Padiglione zero (#1)

Padiglione zero
Di Valentina

Le esposizioni mondiali trasfigurano il valore di scambio delle merci; creano un ambito in cui il loro valore d’uso passa in secondo piano; inaugurano una fantasmagoria in cui l’uomo entra per lasciarsi distrarre. L’industria dei divertimenti gli facilita questo compito, sollevandolo all’altezza della merce.
Walter Benjamin, I “passages” di Parigi

Padiglione Zero
Padiglione Zero

 

Sono stata all’Expo e non serve girarsela tutta, basta vedere un padiglione, il “padiglione zero”.
Mi è servito più quello che qualsiasi incontro promosso dalla rete No-Expo.
È stato concepito come la porta d’ingresso dell’esposizione, dove circa il 70% dei visitatori passeranno. È il padiglione che racconta la filosofia dell’Expo di Milano e lo scopo primo dell’installazione è quello di emozionare, perché come ha dichiarato uno dei curatori “le persone che si emozionano sono molto più ricettive. La meraviglia é la più grande forma di conoscenza che possediamo”.

E ci sono ampiamente riusciti, il padiglione ti sovrasta, ti stupisce e ti accoglie in questo viaggio virtuale all’interno di una porzione di crosta terrestre, un viaggio nella storia dell’uomo dal punto di vista dell’alimentazione e dell’agricoltura.

È immenso (circa 9000 mq), irregolare e altissimo. Una sorta di tempio, perché sempre a detta dei curatori “il concetto di sacralità e di profondo rispetto verso la terra ha guidato la predisposizione del padiglione” e questo intento è immediatamente dichiarato sin dall’ingresso, sulla cui facciata troneggia una famosa definizione dell’agricoltura data da Plinio: “Divinus halitus terrae” (il divino respiro della terra).

Entrati nell’antro della terra, si perdono immediatamente le coordinate spaziali e temporali, tutto è fuori misura, straordinariamente affascinante e spettacolare. La prima sala tematica che si incontra è L’Archivio della memoria, un’enorme biblioteca di legno con infiniti cassetti che racchiudono idealmente tutti i saperi millenari e usanze alimentari dell’uomo. Si accede poi in una sala al cui interno svetta un albero di 23 metri che buca il soffitto proprio a rimarcare la supremazia della natura sull’uomo, mentre sul più grande videowall mai realizzato (21 metri per 50) viene proiettato il filmato di Mario Martone, Pastorale cilentana, una sorta di armonioso dialogo tra l’uomo e la natura.

La visita prosegue attraverso stanze con installazioni, dedicate alla natura e agli animali, che incantano e rimarcano l’alleanza tra l’uomo e la natura; un’alleanza che culmina nella Valle della civiltà, un’agorà con al centro un tavolo che rappresenta la Pangea costruito con legno kauri, il più antico legno al mondo, una rarità datata 48.000 anni fa.

Expo, Padiglione zero
Expo, Padiglione zero

 

Attraversando una grande anfora iconica, si è catapultati nella modernità, il passaggio è segnato da un plastico della superficie di circa 320 metri quadrati, che mostra come l’uomo, dalla rivoluzione industriale in poi, abbia spezzato l’alleanza con la natura e abbia influito pesantemente sulle modifiche dell’ambiente cambiando anche il modo di produrre il cibo.

La contemporaneità infatti è rappresentata dalla Borsa mondiale del cibo allestita su 650 schermi che ti annientano e ti impressionano, sui quali scorrono le oscillazioni dei prezzi degli alimenti accompagnate da scritte come “lo sfruttamento energetico e la speculazione finanziaria sono le cause dello squilibrio tra gli uomini”.

Qui la parola è speculazione”, spiegano i curatori. Subito dopo ci sono montagne di cibo, lo spreco. Attraverso piccole fessure, si scorge poi quello che l’uomo tende a dimenticare: le immagini di catastrofi ed eventi naturali ti entrano dentro con una violenza inaudita.

Ma subito dopo arriva l’armonia: piccole comunità rurali e sostenibilità agricola. Si vede su un altro schermo gigante tutto ciò che di bello c’è e si può fare al mondo rispettando l’ambiente ed infine, nell’ultima stanza, quella delle Buone pratiche vengono presentati i migliori 5 progetti per lo sviluppo alimentare promossi dall’ONU.

Stupore, emozione, memoria e colori. Esci dal padiglione e quasi hai voglia di applaudire, bravi ti viene da pensare, stiamo andando tutti nella stessa direzione, il pianeta presto sarà un posto migliore. Denunciano la speculazione finanziaria, parlano di buone pratiche e di comunità rurali sostenibili…

Questo per qualche secondo, poi sale la rabbia, sento il bisogno di scrollarmi di dosso quello che ho visto. Ricollocarmi nel tempo e nello spazio, non farmi sovrastare da quella parte emozionale-irrazionale che mi ha guidato per tutta la visita. E dopo la rabbia per vedere che si sono appropriati di nostre istanze, facendole proprie, arriva l’amaro, perché l’indebita appropriazione e la conseguente narrazione gli è riuscita ed anche bene. Una perfetta opera di marketing, dispongono di risorse e mezzi, vincono illudendo, ma di fatto spendono più per farne un visionario ideale che un percorso reale, con la complicità di chi parla e pratica l’eco-sostenibilità.

Sull’Expo hanno vinto loro: Monsanto, Coca Cola, McDonald’s… non c’è dubbio.

Expo insegna: la devastazione e il saccheggio come modalità di governo (#1)

Expo insegna: la devastazione e il saccheggio come modalità di governo
Di Gianluca

Primo Maggio 2015, Milano, corteo No Expo - Foto di Michele Lapini
Primo Maggio 2015, Milano, corteo No Expo – Foto di Michele Lapini

 

Sei mesi di Expo, ormai prossimi alla conclusione, possono darci una chiave di lettura del presente. Questa grande fiera dello sfruttamento e dell’ipocrisia, passerella luccicante del capitale e delle sue pratiche predatorie, ha retto l’urto dello scandalo a seguito delle inchieste per corruzione e malaffare, mentre i movimenti non sono riusciti ad inficiarne la retorica paternalistica e trionfalistica.

Dopo la fiammata del 1° maggio il nulla. Un incendio isolato, ripiegato su se stesso, come un fiore che nasce, cresce ed appassisce in un sol giorno. A seguire il deserto. Disgregazione diffusa e totalizzante per un movimento che arranca dietro a se stesso e ai propri fantasmi. Nel frattempo, dall’altra parte della barricata, il nemico ha sperimentato il nuovo assetto che vuole imprimere al paese. L’esposizione universale va letta non solo come lo specchio di un paese sotto attacco, dunque, ma può diventare la cartina di tornasole per una guerra che è già cominciata e di cui vanno colte le implicazioni e le possibili strategie di contrasto. Niente, o molto poco, resta da difendere: tutto da conquistare, da reinventare. A partire dalle diverse sacche di resistenza anticapitalista che, nonostante tutto, continuano ad avere la forza e la potenzialità per imporre una rottura, una battuta d’arresto. Non è l’unità a tutti i costi ciò che serve ai movimenti, ma un linguaggio in comune ed una definizione chiara di chi è il nemico e degli obiettivi che si pone. L’Expo non è solo la fotografia nitida di ciò che le classi subalterne hanno subito negli ultimi anni, ma principalmente una dichiarazione d’intenti: un futuro negato in un paese totalmente ristrutturato.

Primo Maggio 2015, Milano, distruzione creativa - Foto di Michele Lapini
Primo Maggio 2015, Milano, distruzione creativa – Foto di Michele Lapini

 

La capacità di leggere questa sottile differenza potrebbe essere la condizione per proiettarci in avanti, al di là del grande evento, oltre una sconfitta che rischia di fagocitare anni di esperienze maturate nelle lotte contro le grandi opere. Perché a voler guardare bene la sfida che ci si pone è il sabotaggio di una sola grande opera: un unico, enorme, articolato modello di accumulazione, che allo sfruttamento del lavoro accompagna il saccheggio dei territori, dotandosi di una pratica politica autoritaria che non ammette intralci. Sentiamo infatti ripetere continuamente che il paese sta cambiando e non ci si possono permettere battute d’arresto. Il governo delle grandi intese non si stanca di ripeterci che il mondo ci guarda e non possiamo permetterci brutte figure. Da qui lo scandaloso accordo con i sindacati confederali che hanno accantonato il diritto di sciopero nei sei mesi precedenti l’esposizione e durante l’intera durata della stessa. Medesima retorica, possiamo affermarlo oggi, con cui si annuncia la stretta sugli scioperi perché, dal sito archeologico di Pompei al settore dei trasporti, non si possono creare disagi in un momento così delicato. Bisogna sacrificare, ancora, dignità e vita al supremo interesse della ripresa economica.

Lo si diceva anche per la TAV ed oggi non ci crede più nessuno: non possiamo fermare il progresso per le rivendicazioni di qualche montanaro affezionato alla propria terra e alla propria salute. L’analogia tra il modello TAV e il modello EXPO sta tutta qui: imporre la trasformazione dei territori, sacrificarne gli interessi degli abitanti ed impedirne ogni rivendicazione attraverso la militarizzazione e la santificazione politico-mediatica di grandi opere e grandi eventi. A questo modello dobbiamo guardare come al nuovo modus operandi della classe dirigente, una sorta di colonialismo interno che dopo la mercificazione dei beni comuni mira alla conquista della terra e alla sua svendita agli interessi del grande capitale.

Primo Maggio 2015, Milano, corteo No Expo - Foto di Michele Lapini
Primo Maggio 2015, Milano, corteo No Expo – Foto di Michele Lapini

 

La gentrificazione e lo sventramento dei quartieri popolari ad uso e consumo di residence e centri commerciali, le trivelle lungo tutta la dorsale adriatica, la TAV, il ruolo delle grandi cooperative che in cambio della gestione dei mega appalti ricevono in pasto i diritti dei lavoratori: la grande opera da fermare è tutta in questo modello coperto dalla retorica dell’interesse nazionale al di sopra di tutto e tutti. Sabotare queste sperimentazioni è un compito arduo ma non demandabile, per soddisfare l’aspirazione a stravolgere lo stato di cose presenti.

Torna alla mente, di nuovo, il 1° maggio milanese. E viene da pensare che nell’isolamento e nella dispersione in cui annaspano i movimenti, si ha sempre più bisogno di certe fiammate. Quantomeno per restituire a chi non è più disposto a subire e temporeggiare la consapevolezza che possiamo sabotare prima di tutto questa atmosfera di calma apparente. In fondo agli annunci trionfalistici del nemico, dietro al velo delle sue menzogne, risiede un po’ della nostra verità. Va tutto bene, sentiamo echeggiare ovunque. Sappiamo che non è vero ed è nostro il compito di generalizzare questa consapevolezza. Di fronte a ciò, il grido di rabbia e disperazione del primo maggio, seppure soffocato nella narrazione tossica dei media mainstream e dal retrocedere di pezzi di movimento terrorizzati dalle conseguenze delle proprie aspirazioni rivoluzionarie, è un sussulto di dignità che irrompe in un quotidiano avvilente e ci indica una strada. Non certo l’unica, ma quantomeno un segnale che può essere colto da chi sente l’esigenza di rispedire al mittente la paura e l’incertezza per un futuro insondabile ed un presente negato.

Primo Maggio 2015, Milano, corteo No Expo - Foto di Michele Lapini
Primo Maggio 2015, Milano, corteo No Expo – Foto di Michele Lapini