Pesaro in movimento: dal Centro sociale allo Spazio popolare

Intervista di Luigi al Collettivo Anna Campbell di Pesaro

Se volete trovate la nostra rivista a Pesaro potete andare allo Spazio popolare Anna Campbell, dove puntualmente, ogni tre mesi, portiamo le copie fresche di stampa. Con questo nome e nell’attuale sede, lo Spazio ha aperto da pochi anni – libero da bieche logiche di “area” politica – raccogliendo l’eredità di quasi quarant’anni di autogestione nella città di Pesaro. Quattro decenni di conflittualità sociale, di battaglie culturali e politiche, di solidarietà attiva, di musica senza prezzo e di antidoti alla rassegnazione. Con questa intervista ad alcuni membri del nuovo Collettivo di gestione (intervista che abbiamo raccolto a luglio, in occasione di un pranzo a sostegno della rivista) raccontiamo che cos’è oggi lo Spazio popolare, come si inserisce e confronta con la città e quali sono i suoi progetti, in corso e futuri.

Pesaro spazio popolare Anna Campbell

Partiamo dalla storia di questo posto, che oggi è lo Spazio popolare Anna Campbell, ma che raccoglie l’eredità storica del centro sociale di Pesaro. Quale percorso vi ha portato fino a questa sede e alla formazione dell’attuale Collettivo?

Giuseppe: L’attuale esperienza nasce da quella che era la realtà del centro sociale Oltrefrontiera di Pesaro, portata avanti nella sua ultima fase dal Collettivo Malarlevèt (“male allevati”, in dialetto). Lo sgombero dalla sede storica, nel gennaio 2017, è stato uno spartiacque enorme. Noi veniamo da lì, anche se per età, interessi, trasferimenti ecc., diversi compagni non sono più nel Collettivo; quella di oggi è quindi una nuova fase, ripartita con quelli che sono rimasti.

Lo sgombero avvenne perché le azioni del Collettivo Malarlevèt si erano spesso scontrate con le forze politiche che amministravano la città. Ad esempio: la battaglia contro il jobs act e contro lo “Sblocca Italia” che favoriva le trivellazioni in mare (a Pesaro, la nuova piattaforma Bianca-Luisella), il sostegno al popolo palestinese (il comune abbandonò il gemellaggio con Rafah nella striscia di Gaza), ecc. Nel periodo antecedente allo sgombero, tra l’altro, avevamo preso una posizione netta per il No al referendum costituzionale del 2016, creando il comitato “per il No sociale” e organizzando iniziative anche colorite, come il funerale della democrazia, con tanto di bara e candele che avevamo esposto di fronte al centro sociale mentre era di passaggio il sindaco, che stava andando lì vicino, a un comizio pro Sì al referendum.

Giuseppina: Circa un mese dopo quell’episodio, un venerdì notte, hanno cambiato la serratura del posto. La mattina successiva, quando siamo arrivati, abbiamo appunto trovato la serratura cambiata e attaccato sulla porta c’era un cartello scritto a penna che avvertiva che quella era una proprietà comunale e se qualcuno entrava sarebbe stato sanzionato. Il posto infatti non era uno spazio occupato, ma era dato in comodato d’uso gratuito, da oltre trent’anni.

Quella mattina c’erano già pronte le macchine della digos, che stavano a vedere se avessimo forzato la porta. Noi però non siamo rientrati in quel momento, ma abbiamo deciso di porre il problema pubblicamente. La scusa accampata dall’amministrazione comunale è stata che avevano chiuso il posto perché pericolante, quando in realtà nello stesso edificio c’era uno spazio per gli anziani del quartiere, che noi stessi avevamo costruito tirando su un cartongesso, e quello è rimasto – ed è ancora – tranquillamente lì. Quando abbiamo sollevato la questione che avevano sequestrato all’interno cose nostre, compresi mobili, computer e una piccola biblioteca, ci hanno fissato un appuntamento per poter rientrare a riprenderle: quando siamo arrivati avevano già buttato tutto fuori, in mezzo al fango perché aveva piovuto. Tutto buttato così.

centro sociale Oltrefrontiera Pesaro 2017
C.S.A Oltrefrontiera Pesaro, via Leoncavallo (2017)

Giuseppe. Per completare il racconto va anche detto che, la settimana prima dello sgombero, un ragazzo che frequentava assiduamente lo spazio con difficoltà economiche e legali (rinnovo del permesso di soggiorno) venne chiamato in questura e dopo due giorni si presentò “spontaneamente” in Comune per consegnare copia delle chiavi del centro sociale. Con quel gesto gli uffici comunali costruirono un ridicolo atto di rinuncia del nostro Collettivo alla concessione dello spazio (in essere dal 1985), riuscendo loro – dopo vari tentavi fatti nel corso degli anni – a entrare nella struttura e quindi a sgomberarci. Da quel momento è iniziato il nostro viaggio per riprenderci lo spazio sociale della città di Pesaro. Dopo inutili tentavi di dialogo con gli uffici comunali e i politici locali, abbiamo convocato un’assemblea cittadina molto partecipata: non bastò a cambiare la situazione, ma servì a organizzare la lotta.

Passati pochi giorni abbiamo organizzato una manifestazione/sit-in di fronte al municipio, che aggirando la polizia si è trasformata nell’occupazione di alcuni uffici comunali per mezza giornata. Questo bastò a scuotere l’amministrazione che decise di incaricare un nuovo referente politico, l’allora assessore Bartolucci, per gestire e risolvere il pasticcio. Bartolucci trasformò l’atto di sgombero in una proposta di “trasferimento” in una nuova sede (lo spazio dove siamo ora).

Discutemmo nell’assemblea cittadina della proposta. Avevamo due scelte: rientrare nel posto da cui eravamo stati sgomberati, con un’occupazione e una successiva resistenza, oppure accettare la trattativa con l’amministrazione comunale per il trasferimento. Scelta difficile, alla luce di tanti casi come il nostro, finiti male. Alla fine l’assemblea fu costretta a votare e, con poco scarto, fu presa la decisione di accettare la proposta di trasloco. Ci sono poi volute tante riunioni in Comune e tante lettere protocollate ed è passato più di un anno prima di poter entrare effettivamente nel nuovo spazio, ma alla fine ci siamo riusciti e ora dobbiamo lottare per mantenerlo, perché se è vero che abbiamo risolto i problemi tecnico/burocratici quelli politici sono ancora tutti lì.

sgombero oltrefrontiera pesaro gennaio 2017
In piazza dopo lo sgombero, sotto la sede del Comune di Pesaro, gennaio 2017

Quindi siamo arrivati ad oggi. In questa nuova fase avete anche cambiato il nome del Collettivo, come lo avete scelto?

Giuseppe. Dopo tutto il percorso fatto, appena preso possesso del nuovo spazio il Collettivo ha scelto di darsi un nuovo nome. Sono state fatte diverse proposte, ma il nome di Anna Campbell, che due ragazze del Collettivo avevano conosciuto, è piaciuto ed è stato accettato da tutti e tutte. Anna Campbell è stata una martire per la liberà e i diritti civili: una delle tante combattenti straniere andate a difendere il popolo curdo del Rojava, unitasi alle YPJ (Unità di difesa delle donne). Si trovava ad Afrin il 15 marzo 2017 per impedire l’ingresso dell’ISIS ed è rimasta uccisa a ventisei anni a causa di un missile turco. La scelta è stata unanime, anche perché il nostro Collettivo ha sempre sostenuto l’esperienza politica e sociale del confederalismo democratico del Rojava. Tra l’altro nel 2015 abbiamo anche partecipato alla raccolta di aiuti denominata Carovana per Kobane.

Quali sono le prime iniziative che avete messo in piedi?

Giuseppina. Siamo partiti con il Festival delle cucine popolari autogestite. Nel 2018 abbiamo ospitato la terza edizione, tutte le assemblee sono state fatte qui allo Spazio e l’evento pubblico al parco Miralfiore. L’idea è che anche la cucina, a partire dalla materialità del cibo e da tutto quello che gli ruota attorno, può essere un terreno di lotta, di costruzione dell’autonomia, di rivendicazione politica. Queste cucine – come la nostra “cucina resistente” – sono anche cucine “in movimento”, perché disponibili a spostarsi in caso di necessità, ad esempio si è andati a far da mangiare per i migranti bloccati sul confine a Ventimiglia; noi ci siamo spostati spesso, anche per dare sostegno a Bologna a XM dopo il primo tentativo di sgombero.

festival delle cucine in movimento Roma

La Boutique di Anna che cos’è e come è nata?

Giuseppe: Quella che abbiamo chiamato la Boutique di Anna è una stanza piena di vestiti e altri generi, tutti suddivisi e ordinati, che sono liberamente a disposizione di chiunque ne abbia bisogno, secondo le sue necessità. Sono vestiti raccolti in occasione del terremoto del 2016 da parte delle Brigate di solidarietà attiva, di cui facciamo parte. In quell’occasione c’eravamo offerti come centro di raccolta per il Centro-Nord. I beni venivano smistati e mandati nei vari campi di terremotati ma, come spesso accade per le emergenze derivate da calamità naturali, le risposte solidali delle persone sono state molto più abbondanti delle esigenze reali. Avendo raccolto più del necessario, per un certo periodo, durante la fase dello sgombero, abbiamo organizzato lo “scambio solidale”: ogni sabato mattina ci mettevamo in piazza, proprio sotto al municipio, per scambiare prodotti che nel cratere non servivano più, come dentifrici e prodotti per l’igiene, in cambio di cose più strettamente necessarie.

Giuseppina: Finché a un certo punto si è posto il problema di cosa fare di tutto quello che era avanzato, in particolare avevamo ancora scatoloni e scatoloni di abbigliamento. Abbiamo pensato di continuare a dar loro una destinazione di solidarietà e così in questa nuova sede abbiamo organizzato la Boutique di Anna. Qui non facciamo una selezione tra chi può venire a prendere e chi no, non chiediamo credenziali né documenti perché siamo fuori dalla logica di certe istituzioni, dove chi si presenta in stato di necessità deve anche dimostrare di essere povero, cosa che ci sembra perfino umiliante, o dove non si può scegliere quello che si vuole ma solo prendere quello che è stato assegnato. E comunque molte persone che vengono più o meno frequentemente a prendere spesso portano anche altre cose, dando vita a un circuito solidale di scambio.

boutique di anna pesaro spazio sociale
La Boutique di Anna, Pesaro

Giuseppe: È infatti nata una rete di relazioni attorno alla Boutique, possiamo chiamarla una “comunità resistente”, che si organizza e collabora per sostenersi: chi ha di più, dà di più, chi ha bisogno prende. Nelle nostre iniziative cerchiamo sempre di ampliare la comunità e i campi d’azione, e così arriviamo a parlare anche dell’ultimo passo, la creazione dello Spaccio popolare, che è un modo diverso di procurarsi il cibo, più vicino al nostro sentire, fuori dalla grande distribuzione, genuino e solidale. È un passo molto impegnativo ma fondamentale, perché il cibo è un bene primario da sottrarre al capitalismo. Come abbiamo già detto, grazie alla nostra cucina popolare abbiamo negli anni creato delle relazioni che, ora, ci hanno permesso di dare vita a questo Spaccio popolare al quale partecipa una rete di produttori locali ed etici, che non sfruttano il territorio, le persone, gli animali (il nostro obiettivo è di dirigerci verso uno Spaccio prevalentemente vegetariano).

Quali sono altre iniziative e attività che ruotano attorno allo Spazio popolare?

Giuseppe: Il nostro spazio vuole essere aperto alla città, ovviamente a quella parte di città con cui condividiamo dei principi e dei valori di base (antifascismo, antirazzismo, antisessismo, antispecismo). Il Collettivo Anna Campbell ha attivato pratiche di mutualismo, azioni anticapitaliste e ambientaliste, lotte alle discriminazioni, riuscendo così a tessere una serie di legami con le associazioni del territorio e ad avviare collaborazioni che prima il centro sociale non aveva. Adesso diverse associazioni vengono qui o comunque sono in contatto con noi – come l’ONG La Palla rotonda, l’ODV Stay Human, l’APS Arcigay Agora, il Collettivo studentesco Iskra, l’APS Giovani profughi e altre – e con loro organizziamo diverse attività. Detto questo, non ci facciamo però mancare altri tipi di attività come il presidio antifascista ogni volta che Casa Pound si presenta, il sostegno alla comunità LGBTQI (l’anno scorso abbiamo partecipato all’organizzazione del primo Pride Marche), il boicottaggio dei prodotti israeliani per cui facciamo parte della rete BDS (movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro l’occupazione e l’apartheid israeliane), l’attenzione al mondo del lavoro con il supporto ai sindacati di base, ecc.

biliardino spazio popolare anna campbell
Biliardino in terrazza, Spazio popolare Anna Campbell

Giuseppina. Ad esempio La Palla rotonda è un’associazione che tenta di fare integrazione e aggregazione attraverso sport e cultura. Con loro abbiamo fatto diverse serate dal titolo “Conosci il mio paese”: ogni volta, chi è originario di un paese lo presenta, racconta cosa succede politicamente e non solo, insomma cerca di farcelo conoscere e dopo la presentazione c’è sempre una cena collettiva in cui proviamo a cucinare alcuni piatti tipici di quel paese. Facciamo una ricerca e cerchiamo di riprodurli, anche se non è facile per via degli ingredienti che possiamo reperire qui (in particolare le spezie sono di solito molto importanti). A fine serata c’è una cosa simpatica, un quiz a squadre, che mette alla prova la conoscenza su quel determinato paese; in palio non c’è niente, ma è una piccola cosa che coinvolge molto e sprona alla conoscenza reciproca: conoscenza che è la base del vivere insieme. Di queste serate a tema ne abbiamo fatte su tanti paesi, come Bosnia ed Erzegovina, Burkina Faso, Gambia, Guinea, Mali, Slovenia…

Un’altra iniziativa che è appena partita è la Ciclofficina. Vogliamo organizzare una piccola officina di attrezzi, così chi vuole ripararsi la bici può venire qui e con l’aiuto di qualcuno di noi, o da solo se è capace, può farlo, oppure se ne ha bisogno può prendere una delle bici che abbiamo già rimesso a posto; quelle che abbiamo adesso sono biciclette abbandonate che il comune (di Gabicce, non di Pesaro) ha recuperato e, passato un certo tempo in cui nessuno le ha reclamate, ce le ha donate.

foto di gruppo cena spazio sociale anna campbell pesaro
Foto di gruppo alla cena Conosci il mio paese [Iraq e Pakistan], dicembre 2019

Tra le associazioni con cui collaborate hai citato Giovani profughi. Tu, Adama, che ne sei formalmente il presidente, ci racconti chi siete e che cosa fate?

Adama: Il nome della nostra associazione – Giovani profughi – l’abbiamo scelto per far capire subito chi siamo veramente: siamo i profughi che la gente ha visto sbarcare e che ancora sbarcano qui. Siamo venuti tutti via mare, alcuni già sette anni fa. Prima dell’associazione, che è nata ufficialmente il 30 gennaio 2020, ci vedevamo come gruppo di amici, ci siamo infatti conosciuti nelle strutture di accoglienza che ci hanno accompagnato per un periodo, fino a quando due anni fa la legge le ha chiuse e molti ragazzi si sono trovati in difficoltà. Così abbiamo iniziato ad aiutarci tra di noi: chi aveva un lavoro o una casa non poteva lasciare un fratello fuori. E poi vogliamo condividere la nostra esperienza con chi è arrivato da poco e con quelli che arriveranno. Aiutarli a capire cosa serve per integrarsi, per imparare la lingua, per vivere qui scegliendo una buona strada.

In particolare sul lavoro è molto importante essere informati, perché se non conosci i tuoi diritti non puoi neanche chiederli e allora ci facciamo aiutare da chi è più esperto, dai sindacalisti ad esempio. All’inizio ci siamo incontrati proprio per problemi di lavoro di alcuni ragazzi che erano sottopagati, abbiamo invitato qui, in questo Spazio di Pesaro, un sindacalista dell’USB che poteva darci una mano; quel giorno abbiamo scoperto anche tanti altri problemi che aveva la nostra gente e così è nata l’idea dell’associazione. Da poco abbiamo aperto una nostra sede a Mercatale di Sassocorvaro, ma rimane un legame speciale con lo Spazio di Pesaro che è sempre stato aperto e disponibile con noi.

Ultimamente, durante il lockdown, abbiamo aiutato nella preparazione e distribuzione dei pacchi viveri per le famiglie in difficoltà.

Cosa vedi nel vostro futuro?

Adama: La prima cosa che vorrei vedere è l’integrazione: una società senza discriminazione, senza razzismo, senza tutte queste difficoltà che abbiamo per ottenere una casa e un lavoro, perché ci sono persone che guardano solo il colore della pelle o da dove vieni. Noi siamo qui perché non potevamo stare dove eravamo e adesso cerchiamo di integrarci. Penso che l’integrazione tra i popoli sarà inevitabile nel tempo. Trovare chi ci lascia sempre indietro e ci tratta male rende solo le cose più difficili e lascerà segni di dolore nelle menti e nei cuori che saranno difficili da cancellare. Se tu mi aiuti a integrarmi non avremo nessun problema e vivremo in pace, ma se tu adesso mi respingi, quando sarò integrato avrò sempre una brutta immagine di te. Nel nostro futuro vogliamo avere bei ricordi, non brutti ricordi.

Nei prossimi giorni ospiterete qui allo Spazio popolare una serata informativa sulle lotte per i diritti degli animali, con cena vegan, da cosa nasce questa iniziativa?

Paolo: Io sono attivista per i diritti degli animali da circa cinque anni, sono stato in vari gruppi; ultimamente, parlando con altri attivisti, abbiamo pensato di organizzare una cena, sia per conoscerci meglio tra di noi, sia per invitare altri e condividere informazioni sulle lotte per i diritti degli animali. Valentina ci ha proposto di farla qui allo Spazio popolare, ci è sembrata una buona idea e così è nato questo incontro. Personalmente mi sto concentrando sul filone della comunicazione efficace per attivisti perché mi rendo conto che è molto difficile parlare con altre persone di argomenti come veganismo, diritti degli animali e loro liberazione – immediata! Alcuni attivisti arrivano addirittura ad accusare una sindrome da stress. Ci sono persone che ci si dedicano full time, che vanno ad esempio a fare i rescue (liberazioni) degli animali negli allevamenti intensivi, ma la condizione di un attivista, o anche solo di una persona vegana, è quella di far parte di una piccola minoranza costantemente sotto pressione e quasi sotto attacco da parte di altre persone che magari non hanno affinato il ragionamento su certi argomenti. Non solo non vieni compreso, ma spesso vieni marginalizzato e quasi umiliato per la tua scelta, che in fondo non è che la ricerca del benessere per i viventi. Un libro cardine su questo discorso è “Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche”, di Melanie Joy: lei si occupa proprio di fare formazione per gli attivisti proponendo diverse strategie di comunicazione efficace. Credo sia bene iniziare a discutere di questo, la serata che faremo qui sarà l’inizio di questo confronto.

Concerto del Trio Kaos Pesaro 2019
Concerto del Trio Kaos, 3 agosto 2019

Fermo restando la verità oggettiva sintetizzata nello slogan ACAB (All cops are bastards), voi avete seguito e ora vi state legando alla rete ACAD (Associazione contro gli abusi in divisa). Ci raccontate qualcosa di questa rete e di come sta nascendo qui allo Spazio popolare di Pesaro un suo nodo territoriale?

Giuseppina: ACAD è rete eterogenea di persone, di diversa provenienza, che si è associata a partire dai casi di Federico Aldrovandi (2005), Uva, Cucchi e tanti altri, tutti morti nelle mani delle forze dell’ordine. Il percorso prima informale ha poi portato alla nascita dell’associazione, con un coordinamento nazionale e vari nodi territoriali. ACAD è diverse cose: un osservatorio per monitorare e contrastare gli abusi compiuti dalle forze dell’ordine, un pronto intervento che grazie a un numero verde si attiva immediatamente in caso di segnalazione di abusi, un mutuo soccorso solidale per le vittime e le loro famiglie, un centro di controinformazione per smontare le versioni dei verbali di polizia.

Noi, a Pesaro, stiamo diventando uno dei nodi territoriali di ACAD, anche se in questo momento il Covid ha un po’ bloccato la situazione. Vogliamo dare appoggio a chi ne ha bisogno, anche perché abbiamo riscontrato che a Pesaro gli abusi sono evidenti, i più comuni riguardano il mancato rinnovo dei permessi di soggiorno, il continuo approfittare di chi ha documenti in scadenza, perquisizioni assurde e così via.

Giuseppe: In realtà questa non è un’attività nuova per noi, nel senso che un sostegno di questo tipo lo abbiamo sempre dato, anche con il supporto del nostro avvocato che ci segue da anni e degli avvocati di strada di Pesaro. Il nostro arrivo in ACAD è stato quindi naturale, la cosa positiva è che ci dà una struttura di riferimento, una rete.

Il vostro spazio sociale si trova nella zona pesarese di Villa Fastiggi, pochi chilometri più avanti lungo la strada c’è un carcere dove – come purtroppo in moltissimi altri istituti penitenziari – le condizioni dei detenuti sono pessime, c’è sovraffollamento, ci sono problemi sanitari, sono avvenuti maltrattamenti e anche episodi molto più gravi, come ad esempio la morte di Eneas (Anas Zamzami) nel 2015. Vi siete fatti un’idea di cosa succede in questo carcere?

Giuseppina. Eneas era un giovane che stava scontando una lieve condanna nel carcere di Villa Fastiggi e si è tolto la vita. Su come sia arrivato a questo gesto sappiamo che ci sono fondate responsabilità da parte dell’amministrazione penitenziaria. Il caso di Eneas lo abbiamo seguito e siamo tuttora in contatto con il gruppo di amici e amiche che sta cercando di far luce sulla sua morte.

Verità per Eneas, morto di carcere, dicembre 2018

Giuseppe. Il carcere è un luogo di raccolta di “poveracci” e di disperati, il sunto della repressione di tutti coloro che sono emarginati, i cui problemi si potrebbero affrontare con ben altri strumenti; con il welfare, la solidarietà, le politiche sanitarie… Le storie di abusi, violenze, atti di autolesionismo e purtroppo di suicidi escono dal carcere di Villa Fastiggi e ci riempiono di rabbia e sconforto. Purtroppo, oltre la condanna del tribunale, la volontà punitiva verso i detenuti che si vive nell’ambiente del carcere è una cosa che abbiamo percepito e che ci è stata ampiamente raccontata. Per quanto possiamo, cerchiamo di attivarci a ogni sollecitazione, come nel caso di Eneas o collaborando con l’associazione Antigone. Vorremmo andare anche oltre, per questo abbiamo incontrato due volontari di Pesaro che tramite il rugby sono riusciti a organizzare attività sportiva nel carcere, dopo tre anni di richieste e di ostacoli. Ci aspetta un lavoro lungo e difficile.

A Pesaro, come in tutta la riviera, conoscete bene che cos’è lo “sfruttamento stagionale”, cioè quel lavoro in alberghi, ristoranti, stabilimenti, che dura qualche mese ed è fatto orari di lavoro interminabili, paghe ridicole, contratti non rispettati, assenza di turni di riposo eccetera. So che siete attivi/e anche su questo fronte, vero?

Giuseppina. Abbiamo aderito fin da subito alla campagna “Mai più sfruttamento stagionale” e al coordinamento nazionale, nato principalmente da attivisti dell’USB di Bologna, poi diffuso a Rimini, qui a Pesaro, in Toscana, in Sardegna. Si sta estendendo lungo tutte le zone costiere, dove lo sfruttamento stagionale si sente di più (certo, esiste anche in montagna, ma per ora il coordinamento è più presente sul mare). La campagna “Mai più sfruttamento stagionale” è una piattaforma di rivendicazioni, la prima cosa che chiede è, almeno, come minimo, il rispetto del contratto Collettivo nazionale, che è pessimo e pieno di criticità, ma è meglio di niente.

Io posso parlare per esperienza personale, ho iniziato a fare le stagioni quando avevo quattordici anni e ti posso assicurare che è vero che anche allora si lavoravano 15 ore al giorno, ma con tre o quattro mesi di lavoro mi pagavo gli studi e le vacanze, d’inverno non gravavo sulla famiglia. Gli stagionali di allora sapevano che per quei mesi avrebbero praticamente vissuto dentro l’albergo o il ristorante, però poi avevano tutto l’anno a disposizione. Oggi è molto diverso, si lavora sempre per tantissime ore, senza giorno libero, ma le paghe sono ben diverse e non c’è mai un vero contratto in regola. Io adesso ho un contratto a chiamata: spesso la sera mi dicono se la mattina dopo devo andare a lavorare oppure no. Non esiste nessuna garanzia, nessun diritto. Anzi, oggi più che mai con la pandemia in corso, molti datori di lavoro ti fanno sentire fortunato ad essere sfruttato, in confronto a tanti altri che con il Covid sono rimasti disoccupati.

Giuseppe. Bisognerebbe puntare a un vero e proprio sciopero degli stagionali, ma è difficile. Per ora ci sono riusciti i bagnini di salvataggio della Versilia, che come categoria hanno una certa forza perché se non si presentano lo stabilimento non può aprire, e quindi hanno ottenuto qualcosa. La campagna “Mai più sfruttamento stagionale” è stata accompagnata anche da un’indagine, sotto forma di questionario, dove tra l’altro è emersa una delle cose più tristi del lavoro stagionale cioè gli abusi, le molestie, con parole e atteggiamenti: per le donne la situazione è ancora più pesante.

Il proletariato non ha nazione. Ricordi d’internazionalismo dalla provincia marchigiana (#4)

Il proletariato non ha nazione. Ricordi d’internazionalismo dalla provincia marchigiana
Di Valerio [QUI IL PDF]

No pasaran!, cartolina dal Nicaragua, 1979 circa
No pasaran!, cartolina dal Nicaragua, 1979 circa

A forza di esportare la pace, gli Stati Uniti si sono ritrovati in guerra in 222 dei 239 anni della loro storia; per la maggior parte sono state guerre di aggressione o invasioni preparate dalla CIA. Tutti i presidenti degli Stai Uniti sono stati, in un modo o nell’altro, coinvolti almeno in una guerra. Fu soprattutto l’aggressione al Vietnam, con le immagini dei massacri e i villaggi bruciati dai bombardamenti al napalm, che contribuì a maturare nelle nostre coscienze quella sensibilità internazionalista che ci fece “sentire nostra qualunque ingiustizia commessa in qualunque parte del mondo”.

In Cile, l’11 settembre del 1973, il generale Pinochet filoguidato dagli americani attuò il colpo di Stato uccidendo il presidente Allende. Il golpe ebbe un’influenza politica ed emotiva enorme in tutto il mondo e l’eco di quell’avvenimento si fece sentire anche in Italia. In quei giorni il giornale «Lotta continua» lanciò una campagna di finanziamento denominata “Armi al MIR”, grazie a quella mobilitazione furono raccolte alcune centinaia di milioni che vennero girate agli uomini della resistenza cilena per continuare la lotta. Con l’appoggio a Pinochet, gli USA vollero mandare un monito a tutti i partiti socialisti del mondo: l’intendimento era quello di impedire la formazione di governi di ispirazione socialista, anche se democraticamente eletti e, con la cosiddetta “operazione Condor”, gli USA promossero la formazione di giunte militari e reazionarie in tutta l’America latina.

In Portogallo, nel 1974, una sollevazione attuata da militari dell’ala progressista delle forze armate, pose fine al regime fascista di António Salazar e del suo successore Marcelo Caetano. La dittatura aveva avuto origine dal golpe del 28 maggio 1926, durante la seconda guerra mondiale il Portogallo era rimasto neutrale poi, nel 1949, cessò l’isolamento politico del regime che per le sue posizioni anticomuniste diventò membro fondatore della NATO. Nel frattempo, la resistenza del Portogallo alla decolonizzazione provocò l’insorgere di un lungo conflitto tra le forze coloniali portoghesi e i movimenti di liberazione in Angola, Mozambico e Guinea-Bissau. All’inizio degli anni Settanta alcuni ufficiali con idee progressiste si riunirono nel Movimento delle forze armate (MFA) allo scopo di abbattere il regime e avviare il paese sulla strada della democrazia e della decolonizzazione. Il 25 aprile 1974 Radio Renascença trasmise la canzone Grândola Vila Morena: fu il segnale che dette inizio alle operazioni militari con l’arresto degli alti ufficiali fedeli al regime e l’occupazione di luoghi strategici, come l’aeroporto di Lisbona e la prigione politica di Peniche. Il colpo di mano dei soldati democratici ebbe l’immediato appoggio della popolazione. Il nome di Rivoluzione dei garofani deriva dal gesto di una fioraia, che in una piazza di Lisbona offrì garofani ai soldati; i fiori furono infilati nelle canne dei fucili diventando simbolo della rivoluzione. Poco dopo, venne sciolta la polizia politica e abolita la censura, le colonie ottennero l’indipendenza, i prigionieri politici uscirono dalle carceri e i politici in esilio tornarono nel paese. Il Primo maggio un milione di persone si ritrovò a Lisbona, per la prima volta legalmente, per la festa del lavoro.

Cile, da Allende alla resistenza proletaria. Ciclostilato, 1974
Cile, da Allende alla resistenza proletaria. Ciclostilato, 1974

La Rivoluzione aprì un periodo di grande fermento politico in cui si contendevano il potere i partiti della sinistra progressista e rivoluzionaria contro i partiti moderati e liberali. Il fallimento di un colpo di coda reazionario sostenuto dagli Stati Uniti consentì di spingere ulteriormente per una transizione verso il socialismo. Nel 1975, banche, compagnie di assicurazione e numerose industrie furono nazionalizzate, il nuovo governo attuò una riforma agraria per abolire il latifondo e ridistribuire la terra ai contadini, per diversi mesi in tutto il paese si svolsero manifestazioni, occupazioni di case, fabbriche, terreni. Per difendere il processo rivoluzionario, durante quella “calda estate” accorsero compagni da tutta Europa e anche dalla provincia di Pesaro partirono in una decina con destinazione Lisbona.

In Nicaragua, il 19 luglio 1979, fu abbattuta la dittatura della famiglia Somoza che per decenni aveva tenuto il paese in un abisso di povertà, predando ogni bene disponibile per arricchirsi grazie alla protezione americana. La rivoluzione fu guidata da un gruppo armato che contava su un ampio appoggio popolare, i sandinisti, eredi delle imprese di Augusto Sandino che negli anni Trenta, insieme al suo “piccolo esercito pazzo”, sconfisse i marines che occupavano il paese. I sandinisti erano contadini, operai, studenti e intellettuali e godevano dell’appoggio di buona parte della Chiesa locale, cosa che permise di poter cominciare a governare un paese ridotto in cenere.

La rivoluzione sandinista riuscì a raggiungere mete mai sognate prima nell’istmo centroamericano. Vi furono processi innovativi come la nazionalizzazione dei beni strategici e la riforma agraria, con la restituzione di migliaia di ettari ai piccoli produttori. Una delle prime grandi imprese fu inoltre la Crociata nazionale di alfabetizzazione, attuata per portare l’istruzione a una popolazione che aveva più del 50% di analfabetismo e che riuscì a ridurlo a circa il 12%. Il processo per instaurare una politica di giustizia sociale ebbe luogo soprattutto grazie alla partecipazione di giovani compagni che fin dall’inizio aderirono al movimento guerrigliero; furono loro il vero motore dell’alfabetizzazione della popolazione, così come vennero impiegati nei processi di mobilitazione per le giornate produttive agricole, diventate il supporto economico del paese. Di grande importanza fu l’impegno della popolazione nel conflitto che venne sostenuto negli anni Ottanta contro i movimenti controrivoluzionari (Contras), una guerra apertamente finanziata e guidata dagli Stati Uniti di Reagan. Per continuare a garantire l’istruzione e le prestazioni sanitarie i sandinisti chiesero aiuto a tutti coloro che nel mondo si battevano contro lo strapotere dell’imperialismo americano. E così anche dalla nostra provincia partì per quel sperduto paese un consistente numero d’insegnanti, medici, infermieri e tecnici.

Rivoluzione dei garofani, Portogallo, 1974
Rivoluzione dei garofani, Portogallo, 1974

Il 18 ottobre 1977, alle prime ore del mattino, Andreas Baader e Gudrun Ensslin furono suicidati nelle loro celle del carcere speciale di Stammheim in Germania. Il primo fu ucciso con un colpo di pistola alla nuca, la seconda impiccata a un filo elettrico; Jan Carl Raspe fu trovato agonizzante per un colpo alla testa e morì in ospedale, l’unica compagna che si salvò fu Irmgard Möller. Per vendicare in qualche modo quel suicidio di Stato, la sera dello stesso giorno una squadra partita da Fano partecipò all’assalto armato alla concessionaria italiana della BMW, in via Malaguti a Bologna. In quell’azione, mentre alcune squadre entrarono ed evacuarono l’edificio da clienti e dipendenti, una trentina di compagni bloccò completamente porta San Donato. Mentre la concessionaria veniva data alle fiamme, in fase di ripiegamento un agente di polizia fu intercettato e disarmato della sua arma d’ordinanza. La stessa notte furono fatte saltare in aria la sede della tedesca Kalle Infotec (materiali per ufficio) e la concessionaria bolognese della Volkswagen. Fu quello fu il modo per rendere un ultimo saluto ai compagni della RAF caduti a Stammheim.

Mappe perdute. La settima onda (#0)

Mappe perdute. La settima onda
Di Valerio

Quei bravi ragazzi
Quei bravi ragazzi

 

Dimenticati o meglio sarebbe definirli nascosti, cancellati, rimossi, quegli uomini e quelle donne i cui nomi non trovano posto nei libri di storia, che magari rintracci a fatica o per caso in qualche foto ingiallita, dove stanno sullo sfondo, quasi fuori dall’inquadratura, sempre lontano da quelli che contano, o irrompono loro malgrado in qualche nota di libri che sono scritti per qualche altro motivo.

Uomini e donne che sono sopravvissuti per decenni, praticamente soltanto nel personale ricordo di quelli che un tempo li conobbero e che sono ancora convinti che se questi loro compagni non fossero esistiti, il mondo sarebbe un posto ancora peggiore di quanto già oggi non sia.

Uomini e donne sempre definiti come sognatori, utopisti, moralisti o peggio ancora poeti, o magari addirittura avventurieri.

Uomini e donne che compirono l’imperdonabile errore di dire quello che pensavano e di fare quello che dicevano, e che errore ancor più grande, volevano vivere da liberi qui ed ora, senza aspettare i tempi ragionevoli della storia. E per questo motivo patirono le più cocenti delle delusioni, le sconfitte più devastanti, e a cui, ironia della sorte, soltanto gli archivi delle tante questure che li perseguitarono e mandarono in galera rendono un involontario e postumo omaggio.

In attesa di impedire il comizio di Rubinacci (MSI), Pesaro, 1975 circa
In attesa di impedire il comizio di Rubinacci (MSI), Pesaro, 1975 circa

 

Di loro puoi ritrovare le tracce nelle furibonde battaglie di strada, nelle imprese disperate, in qualche guerriglia ormai dimenticata, in tutti quei tentativi di assalto al cielo che tutto erano fuorché soltanto una frase di poetica bellezza.

Per i tanti storici di professione, le vite di questi uomini furono mosse da incontrollabili furori, dalla ricerca di un assoluto che non è della realtà effettuale. Storie e vite che per quelli che detengono il potere, o che ad esso ambiscono, paiono simili al Mito prima che questo diventasse storia e che ritengono il loro ricordo buono al massimo da tramandare come il folclore di un’epoca ormai passata, quando le parole uguaglianza, giustizia, liberazione, comunismo, contavano per quello che esse volevano veramente dire.

Parole che per i professionisti della politica attengono alla realtà allo stesso modo in cui, in un tempo ormai lontano, le nonne raccontavano ai bambini, seduti davanti al fuoco del camino, le favole che sapevano di magico e di misterioso.

Sono migliaia e migliaia i dimenticati dalla storia, quando essa è scritta, specie in tempi di revisionismo, con le parole di chi ha vinto e detiene il potere.

In attesa di impedire il comizio di Rubinacci (MSI), Pesaro, 1975 circa
In attesa di impedire il comizio di Rubinacci (MSI), Pesaro, 1975 circa

 

Anche perché costoro tra loro si riconoscono e soprattutto si legittimano vicendevolmente, perché hanno un bisogno disperato gli uni degli altri e giustamente non possono accettare che ci siano stati degli uomini e delle donne che non hanno aspettato direttive, analisi politiche o altro, per prendere da sé nelle mani il proprio destino e consapevoli di tale scelta ne hanno pagato e ne pagano le conseguenze fino in fondo.

Il loro esempio può essere contagioso, la loro memoria può essere portatrice di strane pulsioni, di ancora più strani desideri, magari può ancora trovare qualche pazzo che al patrimonio che essi hanno inteso trasmettere si voglia ispirare.

Per questo vogliamo raccontare quegli anni quando ancora la televisione era in bianco e nero. Anni di rivolta, di conflitto di massa diffuso, in cui nel finire, tanti nostri compagni si tagliarono i capelli per scomparire nella clandestinità che li avrebbe portati al lento trituramento delle carceri speciali, e tanti altri ancora sbranati dal “Grande Drago” dell’eroina.

Ultimi patetici colpi di coda di un passato che si ostina a non terminare? Può darsi, a sentire chi dice che la politica è l’arte del possibile e di conseguenza essa non ammette scorciatoie né tantomeno utopie da inseguire, per costoro queste sono cose che attengono ormai all’immaturità dei popoli e dei tempi.

Anche se a ben vedere non si direbbe proprio. Basti pensare come fu salutata la notizia del primo gennaio del ’94, quando centinaia di indios bassi e dal viso del colore della terra avevano occupato San Bartolomeo de Las Casas e tanti altri villaggi dai nomi impronunciabili, persi tra la giungla degli altopiani di uno stato messicano che nessuno aveva sentito nominare…

Sono tempi duri i nostri, anni di guerra umanitaria infinita; dall’Afghanistan all’Irak, dalla ex Jugoslavia al mattatoio ceceno, passando per Gaza rasa al suolo periodicamente, alla guerra per procura dell’Ucraina, al tentativo filoguidato di costruire il Califfato da parte dell’IS. Per finire con l’Africa e le miriadi di conflitti e genocidi che coinvolgono milioni di persone. Tempi di barbarie enunciate senza ritegno alcuno quelli che oggi viviamo, tempi in cui per battere il terrorismo viene sdoganata pure la tortura.

In attesa di impedire il comizio di Rubinacci (MSI), Pesaro, 1975 circa
In attesa di impedire il comizio di Rubinacci (MSI), Pesaro, 1975 circa

 

Eppure, malgrado tutto lo spiegamento mediatico di cui oggi il potere dispone, esso continua ad avere una paura fottuta della memoria che il passato porta con sé.

Altrimenti non si spiegherebbe, ad esempio, perché il movimento del ’77, con tutto il carico d’innovazione, di conflitti e tragedie che portò con sé stravolgendo definitivamente i vecchi stereotipi della politica, un movimento di “brutti, sporchi e cattivi”, sia stato cancellato dal calendario del nostro paese; spesso e soprattutto da quegli stessi che non fanno altro che ricordarci, con la spocchia che sempre li contraddistingue, che loro “hanno fatto il ’68”. Sono talmente tanti quelli che si appuntano sul petto la medaglia di sessantottini, da trasformare gli scontri di Valle Giulia, poco più di una baruffa, in uno scontro campale tra tutta la polizia intergalattica e un corteo di studenti più lungo della muraglia cinese!

Nel rievocare i fatti di un passato che oggi ci appare così gravido d’insegnamenti, c’è sempre il rischio di confondere la memoria storica con il ricordo, la ricerca dell’utopia con il sogno, che altro non rappresenta se non la fuga dalla realtà. Il rifugio ultimo di chi ha ormai rinunciato a vivere nel presente e cercare di cambiarlo, per quanto dura e difficile, questa cosa possa apparire.

Negli ultimi mesi ci è giunta però la notizia che in una sperduta valle, il Rojava, ai confini tra la Siria e la Turchia, un piccolo pugno di donne e di uomini male armati e peggio equipaggiati ha strappato una città, Kobane, dal controllo del potente esercito dell’IS.

Uomini e donne che sembrano provenire dal trapassato remoto della storia. Uomini e donne che in quei luoghi stanno sperimentando una nuova e rivoluzionaria forma di convivenza. Il socialismo!

Le radici di questo processo, nato anch’esso negli anni ’70, in qualche modo ci riguardano.

Così come ci insegna Papillon, quando alla sua veneranda età saltò dalla scogliera per cavalcare la sua ultima “settima onda”, anche noi vogliamo raccontare quegli anni grazie ai ricordi di chi è stato protagonista “fuori squadro” di quel conflitto, e poter gridare un’ultima volta: “Maledetti bastardi, siamo ancora vivi! Siamo ancora qui!”.

 

Un posto a sedere su tutte le corriere! (#1)

Un posto a sedere su tutte le corriere!
Di Valerio

Manifestazione studentesca, Fano, 14 novembre 1973
Manifestazione studentesca, Fano, 14 novembre 1973

 

Nel novembre del 1973, dopo l’ennesimo incidente verificatosi a causa del soprannumero di studenti che per andare a scuola prendeva la corriera, il Coordinamento Cittadino Studenti Medi di Fano lanciò la mobilitazione generale. Sciopero ad oltranza in tutte le scuole e blocco totale dei mezzi pubblici che transitavano per il Pincio.

La proposta della mobilitazione passò per pochi voti, gli studenti dei partiti della sinistra istituzionale tentarono in tutti i modi di bloccare la mobilitazione ma, purtroppo per loro, il tempo della mediazione, delle petizioni, degli appelli era abbondantemente scaduto. Era invece giunto il momento della lotta, dell’azione di forza.

Quello che non si sapeva, era come avrebbero reagito gli studenti fuori sede di fronte a tale iniziativa: avrebbero partecipato allo sciopero o si sarebbero recati a scuola? E gli altri studenti, quelli che a scuola ci andavano in bicicletta, avrebbero solidarizzato con i loro compagni seguendoli in una lotta che si preannunciava lunga e dura? Dopo le varie assemblee studentesche, molti dubbi assalirono i giovani compagni della sinistra…

Fortunatamente, a fugare tali e tanti dubbi arrivò il giorno dei blocchi. L’appuntamento per i compagni dei collettivi era fissato per le sei della mattina, si dovevano bloccare le prime corriere che da Fano partivano alla volta di Urbino (ITIS e Scuola d’arte), poi sarebbe toccato ai mezzi che portavano i geometri a Pesaro e le maestre a Fossombrone. Si immaginava che quella mattina sarebbe potuto accadere qualche tafferuglio, ma credevamo che parte degli studenti fuori sede fosse decisa a entrare a scuola e quindi bloccare le corriere sarebbe stato molto difficile e l’azione si sarebbe forse trasformata in un atto puramente dimostrativo, invece…

Mercoledì 14 novembre.
Appena arrivati alla stazione delle corriere ci raggiunsero decine e decine di studenti, le cosiddette “sardine”, quelli che ogni mattina erano obbligati a salire su quei mezzi sgangherati e stracarichi. Nessuno di loro salì sui pullman, anzi tutti parteciparono al blocco, più il tempo passava, più la massa degli studenti aumentava, decine, centinaia, migliaia di studenti bloccarono il Pincio sdraiandosi davanti a quei mezzi antiquati. Oltre alle corriere anche i tram furono bloccati. Verso le dieci di quella mattina un corteo spontaneo si mosse dalla stazione delle corriere per andare a manifestare sotto il deposito di Vitali. Il traffico andò in tilt e la città impazzì. Il pomeriggio i compagni dei collettivi si ritrovarono in assemblea, bisognava scrivere un nuovo manifesto, stampare altri volantini e soprattutto coordinare il blocco del giorno dopo.

Giovedì 15 novembre.
Quel giorno la mobilitazione fu grandiosa: tutte le scuole vuote con gli studenti al Pincio a bloccare le corriere. Non solo, ma anche a Urbino, Pesaro e Fossombrone gli studenti scioperarono e si misero a bloccare il traffico.

Venerdì 16 novembre.
Terzo giorno di mobilitazione generale. La lotta dal Pincio era dilagata in tutta la provincia. La mobilitazione però cominciava a mostrare i volti dei molti nemici, primi fra tutti quelli delle ditte private che lucravano su questa situazione, poi i politici perché la situazione stava sfuggendo loro di mano, infine i presidi che non solo avevano le aule completamente vuote, ma vedevano nascere agguerriti collettivi che ne mettevano in discussione il potere e oltre al posto su cui sedere chiedevano la mensa gratuita per chi era costretto a rimanere il pomeriggio, il rimborso del materiale didattico (libri e quaderni) per chi non poteva permetterselo, criticavano la didattica (cosa studiare, per chi studiare) e infine ritenevano di giudicare l’idoneità dei professori preposti all’insegnamento.

Alle nove circa di quel venerdì mattina, oltre agli studenti e alle corriere comparvero, d’un tratto, le verdi camionette del battaglione Senigallia.

Una, due, tre, quattro… dieci, venti!

I celerini, dopo essere scesi dai mezzi, si schierarono più o meno all’incrocio tra viale Gramsci e via Roma, si avvicinarono agli studenti convinti che con qualche spinta e qualche manganellata avrebbero risolto velocemente la faccenda.

Invece gli studenti resistettero! Si disperdevano durante le cariche ma poi tornavano a contrastare i poliziotti e tenere bloccate le corriere. Quella mattina si sviluppò una tale baraonda che si concluse solo verso mezzogiorno. A quel punto tutte le corriere e i tram bloccati rientrarono vuoti nei rispettivi depositi. Così fece la celere che se ne tornò in caserma.

Con parecchie contusioni e qualche bernoccolo, gli studenti avevano vinto la loro battaglia. Difatti, qualche giorno dopo, arrivarono al Pincio mezzi nuovi fiammanti e tutti gli studenti fuori sede ebbero a disposizione il posto su cui sedere.

Grazie a quella mobilitazione e agli scontri del Pincio si formarono collettivi politici in tutti gli istituti superiori. Contemporaneamente i compagni della Federazione giovanile comunista furono quasi tutti espulsi dal partito. Fu proprio dall’epurazione di quel gruppo che nacque Lotta continua, e fu così che Fano da tranquilla città di provincia si ritrovò in prima linea nel conflitto politico e sociale che, di lì a poco, avrebbe attraversato l’Europa.

Schegge di antifascismo militante (#2)

Schegge di antifascismo militante
Di Valerio

“Le forze per impedire il tentativo di rinascita del fascismo esistono purché agiscano e facciano sentire il loro peso. Non è sufficiente dire che la storia non si ripete. È vero, non si ripete mai nelle stesse forme, negli stessi modi, ma se si lasciasse fare e non si lottasse con la giustezza e la decisione necessarie, mirando a precisi obiettivi, potrebbe ripetersi anche in peggio”.
Pietro Secchia

Pesaro, 1975 circa
Pesaro, 1975 circa

 

Per noi che avevamo conosciuto i partigiani che operavano nella nostra zona, avevamo udito dalle loro voci i racconti della guerra ai nazifascisti, percorso le valli e i sentieri dove operavano le brigate leggendarie (la quinta Garibaldi e la Lugli), attraversato i luoghi delle grandi battaglie di Valpiano, Vilano e Monte dei Sospiri, per noi giovani comunisti, l’antifascismo non fu soltanto un valore ideale, fu anche un modello organizzativo.

In Italia, dopo la strage di piazza Fontana, vi furono anni di bombe e tentativi di colpi di stato a ripetizione. Per contrastare quella strategia, il Partito comunista mobilitò tutto il suo apparato, legale e non. Anche noi, seppur giovanissimi, collaborammo con l’apparato illegale del partito. Allora, nessuno immaginava che quell’esperienza avrebbe segnato in modo indelebile il nostro agire. Prima che il partito ci epurasse per estremismo e nell’attesa dell’arrivo dei carri armati, avevamo creato una sorta di struttura clandestina. Niente di straordinario per dei ragazzi di sedici anni: avevamo attrezzato la cantina della nonna di una nostra compagna che viveva altrove con una macchina per scrivere, un ciclostile, una cassetta per le medicazioni, lo schedario con le foto e le informazioni sui fascisti nostrani, le forze dell’ordine e le varie catene di comando. Infine vi avevamo nascosto l’immancabile piede di porco con cui regolarmente, quasi ogni notte, smontavamo la bacheca del Fronte della gioventù.

In quegli anni bui, si diceva che le Marche sotto il profilo dello squadrismo fascista erano tutto sommato una regione tranquilla. Si citavano gli episodi più clamorosi come casi isolati. I fascisti locali erano visti come incapaci di provocazioni di alto livello, perché erano pochi e non sufficientemente militarizzati. La nostra regione del resto, viste le amicizie, coperture e complicità, era spesso usata dai fascisti come retrovia, come un posto sicuro e tranquillo dove trascorrere la latitanza lontano da ricerche e sguardi indiscreti.

In realtà le provocazioni fasciste furono abbastanza numerose. Ad Ascoli, per esempio, nei primi anni ’70 vi fu tutta una serie di attentati al tritolo, vi fu poi l’incendio dell’Università di Urbino nel ’72, in quello stesso anno il ritrovamento di un arsenale Gladio a Camerino e l’anno successivo spedizioni punitive contro sindacalisti e operai di Ancona. Vi fu poi, sempre ad Ancona, l’attentato al plastico firmato Ordine Nero contro gli uffici dell’esattoria comunale, per finire con il ritrovamento nel gennaio 1974 dell’ordigno inesploso che avrebbe dovuto far saltare il treno di pendolari sulla linea Ancona-Pescara. L’imprevisto transito di un treno merci straordinario fece saltare i detonatori che per fortuna non riuscirono a innescare l’esplosione.

Libro inchiesta sul neofascismo marchigiano, 1975
Libro inchiesta sul neofascismo marchigiano, 1975

 

Nella provincia di Pesaro, l’impegno principale dei fascisti locali erano l’organizzazione di campi paramilitari durante l’addestramento estivo della brigata Folgore sul monte Carpegna, oltre alla gestione dell’aeroporto di Fano dove venivano insegnati ai camerati i rudimenti del paracadutismo. Gli episodi di provocazione più rilevanti furono senza dubbio il già ricordato incendio dell’Università di Urbino (anche se non fu mai chiarito se a provocare l’incendio furono i fascisti assediati o i compagni assedianti) e il lancio di un ordigno incendiario all’interno del Circolo ARCI di Fano situato nel seminterrato sotto la sede del PCI, in via De Petrucci 18.

Dal 1975, dopo l’assassino del compagno Claudio Varalli a Milano, l’aria cambiò: l’agibilità politica ai fascisti fu impedita con la “forza”. Gli episodi che più di altri contraddistinsero quel periodo di antifascismo militante furono il tentativo d’impedire il comizio del missino Rubinacci a Pesaro, da cui scaturirono scontri e tafferugli con la polizia e, nella primavera del 1976, l’occupazione di una televisione privata fanese (Tele Fano), quando un pugno di giovani compagni armati di sassi e manici di piccone impedì la registrazione dell’appello elettorale del segretario del MSI locale, che in quell’occasione si era presentato scortato da un gruppo di giovani camerati e dai celerini del battaglione Senigallia. A Fano, dove operava il gruppo di fascisti più numeroso e aggressivo dell’intera provincia, scontri e aggressioni furono numerosi. L’episodio principale rimane l’assalto da parte dei compagni al bar Beaurivage in zona Lido, abituale ritrovo estivo dei fascisti locali i quali, durante una festa studentesca, avevano violentato una giovane ragazza. Dopo quest’ultimo episodio di antifascismo militante, i camerati nostrani sparirono definitivamente dalla scena politica della città…

Oggi per essere antifascisti non basta avere in tasca la tessera dell’ANPI o andare con la memoria al ventennio del secolo scorso. L’orrore del fascismo non furono solo le leggi razziali e l’entrata in guerra come sembra indicare un devastante senso comune. Occorre per esempio avere ben chiaro l’obiettivo delle stragi degli anni ’70 e ’80, la strategia della tensione e la guerra a bassa intensità scatenata allora contro i partiti di sinistra, i sindacati e soprattutto i movimenti. Lo dimostra il filo nero che lega quegli anni ad oggi, ai “fascisti del terzo millennio” che ritroviamo sistematicamente connessi con le reti della criminalità organizzata. Oggi i fascisti sono spesso utilizzati come forza d’urto, lasciata pascolare in pace nel mondo degli affari sporchi, dai quartieri alle curve, utilizzando la leva del razzismo e della xenofobia per la penetrazione e il controllo del territorio.

In una situazione di crisi economica, sociale, morale, politica come quella in corso, la funzione dei fascisti può trovare delle accelerazioni improvvise ma non casuali. Se c’è il vuoto politico e ideologico nella società e il conflitto sociale stenta a delinearsi come fattore di emancipazione, aggregazione e indicazione di alternative, questo vuoto può essere riempito da chi ha più soldi, uomini svelti a menare le mani e slogan semplici ed efficaci. È per questo motivo che occorre, soprattutto oggi, concentrare l’intervento politico sul territorio, nelle scuole, nei quartieri, nelle pieghe più incattivite dell’esclusione sociale. Questo vuoto è uno spazio che deve assolutamente essere riempito dall’antagonismo sociale, per sottrarlo ai fascisti e trasformarlo in un progetto di emancipazione.

Eneas, ucciso dal carcere (#2)

Eneas, ucciso dal carcere
Di Gianluca

La storia di Eneas non è finita. Dopo la sua tragica morte nel carcere di Villa Fastiggi il 25 settembre 2015, sua madre e sua sorella, i suoi amici e tanti compagni solidali hanno iniziato a promuovere azioni per denunciare le responsabilità del carcere di Pesaro in quanto accaduto. Un presidio si è svolto sotto le mura dell’istituto e un gruppo di solidali ha continuato a farsi sentire con volantinaggi durante gli orari dei colloqui e organizzando un gruppo di persone che vogliono seguire questo caso; un’inchiesta giudiziaria per “istigazione al suicidio” è in corso. Ad inizio dicembre è arrivata la notizia che la direttrice del carcere verrà trasferita. Noi vogliamo ricordare questa dolorosa storia perché anche nella nostra regione il carcere è un meccanismo di oppressione sociale spesso rimosso fino a quando qualche evento tragico non ci riporta alla realtà.

Sotto il carcere di Villa Fastiggi (Pesaro), 22 novembre 2015
Sotto il carcere di Villa Fastiggi (Pesaro), 22 novembre 2015

 

La storia che raccontiamo ha il suo epilogo nel carcere di Villa Fastiggi a Pesaro, ma potrebbe essersi svolta ovunque, in una delle tante prigioni sparse per il paese, ad una delle troppe persone che entrano in carcere, spesso per reati di lieve entità, e finiscono per non uscirne più.

Anas Zanzami, detto Eneas, di ventinove anni, è un uomo marocchino che ha vissuto in Italia dall’età di sei anni. Viene arrestato ad aprile 2015 con l’accusa di false generalità e resistenza a pubblico ufficiale, reato commesso nel 2011 e per il quale subisce una spropositata condanna ad un anno di detenzione. Proprio il giorno in cui viene denunciato, per ironia della sorte, era riuscito faticosamente a ottenere la cittadinanza italiana. In base al nostro ordinamento giuridico il periodo di condanna inflitto ad Eneas non giustifica una detenzione ma andrebbe scontato con misure alternative al carcere. Infatti, dopo cinque mesi di reclusione Eneas potrebbe ottenere, in teoria, gli arresti domiciliari. L’udienza, che non avrà mai luogo, è fissata per il 21 ottobre 2015. Il carcere di Pesaro, è bene chiarirlo, ha visto negli ultimi anni intensificarsi i problemi di sovraffollamento e le tensioni tra sorveglianti e detenuti, compreso il numero dei suicidi e conseguenti proteste, anche dure, come quella del 2013 seguita al suicidio in cella di un uomo di trentatré anni. Altrettanto nota è la direttrice, Armanda Rossi, conosciuta per i suoi metodi autoritari e discrezionali nella gestione dell’attuale struttura e di quella del suo passato incarico, ovvero il carcere di Campobasso.

Per Eneas l’impatto con la vita carceraria sembra essere stato complicato e tortuoso. Un litigio con il concellino, detenuto con cui divide la cella, e il successivo rapporto degli agenti di custodia contro cui fa ricorso al magistrato di sorveglianza, lo escludono dall’accesso al lavoro e dalla possibilità di un’uscita anticipata. Si inaspriscono i rapporti con i sorveglianti e tra provocazioni e intimidazioni il ragazzo non esce all’aria per parecchio tempo. Decide di farlo dopo più di quattro mesi, ma appena esce viene aggredito da altri due detenuti. La pressione comincia a farsi sentire, la situazione si esaspera. Aumentano i controlli e le minacce, la posta gli viene bloccata e consegnata con criteri arbitrari, una pressione psicologica continua: Eneas capisce e non ci sta, decide di difendersi, reagire, chiedere aiuto a chi gli è vicino. Entra in sciopero della fame, perde parecchi chili, incide sulla propria pelle la rabbia per l’ingiustizia che sta subendo. Viene successivamente trasferito al carcere di Ascoli Piceno sotto osservazione, etichettato come problematico e tossicodipendente.

Sotto il carcere di Villa Fastiggi (Pesaro), 22 novembre 2015
Sotto il carcere di Villa Fastiggi (Pesaro), 22 novembre 2015

 

Dopo circa un mese viene ricondotto a Pesaro, anche se lui non ha nessuna voglia di tornare a Villa Fastiggi. Riesce ad incontrare la madre a colloquio ma verrà trovato morto poche ore dopo, impiccato. Le autorità parlano di sucidio addebitandone tempestivamente le cause alla fragilità psico-fisica di Eneas e al suo carattere “problematico”. La storia suscita da subito sospetti e rabbia nella famiglia e tra gli amici del ragazzo. Troppe cose non tornano. Dall’esigenza di una carcerazione per simili reati al trattamento subito in carcere, fino alla pessima scelta del suo ultimo trasferimento a Villa Fastiggi. I suoi amici e compagni si mobilitano, si diffonde la solidarietà, si arriva a volantinare davanti al carcere durante le visite. Il 22 novembre 2015 si svolge infine un numeroso presidio sotto le mura della struttura. I solidali si fanno sentire, i detenuti rispondono dalle finestre con piccoli fuochi improvvisati e grida che raccontano altre ingiustizie subite. Sono i primi passi, di certo non gli ultimi, per ricordare Eneas perseverando nella lotta contro il carcere e ciò che rappresenta: l’annullamento delle persone attraverso l’isolamento dal mondo e dai loro affetti, il controllo totale della vita quotidiana, il mantenimento della disciplina attraverso una degradante logica di premi e punizioni.

Di carcere si muore e benché sia importante capire come, non dovremmo mai dimenticare che un suicidio o un omicidio da parte di qualche sorvegliante troppo zelante o una lunga malattia consumata nell’umido della cella, sono comunque il prodotto di una situazione, quella carceraria, che in quanto tale determina sofferenza, morte e vite mutilate. In fondo in carcere non dovrebbe morire nessuno, in carcere non ci si dovrebbe neanche vivere. La prigione va superata. Questa convinzione è il filo che prolunga questa storia al di fuori del carcere, nella lotta che potrà nascere e nei legami che saprà costruire.

Compagni dal porto e dalle officine (#3)

Compagni dal porto e dalle officine
Di Valerio

Le operaie del calzaturificio Serafini, Fano, 1975 circa
Le operaie del calzaturificio Serafini, Fano, 1975 circa

 

Le organizzazioni della sinistra extraparlamentare degli anni ’70 presenti nella provincia di Pesaro e Urbino erano caratterizzate da una forte matrice operaista. Più o meno tutte avevano costituito una sorta di commissione operaia. Davanti alle fabbriche si appendevano in continuazione striscioni e tazebao (manifesti), ai cancelli si distribuivano volantini e s’improvvisavano comizi.

A Pesaro le fabbriche più organizzate erano le metalmeccaniche Benelli Moto e Morbidelli (macchine per il legno) e i cantieri navali Gennari. Quando la FIOM proclamava lo sciopero, al suono delle sirene migliaia di tute blu uscivano dai luoghi di lavoro per riempire piazza del Popolo e bloccare la città. A Fano era presente un’altra forza molto combattiva: i pescatori. Gli scioperi dei pescatori fanesi furono momenti memorabili della lotta di classe, l’ultimo avvenne nei primi anni ’80 e riguardava il rinnovo del contratto di lavoro, durò circa una quarantina di giorni e strappò agli armatori uno dei contatti della pesca ancora tra i più avanzati d’Italia. Alla proclamazione dello sciopero veniva tirata una catena o una calomba (altro non è che una grossa gomena con anima d’acciaio) tra i due moli in modo che nessun peschereccio potesse uscire e se qualche equipaggio di crumiri accendeva i motori per tentare di forzare il blocco, gli altri, con maniere alquanto spicce e qualche tuffo fuori stagione, costringevano i malcapitati a desistere.

Ci furono diverse lotte importanti, come quando nella seconda metà degli anni ’70 i padroni volevano chiudere la Cassese di Mondolfo. Lo sciopero e l’occupazione della fabbrica permisero a 250 operai di salvare il posto di lavoro. La madre di tutte le battaglie operaie fu però, senza dubbio, quella condotta in una fabbrica di dimensioni modeste, il calzaturificio Serafini, uno dei massimi esempi dell’affermarsi del “modello marchigiano” di frantumazione della grande industria e decentramento produttivo. All’interno del calzaturificio lavoravano circa un centinaio di operai, per la maggior parte donne, mentre gli uomini fungevano principalmente da capisquadra o da sorveglianti. I Serafini erano una vecchia famiglia fanese legata al fascismo dei bei tempi andati. Gestivano la fabbrica con il pugno di ferro. Fino alla fine degli anni ’60 gli operai erano pagati a cottimo, i turni erano di dieci ore ed erano costretti a lavorare anche il sabato fino a mezzogiorno. Inoltre erano in vigore le multe come nelle fabbriche dell’Ottocento: se durante la lavorazione un’operaia rovinava un pezzo di cuoio, il valore del pezzo le veniva decurtato dalla paga. Per modificare queste condizioni gli operai del calzaturificio, ma soprattutto le operaie, iniziarono a lottare fin d’allora.

Le operaie del calzaturificio Serafini, Fano, 1975 circa
Le operaie del calzaturificio Serafini, Fano, 1975 circa

 

Nella seconda metà degli anni ’70 per una mera speculazione edilizia, dato che la fabbrica si trovava dentro le mura della città, i proprietari decisero di chiudere, licenziare e vendere l’immobile. Gli operai si mobilitarono in massa contro quella chiusura. Fu innalzata una tenda in piazza XX Settembre, che divenne il centro della mobilitazione e della propaganda. Lo sciopero durò una cinquantina giorni ma si concluse con una sconfitta, la fabbrica chiuse e gli operai vennero licenziati. A dar manforte a quella lotta di resistenza si mobilitarono tutti i gruppi della sinistra allora presenti in città (Democrazia proletaria, Lotta continua, Organizzazione anarchica marchigiana e perfino la Comunità dei preti operai fanese).

Nonostante la sconfitta, quell’esperienza di lotta dura e senza quartiere rappresentò il momento più alto ed esaltante del conflitto di classe; la prima vera saldatura tra quelle donne e uomini che costituivano la base operaia più emancipata e i gruppi nati dalle lotte studentesche che da qualche tempo agivano in città.

Manifestazione sotto la neve, Fano, 1975 circa
Manifestazione sotto la neve, Fano, 1975 circa

 

“Free vax” a Pesaro

di Vittorio

Sabato 8 luglio sono stato al parco Miralfiore di Pesaro per vedere che aria tirava alla manifestazione contro l’obbligo vaccinale. Era un evento che si annunciava molto partecipato e che stava suscitando l’interesse di amiche, amici e compagni/e che per varie ragioni hanno scelto di non vaccinare i figli. Anche se personalmente non ho mai fatto grande resistenza ai vaccini, non sopporto le imposizioni e questa storia dell’obbligo vaccinale così massiccio e coatto non mi va giù, dunque ho preso il treno insieme a una comitiva con magliette arancioni – che aumentava di numero a ogni fermata da Ancona in avanti – e sono partito, praticamente senza sapere cosa avrei trovato.

La manifestazione, per chi non fosse informato, è stata organizzata da associazioni quali Comilva (Coordinamento italiano per la libertà delle vaccinazioni), Comitato salute e diritti di Pesaro, Vaccinare Informati e tante altre, per esprimere contrarietà al Decreto Lorenzin approvato a maggio di quest’anno (il Parlamento ha 60 giorni per convertirlo in legge) ed entrato immediatamente in vigore. Questo decreto oggi prevede l’obbligatorietà di 10 vaccini per bambine e bambini per avere accesso ad asili nido, scuole materne e scuole dell’obbligo e introduce sanzioni per i genitori che non intendono vaccinare i propri figli. Pertanto chi vuole continuare a non vaccinarli potrà farlo dietro pagamento di un dazio allo Stato. La decisione, per riprendere le parole del governo, è stata presa per evitare un’emergenza sanitaria, visto che la copertura vaccinale nel nostro Paese è al limite della soglia di sicurezza.

Quella di sabato 8 luglio non è la prima manifestazione contro il decreto, ma sicuramente quella con maggiore partecipazione ed è stata organizzata a Pesaro perché il Comilva oggi ha base a Rimini e raccoglie molti sostenitori tra Romagna e nord delle Marche. A Pesaro inoltre si è svolto un processo civile significativo per le associazioni “free vax” poiché nel luglio 2013 il Tribunale di Pesaro ha disposto l’indennizzo da parte del Ministero della Salute a carico della famiglia di una bambina morta nel 2003, riconoscendo una correlazione tra la vaccinazione e la morte della piccola.

L’entrata del parco, sotto un sole cocente, era presidiata da coppie di carabinieri sonnolenti e altre divise barocche di guardie provinciali, finanzieri e simili. In ossequio alle nuove norme dettate dal ministro Minniti sulle manifestazioni pubbliche, migliaia di persone entravano praticamente in fila indiana, silenziosamente. Gli organizzatori ripetevano dal palco che avevano rinunciato al corteo, che la Questura e la Prefettura avevano cercato di restringere il loro diritto a manifestare e loro lo avevano accettato pacificamente. Neanche a dirlo erano proibite le birrette, così ho dovuto scovare un varco nella selva del parco per poter contrabbandare una busta di Corona tiepide per non disidratarmi completamente.

In questa atmosfera rovente ho trovato effettivamente migliaia di persone provenienti da tutta Italia. Non è facile stimare a occhio i numeri, però lo scontro tra i media mainstream e gli attivisti che si definiscono “free vax” in rete è stato da subito forte e con l’evento ancora in corso. Sulle reti sociali rimbalzavano immagini dall’alto riprese dal drone di ordinanza, perplessità per aver accettato di svolgere la manifestazione in un parco recintato e generici insulti.
Erano 40.000? Questione poco interessante, sicuramente un numero importante e significativo per la piccola città di Pesaro e, secondo molte persone che avevano partecipato a iniziative precedenti, un numero in crescita.

Il caldo unito all’abuso del colore arancione ovunque poteva dare delle allucinazioni, ma ho cercato di restare lucido anche quando ho sentito parlare il cantante Povia dal palco (sì, quello che dice che l’omosessualità è una malattia che si può curare). Dopo il primo stupore: “ma dai me l’avevano detto ma pensavo mi prendessero per il culo” ho realizzato che tutto il programma culturale della manifestazione era pesantemente inclinato verso la destra più irrazionale e reazionaria. Finito lo strazio canoro un sorriso me l’ha regalato il filosofo più alla moda tra i neofascisti nostrani: Diego Fusaro. All’inizio le sue scemenze si sentivano appena, sovrastate dal pianto e dal chiasso di centinaia di bambini accaldati e scorrazzanti. Il giovane luminare infatti, in preda all’infervoro, parlava a macchinetta fuori dal microfono. Quando le pettorine della associazione Comilva l’hanno portato davanti all’apparecchio, ecco apparire i due concetti chiave: “la resistenza parte da due principi: famiglia e interesse nazionale”. Inizialmente ho dato la colpa alle birre ormai calde e alla farcitura delle sigarette, ma poi mi è balzata agli occhi l’evidenza: la maggior parte delle persone applaudivano convinte un mucchio di concetti fascisti e falsificati oppure, peggio, applaudivano ma erano totalmente indifferenti a quanto veniva detto, semplicemente applaudivano il fatto di essere lì insieme.

Gironzolando per il parco tra un intervento dal palco imbarazzante e l’altro ho incontrato amici, militanti di centri sociali e associazioni di base che hanno scelto di non vaccinare i figli o che nutrono legittimi dubbi sulle vaccinazioni: tutti erano piuttosto turbati. Non eravamo a casa nostra, anzi più passava il tempo e più l’effetto straniante, complice anche il caldo torrido, cresceva. L’arrivo sul palco di un fascistone dall’accento romanesco con tanto di maglietta nera “prima gli italiani” ha chiarito definitivamente le idee a tutti. Poi è stato il turno di Gianluigi Paragone, ex vicedirettore di Libero e giornalista della Padania, già conduttore della trasmissione “La gabbia” su La7. Il tenore generale degli interventi era populista e di destra, l’informazione scientifica e legale comunicata dagli interventi molto ridotta e poco utile.

La giornata è finita verso le 21, un sacco di passeggini che tornavano lentamente verso la stazione, madri con magliette che ringraziavano il governatore leghista del Veneto Zaia, striscioni che scomodavano Mengele associandolo ai medici che difendono le vaccinazioni e altro folclore. La sensazione che mi ha lasciato questa piazza è che gli spazi per i compagni e le compagne dentro quel movimento arancione siano inesistenti. Quella piazza poteva forse essere attraversata in modo intelligente da chi vuole criticare l’autoritarismo del governo associato alla scienza egemonica soltanto boicottando quel clima populista insopportabile e facendo emergere posizioni culturalmente diverse. Nessuno ha voluto e potuto farlo.

Ma quindi chi c’era in piazza? Come dice un amico sociologo che lavora a Bergamo, venuto a Pesaro mosso da buone intenzioni: siamo in compagnia della classe media che non c’è più e vive tra paura e risentimento cercando una guida e un nemico. Un mondo a cavallo tra i grillini e i libertarians americani tutti proprietà privata e famiglia.

Significa che la critica alla tecno-scienza e al rapporto tra poteri e saperi medici sia un campo da lasciare alle destre? No di certo, ma sicuramente la manifestazione dell’8 luglio a Pesaro ci restituisce l’immagine della debolezza e dell’invisibilità nello spazio pubblico di una critica anti-capitalista e anti-fascista del rapporto tra scienze e poteri a cui sarà necessario rimediare nell’immediato futuro.