autobus già pieno per raggiungere un luogo di lavoro dove l’attenzione alla salute è sempre l’ultimo punto all’ordine del giorno.
Se la società in cui viviamo, bravissima a produrre disastri e molto meno a porvi rimedio, è del tutto inadeguata ad affrontare la pandemia, è d’altra parte tragicamente manifesta l’incapacità da parte “nostra” di cogliere l’opportunità che questa imprevista rottura ha determinato. Qualche risposta, è vero, c’è stata, pensiamo ad esempio a tutte le iniziative di mutuo appoggio e solidarietà dal basso, ma continua a mancare una visione d’insieme che faccia leva sulle crepe aperte e possa imporre la necessità di un deciso cambio di rotta. Ci pare infatti che non abbiamo di fronte solo un’emergenza sanitaria che pure è assolutamente reale, da superare ricorrendo alle forze della medicina – e qui ci sarebbe da discutere molto su come sono stati ridotti e semplificati i concetti di salute e cura – ma stiamo attraversando una crisi globale che dovrebbe mettere alla prova la tenuta di tutto un sistema. E la soluzione – per noi – non sta nel chiudersi in casa e reclamare allo Stato il diritto a un reddito di sopravvivenza, tantomeno nel ritorno alla “normalità” precedente, ma nel saper immaginare e quindi praticare un altro modello di vita.
Il primo lockdown, quello di primavera, era stato più o meno accettato come una novità inevitabile, mentre il secondo, anche se più “morbido”, ha fatto montare la collera di chi subisce con più forza le conseguenze sociali della pandemia. In molti hanno ritirato le bandiere “andrà tutto bene” e dai balconi sono scesi in strada, dove sono esplose le contraddizioni della protesta: sullo stesso selciato gli esclusi di sempre, chi non ha niente da perdere, insieme a quei padroncini che da sempre campano sul lavoro precario e sfruttato, a giovanissimi alle prime esperienze, qualche compagno e vecchi marpioni fascisti. Pur tenendoci bene alla larga di chi nega l’evidenza di questo virus malefico, ci interessa capirne di più e vedere quali spiragli d’azione si potrebbero aprire, per questo abbiamo chiesto ad alcuni/e amici, amiche e compagni/e in giro per l’Italia di raccontarci quel che è successo dalle loro parti. In questo numero potete leggere corrispondenze da Ancona, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Torino e Trieste.
Torniamo poi al degrado della
nostra regione. Lo facciamo con un articolo di analisi sui centri di potere e
sulle prime malefatte del neonato governo Acquaroli. Ma anche da queste parti,
di tanto in tanto, accade qualcosa che ci rincuora, ne è un esempio la
manifestazione delle donne che si è svolta a Macerata agli inizi di novembre:
ne raccontiamo le motivazioni immediate e profonde.
Con una intervista a Erica Lagalisse, autrice di un libro sul tema, affrontiamo un argomento spinoso: le “teorie della cospirazione” o, se volete, il “complottismo”, in una prospettiva rivoluzionaria. Attenzione: lettura non adatta ai deboli di spirito. In questo mondo strano è esistita anche una scena punk marchigiana dagli anni Settanta in avanti, la raccontiamo con una doppia intervista ad Alessia Masini, ricercatrice in storia, e Carlo Cannella, voce di terribili gruppi punk hardcore come Dictatrista, Stige e Affluente. E ci aggiungiamo un pezzo di un punk marchigiano ante litteram: niente meno che Giacomo Leopardi.
La pandemia ci ha ricondotti all’animalità dell’essere umani e con l’antropologo Stefano Boni parliamo di come la nostra specie – “homo comfort” – viva con sempre più ribrezzo il contatto con lo sporco della natura (e di questi tempi abbondano le generose strofinate di gel igienizzante), mentre Andrea Staid ricorda David Graeber, una figura centrale per il pensiero libertario contemporaneo, morto improvvisamente il 2 settembre a Venezia. A seguire, il giardiniere anarchico Libereso Guglielmi ci trascina nel magico mondo delle erbe e dei fiori commestibili, e con Bertrand Louart torniamo a interrogarci su una vita libera dalla tirannia del capitalismo industriale. Non manca infine la consueta pagina delle recensioni, ma visto che di libri da leggere ne sono usciti parecchi e lo spazio di queste pagine non è infinito, inauguriamo anche una rubrica di brevi segnalazioni editoriali.
Un’ultima cosa: insieme a questo
numero abbiamo pubblicato un piccolo libro, in occasione del cinquantenario del
naufragio del peschereccio Rodi e della conseguente rivolta di San Benedetto
del Tronto (dicembre 1970-2020). È un auspicio affinché tutte le terre, anche
quelle più assuefatte alla pace sociale, possano ribellarsi alle ingiustizie,
oggi come allora.
Pergola, 24 settembre 2016, amichevole locals-refugees, diamo un calcio al razzismo. Foto di Laura Rapone
Il tempo non smussa la rabbia che abbiamo provato nelle calde giornate di inizio luglio, quando un fascista ha ucciso a pugni un uomo perché aveva la pelle di un colore diverso a Fermo, nell’ombelico della provincia italiana, sotto casa nostra. Il tempo passa e un po’ dappertutto l’impazienza cresce per delle condizioni di vita che non cambiano, anzi la disuguaglianza tra ricchezza e povertà, tra futuro e mancanza di opportunità aumenta anche nelle nostre terre che in anni già lontani venivano vendute con lo slogan “tranquillamente Marche”. I fascisti cercano di raccogliere il malcontento e nel caso di Fermo sembra che ci stiano riuscendo, ma la loro strada sarà piena di ostacoli come quello rappresentato dagli amici di Pergola del nuovo Coordinamento antirazzista della Valcesano ritratti in copertina, che hanno rotto la parete invisibile della diffidenza e hanno coinvolto i rifugiati in uno spazio di azione e riflessione comune.
Questo numero di Malamente si apre con una finestra sul terremoto che dal 24 agosto ha iniziato a colpire le zone appenniniche della nostra regione e di Abruzzo, Umbria e Lazio. La solidarietà dal basso che si è mossa ci ha sorpresi, ci ha visti coinvolti e ha aperto delle domande sul senso e sulle prospettive dell’auto-organizzazione nei disastri, di oggi e di domani, che dovrebbero trovarci maggiormente preparati e meno dipendenti dagli specialisti dello Stato. Poi siamo ritornati a Fermo per raccogliere il primo tassello di un’inchiesta sul neofascismo nella nostra regione che è sempre più urgente. Noi proviamo a fare la nostra parte e speriamo che altri si muovano nella stessa direzione, di certo non è più tempo di cullarsi nel pacifismo e nella troppa tolleranza del passato recente.
All’opposto della grettezza provinciale di alcuni c’è però la generosità internazionalista di altri uomini e donne che da Pesaro sono arrivati fino a Salonicco, per documentare le condizioni di vita dei respinti dai muri alle frontiere dell’Unione Europea e per provare a prendere a calci le reti che li rinchiudono. Facciamo poi tappa sulle montagne e sulle colline in cui convivono storie di decadenza e sfruttamento con storie di vita e di liberazione. La parabola dell’industria pesante a Sassoferrato ci parla della fragilità delle cosiddette “aree interne”, usate e poi gettate via dai democristiani di ieri e di oggi, mentre la storia dell’apicoltura Corbecco, tra Urbino e Fossombrone, ci illumina con la speranza di una nuova vita per l’agricoltura e per la condivisione nelle campagne.
Ci sono ancora pagine anche per condividere la nostra riflessione sullo sfruttamento della terra e sui danni della tecnologia come strumento di potere, che si concretizza, passata l’estate e i suoi tormentoni, in un’inchiesta sullo stato del litorale adriatico consumato dall’industria del turismo e in una traduzione inedita in italiano di uno scritto di Miguel Amorós sulle basi dell’anti-industrialismo. In conclusione proponiamo come di consueto un contributo sulla storia delle lotte sociali del territorio con una scheda biografica che sa farci anche sorridere e, infine, spazio alla recensione.
Eccoci arrivati al n. 6 di Malamente, dopo un percorso di quasi due anni, con un paio di novità importanti. La prima riguarda il fatto che ci siamo “messi in regola” di fronte alla legge. Siamo entrati e usciti da quel postaccio che è il tribunale, abbiamo consegnato a un grigio funzionario qualche carta firmata e così da questo numero la rivista è ufficialmente registrata. Tanto dovevamo per non incorrere nel reato di “stampa clandestina” con tutti i guai che avrebbe comportato (eventuali denunce, multe, sequestri), perché così prevede la legge sulla stampa del 1948, ancora in vigore. La repubblica democratica non ha infatti cambiato la sostanza di molte leggi fasciste, comprese quelle sulla stampa che risalgono allo Statuto albertino del 1848, dove con sfacciata perentorietà un principio veniva affermato e negato nel giro di due battute: “la stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi”. Pubblicare un giornale, da allora, non è più un privilegio concesso dal sovrano, quello che il potere concede è la libertà di espressione, salvo poi reprimere quanti a suo dire ne abusano. Sempre del 1848 è la prima legge speciale sulla stampa, che introduce la figura del “gerente responsabile”, chiamato a rispondere di tutte le incriminazioni che avessero colpito il giornale. Oggi quel “gerente” è chiamato “direttore” e deve essere iscritto all’ordine dei giornalisti. Pur senza voler generalizzare possiamo dire di non provare particolare simpatia per questa categoria, ma abbiamo incontrato la disponibilità di un compagno, giornalista per caso, e lo ringraziamo per essersi assunto l’onere di registrarsi come “direttore” di Malamente.
La seconda novità è che siamo sempre più social. Malamente è una rivista di carta. L’avete sfogliata, letta e riletta, presa in prestito, regalata. Ce ne avete ordinate tante copie, magari l’avete trovata in qualche posto che frequentate. Il percorso che trasforma ogni numero dall’idea a qualcosa che si può tenere tra le mani è complesso e prezioso. Non potremmo desiderare niente di diverso: articoli, letture, approfondimenti vengono condivisi, discussi, elaborati e soprattutto vissuti, fino a trovare la loro forma di espressione sulla carta. Un materiale concreto e non volatile come vuole essere lo spazio di critica e di intervento della nostra rivista. Al tempo stesso però Malamente vuole essere più di un oggetto, da scaffale o da strada che sia. Vuole essere un luogo di incontro, condivisione e confronto; un terreno dove l’informazione può diventare azione e viceversa. Ma soprattutto uno spazio che superi i limiti della geografia per innescare nuove connessioni e complicità. Per questo, dopo un lungo confronto e – non nascondiamo – un po’ a malincuore, abbiamo scelto di dotarci di uno strumento in più. Un territorio immateriale, appunto, che con tutti i suoi limiti ci può dare la possibilità di entrare in contatto con i lettori in uno spazio virtuale che serva per organizzare incontri reali, per rilanciare più in là le storie delle lotte che raccontiamo e alle quali partecipiamo. Da qualche mese potete quindi leggerci anche su Facebook. Qui, nei mesi che separano l’uscita di un numero dall’altro, cerchiamo di mantenere acceso e vivace il dibattito intorno agli argomenti che ci stanno a cuore. Se da un lato il canale Twitter ci aiuta nella condivisione e nella copertura di notizie nel contingente, abbiamo immaginato la pagina Facebook come un luogo dove riflessioni e approfondimenti possano continuare a crescere e trovare nuovi stimoli aggregativi da trasportare poi dentro la rivista e soprattutto fuori. Immaginiamo la nostra pagina non come un punto d’approdo dove esaurire la potenza del dibattito che Malamente può offrire, ma come un luogo di passaggio dove ritrovarci in attesa del prossimo numero.
Mister Thoms – Like a vision, Ferentino (FR)
In questo numero partiamo dai territori colpiti dal terremoto. La storia è nota, anche a tanti nostri lettori e lettrici, ed è stato già detto molto. È tempo piuttosto di agire. Siamo tornati a leggere Giacomo Leopardi, più sovversivo di quanto le gabbie della critica vogliano far credere, per ricordarci che non è da poco che le cosiddette catastrofi scuotono prima ancora che gli edifici, le fondamenta della vita sociale. La storia che raccontiamo è iniziata a Bolognola, un piccolo paese dei Monti Sibillini e vorremmo che non si fermasse lì. Sempre muovendoci sulla schiena montuosa della nostra regione torniamo a Pergola dove si sono riuniti giovani artisti della scena hip hop locale, ascoltandoli capiamo che i provinciali hanno “tigna”, cioè tenacia da vendere e nessuna inferiorità rispetto ai cugini di città, anzi possono sorprendere con inediti freestyle. Centrale in questo numero è poi la riflessione sui diritti delle donne, sulle loro lotte e su quanto le istituzioni mediche siano il riflesso dei rapporti di forza tra i sessi e dentro la società. Alleghiamo alla rivista una pratica guida all’interruzione volontaria della gravidanza perché sentiamo che c’è nuovamente bisogno di fare anche informazione di base su questo diritto. Una veloce intervista presenta la realtà bolognese dello Spaccio popolare autogestito e poi il nostro chiodo fisso per le pagine rimosse della storia sociale ci porta sul terreno della diserzione e dell’antimilitarismo nel cruciale anno 1917 in provincia di Pesaro. Il rifiuto della servitù militare è una virtù da coltivare proprio oggi che troppi sedicenti compagni tifano per i bombardamenti russi su Aleppo o non comprendono il peso che l’apparato militare e industriale ha nelle scelte politiche del governo italiano. Infine una preziosa traduzione di un testo di Bertrand Louart sulla falegnameria ci propone di riflettere su quanto il lavoro manuale e creativo, con la libertà che ne è alla base, sia fondamentale per la società umana. Completa questo numero una recensione che speriamo piacerà ai nostri amici che abitano sulle Alpi occidentali, ma che può ispirare tante altre periferie geografiche e sociali. Si tratta della riedizione per i tipi delle edizioni Tabor di una storia delle rivolte occitane, eresie potenti che ancora risuonano nella pancia dell’Europa tecnocratica di oggi.
Lo stesso nome e un destino simile uniscono Emmanuel Chidi Nnamdi ed Emmanuel Nnumani. Per entrambi un lungo viaggio alle spalle che li ha condotti dalla Nigeria all’Italia, costa adriatica, dove sono diventati protagonisti e vittime di storie di ordinario razzismo. Del primo, ucciso a Fermo da un picchiatore amico di CasaPound, abbiamo parlato nel numero 5; l’altro, nel momento in cui scriviamo, è stato invece dichiarato fuori pericolo e trasferito dall’ospedale Infermi di Rimini in una struttura di riabilitazione, dove lo attende un lungo percorso. Insultato, picchiato, accoltellato e investito da un altro razzista di provincia. Per lui i giornali non hanno sprecato troppo inchiostro: la notizia ha tenuto le prime pagine della cronaca locale il tempo di essere ridimensionata a un episodio scatenato da “gravi problemi psichiatrici” dell’aggressore, in cui la matrice razziale e xenofoba non aveva ragione di esistere. A completare l’ipocrisia, Emmanuel ha ricevuto dal prefetto, in via straordinaria, un generoso permesso di soggiorno di appena un anno per motivi umanitari: questo è il valore di una vita strappata per caso alla morte per mano razzista, una tra tante. Proprio per questi motivi crediamo che l’antifascismo non sia solo retorica da 25 aprile e chi soffia sul fuoco dell’intolleranza non vada derubricato né lasciato in pace, nemmeno per un attimo.
Così è, ed è stato, per Matteo Salvini, contestato ogni volta che si è affacciato su una piazza per mettere in scena le sue “salvinate”: l’articolo di apertura lo dedichiamo proprio alla becera comunicazione dello showman leghista e alle tante contestazioni che lo hanno affrontato anche nelle Marche e in Romagna. Proseguiamo con l’analisi di una rogna che riguarda giovani e meno giovani: la necessità di trovarsi un lavoro, necessità e condanna di tutti noi come spiega il detto “voja de fadigà salteme adosso / fadiga te padròn che io nun posso”. Restando fedeli all’attenzione alla terra che abbiamo sotto i piedi, dedichiamo poi un lungo approfondimento al “parco” eolico che qualche azienda tutt’altro che green ha piazzato sul territorio dell’Appennino pesarese, nei pressi di Apecchio. Sono le stesse montagne segnate dal tracciato del mega gasdotto Brindisi-Minerbio, grande opera collegata alla Trans Adriatic Pipeline (TAP), contro la quale si sono già mobilitati i salentini non assuefatti alle nocività industriali. Come dice il proverbio “chi ha tempo non aspetti tempo”: quando, e se, le macchine scavatrici arriveranno da queste parti sarà probabilmente troppo tardi per opporsi. Da parte nostra seguiamo con attenzione l’evolversi di questa lotta che si preannuncia lunga, complicata ma anche ricca di occasioni di incontro ed esperienza. Insomma, anche nell’Italia centrale non mancano territori da sottrarre alle grinfie dell’economia e dello Stato.
Cosa abbiamo in mente quando parliamo di “territorio”? Su questo concetto pensiamo sia il caso di cominciare a chiarirci le idee e lo facciamo con il ricco contributo di Miguel Amorós che pubblichiamo come supplemento, visto che non ci bastavano le pagine. Per restare sul territorio e approfondire la discussione sulle relazioni tra differenze di genere, potere e cambiamenti possibili, diamo spazio a un progetto di auto-conoscenza e consapevolezza femminile. Il Lunario della Dea è uno strumento pratico che parte dai segnali del corpo, ideato e condiviso da una donna marchigiana che abbiamo intervistato allargando la discussione alle molteplici dimensioni del vivere femminile. Infine proponiamo un contributo sull’educazione libertaria, le cui sperimentazioni si stanno diffondendo in più parti d’Italia. In chiusura questa volta non una ma ben due recensioni, anche se più brevi, che inaugurano la rubrica aperiodica: “libri da rubare vs libri da comprare”, perché anche quello che non ci piace a volte va letto, ma preferiamo non pagarlo.
Intanto proseguono i nostri incontri pubblici di presentazione della rivista e di approfondimento di singoli temi come la partecipazione al “Ratatà” di Macerata, festival di illustrazione, fumetto ed editoria indipendente, e al festival “Una montagna di libri nella Valle che resiste” in Val di Susa dal 16 al18 giugno, segnatevi la data! Per questa estate abbiamo anche in programma una piccola – o forse grande – festa di Malamente… seguiranno aggiornamenti, cercateci anche sui dannati social network.
Il prossimo numero è previsto per inizio settembre: speriamo allora che, di nuovo, non ci bastino le pagine per accogliere le vostre proposte e suggerimenti, ma soprattutto che oltre alle parole ci seguano, e parlino per noi, anche le pratiche e le azioni nei prossimi mesi.
Abbiamo molti difetti, lo sappiamo, e l’uscita in ritardo di questo numero lo dimostra, ma abbiamo sicuramente anche delle teste dure: avete in mano il numero 10 del nostro progetto non per caso.
L’inverno che sta finendo si è purtroppo contraddistinto per l’ignoranza e la cattiveria di una campagna elettorale degna della infame classe politica che la anima. L’odio fascista dai social network ha invaso le strade e ha colpito forte. Un delitto efferato, il crimine come metà oscura della normalità, il fascismo armato che coglie l’occasione per sparare nel mucchio. Siamo ripartiti proprio da dove nessuno si sarebbe aspettato una risposta. Macerata è una città normale e proprio per questo piena di contraddizioni e problemi non risolti. In una provincia, come tante, rinascono iniziative politiche dalla base, cospirazioni vitali, dignità. Il racconto dello storico corteo del 10 febbraio ci proietta verso l’apertura di una stagione di incontri e di progetti nella nostra regione, vorremmo accompagnarli come abbiamo sempre fatto, ascoltando, parlando, facendo.
In questo numero raccogliamo come sempre racconti dalla voce dei protagonisti e delle protagoniste e diamo spazio a storie inedite o dimenticate di resistenza e solidarietà.
Antifa Macerata è un progetto giovane che ha recentemente proposto, con la condivisione di un documento in rete, una riflessione aperta a tutti i militanti nelle diverse città d’Italia sulle pratiche e le strategie del contrasto al fascismo. Con loro abbiamo parlato della settimana nera delle Marche, della risposta militante, del grande corteo a cui abbiamo partecipato e di quello che c’è dietro le quinte della piccola città. La recensione del documentario “On the road” di Piers Sanderson ci ricorda che la violenza contro le donne ha un lato quotidiano e strutturale proprio sulle nostre strade: la prostituzione forzata, la repressione delle migrazioni, il razzismo: l’indifferenza non ci è permessa. Ci penserà poi una spigolatura di Joyce Lussu a ricordarci che la provincia marchigiana non è sempre stata rose e fiori. Quando alla fine del Settecento l’onda giacobina ha attraversato queste terre se ne sono viste di cotte e di crude. A proposito di storia, ogni tanto torniamo a Urbino dove, al di là di ogni pronostico, troviamo ancora vivo e attivo un sottobosco di studenti e studentesse insubordinati: la Libera Biblioteca De Carlo si racconta.
In questo numero, complice forse anche il freddo becco delle ultime giornate di febbraio ci siamo rivolti specialmente verso le montagne che ci portano con pazienza sulla loro schiena. In Abruzzo, a Sulmona, il progetto del gasdotto prosegue, come prosegue anche l’organizzazione di una difficile ma necessaria opposizione ai veteropetrolieri. Ha già meno bisogno di loro e del loro velenoso mondo chi sa recuperare tecniche dimenticate e quasi magiche, come quelle per l’autoproduzione del colore blu che ci racconta Luigi. Fare con le nostre mani e con le erbe non è ecologico solo per l’ambiente naturale, ma anche per le nostre menti.
Dalle parti di Pergola, invece, ci arriva un racconto sensibile e documentato su una educazione sentimentale appenninica: l’amore per la montagna può essere un sentimento di apertura, una volontà di incontro e non di isolamento.
Infine in questo numerone 10 non abbiamo badato a spese e pubblichiamo un caustico pamphlet rivoluzionario di Philipponneau, membro della rivista radicale Encyclopédie des Nuisances, la cui traduzione è a cura nostra. E siccome la primavera si affaccia dietro l’angolo di questa buriana, abbiamo scelto di arrivarci preparate e preparati con le previsioni astrologiche di Astronza che ci racconta perché guardare il cielo e le stelle è come guardare in noi stessi, attitudine che come rivoluzionari dovremmo sempre coltivare.
Prima di partire, ci prendiamo ancora un momento per dedicare un ricordo a un compagno che ci ha lasciati da poco. A gennaio una brutta malattia ha avuto la meglio su Donato Romito: maestro elementare, sindacalista di base, compagno sempre in prima fila, pronto a stringerci la mano anche se su molte cose avevamo punti di vista differenti. Donato è stato fin dagli anni Settanta un comunista anarchico, convinto della necessità per gli anarchici di un’organizzazione compatta e strutturata, sempre estremamente lucido e coerente sulle sue posizioni. Originario della Puglia, è stato per decenni un punto fermo per quello che possiamo chiamare “movimento” della provincia di Pesaro e Urbino, e oltre. Una cerimonia laica con canti e bandiere rossonere ha riscaldato le lacrime dei presenti e ci ha ricordato che questa vita è troppo breve per lasciarla scorrere senza godere e lottare.
Signori, il tempo della vita è breve. Ma quand’anche la vita, cavalcando la sfera del quadrante, giungesse al suo traguardo dopo un’ora, anche quel breve corso sarebbe esageratamente lungo, se trascorso in un’esistenza vile. Se vivremo, vivremo per calpestare i Re.
William Shakespeare, Enrico IV
C’erano una volta i quartieri popolari antifascisti e le campagne dove rossi, bianchi e neri si prendevano a cazzotti e a volte passavano alla rivoltella, c’era una volta tutta la litania del tempo che fu, nel quale l’attesa di una liberazione magica ha nascosto per troppi la verità di un’oppressione assolutamente concreta. Così il ritornello popolare “addavenì baffone” più che una professione di fede nello stalinismo è stato una tenue speranza nella giustizia a-venire, una preghiera o una bestemmia. Poi è arrivato il benessere, al baffone sono caduti barba e baffi e quasi tutti si sono scordati che le differenze tra idee non si possono sempre risolvere con un caffè al bar o con una chiacchierata, perché spesso riguardano visioni del mondo, forme di vita, interessi concreti.
Siamo arrivati a oggi, l’oppressione ha preso la forma dell’esclusione del debole, del diverso, dello straniero e non possiamo evitare di parlare dei toponi di fogna con la tartaruga sulle magliette. Casapound e la sua cricca di associazioni fasciste hanno preso fin troppo piede, anche nelle Marche. Come rivista abbiamo partecipato allo sforzo collettivo degli antifascisti e antifasciste di Ancona per denunciare e boicottare la presenza dei fascisti del terzo millennio nel capoluogo. Il 2 dicembre siamo stati in corteo, convinti che sia il punto di inizio di un percorso in salita. Il presidente dell’Accademia di Babele e i sinceri liberali che hanno ospitato i fascisti si sono barricati dietro la polizia e dietro qualche citazione farlocca di Voltaire. Non riescono a concepire come si possa negare il diritto di parola a qualcuno. Come se parole e azioni fossero due mondi separati. Come se quello che ci oppone ai fascisti fosse una giostra di diverse “opinioni”. Propagandare intolleranza e razzismo sono solo delle legittime opinioni? Soffiare sul fuoco della guerra tra poveri è solo un’opinione? Cancellare dalla memoria storica la tragedia di un ventennio di dittatura è un’opinione con cui confrontarsi? Vediamo giorno dopo giorno quello che succede nelle Marche, in Italia e altrove: le aggressioni e anche i morti per mano fascista. Chi concede spazi e agibilità a questi soggetti nascondendosi dietro il mantra della democrazia o è uno sciocco o è un complice, spesso entrambe le cose. Per questo condividiamo le parole che aprivano lo striscione ad Ancona: “Non ve volemo”. È ora di cominciare a ripeterlo più spesso e più forte.
>La nostra anima antisessista e antirazzista ci spinge inoltre a ricordare i ripetuti episodi di violenza di genere che hanno oltraggiato il nostro territorio, e non solo, negli ultimi mesi, strumentalizzando per l’ennesima volta il corpo della donna e trasformandolo in una chiave con cui chiudere la porta ai movimenti migratori e alimentare le politiche razziste e securitarie. Sulla scia delle manifestazioni femministe che al grido di Non una di meno lo scorso 25 novembre hanno dipinto di viola le piazze a livello globale, ribadiamo che la violenza di genere è diretta conseguenza di una cultura patriarcale che globalmente permea tutti gli spazi del vivere quotidiano, quelli pubblici e quelli privati, quelli culturali e quelli politici. Il potere patriarcale non può essere declinato a seconda della provenienza geografica di chi viola il corpo di una donna. La violenza di genere non ha lingua né colore e no ha un unico significato: no.
Venendo alle nostre pagine, l’autunno di quest’anno ci ha regalato per fortuna due presentazioni della rivista che ci hanno scaldato il cuore. Non i soliti spazi sociali, librerie o festival, che pur frequentiamo con piacere, ma una barbieria di Senigallia, di quelle dove tra forbici e rasoi regna ancora la discussione, e un casolare nelle campagne urbinati, uno di quei luoghi speciali dove incontrare bella gente che sa ancora alzare i calici per brindare alla vita. “Malamente” si nutre proprio dei rapporti di complicità che incontra sulla sua strada, speriamo quindi che occasioni di questo tipo si moltiplichino nel tempo.
In questo numero abbiamo approfittato della disponibilità dell’antropologo Stefano Boni, amico e compagno, per parlare con lui di esperienze di vita in collettività, cioè del mettere le basi per la possibilità di un vivere altro e migliore. Tante sono le ragioni, ma anche non poche le difficoltà, per la costruzione di piccole comunità di individui e famiglie che sappiano mettere al primo posto l’interazione umana e solidale e, allo stesso tempo, sappiano pensarsi non come isole felici in una società in rovina, ma come nuclei di resistenza al mondo delle merci e del denaro. L’occasione ci è stata data dall’intervento di Stefano alla giornata inaugurale di un progetto di convivenza tra le colline e il mare, che promette interessanti sviluppi.
Parliamo poi degli incendi che la scorsa estate hanno funestato i boschi. Con i roghi del San Bartolo e delle Cesane, in provincia di Pesaro e Urbino, abbiamo visto il fumo e le fiamme da molto vicino, ma per raccontare come una comunità può darsi da fare senza aspettare a mani giunte l’acqua sganciata dal cielo siamo andati in Abruzzo, tra i fusti anneriti del monte Morrone, per intervistare chi era in prima linea durante i roghi d’agosto. Sempre sul tema degli incendi ospitiamo anche un gradito contributo proveniente dalla Val di Susa, con l’auspicio di continuare a gettare ponti tra i “nostri” Appennini e le Alpi.
Come chi ci segue da tempo ormai sa, cerchiamo di non far mai mancare un racconto storico su fatti che ci appassionano e difficilmente si trovano nei libri di scuola. Questa volta partiamo dal piccolo porto di Fano per addentrarci in un intrigo internazionale dai contorni mai del tutto chiariti, legato alla guerra di liberazione algerina degli anni Cinquanta e Sessanta. Un altro chiodo fisso di qualche nostro redattore è la critica antindustriale e anche su questo numero pubblichiamo un denso articolo in traduzione, da leggere con calma e su cui riflettere. Questa volta non consigliamo un libro “da rubare”, ma solo un progetto editoriale “da sostenere”: Cavallino rivista ed editrice, con cui contiamo di avviare una collaborazione e già su queste pagine trovate una bella illustrazione realizzata da uno dei loro disegnatori.