A Senigallia. La fabbrica della morte (#3)

A Senigallia. La fabbrica della morte
Di Andres

Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di 'O Sarracino
Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di ‘O Sarracino

 

L’amianto, o asbesto (dal greco “inestinguibile”) è stato un materiale largamente utilizzato in molti settori produttivi per via della sua facile lavorazione, della sua forte resistenza all’usura e al calore. Fin dagli anni trenta del ’900 è dimostrato che l’ingestione o l’inalazione delle sue fibre è altamente tossica e cancerogena, ma la proprietà del brevetto e le ditte produttrici hanno imposto il silenzio per difendere i profitti, di fatto esponendo a rischi mortali milioni di lavoratori e abitanti. La produzione di amianto in Italia è vietata dal 1992, tuttavia quantitativi enormi di questo materiale sono dispersi ovunque, utilizzati nell’edilizia (tetti, controsoffitti, serbatoi) e perfino nella costruzione delle reti di distribuzione dell’acqua potabile. Senigallia ha costruito una parte importante dell’identità della sua classe operaia attorno al grande stabilimento di produzione di cemento e amianto Sacelit. La dismissione della fabbrica ha lasciato dietro di sé una scia tossica, di inquinamento del territorio e del mare, di mortalità tra gli ex-lavoratori e di polemiche. La trasformazione del modello produttivo dominante dalla fabbrica inquinante alla speculazione edilizia e territoriale è evidente nella traiettoria di questo luogo simbolico nei primi anni 2000. Dopo una demolizione radicale e una bonifica approssimativa ecco la speculazione edilizia e infine il fallimento dell’immobiliare “Fortezza srl” di Pietro Lanari, legata a doppio filo con la gestione clientelare di Banca Marche. Oggi l’area è abbandonata: un labirinto di ferro e cemento che ci può fare riflettere su cosa accade quando progresso e sviluppo vengono solo dall’alto. Oggi come ieri i padroni della città, per arricchirsi, lasciano alle loro spalle una quantità intollerabile di danni all’uomo e all’ambiente. A noi spetta non perdere la memoria del passato per immaginare un altro presente.

Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di 'O Sarracino
Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di ‘O Sarracino

 

Lo stabilimento Sacelit-Italcementi di Senigallia venne aperto nel 1947. Il cementificio inizialmente era collocato vicino alla cava di San Gaudenzio (Borgo Bicchia di Senigallia) dove veniva estratto il gesso per la pasta cementizia, in seguito venne spostato al porto, dove riceveva i materiali provenienti da San Gaudenzio (un trenino partiva dalla cava e si fermava su uno scalo merci apposito, proprio dietro la Sacelit) e dalle navi che scaricavano l’amianto al porto. La fabbrica comprendeva anche una falegnameria, un’officina meccanica, un laboratorio chimico, un distributore di carburante. Tra il 1970 e il 1975 ci lavoravano all’incirca 380 dipendenti, di cui 14 impiegati (oggi solo 9 sono ancora vivi) e 90 donne, per lo più ragazzine sui 16-18 anni, operaie con contratti trimestrali che se venivano scoperte incinte o sposate erano licenziate in tronco. L’ambiente lavorativo era molto rigido: i turnisti lavoravano a ciclo continuo a gruppi di 40/50, gli impiegati si davano del “lei” anche dopo tanti anni e potevano telefonare o semplicemente cambiare una penna solo previa giustificazione scritta. C’era un registro per le entrate e ogni ritardo doveva essere giustificato dal dipendente direttamente al direttore. Gli operai venivano pagati con tre acconti durante il mese, perché li si considerava con poco cervello e capaci di spendere facilmente tutta la mensilità se gliel’avessero data in una volta sola. Per essere assunti c’erano una serie di procedure che iniziavano dalla compilazione di un questionario in cui bisognava specificare anche il proprio orientamento politico e l’estrazione sociale; veniva poi chiesto al parroco se le informazioni fornite erano attendibili o meno. La fabbrica cercava di tenere lontani i comunisti, tant’è che una strategia molto usata dai dipendenti era quella di iscriversi alla CISL e, una volta assunti, tornavano alla CGIL.

Gli operai non sapevano niente dei rischi che stavano correndo. I primi tempi l’amianto veniva trasportato a spalla in sacchi di yuta fino a una bilancia dove venivano pesati e aperti con un coltello. Inutile aggiungere la quantità di amianto in sospensione che si respirava. C’era chi ci consumava il pranzo su quei sacchi. L’amianto veniva poi versato in delle grandi vasche presenti nella sala chiamata Olandesi, il cemento arrivava invece tramite un cementodotto dalla vicina Italcementi. Quando il tutto era miscelato con l’acqua, i fumi venivano rilasciati verso la città con degli esaustori, mentre le acque reflue scendevano per un condotto fino al mare. Dove ora c’è la darsena, c’era una spiaggetta grigia di amianto dove i ragazzini andavano a fare il bagno. I controlli fatti dall’ENPI (Ente nazionale prevenzione infortuni) riguardavano i macchinari, che puntualmente venivano fermati prima dei controlli, non l’ambiente.

All’inizio molti operai si ammalarono di eczema alle braccia perché non avevano nemmeno dei guanti adeguati. Nel ’70 cominciavano ad esserci già i primi ammalati gravi: la prima lavoratrice che morì fu un’operaia con il mesotelioma al polmone. Quell’anno Bruno Malatesta, sindacalista CGIL, denunciò la situazione alla Medicina del Lavoro di Roma e riportò le notizie alla commissione interna della fabbrica. Circa 200 erano i lavoratori iscritti alla CGIL, 50 alla CISL e qualcuno dei restanti alla UIL, uno soltanto era tesserato CISNAL, i fascisti, e veniva preso in giro da tutti. A quanto pare, i rappresentanti dei sindacati si erano fatti mettere tutti a lavorare al piazzale di carico, nessuno in produzione dove c’era più rischio di ammalarsi. Gli operai erano stanchi di vivere in un ambiente così malsano e senza protezioni; in quel periodo ci furono molti scioperi, ma le rivendicazioni sindacali furono sempre e soprattutto di tipo economico. La commissione interna decise sempre di continuare a lavorare, stabilendo tutt’al più una convenzione con l’Asur per fare annualmente degli esami di accertamento agli operai (raggiometrie, spirometrie, radiografie al torace, elettrocardiogramma, visite mediche).

Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di Francesco Buontempi
Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di Francesco Buontempi

 

Da quando a Senigallia venne vietato lo scarico in mare di sostanze, furono utilizzati dei silos in acciaio dentro i quali i prodotti di scarto venivano filtrati con un meccanismo a caduta, caricati in autocisterne e venduti a basso costo insieme ai rottami di amianto (quelli che non erano stati sotterrati nel piazzale dello stabilimento) che venivano usati per le fondamenta delle case, il sottofondo delle strade e in campagna. Tonnellate e tonnellate di rottami vennero anche trasportate fino alla cava di San Gaudenzio e gettate in una grande fossa cementata. Lo stabilimento Sacelit chiuse nel 1983. Fino agli ultimi anni di attività, i lavoratori non seppero praticamente nulla riguardo la nocività del materiale con cui lavoravano, né dai sindacati, né dai padroni. Dei 970 dipendenti al lavoro dal ’47 in poi, oggi ne rimangono vivi circa 200.

Nel 2005 venne istituito un forum all’interno del comune di Senigallia in cui l’ALA (Associazione lotta all’amianto) nella persona di alcuni rappresentanti, tra cui Carlo Montanari, delineò topograficamente i punti in cui erano sicuramente presenti le più grandi quantità di amianto all’interno dello stabilimento ormai dismesso. Parallelamente cominciarono le opere di demolizione della Sacelit. In quel periodo le inchieste fatte dall’ALA e da singoli cittadini dimostrarono come non vennero seguite le adeguate procedure di bonifica, rendendo la zona, se possibile, ancor più contaminata di quello che era: le case abitate lì vicino erano separate dal cantiere soltanto da un muretto alto pochi metri, l’ufficio del patrimonio di Senigallia diede in concessione ai bagnini uno spazio (tutt’ora presente) accanto al cantiere adibito a parcheggio per turisti, che non era stato nemmeno asfaltato. Su tutto quell’amianto si sono messi a costruire.

Dal 2005 fino ad ora tante sono state le segnalazioni fatte da privati e dall’ALA alle istituzioni, e i politici, come sempre, tanto ci hanno mangiato, scontrandosi gli uni con gli altri. Non è ancora chiara la pericolosità degli acquedotti, avendo parti costruite in cemento-amianto (stando ai documenti ufficiali non ci sarebbe da preoccuparsi…), ma soprattutto c’è profonda inconsapevolezza dei rischi da parte dei cittadini, così come delle istituzioni. Dieci anni fa Legambiente propose la costituzione di un’oasi nell’area della ex-cava di San Gaudenzio, ignorando completamente la presenza di tonnellate di amianto nel sottosuolo. Quando l’ALA denunciò il fatto, il progetto cadde subito nel silenzio. Nel maggio 2015 la lista Città Futura (Verdi, Sinistra ecologia e libertà, Rifondazione comunista) ha riproposto una riqualificazione urbana di San Gaudenzio, dichiarandola spontaneamente rinaturalizzata!

Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di 'O Sarracino
Ex stabilimento Italcementi, Senigallia. Foto di ‘O Sarracino

 

E così ancora oggi il problema rimane, si sottovaluta la questione, si fa troppo affidamento sulle istituzioni che spesso falliscono nelle operazioni proposte, come il progetto di bonifica “Amianto Free” presentato a gran voce e mai decollato. Il 26 febbraio 2016 si è svolto a Senigallia un convegno istituzionale sul progetto di un Testo Unico di legge per le bonifiche. Tuttavia la legge arriva spesso tardi e i responsabili raramente pagano un prezzo. Il 13 febbraio 2012 il Tribunale di Torino ha condannato in primo grado Louis De Cartier de Marchienne, direttore dell’azienda, e Stephan Ernest Schmidheiny, amministratore delegato, a 16 anni di reclusione per “disastro ambientale doloso permanente” e per “omissione volontaria di cautele antinfortunistiche”, obbligandoli a risarcire circa 3.000 parti civili. Il 3 giugno 2013 la pena venne “parzialmente riformata” e aumentata a 18 anni. Il 19 novembre 2014 la Corte di Cassazione ha annullato la condanna dichiarando prescritto il reato.

È necessario dunque riacquistare una coscienza di base di dove e quali sono i materiali nocivi, del loro impatto sul lavoro, sull’ambiente, sulla vita. È a noi che fa male l’amianto: nei luoghi di lavoro, in città, a scuola. Non si tratta solo di chiedere incentivi, ma di ricominciare a organizzarsi per lo smaltimento e le bonifiche, per impedire ulteriori disastri. Se le iniziative non partono dal basso, non possiamo aspettarci altro che fallimenti… a nostro danno!

 

Fonti

Intervista a Carlo Montanari, presidente Associazione Lotta all’Amianto, gennaio 2016

Youtube:
Documentario “Amianto una storia di morte”, 2010
https://www.youtube.com/user/AssociazioneAla#g/u

Senigallia Notizie:
Intervista a Bruno Malatesta (sindacalista CGIL), maggio 2015
www.senigallianotizie.it/1327373780/senigallia-scomparso-loperaio-e-sindacalista-bruno-malatesta

Articolo elettorale de «La Città Futura», maggio 2015:
http://www.senigallianotizie.it/1327374955/piano-delle-mura-parco-fluviale-riqualificazione-urbana-e-oasi-di-s-gaudenzio

Open Municipio:
Indagine sulla presenza di amianto nell’acqua potabile, marzo 2013:
http://senigallia.openmunicipio.it/media/attached_documents/20140303/0005_DOC300413_1.pdf

Progetto regionale per il censimento di manufatti contenenti amianto, aprile 2012:
http://senigallia.openmunicipio.it/acts/interpellations/2012-04-18-progetto-regionale-per-il-censimento-dei-manufatti-contenenti-amianto/

Associazione Italiana Registri Tumori:
http://itacan.ispo.toscana.it/italian/itacan.htm

 

Una casa aperta, anzi due (#9)

Una casa aperta, anzi due
Intervento di Stefano Boni

Durante i primi giorni di agosto del 2017 si è svolto a Roncitelli, piccolo paese di campagna sulle colline di Senigallia, un incontro informale che ha riunito cento persone per due giornate conviviali in cui si è discusso di un nuovo pro­getto di comunità intenzionale. L’iniziativa nasce attorno a due famiglie che hanno deciso di vivere un quotidiano meno isolato, condividendo spazi e tempi di vita. Vivono in due nuclei abitativi vicini e collegati da un terreno agricolo biologico, in una zona con una ricca storia sociale e un bellissimo quanto fragile ecosistema rurale. Vogliono aprire le proprie case a una socialità allargata ad altre famiglie e singoli basata sulla condivisione, la produzione artistica e contadina, l’ecologia e l’attenzione a forme di educazione rispettose della libertà e autonomia dei bambini. Il progetto è tuttora un cantiere aperto che coinvolge molte persone e rappresenta il tentativo di unire nella vita quotidiana passioni, lavori, responsabilità politica e personale. Stefano Boni è interve­nuto come amico e come antropologo attento al rapporto tra la dimensione individuale e quella collettiva nei processi politici di liberazione che sono in corso nella nostra società. Il suo breve discorso è stato seguito da una lunga assemblea (e da una festa ancora più lunga…) che ha messo a confronto tante esperienze concrete maturate in altri luoghi con i desideri degli abitanti del posto che cercano attivamente, e non sempre con successo, nuovi punti di riferimento e relazioni nel territorio delle Marche. Stefano ha proposto alcune idee preziose per evitare i problemi più comuni che sorgono in questo tipo di espe­rienze e per coniugare spontaneità e informalità con il necessario senso pratico. Su queste pagine continueremo a seguire lo sviluppo di questo progetto a Senigallia e, come per le esperienze di autocostruzione che abbiamo iniziato a conoscere nel numero 8, vorremmo allargare il nostro sguardo ed ascolto ad altre esperienze che stanno nascendo nei nostri territori e che racconteremo nei prossimi numeri.

Roncitelli, Senigallia, foto di Cristina Panicali [1]
Roncitelli, Senigallia, foto di Cristina Panicali
L’idea principale di oggi è quella di condividere tra noi e cercare di concretizzare, per quanto possibile, idee e progetti che potranno nascere e svilupparsi in questo contesto. Vi racconto intanto, brevemente, la mia esperienza personale, fatta di due periodi di vita collettiva. Il primo, dal 1999 al 2003, a Casa Gatti, vicino a Siena. Eravamo fondamentalmente giovani, con anche un po’ di bambini, ed è stata una bella esperienza, abbastanza “festaiola” ma si facevano anche tante cose insieme, dall’orto a iniziative di divulgazione e altro. Poi, dal 2011, sempre vicino a Siena, nel comune di Murlo, vivo in un’esperienza più familiare, che comprende adesso tre famiglie con sei bambini. In tutti questi anni, un po’ per mio interesse personale, un po’ come riflessione di ricerca, mi sono continuamente in­terrogato su questo bisogno di progettualità collettiva e comunitaria che si sta diffondendo in tutta Italia, ragionando sugli aspetti positivi ma anche sulle cause di molti fallimenti.

La ragione fondamentale di questa voglia di collettività è secondo me l’insoddisfazione rispetto al sistema esistente in cui apparentemente sia­mo super liberi, ma in realtà ci sono binari ben precisi in cui si dovrebbe percorrere la propria vita. Un primo aspetto di questa insoddisfazione è l’individualismo: l’idea di percepirsi come individui scissi da dinamiche di collettività. Riprendere il senso dello stare insieme, del costruire insieme, di essere comunità permette invece il mutuo appoggio, permette cioè di venirsi incontro quando ci sono momenti di difficoltà dei singoli, permette ai bambini di crescere insieme, che è una cosa che si sta perdendo sempre di più ma che per i bambini è fondamentale, cioè crescere in una comu­nità di bambini piuttosto che davanti a uno schermo, permette infine di percepire la piacevolezza del lavoro collettivo, fatto con persone a cui vuoi bene e che senti un po’ come fratelli e sorelle. Tutte queste sono cose che rendono la vita più piacevole.

Roncitelli, Senigallia, foto di Cristina Panicali
Roncitelli, Senigallia, foto di Cristina Panicali

Un secondo motivo di insoddisfazione è che spesso siamo ridotti al ruo­lo di consumatori. La libertà è una libertà di consumo piuttosto che un protagonismo nel crearsi un percorso di vita. Stando insieme si riescono invece a fare cose che da soli non si potrebbe, si riesce a riassumere un protagonismo anche nella parte produttiva, nella parte dell’organizzazione, della proposta culturale o politica che sia, e anche nel fare artigianale che è stato tendenzialmente devastato dall’industrializzazione, messo proprio fuori mercato, quando invece è qualcosa che ci fa sviluppare delle compe­tenze che poi ci torneranno utili sotto diversi punti di vista.

La terza ragione di insoddisfazione riguarda la produzione che è sempre più tossica. Mi riferisco alla produzione delle multinazionali e delle grandi industrie, che di certo non genera benessere. I loro prodotti non sono sa­ni, non sono pensati per noi ma per fare profitti, mentre ripensare a delle forme di autoproduzione che seguano la nostra morale, la nostra etica, è qualcosa che secondo me libera degli spazi di immaginazione e creatività, oltre alla soddisfazione di vedere che insieme agli altri si possono riprende­re in mano pezzi della propria esistenza.

Alcune di queste esperienze di vita collettiva vanno bene, creano colletti­vità, auto-reddito, permettono di promuovere una cultura alternativa. Un altro grande valore è che sono esperienze prefigurative, cioè che attraverso il piccolo portano a immaginare come potrebbe essere una società gestita in quel modo, una società di mutuo appoggio piuttosto che una società di concorrenza o meritocratica, una società di produzione artigianale piutto­sto che di produzione industriale. È chiaro che non la si realizza dall’oggi al domani, ma intanto, nel piccolo, si prefigura un’alternativa sistemica all’esistente. Questo è importante perché oggi abbiamo proprio difficoltà a immaginare un’alternativa reale: nel costruire piccole cose la si comincia invece a mettere a fuoco.

Detto questo, bisogna però essere consapevoli che raramente queste realtà si consolidano nel corso del tempo. È vero che spesso un progetto che fallisce rinasce poi sotto altre forme, ma questa dinamica deve portarci a ragionare su quali sono le cause di questi fallimenti almeno momentanei. Dunque, perché falliscono? La prima delle difficoltà ricorrenti che ho visto è l’eccesso di riflessione astratta. Spesso i gruppi nascono sul teorico, ini­ziano a discutere di grandi principi etici e finisce che ci si scazza sul nulla, perché ancora non c’è nulla di concreto. Questo investimento emotivo sul “come dovrebbe essere” è una causa di fallimento anticipato, prima ancora di riuscire a partire. Perciò il mio primo consiglio è di cominciare a fare, anche perché chi ci sarà nel fare le cose non è probabilmente quello che aveva parlato nell’assemblea ideologica iniziale, e anche perché i problemi reali del fare le cose insieme li vedi quando le fai piuttosto che quando ne parli. L’invito è quindi a sperimentare in maniera dinamica, nel fare piut­tosto che nel pensare.

Roncitelli, Senigallia, foto di Cristina Panicali
Roncitelli, Senigallia, foto di Cristina Panicali

Il secondo problema che emerge in tutte le esperienze è la cura della parte relazionale ed emotiva del gruppo. È una cosa fondamentale, che spesso anch’io all’inizio sottovalutavo: “oddio adesso tocca fare l’autocoscienza, raccontarsi gli scazzi personali…”. I gruppi sopravvivono se ci sono delle relazioni trasparenti, relazioni di sintonia emotiva, che non vuol dire do­ver andare d’accordo con tutti, né tantomeno che tutti devono diventare i tuoi migliori amici, ma vuol dire saper affrontare le difficoltà relazionali, metterle a fuoco e andare oltre. Sono le relazioni a costituire il gruppo e se le relazioni per una qualche ragione diventano bacate, tutto il gruppo collassa, a volte senza neanche dirsi la vera ragione per cui è collassato. Il processo di gestione del conflitto si può fare in mille modi, soprattutto con delle riunioni relazionali. Noi facciamo riunioni ogni tanto: una su due è relazionale, l’altra è organizzativa. Ci possono volere anche diverse riunioni per sciogliere dei nodi sui conflitti relazionali.

C’è poi la questione della proprietà. Questo è un altro ricorrente tema di conflitto che tendenzialmente si risolve adottando delle regole molto chiare. Si può anche iniziare sperimentando, ma a un certo punto biso­gna che tutti abbiano chiare le regole, perché lasciare allo spontaneismo e all’improvvisazione va bene sul breve periodo ma sul lungo termine tende a creare scontenti. Quindi: chiarezza.

Un’altra questione fondamentale è che il gruppo richiede assunzione di re­sponsabilità individuali e non delega di problemi individuali al gruppo. A volte ci si immette nel gruppo per scaricarsi di problematiche individuali: ho difficoltà a gestire i bambini e mi illudo che il gruppo in qualche modo risolva la mia problematica; ho difficoltà a trovare un salario e mi metto in gruppo sperando di… Questi sono atteggiamenti che vanno bene solo se c’è accanto anche un’assunzione di responsabilità. Mi devo chiedere di che cosa ha bisogno il gruppo? Come contribuisco al progresso del gruppo? Queste sono domande importanti, che valgono anche per le piccole cose. Ad esempio: la giornata di oggi come è stata organizzata? Quali sono stati gli sforzi per metterla in piedi? Che cosa posso fare affinché chi s’è sbattuto sia un po’ più leggero, perché chi ci ha messo i soldi possa rientrare? Qual è la responsabilità che mi posso prendere per rafforzare il gruppo?

In un contesto come quello dove siamo ora, in cui ci sono situazioni abi­tative accanto a progetti collettivi che nasceranno, quanto detto significa distinguere la parte domestica dalla parte progettuale, in modo da non far cadere solo su chi ci vive la fatica (anche a volte la pesantezza) della gestione della parte progettuale collettiva. Anche solo per organizzare una festa il lavoro è molto, a beneficiarne sono in tanti ma non è che chi abita qui faccia di lavoro il “festaiolo”, ha anche lui la sua vita e i suoi impegni. In generale, il gruppo si deve quindi interrogare su come fare per allegge­rire la pesantezza di una situazione domestica che si apre a progettualità collettive.

Una modalità organizzativa che secondo me può funzionare molto bene è il lavoro per gruppi di affinità. Evitare cioè di pensare a una sorta di regia centrale di tutto quanto, ma coinvolgere le persone su progettualità spe­cifiche sulle quali hanno voglia di essere coinvolte. Ci sarà chi si prende la responsabilità di lavorare per il forno, chi per l’orto collettivo e così si creano vari gruppi di gestione che nel loro ambito sono sovrani. Mettere tutto insieme diventa invece parecchio più complicato. Ecco, questi sono in estrema sintesi i piccoli consigli che ho per gli amici e le amiche di Roncitelli.

Roncitelli, Senigallia
Roncitelli, Senigallia