A Senigallia. La fabbrica della morte (#3)

A Senigallia. La fabbrica della morte
Di Andres

Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di 'O Sarracino
Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di ‘O Sarracino

 

L’amianto, o asbesto (dal greco “inestinguibile”) è stato un materiale largamente utilizzato in molti settori produttivi per via della sua facile lavorazione, della sua forte resistenza all’usura e al calore. Fin dagli anni trenta del ’900 è dimostrato che l’ingestione o l’inalazione delle sue fibre è altamente tossica e cancerogena, ma la proprietà del brevetto e le ditte produttrici hanno imposto il silenzio per difendere i profitti, di fatto esponendo a rischi mortali milioni di lavoratori e abitanti. La produzione di amianto in Italia è vietata dal 1992, tuttavia quantitativi enormi di questo materiale sono dispersi ovunque, utilizzati nell’edilizia (tetti, controsoffitti, serbatoi) e perfino nella costruzione delle reti di distribuzione dell’acqua potabile. Senigallia ha costruito una parte importante dell’identità della sua classe operaia attorno al grande stabilimento di produzione di cemento e amianto Sacelit. La dismissione della fabbrica ha lasciato dietro di sé una scia tossica, di inquinamento del territorio e del mare, di mortalità tra gli ex-lavoratori e di polemiche. La trasformazione del modello produttivo dominante dalla fabbrica inquinante alla speculazione edilizia e territoriale è evidente nella traiettoria di questo luogo simbolico nei primi anni 2000. Dopo una demolizione radicale e una bonifica approssimativa ecco la speculazione edilizia e infine il fallimento dell’immobiliare “Fortezza srl” di Pietro Lanari, legata a doppio filo con la gestione clientelare di Banca Marche. Oggi l’area è abbandonata: un labirinto di ferro e cemento che ci può fare riflettere su cosa accade quando progresso e sviluppo vengono solo dall’alto. Oggi come ieri i padroni della città, per arricchirsi, lasciano alle loro spalle una quantità intollerabile di danni all’uomo e all’ambiente. A noi spetta non perdere la memoria del passato per immaginare un altro presente.

Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di 'O Sarracino
Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di ‘O Sarracino

 

Lo stabilimento Sacelit-Italcementi di Senigallia venne aperto nel 1947. Il cementificio inizialmente era collocato vicino alla cava di San Gaudenzio (Borgo Bicchia di Senigallia) dove veniva estratto il gesso per la pasta cementizia, in seguito venne spostato al porto, dove riceveva i materiali provenienti da San Gaudenzio (un trenino partiva dalla cava e si fermava su uno scalo merci apposito, proprio dietro la Sacelit) e dalle navi che scaricavano l’amianto al porto. La fabbrica comprendeva anche una falegnameria, un’officina meccanica, un laboratorio chimico, un distributore di carburante. Tra il 1970 e il 1975 ci lavoravano all’incirca 380 dipendenti, di cui 14 impiegati (oggi solo 9 sono ancora vivi) e 90 donne, per lo più ragazzine sui 16-18 anni, operaie con contratti trimestrali che se venivano scoperte incinte o sposate erano licenziate in tronco. L’ambiente lavorativo era molto rigido: i turnisti lavoravano a ciclo continuo a gruppi di 40/50, gli impiegati si davano del “lei” anche dopo tanti anni e potevano telefonare o semplicemente cambiare una penna solo previa giustificazione scritta. C’era un registro per le entrate e ogni ritardo doveva essere giustificato dal dipendente direttamente al direttore. Gli operai venivano pagati con tre acconti durante il mese, perché li si considerava con poco cervello e capaci di spendere facilmente tutta la mensilità se gliel’avessero data in una volta sola. Per essere assunti c’erano una serie di procedure che iniziavano dalla compilazione di un questionario in cui bisognava specificare anche il proprio orientamento politico e l’estrazione sociale; veniva poi chiesto al parroco se le informazioni fornite erano attendibili o meno. La fabbrica cercava di tenere lontani i comunisti, tant’è che una strategia molto usata dai dipendenti era quella di iscriversi alla CISL e, una volta assunti, tornavano alla CGIL.

Gli operai non sapevano niente dei rischi che stavano correndo. I primi tempi l’amianto veniva trasportato a spalla in sacchi di yuta fino a una bilancia dove venivano pesati e aperti con un coltello. Inutile aggiungere la quantità di amianto in sospensione che si respirava. C’era chi ci consumava il pranzo su quei sacchi. L’amianto veniva poi versato in delle grandi vasche presenti nella sala chiamata Olandesi, il cemento arrivava invece tramite un cementodotto dalla vicina Italcementi. Quando il tutto era miscelato con l’acqua, i fumi venivano rilasciati verso la città con degli esaustori, mentre le acque reflue scendevano per un condotto fino al mare. Dove ora c’è la darsena, c’era una spiaggetta grigia di amianto dove i ragazzini andavano a fare il bagno. I controlli fatti dall’ENPI (Ente nazionale prevenzione infortuni) riguardavano i macchinari, che puntualmente venivano fermati prima dei controlli, non l’ambiente.

All’inizio molti operai si ammalarono di eczema alle braccia perché non avevano nemmeno dei guanti adeguati. Nel ’70 cominciavano ad esserci già i primi ammalati gravi: la prima lavoratrice che morì fu un’operaia con il mesotelioma al polmone. Quell’anno Bruno Malatesta, sindacalista CGIL, denunciò la situazione alla Medicina del Lavoro di Roma e riportò le notizie alla commissione interna della fabbrica. Circa 200 erano i lavoratori iscritti alla CGIL, 50 alla CISL e qualcuno dei restanti alla UIL, uno soltanto era tesserato CISNAL, i fascisti, e veniva preso in giro da tutti. A quanto pare, i rappresentanti dei sindacati si erano fatti mettere tutti a lavorare al piazzale di carico, nessuno in produzione dove c’era più rischio di ammalarsi. Gli operai erano stanchi di vivere in un ambiente così malsano e senza protezioni; in quel periodo ci furono molti scioperi, ma le rivendicazioni sindacali furono sempre e soprattutto di tipo economico. La commissione interna decise sempre di continuare a lavorare, stabilendo tutt’al più una convenzione con l’Asur per fare annualmente degli esami di accertamento agli operai (raggiometrie, spirometrie, radiografie al torace, elettrocardiogramma, visite mediche).

Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di Francesco Buontempi
Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di Francesco Buontempi

 

Da quando a Senigallia venne vietato lo scarico in mare di sostanze, furono utilizzati dei silos in acciaio dentro i quali i prodotti di scarto venivano filtrati con un meccanismo a caduta, caricati in autocisterne e venduti a basso costo insieme ai rottami di amianto (quelli che non erano stati sotterrati nel piazzale dello stabilimento) che venivano usati per le fondamenta delle case, il sottofondo delle strade e in campagna. Tonnellate e tonnellate di rottami vennero anche trasportate fino alla cava di San Gaudenzio e gettate in una grande fossa cementata. Lo stabilimento Sacelit chiuse nel 1983. Fino agli ultimi anni di attività, i lavoratori non seppero praticamente nulla riguardo la nocività del materiale con cui lavoravano, né dai sindacati, né dai padroni. Dei 970 dipendenti al lavoro dal ’47 in poi, oggi ne rimangono vivi circa 200.

Nel 2005 venne istituito un forum all’interno del comune di Senigallia in cui l’ALA (Associazione lotta all’amianto) nella persona di alcuni rappresentanti, tra cui Carlo Montanari, delineò topograficamente i punti in cui erano sicuramente presenti le più grandi quantità di amianto all’interno dello stabilimento ormai dismesso. Parallelamente cominciarono le opere di demolizione della Sacelit. In quel periodo le inchieste fatte dall’ALA e da singoli cittadini dimostrarono come non vennero seguite le adeguate procedure di bonifica, rendendo la zona, se possibile, ancor più contaminata di quello che era: le case abitate lì vicino erano separate dal cantiere soltanto da un muretto alto pochi metri, l’ufficio del patrimonio di Senigallia diede in concessione ai bagnini uno spazio (tutt’ora presente) accanto al cantiere adibito a parcheggio per turisti, che non era stato nemmeno asfaltato. Su tutto quell’amianto si sono messi a costruire.

Dal 2005 fino ad ora tante sono state le segnalazioni fatte da privati e dall’ALA alle istituzioni, e i politici, come sempre, tanto ci hanno mangiato, scontrandosi gli uni con gli altri. Non è ancora chiara la pericolosità degli acquedotti, avendo parti costruite in cemento-amianto (stando ai documenti ufficiali non ci sarebbe da preoccuparsi…), ma soprattutto c’è profonda inconsapevolezza dei rischi da parte dei cittadini, così come delle istituzioni. Dieci anni fa Legambiente propose la costituzione di un’oasi nell’area della ex-cava di San Gaudenzio, ignorando completamente la presenza di tonnellate di amianto nel sottosuolo. Quando l’ALA denunciò il fatto, il progetto cadde subito nel silenzio. Nel maggio 2015 la lista Città Futura (Verdi, Sinistra ecologia e libertà, Rifondazione comunista) ha riproposto una riqualificazione urbana di San Gaudenzio, dichiarandola spontaneamente rinaturalizzata!

Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di 'O Sarracino
Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di ‘O Sarracino

 

E così ancora oggi il problema rimane, si sottovaluta la questione, si fa troppo affidamento sulle istituzioni che spesso falliscono nelle operazioni proposte, come il progetto di bonifica “Amianto Free” presentato a gran voce e mai decollato. Il 26 febbraio 2016 si è svolto a Senigallia un convegno istituzionale sul progetto di un Testo Unico di legge per le bonifiche. Tuttavia la legge arriva spesso tardi e i responsabili raramente pagano un prezzo. Il 13 febbraio 2012 il Tribunale di Torino ha condannato in primo grado Louis De Cartier de Marchienne, direttore dell’azienda, e Stephan Ernest Schmidheiny, amministratore delegato, a 16 anni di reclusione per “disastro ambientale doloso permanente” e per “omissione volontaria di cautele antinfortunistiche”, obbligandoli a risarcire circa 3.000 parti civili. Il 3 giugno 2013 la pena venne “parzialmente riformata” e aumentata a 18 anni. Il 19 novembre 2014 la Corte di Cassazione ha annullato la condanna dichiarando prescritto il reato.

È necessario dunque riacquistare una coscienza di base di dove e quali sono i materiali nocivi, del loro impatto sul lavoro, sull’ambiente, sulla vita. È a noi che fa male l’amianto: nei luoghi di lavoro, in città, a scuola. Non si tratta solo di chiedere incentivi, ma di ricominciare a organizzarsi per lo smaltimento e le bonifiche, per impedire ulteriori disastri. Se le iniziative non partono dal basso, non possiamo aspettarci altro che fallimenti… a nostro danno!

 

Fonti

Intervista a Carlo Montanari, presidente Associazione Lotta all’Amianto, gennaio 2016

Youtube:
Documentario “Amianto una storia di morte”, 2010
https://www.youtube.com/user/AssociazioneAla#g/u

Senigallia Notizie:
Intervista a Bruno Malatesta (sindacalista CGIL), maggio 2015
www.senigallianotizie.it/1327373780/senigallia-scomparso-loperaio-e-sindacalista-bruno-malatesta

Articolo elettorale de «La Città Futura», maggio 2015:
http://www.senigallianotizie.it/1327374955/piano-delle-mura-parco-fluviale-riqualificazione-urbana-e-oasi-di-s-gaudenzio

Open Municipio:
Indagine sulla presenza di amianto nell’acqua potabile, marzo 2013:
http://senigallia.openmunicipio.it/media/attached_documents/20140303/0005_DOC300413_1.pdf

Progetto regionale per il censimento di manufatti contenenti amianto, aprile 2012:
http://senigallia.openmunicipio.it/acts/interpellations/2012-04-18-progetto-regionale-per-il-censimento-dei-manufatti-contenenti-amianto/

Associazione Italiana Registri Tumori:
http://itacan.ispo.toscana.it/italian/itacan.htm

 

Costruire stando in mezzo alle api (#5)

Costruire stando in mezzo alle api
Intervista a Tommaso di Apicoltura Corbecco

L’apicoltura Corbecco è presente da parecchi anni sulle nostre colline. Fa parte del circuito Genuino Clandestino ed è una realtà che riesce a “funzionare” basandosi su una mentalità e un modello organizzativo ben distanti dalla tipica impresa aziendale. Il suo percorso e le sue prospettive si inseriscono nelle sperimentazioni di un modello di economia alternativa al sistema economico dominante, un modello fatto di relazioni orizzontali, reti territoriali e partecipazione. In questa intervista Tommaso ci racconta la sua storia, il legame con il territorio e il mondo agricolo, le difficoltà superate e da superare, la lotta costante ai condizionamenti che il mercato vorrebbe imporre, il concetto di “garanzia partecipata”, i limiti della certificazione biologica e tanto altro.

Tommaso e le api - Foto di Andrea Simonetti
Tommaso e le api – Foto di Andrea Simonetti

 

Ci racconti come e quando hai iniziato la tua attività di apicoltore?

Appena quindicenne, dopo aver rubato un saggio sulle api dei primi del Novecento in un banco di libri usati, vengo travolto da un forte interesse e curiosità appassionanti. Io e Alessandra ci cimentiamo con i primi sciami naturali intorno al 2001, dopo che ci era morto il primo alveare acquistato in un impeto di fascinazione. La nostra attività si sviluppa nel contesto del gruppo di acquisto solidale di Pesaro, che è stato uno dei primi Gas della nostra zona. In quell’ambito ho avuto la possibilità di vendere i primi barattoli, che all’epoca erano più che clandestini, e questo mi ha permesso di cominciare a far esperienza e sperimentare il mondo dell’apicoltura senza alcun tipo di ansia imprenditoriale e senza dovermi porre troppi problemi, soprattutto quelli che derivano dall’aprire una partita iva sostenendo costi ingiustificati in quello che, se non si è figli d’arte, costituisce un salto nel buio. Questo fu possibile solo perché ero inserito in una piccola comunità che proteggeva questa mia ricerca personale. Nel frattempo per campare facevo altri mestieri: lavoravo come operaio, poi come imbianchino e poi nei cantieri in bioedilizia.

In seguito questa passione per le api è diventata una cosa importante e richiedeva un sacco di tempo. A un certo punto ci siamo resi conto che se volevamo portarla avanti bene dovevamo dedicarci a pieno. Con grande tranquillità e senza aver idea se fosse un mestiere remunerativo, ho quindi deciso di abbandonare i cantieri per fare dell’apicoltura la mia attività prevalente. Solo più tardi abbiamo aperto l’azienda agricola e abbiamo aumentato i volumi della produzione, sempre un passo alla volta. Non abbiamo mai comprato api ma sempre riprodotto i nostri alveari dandoci il tempo di crescere con loro. Esiste un rapporto tra il volume di miele e il numero di alveari che un singolo apicoltore riesce a produrre e a gestire. Penso che facendo apicoltura biologica il livello a cui siamo noi oggi rappresenta circa questo limite. Questo equilibrio fatto di attitudini e compromessi con il mercato ci consente di tirare fuori un reddito dalla nostra attività, cosa che non è affatto scontata. Un’altra volta magari parleremo delle ore di lavoro necessarie a far quadrare il cerchio e come affrontiamo il problema dell’autosfruttamento…

Su che territorio sono presenti le arnie e che tipologie di miele producete?

Il modo in cui gestiamo gli alveari sul territorio è legato alle modalità con cui abbiamo avviato l’attività. All’epoca abitavamo in affitto in una casa alle Cesane, la zona collinare vicino a Urbino, senza terra e senza possibilità di installare un laboratorio. Infatti lavoravamo il miele in condizioni molto precarie, praticamente in una camera da letto. Non avendo terreni di proprietà e d’altra parte non essendo le Cesane un posto particolarmente produttivo, una nostra caratteristica è stata fin da subito quella di cercare di allargare l’areale. Ci siamo ritrovati a spargere in giro gli alveari presso case di amici e aziende affini praticando un po’ di nomadismo. Questo ci ha dato la possibilità di entrare in profondità nelle caratteristiche dei territori esplorandoli attraverso le api. Ora le sensazioni che mi evocano un bosco, un frutteto o una brughiera arsa sono fortemente condizionate da questa specie di lente deformante che porta occhi compositi come un’ape e da cui dipendono anche gli interessi legati alla botanica.

In particolare abbiamo iniziato a sperimentare i mieli monoflora, in un periodo in cui ancora nelle nostre zone la produzione era quasi esclusivamente concentrata su acacia e millefiori. La scelta di puntare sui monoflora è stata per noi una scelta importante e non casuale in una realtà in cui fino a dieci o quindici anni fa il miele era per tutti quello liquido, tipo Ambrosoli, sempre uguale a se stesso in tutta Italia e in tutte le stagioni. Parlare di monoflora e di differenti cristallizzazioni ci permette invece di veicolare tante informazioni, di mostrare come il miele è un prodotto della biodiversità e profondamente legato al territorio. Noi stessi abbiamo con il tempo scoperto questo mondo e vendendo miele cerchiamo di trasmettere questa esperienza. Oggi mi muovo in un raggio di una cinquantina di chilometri da casa, con una quindicina di postazioni diverse, generalmente presso amici e in aziende agricole biologiche. Non nascondiamo alcune piccole “follie” come un apiario stanziale in Toscana e alcune postazioni in Basilicata, che giustifichiamo perché fanno parte di questa ricerca di sapori.

Louis Masai, street art - Londra, Whitecross Street, particolare
Louis Masai, street art – Londra, Whitecross Street, particolare

 

Quali sono le differenze principali tra il tuo miele e quello delle grandi aziende industriali che troviamo in vendita nella grande distribuzione?

Le differenze sono tante, a partire dalla qualità del miele e dal trattamento degli alveari. Di recente si è ricominciato a parlare in modo massiccio di frodi e adulterazioni del prodotto ma, al di là di questi casi estremi, quando si lavora su grandi quantitativi i compromessi sono all’ordine del giorno per massimizzare tempi e profitti. Nella logica industriale questo è del tutto normale; tuttavia sono pratiche insensate dal punto di vista della qualità del prodotto. Per la grande distribuzione si lavora acquistando delle partite e, mettendole insieme per fare dei miscugli il più possibile simili a se stessi, si perde qualunque specificità. Tutto viene omogeneizzato e pastorizzato, per cui si guadagna in stabilità del prodotto ma tantissime proprietà se ne vanno via. Poi c’è tutta la gestione degli alveari. L’apicoltura industriale è un’apicoltura che spreme al massimo la produzione dell’alveare. Io non ho una visione vegana, ma riconosco che per ottimizzare al massimo, l’industria mette in opera un vero e proprio sfruttamento, con costi ambientali anche importanti. Inoltre, come tutta l’agricoltura “convenzionale” anche l’apicoltura vive di chimica, di trattamenti per controllare i parassiti. Soprattutto negli anni Ottanta e Novanta alle api hanno dato veramente di tutto portando alla situazione difficile che abbiamo oggi, perché il risultato è stato selezionare parassiti e problematiche sempre più virulente e aggressive e, d’altra parte, api sempre più deboli, molto produttive ma anche molto fragili, sempre più dipendenti dall’intervento dell’uomo. Sostanzialmente una catastrofe per l’ecosistema, come tutta l’agricoltura intensiva.

Va però detto che sul nostro territorio l’apicoltura industriale non ha raggiunto livelli come quella statunitense, dove le grandi aziende possono avere anche quindicimila alveari. Da noi si ragiona nell’ordine dei mille al massimo perché l’apicoltura ha, anche storicamente, una tradizione tra virgolette sana. Esiste cioè una costellazione di medi e piccoli produttori che comunque hanno un senso, una storia, che affondano le radici in tradizioni locali. Spesso, quindi, il miele che viene venduto all’ingrosso non è il prodotto di grandi aziende industriali, ma proviene da tante realtà medio-piccole e di partenza avrebbe anche una certa qualità. Poi però il grossista lo rovina lavorandolo e standardizzandolo per commercializzarlo sugli scaffali della grande distribuzione. Anche qui nelle Marche la situazione è principalmente questa. Da un punto di vista esclusivamente economico, visto l’aumento costante del prezzo del miele (la domanda aumenta ed è sempre più difficile produrlo) e i quantitativi importanti che produciamo, a un’azienda come la nostra converrebbe sicuramente lavorare con i grossisti. Tuttavia la scelta di produrre cibo per la gente è obiettivo ben più gratificante dell’incasso di fine stagione o di qualche giorno di ferie in più, per cui ad oggi invasettiamo direttamente per la vendita al dettaglio lasciando al grossista solo le eccedenze. È raro trovare un’azienda delle nostre dimensioni che invasetta così tanto prodotto.

Q Cassetti, Robbing The Hive
Q Cassetti, Robbing The Hive

 

Una domanda a bruciapelo: ti consideri un “piccolo imprenditore”?

La mia apicoltura è di tipo artigianale ma può essere assimilabile anche a un’idea di realtà contadina, che va un po’ oltre; l’apicoltore non si limita infatti ad avere delle api e produrre del miele, ma è una persona che è inserita in un contesto di campagna e ha un rapporto diretto con l’ambiente circostante. Detto questo, per forza di cose mi sono trovato a dover fare l’imprenditore, cioè ad essere all’altezza di tutta una serie di richieste e questa situazione la vivo quotidianamente come un importante conflitto interiore. Questo senso di inadeguatezza e una certa consapevolezza sono indispensabili per non caderci dentro. Dentro quella mentalità imprenditoriale che poi porta a fare una serie di scelte che diventano concorrenziali, arroganti, arriviste. In questo è fondamentale non essere soli e circondarsi di un contesto fatto di una socialità vasta, rifiutando di affidarsi ai classici “consulenti” di sistema. Questo aiuta nelle piccole o grandi scelte che ci si trova ad affrontare e che determinano lo spartiacque tra cosa sono e cosa non voglio essere come realtà produttiva.

L’apicoltura inoltre richiede precisione, tempi serrati e una presenza continuativa. La misura è data semplicemente dall’osservazione e dall’imitazione delle api nella loro metodicità e nel loro ritmo di lavoro instancabile. Questo significa ripetizione, ottimizzazione, automatismi, quantità. Potrebbe costituire il seme marcio di una visione eccessivamente intensiva. È indispensabile mettere dei limiti alla crescita e allo sviluppo di un’attività, sostituendo l’industrializzazione con la diversificazione. Siamo anche noi agricoltori biologici e ci occupiamo dell’ecosistema come della persona nel suo insieme. Nella mia vita ho dovuto fare un percorso di decrescita per capire qual è la direzione che voglio dare al mio lavoro e questo, secondo me, fa la differenza con la mentalità dell’imprenditore. In questo ovviamente il passo è stato stabilito con chiarezza dalla presenza costante della mia compagna Alessandra e dalla sua visione femminile nel lavoro. Queste consapevolezze sono diventate concrete grazie all’incontro con Genuino Clandestino, proprio mentre mi stavo chiedendo dove mi avrebbe potuto condurre una logica di tipo imprenditoriale e cosa si può fare concretamente in direzione ostinata e contraria. Ed è stato il momento per capire che il castello che avevo costruito non sarebbe dovuto rimanere esclusivamente una mia proprietà, ma poteva essere rimesso in gioco all’interno di un circuito e diventare volano di altre iniziative.

Così l’apicoltura Corbecco è diventata una società di fatto a cui ognuno contribuisce con il proprio lavoro e con una cassa comune da cui attingere in base ai bisogni individuali. È stato semplice perché per ora siamo soltanto in tre. Il nostro nuovo socio è un compagno con cui abbiamo sempre fatto a metà di tutto, anche quando in tempi più duri non c’era niente da dividere. Abbiamo bisogni simili, 2+3 figli a carico e la musica, lo studio e l’attività politica valgono come le ore di lavoro. Come recita il nostro documento di garanzia siamo una società a sentimento. I lavori di cura, i turni per i pasti piuttosto che l’orto di casa sono parte integrante della nostra piccola economia. Questa impostazione è mutuata dalla vita contadina cui assomigliamo pur rimanendo a cavallo (o in bilico) tra l’essenza rurale e la realtà aziendale. Speriamo a breve di liberare risorse per far partire nuove iniziative e diversificare il nostro lavoro. Formalmente utilizziamo quella che si potrebbe definire una partita iva collettiva che è la forma meno costosa di essere in regola da un punto di vista assicurativo e contributivo. Un salto di qualità determinante sarebbe riuscire a costituire una cooperativa che possa raggruppare e tutelare le attività produttive affini del nostro territorio, mantenendo contabilità separate per quanto riguarda il lavoro e proprietà collettiva dei mezzi di produzione.

Q. Cassetti - Under the golden light
Q. Cassetti – Under the golden light

 

Prima hai fatto un riferimento a una visione vegana, che non ti appartiene, ma come ben sai negli ultimi anni è emersa con forza una sensibilità antispecista all’interno dei movimenti. L’apicoltura è una forma di allevamento, quindi anche se non raggiunge livelli macroscopici di sfruttamento come nell’allevamento di animali da carne o nella produzione di latte, da un certo punto di vista è comunque una forma di dominio dell’uomo su un’altra specie. Per noi, in redazione, questo è un discorso aperto e con molti punti interrogativi. Tu cosa ne pensi? Quando sei nei mercati hai mai dovuto affrontare le rimostranze degli antispecisti?

Il miele è ancora un prodotto che sta su un confine. Se troppo spesso il vegano, ma soprattutto l’antispecista che non lo fa per scelta personale ma in modo militante, diventa violento nei confronti di chi non la pensa allo stesso modo, verso il miele questa violenza è mitigata. C’è sempre un margine di dialogo e di ragionamento. Se invece fossi un allevatore di altri animali con certe persone non potrei neanche parlare e già questo fa capire che in certi atteggiamenti c’è qualcosa che non va.

Il discorso sullo sfruttamento dell’alveare è un discorso davvero molto complesso. A mio parere non si tratta di una pratica di dominio e non soltanto perché non si pratica l’apicidio ma perché noi, facendo apicoltura, in realtà non facciamo altro che creare le condizioni perché le api possano dare il meglio, cosa che si verifica anche naturalmente in determinate circostanze. Mi spiego: ad una famiglia di api bastano 12 chili di miele per svernare, ma in stagione ne può raccogliere anche 50 o 60. L’apicoltore, con il suo lavoro, contribuisce a fare in modo che questa situazione si verifichi non solo in qualche caso ma che la gran parte delle famiglie di api possa produrre molto più miele di quanto in realtà le serve. In sostanza, si tratta di creare le condizioni per poter prelevare un di più.

L’utilizzo di tecniche particolarmente invasive da noi non esiste, anche se ci sono forme di contenimento tipo la “gabbietta” per le api regine, che è una pratica dal mio punto di vista pesante ma a cui in situazioni di emergenza non escludo di ricorrere. In ogni caso non mi sottraggo a un confronto su questi argomenti che credo andrebbe sviluppato in dei gruppi misti, con la partecipazione anche di vegani o antispecisti, perché non si risolve la cosa con un atteggiamento dogmatico per cui tutti quelli che si occupano di animali sono dei nemici.

Q. Cassetti - Hive Alive
Q. Cassetti – Hive Alive

 

Sui tuoi barattoli di miele c’è il marchio della certificazione biologica. Come ci sei arrivato e che valore gli attribuisci?

Quello è stato un passaggio per me molto importante e molto combattuto. Eravamo in una fase in cui non c’era ancora Genuino Clandestino ma capivamo che i Gas non bastavano più. Bisognava uscire fuori delle assemblee di nicchia in cui si parlava di produzioni virtuose e trovare il modo di proporre un paniere serio e completo, che potesse comunicare con tutti. Da questa esigenza è nata l’esperienza dei negozi a gestione partecipata. Gli empori di Fano e Urbino sono nati dopo tre anni di riunioni in cui un gruppo di produttori, insieme a delle figure che avevano interesse ad investirci, si confrontavano e scontravano immaginando come sarebbe dovuto essere il negozio dell’“altra economia”, rispettoso del produttore, del consumatore e del territorio. L’idea che potessero nascere dei negozi eticamente vicini al mio modo di vedere le cose e di produrre era una prospettiva decisamente attraente.

È stato quindi un percorso stimolante anche se, purtroppo, l’interesse privato alla fine ha prevalso sull’interesse collettivo. Nonostante la prodigiosa buona volontà di chi si è messo in gioco, questi ambienti della cosiddetta economia solidale non hanno assolutamente gli anticorpi sufficienti a isolare le logiche del profitto utilitaristico e quindi di fatto non sono stati in grado di portare avanti quelle che erano le istanze etiche dell’operazione. Questo è accaduto sotto vari aspetti. Uno dei fronti su cui abbiamo perso riguarda proprio la certificazione biologica. All’epoca delle assemblee costitutive io ero in un gruppo di lavoro che cercava di elaborare alternative alla certificazione biologica ufficiale. Ci sono piccoli produttori che lavorano bene ma non hanno le forze di certificarsi e d’altra parte sappiamo che le certificazioni vengono date da società pagate dagli stessi produttori, che fanno le porcate che vogliono. Spingevo invece per far passare una prima forma ancora embrionale di “garanzia partecipata”, proponendo una commissione interna al negozio che valutasse autonomamente i produttori. Al mio fianco c’erano però soggetti che avevano anche loro tutto l’interesse a non voler un negozio con certificazioni bio, ma per motivi opposti ai miei: perché tacitamente lavoravano con metodi convenzionali, con diserbanti nei campi e antibiotici nelle stalle. Alla fine la decisione non è venuta dai gruppi di lavoro, ma è stata la cooperativa che ci metteva i soldi e il rischio d’impresa a stabilire che il negozio sarebbe stato certificato biologico. Per questo sono stato in certo senso costretto a intraprendere anche la strada della certificazione biologica. Quando ho registrato l’etichetta ho messo la fogliolina del marchio bio, ma con a fianco la scritta “aderisce alla campagna Genuino Clandestino”. È una dicotomia stridente, che racconta le contraddizioni e gli sforzi del mio percorso.

Q. Cassetti - Sweet Twins
Q. Cassetti – Sweet Twins

 

Intravedi il rischio che anche Genuino Clandestino possa diventare un brand che va ad imporsi su una certa fetta di mercato?

È innegabile che Genuino Clandestino sia un logo incredibilmente attraente e non manca chi ha provato ad avvicinarsi perché aveva interesse a utilizzarlo come un marchio. Io come ho detto vengo dal percorso dei Gas, le mie scelte produttive non sono mai state dettate dalla ricerca del profitto in quanto tale. C’era di fatto e c’è tutt’ora una comunità a cui devo rendere conto, ci sono cioè persone che in me ripongono fiducia. E la fiducia è una cosa seria. Se io adesso penso di aver trovato un compromesso positivo tra la necessità di avere un reddito e le scelte lavorative è grazie al fatto che sono cresciuto in questo mondo. Nel mio percorso, e in quello che sarà di Genuino Clandestino, è assolutamente centrale il sistema di garanzia partecipata, di cui si era già iniziato a parlare nel circuito dei Gas. Citando dal manifesto di Genuino Clandestino: “i sistemi di garanzia partecipata sono lo strumento fondamentale per tessere relazioni fra città e campagna e sperimentare reti economiche alternative”.

Quando parli di una comunità a cui rendere conto il riferimento va a un contesto di nicchia, mentre l’agricoltura di massa è guidata da altre logiche ed è stata colonizzata anche nell’immaginario dal capitalismo più spinto e dal marketing più aggressivo, basti pensare a quello che è stato l’Expo di Milano. Un movimento come Genuino Clandestino tende a trasformare l’agricoltura dominante o, almeno in questo momento, punta a una specie di secessione, a collocarsi cioè in un ambito dove ci si possa garantire un proprio equilibrio sperando di non essere travolti dalla retorica dell’agricoltura mainstream?

Posto che è difficile per ora capire dove stiamo andando, il desiderio di fondo è creare delle realtà che sperimentino un’autonomia dal sistema, sviluppate su una base territoriale forte e su relazioni quotidiane partendo da bisogni primari come quello del fare la spesa. Sono piccoli embrioni di relazioni economiche alternative, che si basano su regole differenti da quelle del mercato. Posso essere solidale e sentirmi vicino con altri produttori che pur provenendo dal mio stesso percorso hanno fatto un salto grande, indebitandosi e sacrificandosi alle richieste del mercato. Questa di fatto è una sconfitta perché molte avanguardie sono state puntualmente riassorbite dal sistema, per cui alla fine ci si ritrova dentro le contraddizioni da cui si stava scappando. Questa consapevolezza secondo me è un po’ più matura dentro Genuino Clandestino che altrove. Se in ambito RES [Rete di economia solidale] parlare di anticapitalismo è diventato quasi un tabù, viene da chiedersi che fine hanno fatto i nostri alternativi e pionieri del primo biologico.

La realtà dei mercati di Genuino Clandestino che vedo qui in zona fa ancora fatica a ricollegarsi con il mondo agricolo del territorio. Il nostro è un collettivo di compagni con una certa idea dello stare insieme, molto legato anche all’aver fatto delle scelte al di fuori dell’economia ordinaria. In prospettiva c’è il desiderio che il nostro mercato diventi un vero e proprio mercato dei contadini del territorio che sono disposti al confronto e ad autogestire i propri progetti con pratiche assembleari. Non si richiede nessuna appartenenza. Per noi fare politica è esclusivamente la partecipazione. Non abbiamo alcun interesse a farlo diventare un mercato in regola gestito da un qualche organizzatore, perché perderemmo il valore dell’autogestione, dell’assemblea di mercato che elabora un messaggio politico da trasmettere. In questo siamo profondamente diversi da tutti gli altri mercati in città.

Oltre a questo, va detto che un progetto di costruzione di un’economia alternativa non può basarsi solo sul prodotto biologico ed etico ma deve saper conquistare anche gli altri piani autorganizzando il soddisfacimento di sempre più bisogni di beni e servizi. Per fare questo stiamo sperimentando dei rapporti economici fatti di scambi e il meno possibile legati all’euro. Oltremercato ha avviato un laboratorio a livello provinciale che punta a riscoprire le monete sociali con la finalità di tiraci fuori dall’euro in un’ottica mutualistica. Abbiamo delle reti sul territorio che già esistono e che possiamo pensare di tirare fuori dal sistema economico dominante per ricondurle al semplice e diretto incontro tra i bisogni di qualcuno e l’offerta di servizi e prodotti da parte di qualcun altro, in modo multireciproco. Si tratta di chiudere dei piccoli cerchi e almeno provare a fare ragionamenti di questo tipo guardando alle possibilità di un modo di vita che non sia per forza collegato all’economia del debito in cui viviamo oggi.

Per quanto riguarda la realtà di Expo non mi va di entrare in merito. È stato un baraccone mediatico di slogan svuotati di senso a sostegno del modello agroindustriale che combattiamo; ma la vera macchia nera è piuttosto l’Expo dei popoli che ci ha fatto vedere come siano state riassorbite totalmente delle istanze che erano invece nate dalla base. In questo senso dobbiamo fornirci di strumenti adeguati, per non lavorare inutilmente e non regalare le nostre conquiste culturali al potere.

Q. Cassetti - Love Bee Hive
Q. Cassetti – Love Bee Hive

 

In questo quadro virtuoso di economia alternativa riesce però difficile collocare il modello insostenibile della metropoli moderna. D’altra parte, però, anche il solo fatto di costruire un’economia che seppur circoscritta ha una base resistente è già un passo avanti, è quanto meno un punto su cui appoggiare una leva per tentare una trasformazione radicale della società. Vi siete posti questo problema del rapporto tra campagna e città?

Per l’approvvigionamento anche solo dal punto di vista alimentare della metropoli non abbiamo risposte in questo momento, ma sicuramente è un problema che ci poniamo. Teniamo presente che l’agricoltura industriale, finalizzata al profitto, non solo non è il modo migliore ma è un pessimo modo per produrre cibo, basti pensare al consumo di energia e agli sprechi che genera. Un sistema diverso di produrre e distribuire non è detto che non sia applicabile su larga scala, soprattutto in un territorio come l’Italia dove forse è più attuabile che altrove.

Genuino Clandestino nasce proprio come alleanza tra movimenti contadini e movimenti urbani. Il nostro collettivo, come ognuno dei nodi della rete, nasce tra un gruppo di contadini resistenti e degli attivisti di un centro sociale di città, intorno a dei progetti da una parte legati all’agricoltura e dall’altra all’attività politica sul territorio. Non è una problematica ma il nostro punto di forza, la centralità del rapporto tra campagna e città è stata ben presente fin da subito. Accanto a Genuino Clandestino, c’è una realtà come Ri-Maflow di Milano e il progetto “Fuorimercato” che stanno cercando di mettere in piedi: una piattaforma di logistica per risolvere il problema dell’approvvigionamento di cibo in città. Questo significa che ci si sta provando anche in contesti metropolitani e che anzi questi costituiscono uno stimolo ad organizzarsi per i nodi più periferici.

Se noi pensiamo di voler nutrire il mondo con l’agricoltura contadina bisogna che iniziamo a darci questi strumenti. Rifiutando la delega e il controllo, attraverso l’autodeterminazione dei territori cominciare a riorganizzare strati di società in un’ottica integrale[1] e autogestionaria.

Q. Cassetti - Lemniscatic Dance
Q. Cassetti – Lemniscatic Dance

 

[1] Il concetto di cooperazione integrale è stato sviluppato inizialmente da una parte del movimento cooperativo e autogestionario catalano in questi termini: “una cooperativa integrale è uno strumento per costruire un contro-potere di base autogestito, auto-organizzato e con democrazia diretta. Questo strumento può aiutare a superare l’attuale stato di totale dipendenza dalle strutture dei sistemi e degli stati, attraverso uno scenario di totale libertà e in cui ciascun individuo può svilupparsi con condizioni paritetiche e pari opportunità”. Dal sito <http://cooperativa.cat/it/che-cose-la-cic>.

Voja de fadigà salteme addosso (#7)

Voja de fadigà salteme addosso
Di Vittorio

Così fa un detto dialettale marchigiano ancora in voga e finisce con il sincero endecasillabo “fadiga te padròn che io nun posso”.

bravi ragazzi e ragazze del servizio civile.
bravi ragazzi e ragazze del servizio civile.

 

Non è una novità che l’offerta di lavoro nelle Marche sia in calo dal 2008 ad oggi mentre la disoccupazione per la fascia di età tra i 15 e i 29 anni è cresciuta dal 9,9% del 2008 al 25,2% del 2016. Basta farsi un giro nella miriade di zone artigianali e industriali della regione o domandare nel primo bar: la distruzione di posti di lavoro ha avuto un impatto notevole sulla situazione sociale ed economi­ca di chi oggi è considerato giovane fino ai 35 anni.

L’isola felice descritta nella favola della “Terza Italia” e del distretto industriale marchigiano diffuso non esiste più. Chi ha tempo di leggere i dati può accorger­sene facilmente e la sequenza sismica iniziata ad agosto 2016 ha reso fragilissimo il tessuto industriale e produttivo già provato da pesanti ristrutturazioni delle province di Ascoli Piceno, Macerata e in parte della provincia di Fermo. Certo qualcuno potrebbe obiettare che i macchinoni in giro si vedono ancora e i negozi di lusso continuano a restare aperti. La ricchezza infatti c’è ancora, ma è distribui­ta sempre peggio e sempre più lontano dai giovani, sono loro infatti i più a rischio povertà anche secondo l’ISTAT. Anche nelle Marche, di fronte al fallimento delle promesse e dei progetti della classe imprenditoriale e dirigente locale si preferisce, come ovunque in Italia, spostare la responsabilità su chi è arrivato dopo. E quindi ecco che da qualche anno è iniziata ad apparire sui giornali e nel lessico dei po­litici la contabilità dei cosiddetti NEET: l’acronimo anglosassone che etichetta i giovani che non lavorano, non studiano e non frequentano corsi di formazione.

Nelle Marche le statistiche ufficiali ne contano 41.800, ovvero il 19,8% dei gio­vani nella fascia di età tra 15 e 29 anni. Noi non vogliamo prendere per buone le etichette negative e deprimenti della statistica ufficiale. Ci piacerebbe pensare che migliaia di quelli censiti in questa categoria abbiano scelto di non lavorare per fare qualcosa di meglio ma tuttavia è plausibile pensare che un giovane su cinque sia gravemente a rischio povertà e sempre secondo le statistiche ufficiali almeno altri due abbiano sicuramente un contratto di lavoro molto precario. Alcune interviste raccolte nell’arco di diversi mesi nel 2016 durante la prima fase di Garanzia Gio­vani mi hanno dato uno spaccato in presa diretta di quello che sta succedendo per i lavoratori e le lavoratrici più giovani. Le prime esperienze lavorative spesso pro­ducono una profonda delusione ma servono anche a stimolare un senso critico:

«In cucina ho lavorato al Girasole, qui a Marotta, dove ho lavorato per due mesi che dopo sono andato via… e sempre con la scuola… solo che il professore mi ha detto tu vieni a lavorare con me e dopo un mesetto ti do qualcosa. È passato un mesetto e non mi ha dato niente… e [ha detto] guarda è meglio che lavori gratis e in inverno vieni a lavorare con me. Non mi è piaciuto quello. Io mi sono fatto un culo grosso così per tutto un mese e tu mi dici questo? Quello non mi è piaciuto per niente, dopo che mi ha fatto così io non sono andato mai più a lavorare.»
A.F., uomo, 20 anni, Mondolfo.

Tanti giovani anche di fronte alla mancanza di opportunità non smettono co­munque di rimanere attivi, perché il lavoro e in generale l’essere attivi e produttivi rimane un tassello fondamentale della cultura e dell’identità marchigiana:

«Poi ho continuato a cercare fino al 2013, diciamo che sono stato due anni dal 2011 al 2013 sempre a cercare ma non ho trovato nulla… solo a casa diciamo facevo le scale del palazzo, ogni tanto aiutavo mia nonna, facevo queste cose… facevo le scale nel senso che pulivo le scale poi mi davano qualcosa così, ma giusto per fare qualco­sa, perché io volevo fare ma non trovavo nulla allora almeno… siccome vivo in un palazzo con sei famiglie, allora le altre famiglie invece di pagare un’altra persona o una ditta io mi sono proposto e lo faccio tutt’ora questa cosa e la faccio da quando ho finito la scuola perché proprio me la sento io, senza far niente non ci riuscivo…»
V.C., uomo, 26 anni, Corridonia.

Fino qui nulla di nuovo, ma vorrei riflettere criticamente sull’idea che il dramma provocato dalla disoccupazione giovanile non consista nell’evidente stato di su­bordinazione in cui essa mantiene i giovani della regione ma nel fatto che quasi nessuno sia spinto a interrogarsi sul senso e sul futuro del lavoro in quanto tale.

commenti da FB
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Garanzia giovani: il circo dei tirocini

Intanto dopo l’ondata di rivolte giovanili del 2011, che alle latitudini più diverse aveva portato in piazza migliaia di giovani combattivi dalle più diverse regioni d’Europa e del Mediterraneo, negli ambienti istituzionali e della gestione eco­nomica della crisi finanziaria si è fatto strada il timore dei “rischi per la coesione sociale” portati dall’aumento vertiginoso della disoccupazione. Soprattutto in risposta a queste inquietudini nel 2013 la UE ha tirato fuori dal cappello il pro­getto Garanzia Giovani, che ha iniziato a veicolare verso le regioni maggiormen­te colpite dalla disoccupazione giovanile un nuovo flusso di risorse economiche condizionate a specifici interventi di politiche attive del lavoro, cioè a un nuovo progetto di disciplina sociale per i giovani lavoratori e studenti del continente.

Garanzia Giovani è arrivata nel 2014 nelle Marche e ha messo subito a ballare tutta la rete regionale delle cosiddette politiche attive per il lavoro. Le risorse in arrivo dall’Europa hanno ringalluzzito tutto l’esercito di imprenditori che ruota­no attorno al business delle “risorse umane”. Si sono moltiplicate le Associazioni Temporanee di Impresa che associano agenzie interinali molto note come Man­power e Obiettivo Lavoro o altri centri di formazione meno famosi come lo IAL del sindacato CISL e tante altre imprese di servizi più piccole che sono nate come funghi durante la crisi economica del 2008 e dopo il 2014 in corrispondenza con l’arrivo dei nuovi fondi europei. In queste aziende della formazione e della gestione del “capitale umano” centinaia di persone, spesso precarie e sfruttate anch’esse, lavorano per far girare la macchina della formazione e dell’orientamen­to professionali.

I risultati dal punto di vista della trasformazione delle condizioni dei giovani? Praticamente nulli. Ci dicono le statistiche ufficiali che una buona metà trova un lavoro a tempo determinato dopo sei mesi di tirocinio svolti con un compenso di 500 euro mensili. Poi, come accade per percentuali altrettanto maiuscole, lo perderà e comunque non riuscirà a cambiare la propria condizione individuale di sfruttamento e incertezza. Insomma trova lavoro chi lo avrebbe trovato anche senza regalare soldi pubblici alle aziende e intanto il valore del lavoro dei giovani continua a diminuire. Anche i servizi per l’impiego pubblici spesso non brillano per efficienza e serietà e i risultati non tardano ad arrivare:

«Io sono iscritto da quando avevo 16 anni ma non mi ha mai trovato un lavoro, un corso formativo interessante, non è servito a nulla se non per rinnovare ogni sei mesi la disoccupazione che poi non serve a nulla… l’anzianità di disoccu­pazione non serve a nulla in un territorio come Fabriano perché quando io ero interessato a seguire un corso di formazione ero immediatamente surclassato da un cassaintegrato che aveva la priorità su di me… quindi il centro per l’impiego non mi è servito a nulla.»
G.T., uomo, 29 anni, Fabriano.

Anche nelle Marche per tutti gli anni 2000, ben prima della grande ubriacatura renziana, l’entusiasmo per le “politiche attive” aveva prodotto distorsioni evidenti come l’uso massiccio dei voucher da parte delle amministrazioni comunali per stipendiare forme di lavoro assistenziale o clientelare rivolto ai disoccupati cronici e alle categorie più deboli.

A partire dal 2014 il progetto Garanzia Giovani ha portato con sé il classico corol­lario di distorsioni e disagi all’italiana: pagamenti in ritardo per mesi, contratti di lavoro stagionale o temporaneo sostituiti dai tirocini pagati con i soldi pubblici, progetti di auto-imprenditorialità fallimentari. Specialmente nel settore turistico e della ristorazione è emerso chiaramente il rischio concreto di vedere sostituiti dei pessimi lavori pagati male con dei pessimi interventi di politiche attive, pa­gati ancora peggio o addirittura non pagati come nel caso dell’alternanza scuola lavoro.

Da questo punto di vista anche chi ha le idee chiare su queste contraddizioni non vede nell’immediato una possibilità politica di attivazione:

«Se una azienda si mette a disposizione di un progetto del genere ci deve essere una minima apertura verso il fatto che questa persona possa rientrare dentro l’a­zienda o che ci siano dei margini di continuità perché altrimenti questo diventa uno strumento che le aziende sfruttano per avere una persona in più. A me mi è andata benissimo perché in tutto questo ho fatto un progetto che mi piaceva però immagino che ci siano persone che hanno lavorato “a uffa” senza guadagnarci una “cippa”. Per cui un minimo di garanzia ci dovrebbe essere in questo per cui l’azienda che si mette in discussione su un progetto del genere ha dei benefici ma ha anche degli impegni verso la persona che sta lì e che lavora sei mesi anche se è giovane. A me hanno detto: “una volta i tirocini non erano pagati, ringrazia che adesso lavori e ti pagano”. Ma non è che se una volta si facevano le cose male, adesso dobbiamo accontentarci no? Che ragionamento è?»
E.B., donna, 26 anni, Senigallia.

A partire dalla grande vetrina di Expo 2015, l’idea che il lavoro dei giovani possa essere svolto gratis e l’estensione anche ai trentenni di questa aberrante idea di “esperienza” provoca anche in provincia situazioni paradossali:

«Mi sono trovata bene perché la mia titolare era concreta, giovane, comprensiva, mi ha aiutato tanto e poi addirittura dopo quattro mesi che ero lì e non avevamo ricevuto lo stipendio dalla Regione lei mi ha dato qualcosa, si è sentita in dovere di anticiparmi qualcosa. Per il resto a livello lavorativo lavoravo 5 ore al giorno [il minimo previsto] e quando la mia titolare è andata a chiedere informazioni per il mio contratto ci ha fatto un po’ strano che al centro per l’impiego le hanno detto: “come solo per 5 ore? Ne può fare di più…” [infatti] c’è un massimo di 8 ore. E lei ha risposto che per 500 euro non se la sente di far lavorare più di 5 ore. Quindi anche al centro per l’impiego lo sfruttamento è una cosa normale… [L’unico contatto con il centro per l’impiego si è ridotto all’attivazione del con­tratto]. Poi quando si è trattato di reclamare i soldi che non arrivavano loro non sapevano mai niente, però visto che era una situazione comune non abbiamo insistito tanto, poi la titolare mi aveva già anticipato qualcosa.»
A.S., donna, 30 anni, Ancona.

Garanzia Giovani, malgrado le buone intenzioni dichiarate della Regione Mar­che, ha quindi inserito nuove risorse nella dinamica distorta dei tirocini che spes­so coprono forme di sfruttamento:

«Quando mi hanno chiamata c’era già una parrucchiera che mi richiedeva, si chiama M. di San Benedetto. Cercava qualcuno che avesse un minimo di espe­rienza. Quest’esperienza non mi è piaciuta più che altro perché ci marciano tutti, ci marciano, non t’insegnano nulla, ti mettono lì come sciampista, non mi hanno fatto alcun tipo di formazione. Io dopo quattro mesi, senti a me, già mi date poco, insegnate non m’insegnate niente, io me ne sono andata! Era una ditta piccola, un negozietto con due soci, mi avevano preso solo per alleggerire il loro lavoro.»
M.R., donna, 20 anni, Macerata.

Mentre dal lato dei giovani professionisti e free-lance la consapevolezza dei propri diritti è molto bassa e la solidarietà è inesistente come testimonia questa donna:

«Quello che mi frega è che per quanto stai male economicamente, i pagamenti a singhiozzo, fai quello che ti piace, sei in un ambiente giovanile, con gente inserita in vari discorsi… Però vedo altre imprese che devono mandare i dipendenti in ferie perché sennò li devono pagare alla fine, quando mi vedo io che devo star qui 10 o 11 ore per una “micragna” e devo pagarmi io le tasse ed è tutta una rimessa e dico perché io devo fare così e gli altri hanno tutto questo gran tappetto davanti e non fanno niente soprattutto i dipendenti pubblici?»
V.T., donna, 28 anni, Camerano.

Cosa succede poi quando dopo sei mesi a 500 euro si torna alla vita di disoccupa­ti? La delusione è forte e non tutti riescono a essere abbastanza resilienti:

«Io più che altro sono stato scoraggiato, avevo molto puntato sull’esperienza di sei mesi perché loro avevano detto che c’erano possibilità di assumere e allora io ho cercato di dare il massimo per essere assunto. È stata un po’ una delusione lì, dopo mi sono un po’ abbattuto e c’è stato un po’ sto calo che sono stato un anno senza fare niente e dopo mi sono ripreso perché comunque sia devi riuscire anche un po’ a riprenderti, è anche una fortuna. Ci sono tante persone che conosco che magari cadono anche in depressione, può sfociare in una cosa abbastanza seria.»
G.R., uomo, 25 anni, Civitanova.

commenti da FB
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Scuola/lavoro alternate: sfruttamento fisso

Spesso si sente dire dagli esperti in materia che molti dei problemi a trovare lavoro dei giovani dipendono dallo scarso collegamento tra scuola e lavoro. Certo spesso la scuola è un mondo a sé, chiusa in logiche auto-referenziali ma che dire dell’in­vecchiamento della popolazione? Del nepotismo e della corruzione, dei vecchi ag­grappati alle poltrone e ai posti di potere, del paternalismo e del mammismo all’i­taliana? Quanto pesano sulle possibilità di costruirsi una vita autonoma e libera?

A partire dal 2015 l’alternanza scuola lavoro obbligatoria è stata imposta dall’al­to, come tutta la riforma della scuola della legge 107/2015 e coerente con le sue origini altolocate ha portato con sé la puzza di privilegio e sfruttamento. Se infatti da un lato gli studenti e le studentesse si dichiarano per la maggior parte contenti/e di svolgere un periodo fuori da scuola, se si analizza bene cosa succede troviamo che non c’è in atto nessun sistema per promuovere la mobilità sociale: i più attrezzati svolgono le settimane di alternanza presso amici di famiglia o im­prese amiche, mentre ai più sfigati non resta che attingere all’offerta istituzionale.

E qui la situazione delle Marche è comunque allarmante poiché anche in que­sta regione è arrivata l’attivazione di partenariati con pescecani industriali come Mc Donald’s, Autogrill e perfino con l’Anonima Petroli Italia proprietaria della mefitica raffineria di Falconara Marittima. Un passaggio del protocollo di intesa firmato tra il ministero della pubblica istruzione e l’API è particolarmente surre­ale quando nell’art. 1 dichiarano “che intendono promuovere la collaborazione, il raccordo e il confronto tra il sistema educativo di istruzione e formazione, il sistema universitario e il mondo del lavoro e dell’industria […] al fine di diffon­dere conoscenze e competenze relative ai temi dell’energia, della tutela dell’am­biente e del futuro della mobilità attraverso il contatto diretto con gli operatori del settore”.

Peccato che lo stabilimento API di Falconara sia dal 2011 nella posizione 274 dei 622 impianti più inquinanti per l’aria in Europa secondo l’Agenzia europea per l’ambiente. Non certo un esempio di ecologia e tecnologia del futuro. Per non parlare della terribile eredità di tumori e inquinamento marino che da anni ven­gono denunciati dai comitati di cittadini del piccolo centro costiero. La raffineria e i suoi padroni piuttosto che ricevere ancora soldi e lavoro gratuito dallo Stato dovrebbero iniziare a riparare i danni al territorio che hanno sfruttato, ma questa è un’altra storia. Sono più di ventimila ogni anno i ragazzi e ragazze nelle Marche che dovranno obbligatoriamente entrare in percorsi di alternanza scuola lavoro. Si tratta di un immenso cantiere pedagogico purtroppo fino a oggi contraddi­stinto dalla più totale mancanza di senso critico rispetto allo sfruttamento nel mercato del lavoro e dall’assenza di una visione del lavoro come attività umana cooperativa e collettiva ben diversa dall’idea di una merce da svendere in compe­tizione con il proprio compagno di banco. Il concetto di occupabilità promosso dal ministro Poletti altro non è che un invito stucchevole a obbedire alle leggi ingiuste del mercato.

Pesaro, marzo 2017 - Corteo contro l’alternanza scuola/lavoro
Pesaro, marzo 2017 – Corteo contro l’alternanza scuola/lavoro

 

Le risposte

È da molto tempo che provo a cercare le tracce di una risposta conflittuale al continuo deterioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei giovani ma pur­troppo ho trovato molte risposte individuali, molta consapevolezza delle contrad­dizioni della situazione ma poca sensibilità rispetto all’esistenza di una condizione comune, di classe e generazionale.

Garanzia Giovani e in generale la retorica delle “politiche attive per il lavoro” (che non c’è) nelle Marche non hanno incontrato fino ad ora una opposizione e una criticità organizzate. Anzi, fino a febbraio 2017, ben 36.600 giovani si erano iscritti al programma, circa 17.000 erano entrati attivamente in contatto con gli uffici e poco più di 8.000 avevano ricevuto un qualche tipo di offerta di attività formativa o di tirocinio. Il disagio per l’ingiustizia dei ritardi nei pagamenti delle indennità per i tirocini si è sfogato soprattutto sulla rete web senza però dare luogo a scelte rivendicative forti o momenti di solidarietà concreta. La scelta dei sindacati confederali è stata quella di partecipare alla gestione dei fondi per la formazione nel caso di CISL e UIL o di restarne fuori come nel caso della CGIL senza però svolgere un ruolo attivo di contrasto, bensì con deboli tentativi di organizzare le rivendicazioni dei borsisti e con una posizione critica che non ha inciso sui problemi di fondo. Alcuni aspetti dei tirocini sono stati riformati: dal 2017 le aziende che vogliono assumere un tirocinante devono contribuire con 200 euro all’importo dell’assegno e così forse qualche sciacallo in meno si avvici­nerà a questa mangiatoia, ma per i giovani la musica non cambia.

Nel campo dell’alternanza scuola lavoro i pochi studenti che non hanno rinun­ciato al senso critico hanno provato a organizzarsi, ma la risposta delle migliaia di studenti marchigiani per il momento non è sembrata corrispondere all’urgenza dei problemi. Nella provincia di Pesaro e Urbino il collettivo Studenti Attivi ha fatto una partenza in salita. Un corteo a Pesaro nell’ottobre 2016, poi un altro a fine marzo 2017, la risposta in termini di numeri è stata molto debole anche perché la polizia politica ha il vizio di telefonare preventivamente ai rappresen­tanti degli studenti per dissuaderli dallo scendere in strada. In parallelo alcuni studenti e studentesse del collettivo hanno avviato un monitoraggio delle espe­rienze di alternanza, un racconto corale nel tentativo di arginare l’indifferenza e l’individualismo che spesso circondano le difficoltà dei più giovani nell’esperienza scolastica e lavorativa.

Cosa succederà in futuro? È necessario ancora molto lavoro di ascolto, di colle­gamento e di educazione di base per riportare tra i più giovani la consapevolezza delle contraddizioni e dei conflitti che si nascondono dietro il mantra delle la­mentele istituzionali per la disoccupazione. Di chi è la colpa dei nostri problemi? Qual è la soluzione che possiamo trovare insieme? Non sono domande stupide, ma l’inizio di un necessario processo di organizzazione e di lotta per liberarsi dal posto di lavoro come forma di oppressione sociale e per riscoprire il valore del lavoro libero, della cooperazione e del mutualismo come forme di uscita dalla cappa di pesantezza e obbedienza imposta da dieci anni di prediche sulla crisi.

“I bibliotecari non fanno mai un cazzo…”. Appunti provocatori di inchiesta su biblioteche e condizioni del lavoro culturale nelle Marche (#11)

Intervista di Vittorio a Tommaso Paiano, bibliotecario

da Malamente #11 (giugno 2018)

Tommaso, Biblioteca Travaglini, Fano (PU), 2006
Tommaso, Biblioteca Travaglini, Fano (PU), 2006

“Mi chiamo Tommaso Paiano, ho quarant’anni e faccio il bibliotecario, guadagno settecento euro di stipendio e non mi bastano per arrivare alla fine del mese”. Così mi sono presentato qualche anno fa in una riunione, quando le cooperative che gestiscono i servizi bibliotecari a Fano invitarono lo psicologo del lavoro per un confronto con l’obiettivo di facilitare le relazioni con i lavoratori. Sostanzialmente fino a oggi la dimensione critica è rimasta la stessa dal punto di vista del reddito, cioè della garanzia di un salario adeguato che questo lavoro non riesce a generare. È chiaro che il bibliotecario non ha come contropartita solo lo stipendio. Un lavoro culturale ha anche altre gratificazioni sociali, simboliche e professionali perché è un lavoro di relazione, non soltanto con i libri ma soprattutto con le persone. Nella mentalità italiana sopravvive ancora questa immagine del bibliotecario come di un lavoratore che ha relazioni con i libri. In realtà se in una biblioteca ci passano molte persone tu attivi rapporti principalmente con loro e il libro rimane solo uno strumento della comunicazione, della condivisione e dello scambio.

Ci puoi dire qualcosa del tuo passato?

Sono uscito vivo dagli anni ’80 salentini segnati da lavoro sottopagato, emigrazione e fiumi di eroina e per tutti gli anni ’90 ho militato nei gruppi anarchici e libertari bolognesi. Non facevo altro dalla mattina alla sera. In quel periodo ho messo su, tra l’altro, piccole esperienze editoriali indipendenti, perché come ben sai in qualsiasi gruppo politico studi, ti documenti; non puoi fare politica pensando di non usare gli strumenti della mediazione culturale. Forse una delle mie attività più costanti è stata proprio quella della produzione di pamphlet e opuscoli con l’idea della costruzione di una “biblioteca anarchica della rivolta”, che doveva essere lo spazio della documentazione dei militanti.

Come passi dalla città alla provincia?

Nel 2002 vado via da Bologna e mi allontano dall’attivismo di gruppo; arrivo così nelle Marche con il bisogno di raccogliere le idee e vedere cosa fare, anche pressato dalla necessità di lavorare. Nel decennio precedente avevo fatto circa quaranta lavori diversi, conosciuto e preso pizze in faccia da quaranta padroni diversi; mi ero tolto d’altronde anche tante soddisfazioni, perché erano stati anni vissuti precariamente ma per scelta. Se avessi voluto fare soldi avrei potuto tranquillamente tenermi uno dei tanti lavori che trovavo solo per sbarcare il lunario. Questa situazione però a un certo punto è diventata pesante e non avendo le spalle coperte da nessuno, mi sono dovuto organizzare per rimediare un reddito più stabile. Il lavoro più decente, più decoroso o meno infame mi è sembrato quello del bibliotecario. Per questo mi sono messo a studiare il funzionamento delle biblioteche; da studente universitario ci ero andato centinaia di volte ma non pensavo che il bibliotecario potesse essere un lavoro.

Quindi che succede?

All’inizio, con l’amico e compagno [Luigi ndr] che poi ha seguito il mio stesso percorso la mettevamo sul ridere, pensando che in fondo il nostro tentativo di lavorare in biblioteca fosse solo un modo per strappare un salario senza faticare troppo. Vedevamo le biblioteche come un mondo pieno di imboscati, impiegati là dentro più per ragioni di reddito che di professione e di impegno culturale. Dopo qualche mese dall’avvio dei nuovi studi universitari di biblioteconomia però ci siamo resi conto che le biblioteche e la professione erano anche altro e ci potevano interessare anche per ragioni di attivismo politico e culturale.

Con queste premesse Luigi si è messo a studiare il circuito delle biblioteche anarchiche e libertarie italiane e internazionali mentre io, a Fano, ho preso i contatti che ci avrebbero portato a inaugurare l’Archivio-Biblioteca Travaglini. Quando siamo entrati la prima volta non ci credevamo, c’era un bordello totale, trent’anni di storia documentaria anticlericale e anarchica della città accatastati. Oggi, dopo un lavoro di fino è diventata una vera biblioteca con tutti i requisiti di funzionamento e di servizio. Il problema semmai è stato ed è averci il tempo, le forze, i soldi per la gestione ordinaria, ma dal punto di vista organizzativo è una cosa fatta con le tecniche migliori che sono disponibili in Italia. Confesso anche che con Luigi ci siamo fatti delle buone bevute di birra artigianale mentre allestivamo gli schemi di classificazione della saggistica anarchica.

Biblioteca Travaglini, Fano (PU)
Biblioteca Travaglini, Fano (PU)

E in quel momento ti sei trovato nel contesto delle Marche, della crisi e dei tagli alla spesa pubblica…

Sì, da una parte ci siamo costruiti un percorso bibliotecario consapevole, scelto senza pressioni, né di reddito né militanti, cioè la pressione del movimentismo per cui devi fare delle cose a tutti i costi. Ci siamo dati il tempo di costruire pezzo pezzo tutto quello che era necessario perché doveva durare. Ormai sono passati dodici anni da quando abbiamo messo piede dentro la biblioteca Travaglini. Nel frattempo ho dovuto però lavorare di sera nei ristoranti senigalliesi e poi anche in un’azienda informatica. Mi hanno licenziato dall’azienda per motivi economici in piena crisi nel 2011. Allora sono stato spinto definitivamente a cercare un impiego nelle biblioteche, che in fondo era quello che desideravo. Appena ho iniziato da salariato in biblioteca sono stato coinvolto a tempo pieno anche dall’associazione professionale dei bibliotecari italiani e così ho avuto modo di conoscere un po’ meglio la realtà di questi servizi. Leggendo dei documenti recenti della Regione Marche la situazione oggi non è molto diversa da sette anni fa, ma solo apparentemente poiché, tanto per citare due dati a caso, laddove la delibera n. 1036 del 2017[1] conta 264 “sportelli pubblici al cittadino” e 791 operatori presenti nella piattaforma digitale di gestione, posso tranquillamente affermare che non è vero, poiché le biblioteche funzionanti e soprattutto i bibliotecari sono molti, ma molti meno, e nella maggior parte dei casi irrilevanti, sia dal punto di vista amministrativo che culturale.

Negli ultimi venti anni la cultura da campo di lotta politica per l’egemonia è diventato un settore legato all’intrattenimento e oggi ci sono due nuovi discorsi pubblici, uno che da sinistra vede la cultura come bene comune e l’altro, da destra, come moltiplicatore di rendite. Manca la tua originaria passione che interessa anche a noi di Malamente, cioè la cultura come forza di emancipazione. Nelle Marche tra le due idee di cultura, di “destra” e di “sinistra”, la cultura come emancipazione dove si trova?

Come dicevo prima, con Luigi scherzavamo sui bibliotecari che non facevano un cazzo, ma seriamente per noi la cultura e i libri ci servivano perché l’emancipazione passava e passa da questi strumenti. Un’emancipazione intesa anche come riscatto da condizioni materiali ovvio, sennò non ha senso. Oggi come oggi, nell’ambito istituzionale non c’è molta consapevolezza di questo. Non ci sono dibattiti, discussioni articolate sulle biblioteche, non solo nelle Marche ma non ci sono da nessuna parte in Italia. Ci sono delle situazioni in cui se ne discute ma sempre in modo un po’ filantropico e missionario. La vulgata è: siccome l’Italia è un paese di analfabeti funzionali i servizi culturali servono a rimettere dritta la barra, perché sennò l’ignoranza fa diventare la gente delle bestie. Si sa che i bassi consumi culturali ti portano a vivere una vita esposta alle patologie, esistono persino pubblicazioni che mostrano una correlazione tra consumi culturali e diminuzione delle malattie. Al momento, quindi, la discussione più interessante che c’è è quella che affronta l’analfabetismo funzionale, condotta in sostanza da “benestanti” che si occupano un po’ paternalisticamente dei poveri, ma non ci sono poveri che con il coltello tra i denti rivendicano biblioteche e servizi per cacciarsi fuori dai guai, per emanciparsi appunto! E forse è anche per questo motivo che la politica ignora quasi completamente i discorsi dei bibliotecari.

Quindi il tuo non è il mestiere più bello del mondo?!

Sia chiaro, io ci tengo a fare delle mie giornate di lavoro dei momenti di grande impegno e attenzione alla cura delle persone che mi ritrovo davanti. Possono essere immigrati, disoccupati, intellettuali, anche gente ricca che deve risolvere un problema e viene da me e chiede una consulenza. La biblioteca è un posto aperto a tutti, può entrare chiunque. A me piace avere questa cosa qua, ma a questo punto è bene che ti metta in evidenza almeno un paio di aspetti molto critici: il primo è che quando non sei appagato, non hai il riconoscimento sociale delle cose che fai, finisce che non hai mai un incoraggiamento ad andare avanti… e la mancanza di riconoscimento sociale porta un po’ alla volta a deprimersi; il secondo invece è che manca drammaticamente il reddito per potere organizzare delle cose fatte bene. Quello che guadagno a Fano non mi basta e devo andare sistematicamente a trovare altri lavori, passando così molto tempo a cercare di arrotondare a fine mese invece di occuparmi delle persone che avrebbero bisogno di cura, cioè delle cose che so fare.

Altro che emancipazione allora!

Infatti, penso che l’indicatore migliore dello stato dei lavori culturali nelle Marche, ma che possiamo anche generalizzare a tutta Italia, sia la condizione dei lavoratori culturali e non, come a molti piace credere, la “bellezza” del patrimonio nazionale. Il lavoratore è scontento e infelice se non ha la possibilità di fare quello che ha in testa. E se è infelice non riesce a lavorare per migliorare la situazione. Molto spesso non riesce neanche a lavorare per l’emancipazione di se stesso, figuriamoci per gli altri. D’altronde secondo me non è, e non deve essere, un missionario! La cosa è molto schietta: se il lavoratore dice “ho uno stipendio, ho delle garanzie e delle tutele, so che se mi ammalo sto a casa e poi posso tornare a portare avanti i miei progetti”. Se io faccio un certo tipo di lavoro con il mio pubblico ho anche la possibilità di verificare se le persone imparano delle cose, crescono, migliorano.

Resta sotto traccia nelle tue parole lo scontro con chi vede la cultura come “patrimonio” sia a destra che a sinistra. C’è chi lo vuole usare per alimentare le clientele e chi lo vuole privatizzare in senso vero e proprio. Ma c’è anche chi vorrebbe riportare questo patrimonio nelle mani di chi ne è il vero proprietario, cioè tutti noi. Ci sono state nel passato delle lotte o delle forme critiche per attivare dei processi di riappropriazione del patrimonio culturale?

No, la situazione in realtà è alla rovescia, cioè stiamo perdendo progressivamente quello che abbiamo. Provo a spiegarmi: a Fano sotto certi punti di vista facciamo un bel lavoro, anche più fortunato che altrove, però attenzione, se ti concentri solo nel dettaglio della tua città tutto ti può sembrare spiegabile ma poi quando ti confronti con altre realtà vedi luci e ombre.

Biblioteca Travaglini, Fano (PU)
Biblioteca Travaglini, Fano (PU)

Puoi farci qualche esempio?

A Pesaro recentemente c’è stata l’assegnazione dell’appalto dei servizi della Biblioteca pubblica San Giovanni a una cooperativa che ha fatto un’offerta con un ribasso economico pazzesco. Inoltre, già solo leggendo il capitolato potevi renderti conto che il Comune aveva messo in conto una riduzione dell’impiego di personale, in una struttura che è stata il fiore all’occhiello delle biblioteche italiane negli ultimi quindici anni! Una bellissima biblioteca inaugurata nel 2002, con la direzione in mano all’amministrazione pubblica e la gestione dei servizi affidata a personale esterno e cooperative. Per molti anni i lavoratori delle cooperative hanno vissuto decorosamente con contratti di lavoro comprensivi di tutti i vantaggi che questi comportano. Oggi però hanno tutti più di quarant’anni e a un certo punto nel 2017 il Comune che fa? Pubblica un bando di gara mettendo in conto, in pratica, di fare pagare ai lavoratori il ridimensionamento dei servizi. La cooperativa che subentra dice “ok, vi prendo tutti con la clausola sociale” che è stata inserita dai sindacati per salvare il salvabile. A chi aveva un tempo pieno settimanale propongono un contratto dimezzato: “se vuoi continuare a lavorare qua adesso ti offro solo venti ore di lavoro”. Ci sono colleghi che si sono messi in terapia dallo psicologo. Insomma, se la biblioteca modello sta facendo questa politica significa che c’è qualcosa che sta cambiando profondamente e che stiamo perdendo il controllo non solo del patrimonio ma di noi stessi.

E a Fano?

A Fano la biblioteca è stata inaugurata nel 2010. Quando, nel 2011, sono arrivato tramite le cooperative facevo delle collaborazioni occasionali, poi mi hanno fatto un contratto a progetto e infine il contratto a tempo indeterminato di ventotto ore settimanali. In una città di oltre 60.000 abitanti dovresti avere almeno trenta bibliotecari, cioè un bibliotecario ogni 2.000 abitanti, a tempo pieno; in realtà attualmente siamo in quindici, a tempo parziale. Questo significa che i lavoratori non sono nelle condizioni di lavorare, non dico per la riappropriazione del patrimonio culturale o l’emancipazione sociale di tutti, ma neanche per una piccola porzione di città in maniera efficace. Per tornare un attimo su Pesaro, questa città secondo me si è andata allineando alla situazione di Fano; ma se parli con gli amministratori fanesi ti dicono che non è vero, perché rispetto al 2012 hanno speso nell’ultimo appalto qualche soldo in più per coprire le spese del personale esternalizzato, che però come abbiamo visto rimane estremamente precario e insufficiente a coprire i fabbisogni dei cittadini.

E veniamo Senigallia…

Senigallia è una città che può tutt’al più giustificare camerieri, baristi e lavapiatti, con una discreta fetta rigorosamente in nero. Altra gente non ne vogliono più, è una città a terziario arretrato, dove vige uno stile di lavoro legato a una cultura di cinquant’anni fa. Mare, collina e ristoranti. Non a caso prospera un festival scadente come il Summer Jamboree. La cultura vive un provincialismo legato a traiettorie passate mentre il mondo va altrove.

I nostri figli tra qualche anno che tipo di lavori troveranno a Senigallia? Dove potranno studiare e documentarsi? Sono domande che implicitamente stanno alla base anche di una ricerca sociale che ho curato insieme a Roberta Montepeloso, realizzata da marzo a settembre 2017, voluta con determinazione dalla direzione della Biblioteca Antonelliana e finanziata, questo bisogna riconoscerlo, dal Comune[2]. I risultati ci hanno dimostrato che i cittadini hanno un’immagine della biblioteca come ambiente piacevole, accogliente, spazio di incontro per la comunità ma chiedono l’aggiornamento della raccolta, la riorganizzazione dello spazio, l’offerta di progetti formativi per tutti e per tutto l’arco di vita. Ma cosa fa il Comune? Sostanzialmente nulla, a parte organizzare eventi di intrattenimento per i famosi turisti. E non è accettabile che solo la direzione della biblioteca e i bibliotecari sentano il bisogno di curare l’eredità di una struttura che è viva e che ha una sedimentazione storica incredibile. Nessun pazzo ti dice che la biblioteca di Senigallia non serve a niente, tutti ammettono che è una cosa pubblica che mantiene una sua reputazione e un riconoscimento sociale, ma da parte dell’amministrazione non c’è né un supporto economico né una pianificazione degna di questo nome.

La cittadella dei saperi, Senigallia 2018
La cittadella dei saperi, Senigallia 2018

Qualche forza politica vi ha cercato per discuterne?

In realtà, a partire dallo stesso sindaco, tutti hanno ignorato la ricerca forse perché non capiscono neanche di cosa parla. E questo secondo me è un sintomo del vicolo cieco in cui si è cacciata la sinistra istituzionale che perde consensi dappertutto. Certamente esiste un’incapacità diffusa a elaborare una visione ampia del mondo della cultura in special modo in questa fase digitale, dove da una parte spadroneggiano aziende multinazionali e dall’altra il potere decisionale pubblico è affidato ad amministrazioni obsolete; evidentemente quando non parliamo di boogie-woogie le cose si fanno molto più complicate anche sul piano politico. 

Secondo te ci sono dei margini per costruire una iniziativa pubblica di rivendicazione nel vostro settore? Vedi degli spiragli da cui può uscire qualche sorpresa nelle Marche?

Su Fano e su Pesaro direi che la rivendicazione principale potrebbe essere il diritto alla biblioteca per tutti i cittadini e il riconoscimento del tempo pieno ai lavoratori, partendo dal presupposto che la loro serenità, la loro opera autenticamente cooperativa, porterebbe vantaggi a tutta la comunità, dal punto di vista culturale, educativo, ludico. Su Senigallia invece niente esclude che si possa intavolare un dibattito pubblico che a partire da una eredità e una percezione del servizio consolidata e positiva, avanzi una critica all’urbanistica e all’architettura della città: la biblioteca è un lavoro malfatto, privo di visione storica, realizzato negli anni ’90 del Novecento, quindi molto recentemente, con una impostazione ottocentesca. Si può benissimo senza investimenti esagerati rinnovare la cittadella dei saperi anche sul versante della sostenibilità ambientale, dello spreco di energia, perché così com’è oggi è un insulto alla ragione ecologica. Si può fare leva sui bisogni della fascia di età dei cittadini tra i 25 e i 40 anni, cioè lavoratori, precari, disoccupati, genitori, che dall’indagine sull’impatto della biblioteca emergono come coloro che esprimono delle esigenze complesse e una consapevolezza abbastanza profonda dell’importanza di un servizio pubblico bibliotecario come articolazione del welfare. A differenza degli studenti, che in questa fase storica non sembrano in grado di esprimere una visione innovativa e avanzano delle aspirazioni molto basse. Questo discorso penso possa essere generalizzato in quasi tutte le biblioteche della regione. Ma ci sono anche sfide più grandi da ingaggiare…

Ecco, quali sono le sfide più grandi secondo te?

Da bibliotecario credo che in questo momento la questione digitale sia davvero prioritaria, con tutto il portato di innovazione e spossessamento che ha in sé. Il digitale non è solo un insieme di manufatti che funzionano con un codice binario, ma un modo di produzione che ridefinisce la vita sociale, le identità, i rapporti di forza, i rapporti di proprietà. Per fare un esempio: tutti si prendono cura della propria casa, dell’automobile, dei terreni agricoli ma in pochi si preoccupano della loro proprietà intellettuale, generata dal semplice motivo che la società digitale ci ha reso tutti potenzialmente produttori di opere dell’ingegno, che prima erano prerogativa solo di scrittori, ricercatori, artisti, grafici, fotografi ecc. Creiamo quotidianamente un sacco di beni e relazioni online che lasciamo in mano a poche aziende, che li mercificano a scopo privatistico sulle loro piattaforme, ma ci impegniamo molto meno a costruire dei beni comuni digitali, un patrimonio pubblico digitale. Stefano Rodotà fino all’ultimo ha cercato di metterci in guardia dalla sottovalutazione di Internet, sostenendo la necessità di democratizzarne i processi che al momento sono sempre più regolati da Stati invadenti e imprese prepotenti. La questione ovviamente non può essere rimessa solo alle decisioni delle corti costituzionali ma dobbiamo e possiamo intervenire dal basso indicando soluzioni e orizzonti meno distopici possibile. I bibliotecari, ad esempio, dovrebbero battersi sempre di più per costruire una conoscenza dichiaratamente libera dalle gabbie del diritto d’autore esclusivo, oppure per garantire il possesso collettivo e l’accesso agli enormi patrimoni culturali di pubblico dominio, fuori da ogni sorta di privilegio amministrativo; se convertita da analogico in digitale questa ricchezza potrebbe consentire un riuso popolare, per l’edificazione di una rete Internet più densa di senso, ecologica, ragionata. I bibliotecari potrebbero promuovere, inoltre, l’autodifesa digitale intesa come pedagogia hacker e capacità di gestire la privacy, i dati, i conflitti e i flussi informativi minacciati sia da forme di sorveglianza e censura statale in nome della sicurezza che dalla invadente profilazione commerciale.

Foto di Gabriele C. dal carcere di Pesaro, 2015. Concorso Storie da MAB, 3. ed. (editing di redazione)
Foto di Gabriele C. dal carcere di Pesaro, 2015. Concorso Storie da MAB, 3. ed. (editing di redazione)

Un impegno enorme quindi!

Si, fin troppo! Forse è più semplice intanto invocare il “Quinto stato”, come lo chiamano i nostri amici Beppe Allegri e Roberto Ciccarelli, per ottenere almeno un reddito di base incondizionato! Infatti, se noi pensiamo di attivare delle politiche di riscatto a partire da una mobilitazione per il patrimonio culturale stiamo perdendo tempo poiché il problema alla fine non sono i libri di carta o digitali o i muri della biblioteca ma le relazioni che si stanno smarrendo. Quelli che lavorano nel settore sono invecchiati, i dipendenti pubblici hanno in media oltre i cinquantacinque anni e sono trattati malamente come tutti coloro che si aggirano in questo ambito; è vero, ci sono giovani bibliotecarie e bibliotecari molto motivati provenienti dalle cooperative, ma come ho detto prima, sono strozzati dalla precarietà e non riescono ancora a strutturare un discorso collettivo e ampio di rivendicazione. A livello nazionale ci sono dei gruppi e delle associazioni professionali abbastanza combattive ma qui nelle Marche al momento non c’è nessuna forma di militanza e di attivismo sindacale. Eppure, almeno per cominciare, la nostra condizione meriterebbe un’inchiesta più approfondita, un libro bianco, per svelarne la sostanza.

[1] L.R. n. 4/2010 e Delib.G.R. n. 708/2017 – Approvazione del progetto per la riorganizzazione e gestione del sistema bibliotecario regionale nel passaggio di funzioni tra Province e Regione Marche e dello schema di convenzione con gli Enti partner.

[2] La cittadella dei saperi. Ruolo e valore sociale della biblioteca comunale Antonelliana, Senigallia, 2018. http://www.comune.senigallia.an.it/scarica/La_cittadella_dei_saperi_2018.pdf