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società

Luna di miele a Maiorca

Da Rivista Malamente n. 17, mar. 2020 (QUI IL PDF)

Di Miguel Amorós

La possibilità di spostarsi, viaggiare e soggiornare per brevi periodi “altrove”, tipicamente in estate, è oggi alla portata di molti, ma spesso si finisce per ammassarsi con altri simili negli stessi posti, influenzati dalle migliaia di travel blog, dai portali booking, dalle offerte economiche, dalle tratte low cost, da un immaginario vacanziero sempre più stereotipato. Eppure varrebbe la pena percorrere sentieri non battuti, cercare alternative inaspettate, per scoprire che la meraviglia può essere anche a distanza ragionevole da casa, può essere alla portata delle proprie tasche e altrettanto entusiasmante (se non di più) delle mete maggiormente in voga. Conosciamo bene il turismo di massa, che si abbatte ormai da decenni sul nostro litorale adriatico, così come avviene, forse in misura ancora peggiore, nelle Isole Baleari: territorio raccontato da Miguel Amorós in questo articolo. Ora, se qualcuno tra i nostri lettori e lettrici fosse andato in vacanza alle Baleari non si senta in colpa; non gli/le chiediamo di battersi il patto meditando sui propri peccati, perché qui non vogliamo mettere in discussione i comportamenti individuali (in qualche modo indirizzati e condizionati dal contesto sociale) ma il modello culturale sottostante. Il testo che segue è la trascrizione di un intervento tenuto il 27 ottobre 2016 all’Ateneu Lo Tort[1] di Manacor (Maiorca), che abbiamo ripreso dall’appendice del libro di Henri Mora, Désastres touristiques. Effets politiques, sociaux et environnementaux d’une industrie dévorante (L’échappée, 2022). Un secondo intervento, dedicato ai Pirenei catalani, lo pubblicheremo su uno dei prossimi numeri della rivista.

La distruzione costante e irreversibile della costa e dell’entroterra alle sue spalle non è un fenomeno esclusivo di Maiorca. Si verifica in tutto il Mediterraneo e i suoi effetti sono più o meno visibili ovunque, a seconda della speculazione immobiliare e della costruzione di tangenziali o circonvallazioni. La peculiarità delle Isole Baleari è che questo fenomeno può essere osservato allo stato puro e su scala ridotta, il che ne fa un laboratorio dove studiare l’involuzione di una società, circoscritta in un’area limitata e circondata dal mare, in funzione dell’adattamento delle sue risorse territoriali e dei suoi beni culturali (che sono beni comuni) a un’unica attività economica, privata, il cui solo obiettivo è l’arricchimento personale di chi la pratica.

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Queer Anarchy in St. Imier

Da Rivista Malamente n. 30, set. 2023 (QUI IL PDF)

Intervista di Vittorio a Anna, Eli, Fiona, Flip

Dal 18 al 23 luglio nella cittadina di Saint-Imier in Svizzera si è svolto il raduno anarchico internazionale a 150 anni dalla nascita del movimento anarchico organizzato (settembre 1872). Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Bakunin e Kropotkin portavano lunghe barbe arruffate e cravattini neri alla Lavallière. Oggi l’anarchismo è più vivo che mai, ma l’estetica e le pratiche che marcano lo stile di migliaia di giovani attivisti e attiviste sono senz’altro queer e al tradizionale nero si sono aggiunti tutti i colori dello spettro. Lo stile queer contraddistingue la maggior parte dei partecipanti tra i venti e i trent’anni a questo vivace campeggio, dove ogni giorno si condividono idee e pratiche di lotta in più di duecento workshop e eventi. Migliaia di giovani si sono incontrati in una polifonia gioiosa e creativa, a volte caotica e leggera, altre di una intensità e radicalità spesso ancora invisibili nello spazio pubblico del nostro disgraziato paese. Questa intervista raccoglie le voci di giovani militanti provenienti dagli USA, dalla Francia e dal Regno Unito, che vivono attualmente in diversi progetti di abitazione collettiva a Berlino. Nell’intervista presentiamo i partecipanti con i pronomi con cui hanno scelto di essere chiamati secondo il genere nel quale si identificano, secondo una pratica ormai consolidata in ambiente anglosassone. Abbiamo mantenuto nel testo la pluralità di identità utilizzando il maschile e il femminile in modo inclusivo, senza appesantire il testo con particolari segni ortografici.

Vittorio (he/him): Inizierei con una domanda molto elementare perché ho notato nello spazio dell’editoria anarchica, ma anche tra la gente che sta partecipando a questo incontro, l’associazione tra anarchia e queer. Cosa significa, questo per voi? È questo l’abbinamento perfetto? Il nuovo abbinamento? Di cosa stiamo parlando?

Eli (they/them): L’anarchia queer è la creazione del genere e dei ruoli di genere, e la creazione di reti di relazioni basate sull’amore, sulla cura reciproca, sull’impegno profondo per l’amicizia. Questa è l’etica delle comunità queer, e i movimenti e le comunità anarchiche hanno davvero bisogno di quest’etica, in modo da poter diventare spazi amabili e sostenibili, che creano una cultura in cui le persone rimangano e si impegnino a lungo termine. Quindi l’anarchia queer mi sembra una combinazione naturale e necessaria, perché penso che le relazioni del patriarcato e dell’eterosessualità cis siano molto dannose per tutte le persone coinvolte, compresi gli uomini cis. La politica queer offre un’alternativa che è molto più forte, che ha più probabilità di generare un futuro anarchico.

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Spunti di riflessione per una decrescita digitale

Da Rivista Malamente n. 30, set. 2023 (QUI IL PDF)

Di Nicolas Alep

Di formazione informatico, ma in rottura con il suo mondo di provenienza, Nicolas Alep si dedica ora, in particolare, alla critica dell’industrializzazione in agricoltura, tema su cui ha contribuito all’opera collettiva “Reprendre la terre aux machines”, pubblicata dall’Atelier Paysan per le edizioni Seuil nel 2021. Il seguente articolo è stato pubblicato in via preliminare sulla rivista “L’Inventaire” (n. 12, autunno 2022) e, in versione definitiva, come introduzione alla seconda edizione di “Contro il digitale alternativo” (La lenteur, 2023), libro scritto insieme a Julia Laïnae e in via di pubblicazione in traduzione italiana per le nostre Edizioni Malamente.

Mentre la corsa alla digitalizzazione di ogni ambito sociale si rivela essere una fonte infinita di nocività, diversi attori ci propinano l’idea che «un altro digitale è possibile»: più umano, più ecologico, più trasparente, più cooperativo. Le grandi aziende tecnologiche sono avvertire: gli alternativi del digitale desiderano convertire quella megamacchina per profitti che è Internet in uno strumento conviviale al servizio della democrazia e del benessere di tutti/e. Julia Laïnae e Nicolas Alep, nel loro pungente saggio, ne hanno per tutti: burocrati verdi, gruppi di lavoro per una transizione digitale “sostenibile”, cyberminimalisti per la riduzione del danno, supporter del software libero, degli open data e della tecnologia civica. Riaffermano una posizione che appare sempre più insostenibile per molti dei nostri contemporanei: difendere la vita sulla Terra e la libertà umana comporta necessariamente la de-informatizzazione del mondo.

Contro il digitale alternativo, scritto con Julia Laïnae, è un piccolo e corrosivo saggio in cui abbiamo esposto i motivi di fondo che ci separano da quanti sostengono la possibilità di una gestione positiva del digitale.[1] Spesso con buone intenzioni, queste correnti difendono una visione per cui “un altro digitale è possibile”: libero, aperto, cittadino, alternativo… visione alla quale noi contrapponiamo la necessità di una “inversione di tendenza tecnologica”. La critica principale che abbiamo ricevuto è che il libro non apre prospettive di azione, non è un programma politico e ancor meno una guida per “vivere meglio con la tecnologia digitale”. Per molti lettori questo è ovviamente frustrante. Ma allo stato attuale, e per diverse ragioni, non sarebbe onesto pretendere di poter scrivere un manuale d’uso per una vera uscita dal digitale.

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Dio è morto in laboratorio

Da Rivista Malamente n. 30, set. 2023 (QUI IL PDF)

Riflessioni a partire dal libro “Il futuro della vita” di J. Doudna e S. Sternberg

Di Luigi

Il genoma di Homo sapiens – cioè il patrimonio genetico che definisce l’essere umano moderno – si è plasmato nel corso di circa 200.000 anni in base alle forze della selezione naturale, unite a mutazioni casuali. Oggi, da una decina d’anni a questa parte, il genere umano ha raggiunto la possibilità di progettare la propria evoluzione, sottraendola alle “leggi di natura”. Il fatto che gli scienziati possano controllare l’evoluzione e scriverla a loro piacimento è un cambiamento assoluto e radicale nella storia della specie umana, ed è impossibile prevedere dove condurrà. Ciò che ha reso possibile questa svolta senza precedenti nella storia della vita sulla Terra è la biotecnologia CRISPR-Cas9; una delle protagoniste di questa scoperta (Nobel per la Chimica nel 2020) è Jennifer Doudna, docente dell’Università di Berkeley, che insieme al ricercatore Samuel Sternberg ha recentemente scritto il libro di divulgazione scientifica Il futuro della vita. Come arriveremo a controllare l’evoluzione (Mondadori, 2022).

Il meccanismo CRISPR-Cas9 (che d’ora in poi, per brevità chiameremo solo CRISPR, pronuncia: crisper) è stato identificato studiando i batteri e il loro sistema di protezione nei confronti dei virus. Proviamo in poche righe a descrivere di cosa si tratta: nel momento in cui un batterio entra in contatto con un virus, sintetizza una replica esatta del DNA virale, originando una molecola di RNA che va ad associarsi alla proteina Cas9. Quando, successivamente, questa coppia si imbatte di nuovo nella stessa tipologia di virus, cioè quando il pezzo di RNA incontra nuovamente una sequenza di DNA che riconosce come complementare, interviene la proteina Cas9 che è in grado di tagliare la sequenza genica, distruggendo il virus nemico.

Il “bello” è che questo meccanismo d’azione è riproducibile in laboratorio e applicabile a tutti gli esseri viventi per scopi ben diversi dall’originale. In estrema sintesi: basta preparare una specifica sequenza di RNA complementare alla sequenza di DNA, nota, che si vuole andare a modificare; inserito il complesso CRISPR nella cellula, l’RNA farà da “guida” per raggiungere il pezzo di DNA bersaglio, portando così la proteina Cas9 nel punto esatto in cui deve intervenire con le sue forbici. A questo punto, sarà possibile eliminare la sequenza di DNA tagliata (e quindi inattivare un gene) oppure sostituirla con un’altra sequenza preparata in laboratorio (cioè sostituire un pezzo di DNA “difettoso” con uno “corretto”). Essendo ormai completamente mappato il genoma umano – cioè la doppia elica formata da circa sei miliardi di basi azotate adenina (A), citosina (C), guanina (G) e timina (T), che formano circa 20.000 geni, che a loro volta compongono le 23 coppie di cromosomi – è possibile intervenire in specifici punti del “codice della vita” per programmare quali caratteristiche e funzionalità dovrà avere un individuo.

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Il mio femminismo ha il velo

Da Rivista Malamente n. 30, set. 2023 (QUI IL PDF)

Intervista di Sergio Sinigaglia a Takoua Ben Mohamed

Arrivare bambina in un nuovo Paese, calarsi in una realtà sconosciuta, in un contesto dove spesso trovano spazio diffidenza, pregiudizi, intolleranza e anche razzismo, dove ti senti addosso gli sguardi che osservano con freddezza. Takoua Ben Mohamed (Tunisia, 1991) è giunta in Italia con la famiglia all’età di otto anni. Dopo aver vissuto per poco tempo in una piccola località alle porte di Roma, si è trasferita nella capitale, affrontando l’impatto della grande città. Ha preso presto coscienza della propria situazione maturando in fretta e iniziando il suo impegno sociale, culturale e politico. Grazie al suo talento da fumettista e illustratrice ha pubblicato graphic novel di successo, dove tratta temi come la condizione delle donne musulmane e dei rifugiati, il razzismo, la xenofobia. Tra i suoi libri: “Sotto il velo” (BeccoGiallo, 2016), “La Rivoluzione dei Gelsomini” (BeccoGiallo, 2018), “Il mio migliore amico è fascista” (Rizzoli, 2021). A fine maggio è stata a Senigallia, su invito dell’Associazione Le Rondini, dove ha prima fatto visita ad alcune scuole superiori e ha poi partecipato a un dibattito organizzato presso il Centro sociale Arvultura (alla presenza, tra gli altri, di studenti e studentesse della scuola di italiano per stranieri Penny Wirton). L’abbiamo intervista in questa occasione.

Sei arrivata in Italia che eri una bambina, che impatto hai avuto con il nuovo contesto?

Era il 1999, quindi un’altra Italia. Inoltre la mia prima residenza è stata in un piccolo paese vicino a Roma dove si conoscevano tutti quanti, dunque un ambiente piuttosto familiare, tenendo presente che un bambino ha una capacità di ambientamento più facile rispetto a un adulto, il quale ha già una sua identità, una sua cultura. Per me è stato un cambiamento abbastanza normale.

I problemi sono iniziati quando nel 2001 ci siamo trasferiti a Roma, il primo anno all’Eur poi nella zona Est, per cui sono passata da un ambiente dove tutti si aiutavano, dove le relazioni erano facili anche se eravamo l’unica famiglia di immigrati, a una situazione completamente diversa dove uscivi la mattina e tornavi la sera senza avere tempo neanche di conoscere i vicini di casa.

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Una storia, mille storie

Da Rivista Malamente n. 30, set. 2023 (QUI IL PDF)

Di Nicoletta Grammatico

Questo racconto è stato ricostruito sulla base delle interviste concessemi da Scilla e Anna, che ringrazio moltissimo. La testimonianza in prima persona è funzionale a restituire una storia intima, che da personale si fa collettiva, per trasportare lettori e lettrici nel vivo di una narrazione vissuta sulla propria pelle e sui propri corpi da molte donne. Dai racconti raccolti emerge come, nello specifico della regione Marche ma non solo, sebbene l’interruzione volontaria di gravidanza sia sulla carta un diritto, nella realtà viene sempre più spesso ostacolata e negata. Oggi abortire nelle Marche è diventato molto complicato: con il personale medico obiettore che invade i reparti ospedalieri e la promozione di associazioni pro-vita, la legge 194 ha subito un duro colpo e con essa anche la libertà di scelta individuale. Queste storie ne sono una testimonianza diretta.

¶ Non ho mai pensato di voler diventare mamma. No, non l’ho mai voluto. Nemmeno da piccola quando le altre bambine del quartiere giocavano a mamma e figli. Non volevo essere mamma nemmeno per gioco. Così fu per me facile decidere di abortire quando scoprii di essere incinta, meno facile fu invece trovare chi mi facesse abortire. Tante volte mi sono chiesta dove finisca la linea dell’aspettativa sociale e inizi quella della volontà soggettiva, dell’autodeterminazione. Nelle varie storie di aborto che ho ascoltato, e nella mia esperienza, la percezione che ne ricavavo era che la prima trainasse inesorabile la seconda, la scelta non era assecondata se contrastava il modello sociale imposto. A chiunque mi domandi: «ma non hai avuto paura?», rispondo sempre allo stesso modo: «ho veramente avuto paura, paura di non riuscire ad abortire».

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COVID e anarchia necessaria

Di Antonio Scardino, medico

da Rivista Malamente, n. 31, dic. 2023 [anticipazione online]

Sono un medico di medicina generale che ha fatto ricerca in immunologia e si ritrova, suo malgrado, in uno stile di vita anarchico. Ho lavorato in diversi paesi oltre che in Italia: negli USA, in Francia; e in quel territorio martoriato che dovrebbe chiamarsi Kurdistan ma che sulle carte non esiste: facevo il medico volontario nella martoriata Kobanê, quando i corridoi umanitari aperti dai turchi lo permettevano, prima di essere stato espulso dalla Turchia come persona non grata.

Nel marzo del 2020 facevo il medico di medicina generale in Francia; quel pomeriggio mi trovavo in un ristorante di Montlhéry con Boris e Abdel. Arrivavano dall’Italia le prime notizie della epidemia da SARS-Cov2 e la sindrome COVID faceva purtroppo già molte vittime, specialmente fra gli anziani del bergamasco. Avevamo dato alla notizia il peso che oramai meritano le informazioni che provengono dalla televisione: attendavamo che la cosa si sgonfiasse da sé. Invece, a fine marzo 2020 il presidente della Repubblica Francese, Macron ci disse a reti unificate, per sei volte di seguito, che oramai eravamo in guerra. Dalla mattina successiva le strade erano deserte, le scuole chiuse, e tutti noi ci trovammo confinati nelle nostre case. Unica finestra aperta sul mondo: la televisione. Avevamo paura persino di respirare.

A Montlhéry era rimasta aperta solamente la boulangerie, per qualche ora del mattino, e il mio ambulatorio medico. I pronto soccorso degli ospedali della zona, a Longjumeau e ad Arpajon, erano già saturi. Una gran parte dei colleghi s’era data malata, qualcuno era partito all’estero prima della chiusura delle frontiere. Mi aggiravo fra i quartieri immersi nell’atmosfera post apocalittica, surreale, che ritroviamo nella peste di Camus. Con mio grande stupore, dagli ospedali tornavano a casa i neri, gli arabi e gli stranieri che erano positivi alla SARS-Cov2 e, sebbene sintomatici, non erano ammessi ai posti limitati nelle rianimazioni. Erano affidati a se stessi e a noi, ai medici di base; e noi li curavamo a casa in modo empirico: antibiotici, anti-infiammatori, vitamine e ossigeno. Qualcuno moriva. Avevo organizzato fuori dell’ambulatorio, dove regnava il silenzio e il deserto, una fila di sedie, distanziate di sei metri l’una dall’altra. La coda era impressionante e surreale: gente seduta in strada che tossiva fino a diventare paonazza. Facevo il triage che si faceva forse a Omaha Beach durante lo sbarco: ricovero immediato con qualunque mezzo… ricovero a domicilio con farmaci e ossigeno… codice rosso: iniezione di corticosteroidi e broncodilatatori e attesa dell’ambulanza medicalizzata… semplice gastro enterite con annesso attacco di panico o psicotico…

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Altri fiori, altri partigiani

Redazione Malamente


Ieri (07 maggio) a Kiev, in una località che è stata tenuta segreta per motivi di sicurezza, si è svolta la commemorazione di tre volontari internazionalisti caduti in combattimento a Bakhmut il 19 aprile, quasi impercettibili tra le centinaia di vite che vengono falciate ogni giorno dalla guerra sul lato ucraino e russo.

Questi tre uomini hanno però un significato particolare perché raccontano una storia minoritaria ma per noi molto importante all’interno della tragedia in corso. Dmitriy «Leshy» Petrov, Finbar «Chia» Cafferkey e Cooper «Harris» Andrews erano tutti e tre internazionalisti e attivisti antifascisti nei loro paesi. La piccola celebrazione in forma privata ha coinvolto decine di attivisti ucraini e di altre nazionalità, insieme ad alcuni familiari giunti dall’estero per l’occasione.

A Kiev dall’inizio della guerra esiste infatti una piccola ma resiliente rete di volontari/e, attivisti/e, militanti che nonostante e contro le difficoltà della guerra lottano per l’emancipazione sociale, sostengono lotte sindacali, forme di mutuo appoggio, forniscono sostegno materiale ed emotivo alle vittime della guerra e mantengono viva una elaborazione politica critica verso la società ucraina mentre al tempo stesso partecipano alla sua difesa. La cerimonia è stato un momento di emozione intensa, in cui sono emerse le biografie di questi uomini che nel momento della morte hanno mostrato controluce le aspirazioni, le passioni, le difficoltà di milioni di esseri umani che lottano per la liberazione in questo mondo in fiamme.

La propaganda russa anche in Italia sta tentando in questi giorni, inutilmente, di infangare il loro nome e la loro traiettoria di lotta con fantasiose ricostruzioni che raccontano una inesistente collaborazione o subordinazione alle forze neonaziste ucraine. Chi conosce la storia, l’etica e la pratica di questi compagni caduti o chi si sia preso il disturbo di passare anche solo qualche giorno in Ucraina nell’ultimo anno e mezzo capisce che quelle che circolano sui canali filorussi sono solo manipolazioni e infamie.

Tuttavia è importante fermarsi a raccontare e approfondire la storia e il profilo di questi attivisti perché essi mostrano una ricchezza umana, un coraggio e una capacità di visione del futuro che dobbiamo difendere e rafforzare nella nostra pratica quotidiana. Nelle loro biografie, infatti, la guerra non appare come un valore in sé o come qualcosa da celebrare, ma come un elemento tragico e inevitabile nei conflitti per l’emancipazione delle classi subalterne. C’è un filo rosso che unisce le lotte nelle metropoli degli Stati Uniti e della Russia, nelle campagne dell’Irlanda e del Rojava, con quello che sta succedendo oggi sul fronte est dell’Ucraina.

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ChatGPT e il futuro che verrà. L’Intelligenza artificiale e la catastrofe esistenziale

Liberamente tratto da “Superintelligenza” di Nick Bostrom

ChatGPT è in pieno sviluppo. Dove arriverà? Molti scienziati stanno già mettendo in guardia sui possibili imprevedibili sviluppi dell’Intelligenza artificiale. Un’intelligenza che può crescere in maniera esponenziale, al di fuori dei limiti di un cervello biologico.

Senza dover diventare specialisti delle nuove frontiere della ricerca tecnologica, sapere in che direzione stanno andando le sue strade ci permette di comprendere le logiche che la sottendono e intravedere gli sviluppi futuri, motivando la nostra critica che, prima di essere tecnica, è sociale e politica.

Per capire cos’è l’Intelligenza artificiale – che non è solo ChatGPT, ma ben di più – pubblichiamo degli estratti dal libro “Superintelligenza” di Nick Bostrom (Bollati Boringhieri, 2018; ed. originale: 2014). L’autore non è certo un rivoluzionario luddista, il contrario. È un filosofo e scienziato di origine svedese, che è stato a lungo uno dei principali sostenitori del potenziamento umano, fondatore della World Transhumanist Association, direttore del Future of Humanity Institute. Insomma, tutto meno che un nostro compagno di strada. Bostrom però, con la sua profonda e non acritica conoscenza dell’argomento, riesce a descrivere in maniera chiara e divulgativa tematiche di grande complessità e a mettere in guardia sulle nubi minacciose che si addensano all’orizzonte.

Il pericolo che il genere umano corre con lo sviluppo artificiale delle superintelligenze è di portata esistenziale, perché in mano ad apprendisti stregoni incapaci di fermare gli spiriti che stanno evocando.

L’articolo è lungo, mettetevi comodi.

Le vie per arrivare alla superintelligenza

Per il momento le macchine sono di gran lunga inferiori agli esseri umani quanto a intelligenza generale, tuttavia un giorno saranno superintelligenti, cioè dotate di un intelletto che supererà di molto le prestazioni degli esseri umani, in tutti i campi. Come arriveremo a questa situazione futura? Iniziamo esplorando le diverse strade che possono portare l’umanità allo sviluppo di una superintelligenza: l’Intelligenza artificiale è solo una tra queste.

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Scripta Manent. L’esperienza del carcere in regime di Alta Sorveglianza nel racconto di due anarchici.

Su Rivista Malamente, a fine 2019 (n.15), abbiamo pubblicato una intervista Danilo e Valentina, due compagni anarchici che hanno vissuto un lungo periodo di detenzione preventiva, in regime di Alta Sorveglianza, nell’ambito del processo Scripta Manent (assolti in primo grado e in appello). Il processo, per il quale Alfredo Cospito rischia ora l’ergastolo ostativo in regime di 41bis, fa riferimento a una serie di attacchi firmati da diverse sigle collegate alla Federazione Anarchica Informale. Ci siamo fatti raccontare alcune impressioni sulla loro esperienza di carcerazione, anche perché spesso chi è “fuori” non si rende conto fino in fondo cosa voglia dire stare “dentro”, soprattutto in sezioni ad Alta Sorveglianza come quelle dove il potere rinchiude gli anarchici e le anarchiche.

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Voi siete stati reclusi in sezioni AS2, cioè sezioni ad alta sorveglianza destinate unicamente agli arrestati per terrorismo ed eversione dell’ordine democratico. Una distinzione che viene storicamente fatta nelle carceri è quella tra detenuti “comuni” e detenuti “politici”: quanto è profonda questa separazione e come l’avete vissuta nella vostra esperienza?

Danilo: La differenziazione nasce proprio con l’intento di non creare un contatto tra detenuti cosiddetti “comuni” e prigionieri politici della guerra sociale, della lotta di classe.

Io posso fare un ragionamento anche in rapporto alla precedente espe­rienza carceraria che abbiamo avuto, nel 2005. Allora non esistevano le sezioni AS2 ma c’erano le EIV (elevato indice di vigilanza), che in teoria comportavano lo stare separati dai “comuni”, ma in Italia le sezioni EIV erano solo un paio quindi si finiva solitamente in una sezione AS; all’epoca l’alta sorveglianza era unica, non differenziata come adesso in AS1 (per gli appartenenti alla criminalità organizzata declassificati dal 41 bis), AS2 (per i “politici”) e AS3 (per le organizzazioni criminali comuni legate allo spaccio). Questo significa che essendo sottoposti a regime a elevato indice di vigilanza, ma all’interno di una sezione AS, si finiva insieme a prigionieri legati alle associazioni a delinquere organizzate, a spacciatori internaziona­li, etc., non era proprio un rapporto col grosso dei prigionieri “comuni”, ma c’era comunque un minimo di interazione con altri detenuti che non fossero politici. Ora non è più così, nelle sezioni AS2 ci si ritrova in un numero esiguo, in cinque, sei, sette compagni per sezione, senza nessun contatto con i “comuni” e con tutta una serie di restrizioni pratiche. La sezione AS2 è organizzata e gestita proprio per questa tipologia di prigio­nieri, per anarchici e comunisti.

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