A Kobane si combatte ancora (#1)

A Kobane si combatte ancora
Intervista a Karim Franceschi, volontario da Senigallia con le YPG in Rojava da gennaio a marzo 2015. Raccolta da Vittorio a maggio 2015.

Karim a Senigallia
Karim a Senigallia

 

“Qui si combatte, si muore, ma anche si vince per la libertà e l’emancipazione di tutti i popoli. Aiutate, italiani, la rivoluzione spagnuola. Impedite al fascismo di appoggiare i generali faziosi e fascisti. Raccogliete denari. E se per persecuzioni ripetute o per difficoltà insormontabili, non potete nel vostro centro combattere efficacemente la dittatura, accorrete a rinforzare le colonne dei volontari italiani in Ispagna. Quanto più presto vincerà la Spagna proletaria, e tanto più presto sorgerà per il popolo italiano il tempo della riscossa”.
Carlo Rosselli, discorso pronunciato alla radio di Barcellona il 13 novembre 1936.

Io partirei chiedendoti se questa che tu hai fatto è stata la tua prima esperienza di solidarietà internazionale o come vuoi definirla, e cosa pensi delle altre esperienze che hai visto attorno a te prima di questa, ad esempio il Chiapas o la Palestina.

Io ricordo il mio ingresso nei centri sociali nel movimento dell’Onda e c’erano compagni come Serena che seguivano la questione del Chiapas molto da vicino e ricordo l’entusiasmo con cui lo facevano e le possibilità che questa cooperazione internazionale aveva aperto per il movimento dei centri sociali italiano e per i compagni. Ricordo tutta la questione dell’analisi politica aperta attraverso questi tipi di esperienze ed era stato qualcosa che aveva arricchito moltissimo i centri sociali e ci aveva arricchito tantissimo a noi come militanti dandoci anche una nuova spinta rivoluzionaria. Io ricordo bene questa cosa quando ero arrivato anche se poi la prima volta che ho seguito una questione internazionale l’ho fatto per il Rojava, parliamo di sei anni dopo e sono andato lì. Siamo arrivati nel Rojava molto in ritardo, il Rojava è un esperimento che è andato avanti per tre anni e noi siamo arrivati lì solo quando attraverso Kobane c’era stato il botto mediatico, perché Kobane era stata assalita, perché insomma era una città in gravissima crisi umanitaria. L’ISIS è un’organizzazione che tira tantissimo dal punto di vista mediatico e la situazione che si era creata ci ha fatto aprire gli occhi anche a noi. C’è da dire che il nostro movimento dal punto di vista internazionale ma anche dal punto di vista locale è stato indebolito tantissimo negli anni e dall’altra parte nel Rojava c’è un grandissimo muro linguistico e culturale per cui a noi in Europa, e soprattutto in Italia, ci è arrivato veramente pochissimo: le pubblicazioni, tutta la discussione pubblica, internet, comunicati non c’era quasi niente di tradotto in inglese e praticamente niente in italiano. Siamo andati lì con la mente quasi vuota su quello che stava succedendo laggiù, eravamo molto aperti ed abbiamo iniziato con la città sotto assedio a conoscere il Rojava ad intrecciare rapporti anche umani e politici, a creare rete, a sederci con i loro responsabili a parlare dei problemi, della sperimentazione politica, di cosa è il confederalismo democratico che ancora non capivamo bene proprio per questa mancanza di documentazione tradotta in inglese o in italiano. Fondamentalmente è una cosa ancora nuova, ci stiamo organizzando adesso anche con questa staffetta che usa lo stesso metodo organizzativo utilizzato da Ya Basta per il Chiapas, cioè la carovana. Stiamo organizzando carovane aperte non soltanto ai centri sociali, perché i centri sociali sfortunatamente sono così deboli che con delle carovane autonome fanno veramente poco, e quindi una cosa che stiamo cercando di fare sul modello del Chiapas è di conoscere ed instaurare dei rapporti con queste realtà del Rojava. Questa sperimentazione politica rappresentata dal confederalismo democratico parla fondamentalmente di autonomia, parla di lotta di classe, parla di una minoranza etnica schiacciata da politiche capitaliste e da grandi interessi economici e parla di lotta armata.

Karim tra i combattenti kurdi
Karim tra i combattenti kurdi

 

La differenza che vedo rispetto al Chiapas è che quella esperienza nasceva in uno scenario internazionale completamente diverso. Nella fine degli anni ’90 c’era il movimento contro la globalizzazione capitalista, si stava costruendo una rete internazionale di contatti e di scambi tra attivisti, ancora prima di Seattle che fu nel 1999. Un aspetto forte di quell’esperienza del Chiapas fu quello di creare una nuova rete tra tanti compagni. Questa lotta del Rojava esplode nel mezzo di una lunga guerra civile. Per noi la guerra caratterizza purtroppo il medio-oriente da sempre, da quando ne abbiamo memoria c’è stata sempre una guerra da quelle parti. Andare dentro quel conflitto è diverso da andare in una situazione come quella del Chiapas dove c’era e c’è una guerra a bassa intensità, ma dove potevi anche evitarla se volevi. Se uno invece va in Rojava è impossibile evitare la guerra. Come la vivono i compagni della tua generazione?

Questa è una grande domanda, e sentendola mi ha illuminato dei punti che avevo oscuri. Questa capacità di intrecciare rapporti con gli altri gruppi politici c’è in Rojava, ma per farlo devi entrare in Rojava non lo puoi fare da Suruc, dal confine turco, perché al confine turco ci rimangono i giornalisti, le ONG. I gruppi politici sono dentro il Rojava che combattono ed hanno dei fronti aperti, hanno le loro sedi dentro le basi e sono tutti armati. Per intrecciare rapporti con loro ci devi entrare dentro. Il problema qual è? È che quelli che entrano dentro sono tutti gruppi politici strutturati, hanno un minimo di struttura ed organizzazione perché altrimenti non puoi impegnarti in quel tipo di lotta. Io penso che se la questione Rojava fosse avvenuta nel periodo della questione Chiapas non staremmo facendo questo discorso perché in questo momento c’è un enorme indebolimento dei movimenti rivoluzionari in Europa e soprattutto in Italia e questo porta al fatto che fondamentalmente dall’Italia nessun movimento si è impegnato a mandare militanti a partecipare alla lotta armata ma non ha neppure aperto una discussione su questo fatto qua. Non è tanto grave il fatto di non mandare combattenti o non mandare militanti che comunque possono fare anche altri lavori in queste zone di guerra oltre che combattere, la cosa più grave è che non si è nemmeno aperta una discussione su questa cosa.

Kobane vista dal confine turco - Foto di Maria Novella De Luca
Kobane vista dal confine turco – Foto di Maria Novella De Luca

 

Perché secondo te? Ormai che hai aperto tu la questione, una domanda te la faccio. Quando ho saputo della tua storia ho pensato “adesso un sacco di gente partirà dietro Karim” perché io se avessi avuto la possibilità, cioè se non avessi dei figli, penso che sarei partito. E invece ho visto che non c’è stata questa cosa, non voglio dare un giudizio se sia giusta o sbagliata questo tipo di scelta ma mi aspettavo che si sollevasse un dibattito. E che ci fosse una presa di posizione e invece questa cosa non sta avvenendo. Perché?

In realtà non faccio politica, faccio politica ma non mi interessa fare il politico, io dico quello che penso. Anzitutto sono partito in semi-clandestinità, ho avvertito pochi compagni del fatto che sono partito e molti l’hanno saputo sotto forma di shock. C’è una ragione se sono partito come sono partito. Quando con dei noti compagni che hanno responsabilità nel movimento avevo accennato al fatto che sarei poi partito ho ricevuto delle risposte molto chiare: non vogliamo averci niente a che fare. A quel punto mi sono organizzato da solo, mi sono autofinanziato il viaggio e tutto il resto senza coinvolgere assolutamente nessuno all’interno del movimento. Una volta che io ero lì e si è saputo a livello pubblico, la mia presenza ha avuto un impatto mediatico ma non si è aperta nessuna discussione. Il motivo secondo me è che come movimento da troppo tempo ci siamo abituati ad uno stile di vita che non è rivoluzionario ma abitudinario, le nostre pratiche cercano di tutelare uno stile di vita che è quello del compagno dei centri sociali, piuttosto che perseguire l’obiettivo della lotta di classe e della rivoluzione. Questa scelta avrebbe prodotto un distacco netto da quello stile di vita, penso che non ci fossero compagni non tanto nel movimento ma ai vertici del movimento pronti a mettersi a rischio più del solito e quindi a mettere a rischio uno stile di vita. Io penso che se si fosse aperto un tavolo di discussione qualcuno sarebbe venuto laggiù ma il fatto che non si sia aperto ha tolto ogni possibilità che questo avvenisse. Sono stato contattato da tantissima gente sui social che mi chiedeva informazioni su come andare, che voleva andare lì a combattere ma parliamo di centinaia di persone, ovviamente io per ragioni di sicurezza e ragioni legali non ho risposto a nessuno di questi, ho mandato a cagare un po’ tutti, ma nessuno di questi era dei centri sociali.

Kobane, aprile 2015 - Foto di Maria Novella De Luca
Kobane, aprile 2015 – Foto di Maria Novella De Luca

 

Per i kurdi che importanza hanno avuto l’adesione diretta, il sostegno diretto alla loro lotta armata in Rojava da parte degli internazionalisti? È qualcosa che a loro interessa perché ha un potere simbolico di mostrare che esiste una solidarietà internazionale fattiva, è una necessità militare o è un modo loro di intendere la solidarietà internazionale? In altri conflitti abbiamo visto come gli internazionali, specialmente i nordamericani e gli europei abbiano giocato un po’ la parte dei cugini ricchi che vanno in giro, finanziano, fanno iniziative di solidarietà ma a cui spesso manca un piano di condivisione materiale forte. In Chiapas c’era un po’ una via di mezzo, noi andavamo al di là del cugino ricco che porta i soldi, partecipavamo in maniera pratica alla vita delle comunità, alla loro autogestione, alla costruzione degli ospedali e delle scuole, al livello di partecipazione pubblica in delle manifestazioni che a volte erano anche dure. La scelta di partecipare nell’EZLN non veniva promossa da loro, ti dicevano: non abbiamo bisogno di guerriglieri europei, abbiamo bisogno di cooperanti, di giornalisti… perché secondo te i kurdi hanno aperto questo canale, avrebbero potuto dire facciamo da soli…

Senza offesa per chi ha partecipato all’EZLN, ma il livello di apertura e di crescita che offre il Rojava chi ha partecipato all’EZLN se l’è solo sognato, perché è tutte queste cose insieme: ha un significato simbolico, ha un significato ideologico, di cooperazione, tutte queste cose messe insieme perché una volta che tu vai lì finché fai parte delle organizzazioni umanitarie che portano aiuti arrivi a un certo livello per loro, sei un grande amico. Quando vai lì ed entri insieme con loro nel campo di battaglia non devi per forza entrare dentro lo YPG[1] perché ci sono gruppi politici che portano dentro Kobane il simbolo della propria organizzazione politica e non sono YPG, sono anche internazionali e si portano il loro simbolo. Per loro è una cosa enorme avere internazionali che combattono con loro perché molti che combattono nello YPG non vengono da organizzazioni politiche. Anche i curdi vengono dalle campagne della Siria e non sono nemmeno politicizzati, per loro vedere un italiano, un americano che combatte con loro gli fa saltare tutto il processo di ideologizzazione in un secondo, non hanno bisogno di sei mesi, un anno per capire perché stanno lì a combattere. Perché sognano tutta la loro vita di andare a vivere in uno di quei paesi e vedere un americano combattere insieme a loro lì, li fa capire immediatamente anche a loro perché sono lì a combattere ed è un enorme apporto per il morale della truppa e sembra una cavolata ma quando tu sei lì capisci che il morale determina il vincitore in un campo di battaglia. Durante una battaglia, durante una guerra il morale determina se la truppa scapperà o resterà a combattere e fondamentalmente è quello a decidere il risultato. Poi per loro ha anche un’importanza per diffondere la loro ideologia, per loro è importante dare degli strumenti anche alle altre organizzazioni politiche e non ne hanno bisogno, non hanno bisogno di questi che sono su tutte le liste terroristiche della Turchia, di questi gruppi comunisti, non hanno bisogno di questa cattiva pubblicità, non hanno bisogno di far venire i loro militanti a costruire fronti, a specializzarsi. Non ne hanno bisogno ma lo fanno ugualmente perché per loro la cosa più importante è la loro anima, l’ideologia del confederalismo democratico è più importante della stessa Rojava in Siria, per loro può saltare la Siria ma non può saltare la loro anima, per mantenerla in vita si sentono obbligati a dare sostegno a tutte quelle altre organizzazioni e gruppi che si autodefiniscono anticapitalisti.

 

Facevamo il paragone con un ciclo precedente di movimento che aveva visto nel Chiapas il centro di formazione umana e politica; oggi invece il Rojava e il conflitto in Siria sono dentro una guerra più sporca, più cattiva. Per chi guarda dall’Occidente la guerra civile siriana appare come un caos in cui è difficile capire come schierarsi. Anche il discorso sulla resistenza in Irak durante l’occupazione americana aveva paralizzato i movimenti perché una volta che non si era riusciti a fermare la guerra con le manifestazioni pacifiste tutto quello che è successo dopo è apparso come un campo di violenza incomprensibile dove noi europei non avevamo niente da dire, niente da dare. In Siria invece è successa una cosa particolare: dei combattenti europei che sono andati con l’ISIS, tu ne hai parlato in qualche intervista. Perché spesso si dice che chi va a combattere con IS è gente che è fallita in Europa?

Queste sono stronzate, chi va a combattere con l’ISIS sono medici, laureati che rinunciano a paghe da 100 mila o 200 mila dollari all’anno per andare lì, persone che si laureano con i massimi dei voti negli Stati Uniti o in Europa e vanno lì. È ridicolo dire che sono persone che hanno fallito in Occidente, una gran parte sicuramente sono spinti dall’ostracizzazione, dalle politiche anti-islamiche che l’ISIS adora, perché la maggior parte dei musulmani sia laggiù che qua sono moderati, una piccolissima parte è quella radicale. La loro strategia è fare sì che i moderati vengano cacciati dalle comunità e società europee ed occidentali in modo tale che trovandosi isolati debbano guardarsi fra loro e andare a radicalizzarsi ed aumentare il loro bacino di militanti. L’ISIS si è presentato come l’unica realtà, prima del Rojava, che per generazioni abbia combattuto l’imperialismo ed il capitalismo. Come movimenti abbiamo smesso così tanto di combattere l’imperialismo che abbiamo iniziato a dire che l’imperialismo non esiste o che l’imperialismo è una cosa che non esiste come qualcosa di assolutamente cattivo. Fondamentalmente abbiamo smesso di combattere ma non solo noi, quelli di sinistra nel mondo hanno smesso di essere un avversario credibile per questa enorme macchina di distruzione che sono l’imperialismo ed il capitalismo e sono rimasti solo loro. Cinquanta anni fa ovunque andavi nel mondo potevi combattere sotto una specie di falce e martello: le rivoluzioni della sinistra erano ovunque in qualunque continente si poteva combattere, a Cuba, Laos etc… adesso non c’è più niente. I compagni, anche qua in Europa andavano a formarsi in Palestina dove c’era la sinistra, adesso la Palestina è tutta in mano ai radicali islamici, non all’ISIS, ai radicali islamici, e anche nella Freedom Flottilla sono tutti salafiti estremisti islamici. Anche in Tunisia quando i compagni hanno provato a fare qualcosa sono stati schiaffeggiati dai radicali islamici che hanno tutta la forza militare, li hanno messi in un angolo ed i compagni sono stati zitti e sono tornati a fare quello che sanno fare cioè parlare. Le sinistre hanno perso in tutto il mondo credibilità nel fare la rivoluzione e adesso in mano ce l’hanno questi radicali islamici e l’ISIS e quelli che ad un certo punto vedono che hanno bisogno di un marchio, di nuove armi e finanziamenti, si guardano intorno e comprano dentro il franchising dell’ISIS e questo si espande senza aver bisogno di raggiungere un posto con le forze armate. Adesso il Rojava è veramente piccolo, noi parliamo del Rojava come se fosse l’unica soluzione, ma noi parliamo di tre città e la loro piccola regione intorno che è un cantone e che è un piccolo pezzo della Siria. I cantoni di Kobane e di Afrin nella regione di Aleppo sono fondamentalmente qualcosa di più di una città. L’unico cantone che si sta espandendo a livello territoriale è quello di Cezire ed è lì che i compagni di tutto il mondo hanno la possibilità di formarsi militarmente e di partecipare ad una lotta armata di sinistra, socialista.

Kobane, aprile 2015 - Foto di Maria Novella De Luca
Kobane, aprile 2015 – Foto di Maria Novella De Luca

 

Questa è una grossa differenza rispetto alle esperienze del passato e che riporta alla memoria in bianco e nero della guerra di Spagna.

No, a me non la ricorda perché per la guerra civile spagnola solo dall’Italia erano partiti in 5000, c’erano brigate internazionali, una brigata sono 300 persone… (ride) cazzo qui non c’è un compagno internazionale che vada a combattere a Cezire, la maggior parte sono militari, persone che fanno il soft air, a cui piacciono i giochi di guerra o invece persone normali che partono anche per ragioni umanitarie, che dicono: “guarda la gente viene massacrata da ’sti bastardi dell’ISIS e nessuno fa un cazzo, io vado lì a combatterli, a dare una mano, non ho mai avuto un’arma in mano non ho una ideologia politica e vado lì a combattere, a dare una mano per una questione umanitaria”. La maggior parte sono così anche se ultimamente hanno cominciato ad arrivare dei compagni: ho visto due anarchici dall’Europa a Kobane ma arrivavano anche per non andare in galera perché hanno avuto delle sentenze di carcere lungo, si dovevano fare 20 anni di galera e sono venuti là per non andare dentro. Io non vedo compagni che si organizzano per tenere fronti, l’unica eccezione sono i compagni turchi, dei partiti turchi, non hanno grandissimi numeri ma stanno andando lì con numeri consistenti e stanno offrendo un aiuto consistente e reale. Fare un paragone con la guerra civile spagnola è assurdo, i compagni internazionali sbilanciavano la cosa da una parte, è ridicolo, anzi se si vuole fare un paragone con la guerra civile spagnola bisogna farlo con l’ISIS perché lì si che arrivano migliaia di internazionali dall’Europa e fanno la differenza per quanto riguarda il campo di battaglia e l’apporto militare.

 

Una critica che viene fatta in Europa per quanto riguarda le donne nella situazione del Rojava è che fare la guerra sia qualcosa di molto maschilista. Si vedono le forze guerrigliere curde femminili ma resta una diffidenza nei confronti del fatto che la guerra sia qualcosa di dominato da una logica maschile. Cosa pensi della situazione delle donne qui e laggiù?

Penso che le donne qui in Europa siano più oppresse che nel Medio Oriente perché per lo meno nel Medio Oriente si sentono oppresse, sanno di vivere di merda e si vorrebbero levare quel cazzo di velo, qua si sentono libere, buon per loro. Ma qua anche io tra i compagni nei centri sociali ne vedo davvero poche di donne ai vertici, io ne vedo davvero poche di compagne che guidano movimenti. Noi parliamo del Rojava dove le donne comandano, le donne guerrigliere combattono meglio degli uomini. Non parlo di quelle che vengono dalle montagne, ci sono infatti i “cugini” che vengono dalle montagne, da vent’anni di esperienza nella guerriglia. Io parlo di donne che vivevano in Siria e che hanno sempre visto la madre con il velo mangiare in cucina separata dal marito, sfornare otto figli senza lavoro, senza diritto di voto, marginalizzate dalla vita sociale e pubblica, per quanto riguarda la sfera di potere tutta in mano ai maschi, loro vengono da queste famiglie. Io le ho viste nell’addestramento, mi ci sono addestrato i primi 4-5 giorni e poi le ho riviste a Kobane. Le ho riviste in altri campi di addestramento: sono le peggiori quando si addestrano, si lamentano sempre, corrono meno di tutti si sfiancano dopo un giro di corsa di 100 metri non riescono più a camminare, e poi le rivedi due o tre mesi dopo sul campo di battaglia in prima linea, combattono più feroci degli altri, non scappano mai, sono motivo di ispirazione per tutti gli altri. Nei fronti caldi li vedi con il telefono in mano i capitani delle YPG che chiamano a Kobane e che chiedono che le donne delle YPJ[2] vengano a dare una mano perché sono una garanzia e sono le migliori combattenti. E quando io le ho viste in addestramento con la mia mentalità europea ho detto: “è tutta una cosa mediatica”. Poi le ho riviste nel campo di battaglia: piangono ma non scappano, mantengono la loro femminilità, non alzano mai la voce quando parlano tra loro, mantengono dei tratti estremamente femminili ma poi in battaglia combattono meglio degli uomini. Ma perché fondamentalmente tutta questa idea militare che abbiamo qua dei muscoli degli allenamenti e dei pesi, tutta questa mentalità militaristica americana con gli sport estremi che ti spingono al limite fisico sono tutte puttanate, laggiù non fanno sport, non lo fanno, lo fai per addestrarti, per abituarti a certe movenze, serve più a livello psicologico. I guerriglieri non si allenano, sono magrolini, sono un po’ debilitati, qualcuno è un po’ più ciccio, tutto quello che serve è coraggio e quello ce l’hanno da vendere. Ma per liberarsi da quel tipo di cosa lì io non so quale sia la chiave e non so nemmeno se ci sia. Di fatto però quelle donne stanno lì e combattono meglio degli uomini, non ti so spiegare bene ma sicuramente là le donne sanno meglio degli altri quello per cui stanno combattendo.

Kobane, aprile 2015 - Foto di Maria Novella De Luca
Kobane, aprile 2015 – Foto di Maria Novella De Luca

 

Oltre al Rojava, vedi qualcosa in Medio Oriente in altre zone che possa andare in quella direzione? C’è una nuova tendenza in atto o il Rojava è un faro nella notte?

È un faro nella notte che non si spegne in nessuna maniera. Io mi sto continuando ad esercitare nel kurdo, ho scaricato manuali e dizionari per comprendere meglio la grammatica perché penso che lo scalino più importante da superare sia la barriera linguistica. In realtà basterebbe sapere il turco, perché il faro non è partito dalla Siria ma fondamentalmente è partito dalla Turchia ed è la che ci sono tanti partiti e movimenti politici che sono di quello stampo. A noi mancano ancora le connessioni con quei movimenti e partiti politici. Sicuramente arriverà da lì un’ondata di cambiamento, prima di tutto arriverà in Turchia. Tanti compagni sono andati in Rojava e si sono formati e quando quelli torneranno in Turchia ce ne accorgeremo. Per quanto riguarda l’Europa non so bene quale sia la situazione, per ora quelli che so che si sono mossi in maniera concreta sono i tedeschi ma loro hanno sempre avuto con la Turchia relazioni più strette per una questione legata alle seconde generazioni e tanti nei movimenti tedeschi parlano il turco. Penso però che ci sia una grandissima opportunità anche per i movimenti italiani. Io non so ancora cosa farò, sto cercando di riprendermi dallo shock dal punto di vista umano, sono stato a Kobane ed ho ancora in qualche maniera uno shock post-traumatico ma non è PTSD[3] (ride). Ho bisogno di riambientarmi anche per non fare cose da matti, ma io vedo un grandissimo potenziale venire da lì a qua. Quello che sto cercando di capire è se i centri sociali siano il veicolo per questo potenziale o se sia necessario ricostruire qualcosa da zero.

 

[1] YPG (Yekîneyên Parastina Gel – Unità di Difesa del Popolo) sono le forze armate kurde del Rojava.

[2] YPJ (Yekîneyên Parastina Jin – Forze di Difesa delle Donne).

[3] Sigla per Post-traumatic stress disorder, diagnosi psicologica di uno stato di forte ansietà e sofferenza dovute all’esperienza di eventi traumatici.

Bellavita selvaggia. Potere ed economia nelle società primitive (#3)

Bellavita selvaggia. Potere ed economia nelle società primitive
Presentazione di Andrea Staid

Andrea Staid è docente di antropologia culturale, fa parte del collettivo redazionale delle edizioni Elèuthera ed è autore di diverse ricerche e pubblicazioni di storia ed etnografia, in particolare di etnografia dei migranti. Pubblichiamo la trascrizione della presentazione del suo libro “I senza Stato. Potere, economia e debito nelle società primitive” (Bèbert, 2015) tenuta dall’autore presso l’Archivio storico della FAI di Imola il 7 novembre 2015, compresa parte della discussione che ne è seguita. Questo testo ci porta a riflettere su come tutte le culture e le organizzazioni sociali siano relative e, soprattutto, su come lo Stato e l’economia di profitto non abbiano sempre caratterizzato la storia dell’uomo. Ci piace come Andrea parli di tutto ciò con parole chiare, semplici, ben documentate sulla scorta degli studi antropologici ma senza necessità di ricorrere a linguaggi specialistici. E come l’ottica da cui si pone non sia la ricostruzione di una mitica e ideale società primitiva, ma la possibilità di attualizzare nella società contemporanea gli spunti più interessanti che i racconti etnografici hanno disvelato sulla gestione del potere, l’economia e la vita comunitaria.

Tdzao, monti Sapa, Vietnam, 2012. Foto di Andrea Staid
Tdzao, monti Sapa, Vietnam, 2012. Foto di Andrea Staid

 

Dagli Inuit ai No Tav

Vi ringrazio per avermi invitato a discutere con voi questo libro. Il mio principale ambito di ricerca riguarda il mondo dei migranti, mentre questa che presento oggi è una riflessione più filosofico-antropologica. Io non sono stato negli anni sessanta tra gli indios Guaranì, gli Inuit eschimesi o gli Irochesi in Nord America, però ho studiato queste cose e ho anche avuto occasione di insegnarle in ambito universitario. E così mi è nata la voglia di lavorare a questo libricino, volutamente breve, sfrondandolo dell’apparato accademico di lunghe note e citazioni per andare invece a cogliere l’essenziale. Vuol essere una specie di “antipasto” che vada a stimolare l’interesse attorno a queste tematiche; chi ne fosse incuriosito potrà poi andare ad affrontare libri “veri” come quelli di Pierre Clastres, Marshall Sahlins, David Graeber o altri antropologi.

Essendo io una persona da sempre attenta alle critiche e ai conflitti contro gli Stati nazione, mi interessava riflettere su quella che è stata l’esperienza delle società primitive senza Stato. Uso appositamente il plurale perché le società primitive sono tante e differenti e certamente non tutte avevano le caratteristiche che descriverò oggi. Voglio inoltre dirvi subito che io non sono un “primitivista” e questo non è un libro dove si inneggia al ritorno ad un’epoca d’oro, è piuttosto il tentativo di indagare su un archivio umano di esperienze reali, per poterne cogliere alcuni spunti attualizzabili nel mondo contemporaneo.

L’aspetto che principalmente mi interessa è demistificare l’idea che da sempre l’uomo abbia vissuto con lo Stato. Fare una critica allo Stato qui, in una sede anarchica, è una cosa abbastanza facile, ma spesso mi capita di presentare questo libro in situazioni diverse e di solito cito quanto dice Harold Barclay, un anziano antropologo libertario, che suscita sempre un attimo di scalpore: oggi ci sono all’incirca 196 Stati ufficialmente indipendenti che ricoprono l’intero pianeta, 158 di questi, cioè la gran parte, sono emersi dal dominio coloniale, quindi sono recenti e sono stati imposti con la forza. In altre parole: fino all’altro ieri non vivevamo in società statali. Ciò non significa che prima il mondo fosse perfetto, ma ci serve per smontare dal punto di vista antropologico l’assunto che vivere con uno Stato sia una cosa normale. Invece non è così, si tratta di un processo culturale e perciò relativo. Altri aspetti su cui mi soffermo sono quelli del potere e dell’economia. Anche il potere, inteso come dominio, sembra quasi che sia un dato naturale ma in realtà non è sempre stato così, non è un fatto naturale vivere in un mondo dove vige lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Molto importante è inoltre l’aspetto economico, perché dal mio punto vista l’istituzione degli Stati nazione e del potere coercitivo nasce proprio grazie alla creazione del surplus e di una concezione del lavoro legata al salario invece che alla comunità.

Nella parte introduttiva di questo libro ho cercato di legare l’interesse dell’antropologo sulle società primitive con l’oggi, andando a vedere quei movimenti a-statali che secondo me rappresentano esperienze interessanti nella società attuale. In primo luogo faccio riferimento al movimento No Tav. Lo cito non tanto per la lotta conflittuale contro il treno ad alta velocità (una causa che io sposo in pieno), quanto perché questo movimento ha rimesso in questione la democrazia parlamentare, la delega politica, quella che nel libro chiamo la “tirannia del numero”, cioè il fatto che una minoranza di italiani votino delle persone che vengono delegate a Roma e che deliberano su territori a chilometri di distanza, dove vive una comunità che invece non può decidere sulle sorti del proprio territorio. Altro esempio è quello del movimento siciliano No Muos, cioè delle lotte di vari gruppi contro il militarismo sovranazionale che ha deciso di installare in un determinato territorio delle antenne che molto probabilmente produrranno gravi danni, anche in termini di salute, per le comunità che vivono lì. Queste persone rifiutano di accettare tutto ciò, creano conflitto ed è interessante andare a vedere come nei momenti di lotta queste comunità comincino a produrre qualcosa di differente rispetto all’organizzazione sociale del potere che conosciamo.

Un ulteriore esempio che mi serve per spiegare perché ritengo utile guardare le esperienze delle società primitive senza Stato è quello del Rojava in Kurdistan. Abbiamo assistito a una vera e propria metamorfosi della lotta del popolo kurdo che fino alla fine degli anni novanta lottava per la creazione di uno stato nazionale kurdo, mentre oggi oltre ad alimentare la resistenza contro Daesh (lo Stato islamico) lotta per la liberazione ma soprattutto per creare il “confederalismo democratico” cioè delle zone autonome a-statali di democrazia diretta. Il senso di questa democrazia diretta, come lo ha analizzato anche David Graeber, si sovrappone con il concetto che io ho di anarchia, cioè con la gestione diretta della società da parte di chi abita un determinato territorio, di chi vive quotidianamente la comunità.

Tdzao, monti apa, Vietnam, 2012. Foto di Andrea Staid
Tdzao, monti apa, Vietnam, 2012. Foto di Andrea Staid

 

Il capo amerindiano

Per quanto riguarda il “potere”, attraverso gli studi antropologici del Novecento analizzo la sua organizzazione nelle società amerindie. Per amerindiani o amerindi intendo le popolazioni autoctone delle Americhe, che possiamo considerare suddivise in due grandi gruppi: gli indiani nell’America settentrionale e gli indios in Messico e America centrale e meridionale.

La figura del capo amerindiano è in realtà la cosa più lontana possibile da quella che è la nostra concezione di “capo”. Il capo amerindiano è svuotato completamente della funzione comando-obbedienza. È piuttosto il paciere del gruppo, colui che ha il dovere e il diritto della parola, ma non può impartire ordini a nessuno. Una caratteristica del capo è di essere perennemente indebitato con la comunità, il che è esattamente il contrario di quello che succede oggi, visto che oggi siamo tutti indebitati con i “capi”, con le gerarchie economiche che ci comandano. Nelle società primitive era il contrario, come spiega in queste righe Pierre Clastres: “l’indebitamento del capo garantisce che rimanga esterno al potere, che non ne diventi l’organo separato. Prigioniero del suo desiderio di prestigio, il capo selvaggio accetta di sottomettersi al potere della società pagando il debito che costituisce ogni esercizio di potere. Intrappolando il capo nel suo desiderio, la tribù si assicura contro il rischio mortale di vedere il potere politico staccarsi e ritorcersi contro di essa: la società primitiva è una società contro lo Stato”[1].

Clastres in sostanza sostiene che queste non sono società senza Stato, ma contro lo Stato. Hanno cioè compreso il pericolo che può derivare dall’accentramento di potere nelle mani di pochi e fanno di tutto per delimitarlo. Come lo fanno? Gestendo il potere. Su quest’aspetto hanno scritto in molti, potremmo citare nomi illustri come Foucault o Derrida, ma a me piace citare persone che fanno parte del mondo libertario, oltre che personalmente della mia vita, come Amedeo Bertolo o Eduardo Colombo, attivisti libertari che hanno scritto passaggi fondamentali sul potere e che hanno capito come la funzione del potere tra esseri umani sia ineliminabile, nel senso che si può anche eliminare il potere-dominio ma non il potere relazionale. L’importante è distribuirlo a tutti. La distribuzione del potere determina un alto grado di uguaglianza in queste società e soprattutto un alto grado di libertà.

Lavoratori delle comunità indigene, risaie Vang Vieng, Laos, 2011. Foto di Andrea Staid
Lavoratori delle comunità indigene, risaie Vang Vieng, Laos, 2011. Foto di Andrea Staid

 

Quei selvaggi lavoravano tre ore al giorno…

Il discorso sul potere si rispecchia nel discorso relativo al lavoro. Credo che nelle nostre vite il potere coercitivo, cioè il potere comando-obbedienza, lo incontriamo facilmente quando andiamo a lavorare. Lì devi obbedire, perché ti viene dato un salario. Nelle società primitive di cui vi sto parlando le cose andavano diversamente. Non che fossero società senza economia, erano società economiche ma che sviluppavano un’economia senza profitto, cioè senza surplus. Spesso siamo portati a pensare, grazie a illustri economisti come Adam Smith i cui libri si sono imposti nelle scuole, che l’homo œconomicus sia sempre esistito. Questa è una cosa falsa e per fortuna non sono io a dirlo, ma tantissimi antropologi ed economisti del Novecento che si sono occupati di queste tematiche e hanno concluso che per la maggior parte della sua storia l’umanità non ha vissuto in un’economia di profitto. Se potessimo mettere la storia umana lungo una retta di mille metri vedremmo che soltanto gli ultimi centocinquanta sono popolati dall’economia del profitto, nella restante parte, in linea di massima, le comunità umane hanno sviluppato un’economia del dono.

L’economia del dono però non è una cosa semplice. Marcel Mauss negli anni venti del Novecento ha scritto un trattato molto interessante, in cui spiega come l’economia del dono regoli le relazioni e gli scambi fra gli esseri umani. Ciò significa che l’economia del dono è una vera e propria economia di scambio. Non ci riferiamo al “dono” come banalmente potremmo intenderlo oggi, per Natale o per il compleanno, ma il dono in queste società regola le relazioni, per cui io ti do una cosa adesso e so che tu mi darai qualcos’altro un domani. È un meccanismo che si basa sulla fiducia, che purtroppo oggi è difficile concepire perché abbiamo decostruito la solidarietà tra esseri umani. D’altra parte perfino nella società contemporanea possiamo rintracciare situazioni di economia del dono, penso agli spazi libertari e autogestiti dove non c’è scambio monetario, ma anche a situazioni più complesse come ad esempio la “banca del tempo” che è una trovata apprezzabile e in alcuni contesti soprattutto in periodi di crisi comincia a funzionare. La banca del tempo è di fatto economia del dono ma chiaramente, se la vediamo funzionare in paesi di montagna o di campagna, al di fuori di piccole realtà la cosa è più difficile.

A questo punto è necessario demistificare anche un’altra lettura che spesso viene riproposta, ovvero il presunto passaggio dall’epoca mitica del baratto alla moneta. In realtà l’epoca del baratto non è mai esistita. C’era invece il dono che è una cosa ben differente perché il dono, se l’individuo si riconosce nella comunità, funziona, mentre il baratto semplicemente non funziona. O meglio, può anche funzionare, ma giusto per divertimento. Se io produco il pane e tu le scarpe, tu il pane lo vuoi tutti i giorni e a me le scarpe durano due anni, come facciamo a barattare? Non è così funzionale a livello economico. Il dono invece lo è, il dono è funzionale perché quando io avrò bisogno delle scarpe so che tu me le darai. Ma per avere questa economia basata sul dono ci deve essere un riconoscimento dell’individuo nella comunità e della comunità nell’individuo.

Tra gli Inuit, una popolazione dell’Artico, il concetto di dono è addirittura più avanzato rispetto alla modalità che abbiamo descritto del dare, ricevere, restituire. Peter Freuchen, un osservatore occidentale, racconta di una battuta di caccia a cui aveva partecipato: lui non era riuscito a catturare nessuna preda, mentre al cacciatore locale era andata meglio. Una volta tornati al campo anche lui ha ricevuto una parte di cibo e per questo ha ringraziato. Al che gli è stato fatto seccamente notare che non avrebbe dovuto ringraziare: “Inuit” significa “umanità” e umanità significa condivisione, permettere come minimo che tutti possano sopravvivere in un territorio. Addirittura in molti racconti etnografici si legge che il miglior cacciatore era quello che mangiava meno di tutti, perché essere il migliore voleva dire dare di più agli altri, far sì che la comunità si accorgesse che c’era tanto da condividere.

Un altro aspetto interessante viene descritto tra i primi da Marshall Sahlins in un libro molto bello, Economia dell’età della pietra. Sahlins era un marxista, partiva con idee ben chiare sul mondo del lavoro, ma racconta di come andando a vedere negli anni settanta questi popoli ritenuti sottosviluppati e rimasti fermi nella storia si sia reso conto che il loro metodo di lavoro se lo sarebbero sognato i moderni operai sindacalizzati. Mentre quest’ultimi lottavano per le otto ore, quei selvaggi lavoravano tre o quattro ore al giorno. E non è vero che non avessero da mangiare o che vivessero in un’economia di sussistenza. Al contrario, erano economie dell’abbondanza che venivano mantenute volutamente sottoproduttive, questo per non creare quel surplus che avrebbe portato a divergenze interne alla comunità. È infatti attraverso il surplus che viene fuori il dominio, perché nel momento in cui si concentra nelle mani di qualcuno, il rischio è che venga fatto valere per creare sperequazione e diseguaglianza rispetto agli altri.

A questo proposito vi leggo un brevissimo brano sui Kapauko della Nuova Guinea, tratto proprio dal libro di Sahlins. Si tratta di un racconto etnografico degli anni settanta del Novecento, quindi di una situazione recentissima nella storia dell’umanità, seppur difficile da attualizzare: “avendo i Kapauko una concezione equilibrata della vita, pensano di dover lavorare soltanto a giorni alterni. Una giornata di lavoro è seguita da una di riposo allo scopo di riacquistare la forza e la salute perdute. Questo monotono alternarsi di lavoro e svago è reso più piacevole dall’inserimento nel loro calendario di periodi di vacanze più lunghi, trascorsi danzando, facendo visite, pescando o cacciando. Di conseguenza, generalmente si notano soltanto alcune persone avviarsi verso gli orti, le altre si prendono il loro giorno di riposo”[2]. Vediamo come ci sia una concezione del lavoro completamente diversa dalla nostra. Quando gli antropologi parlavano con questi indigeni facevano addirittura fatica a far loro capire la parola “lavoro”, visto che in quelle società il lavoro era semplicemente una parte della giornata, non era un tempo separato impiegato con la finalità di un salario.

Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid
Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid

 

Il debito

Dopo potere ed economia, l’ultimo capitolo del libro lo dedico alla questione del “debito”. Anche questo concetto, come ho già accennato prima parlando del comportamento del capo, era completamente diverso nelle società primitive rispetto ad oggi. Il fatto che uno solo, un capo ma privo di potere coercitivo, fosse continuamente indebitato con la comunità e che quindi fosse quello che lavorava di più e doveva sempre donare agli altri, garantiva la libertà degli eguali nelle società primitive. Quando invece hanno cominciato a stratificarsi le società statuali e l’economia del profitto basata sul surplus, il concetto di debito si è completamente ribaltato. Oggi tutti noi si può dire che siamo indebitati con un’oligarchia che ha i soldi e il potere coercitivo.

Così ce lo spiega Clastres: “nessuna divisione in una minoranza di dominanti (il capo e i suoi clienti) che comanderebbe a una maggioranza di dominati (il resto della comunità) che ubbidirebbe. Le società melanesiane ci offrono piuttosto lo spettacolo opposto. Per quanto si possa parlare di divisione, ci si accorge in effetti che, se divisione c’è, è solamente quella che separa una minoranza di lavoratori ricchi da una maggioranza di fannulloni poveri: ma, e qui si toccano i fondamenti stessi delle società primitive, i ricchi sono tali solo grazie al loro lavoro, i cui prodotti sono consumati dalla massa oziosa dei poveri. In altri termini, la società nel suo insieme sfrutta il lavoro della minoranza che circonda il big-man”[3]. In altre parole i capi, per essere tali, devono continuamente donare a quelli che non fanno niente. Ma quelli che non fanno niente non andranno la sera davanti al fuoco a raccontare le tradizioni della comunità. Noi siamo abituati a situazioni completamente diverse, anche se devo dire che io personalmente ho la fortuna di trovarmi a lavorare in una cooperativa libertaria dove il capo è effettivamente un capo amerindiano: è quello che lavora più di tutti, che non percepisce salario e che non ci pensa nemmeno a dare ordini sul lavoro, ma ha la sua autorevolezza.

Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid
Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid

 

Primitivo attuale

In conclusione, possiamo dire che questo libro presenta il punto di vista di un antropologo libertario che cerca di interpretare le esperienze delle società primitive e di ricodificarle nel contemporaneo. A me piacerebbe dar ragione ai primitivisti, costruire da domani un mondo dove si viva di nuovo di caccia e raccolta e dove siamo tutti liberi ed eguali. Ma, a parte il fatto che non tutte le società primitive erano perfette e credo che dei passi avanti l’umanità li abbia fatti, ritengo più stimolante attingere a quanto di interessante si trova in queste società per ricodificarlo nel tempo presente e cercare di mutare subito la nostra vita quotidiana. Ad esempio cercare di riprodurre negli spazi che frequentiamo la concezione del potere distribuito, non gerarchico. Oppure cominciare a pensare alle possibilità di vivere con un’economia di condivisione e dono. Chiaramente queste modalità di relazione sono più fattibili in piccoli centri, in piccole comunità, e d’altra parte io non voglio fare il politologo e dare risposte sui macrosistemi. Si può però sperimentare, perché siamo noi che dovremmo decidere come vivere, quali relazioni mettere in pratica nella nostra quotidianità. Anche se, va detto, la critica che fanno molti libertari all’organizzazione di queste società primitive, e che ritengo sensata, riguarda la forte pressione comunitaria sulle scelte individuali: la soggettività individuale, che per me rimane fondamentale, rischia infatti di venire compressa dalla comunità.

Un’ultima cosa che voglio dirvi su questo libro riguarda le illustrazioni. Sono disegni di Giulia Pellegrini. Con lei ho discusso molto su queste tematiche e abbiamo insieme cercato di ragionare sul modo di affrontarle artisticamente; le illustrazioni che trovate non sono quindi solo un contorno al testo, ma parte integrante del libro.

Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid
Durbar square, Kathmandu, Nepal, 2015 post-terremoto. Foto di Andrea Staid

 

Qual è la collocazione spaziale e temporale di queste società primitive di cui ci hai parlato? A che luoghi e a quali epoche storiche fai riferimento? Esistono ancora oggi dei popoli indigeni che vivono con questo tipo di organizzazione sociale ed economica?

Prima di tutto spiego cosa intendo per “società primitive”, termine che a me non piace perché accomuna diverse singolarità tra loro differenti. Ci sono infatti i Guaranì, gli Inuit, i Kapauko e così via. Ma, generalizzando, possiamo intendere per primitive quelle società che presentano un livello minimo di stratificazione sociale, che in genere vivono di caccia, raccolta o praticano un’agricoltura limitata e, per usare parole di Clastres, nelle quali il corpo politico non è separato dal corpo sociale. Un grave errore sarebbe di ritenerle società immutabili nella storia. Si sono invece mosse, sono mutate dentro il flusso della storia e quindi non c’è un periodo fisso in cui collocarle; gli esempi che vi ho portato sono racconti etnografici degli anni sessanta e settanta del Novecento, ma quelle società esistevano da tempo immemorabile. Ovviamente sono anche diverse a seconda dei luoghi in cui si sviluppano.

Ancora oggi in Polinesia ci sono varie comunità che vivono su modelli simili a quelli di cui abbiamo parlato. Adriano Favole in La bussola dell’antropologo riporta etnografie da lui fatte in quelle zone tra il 2008 e il 2013 e racconta che ad esempio la maggior parte di queste comunità non vende i frutti della terra, farlo sarebbe un insulto al loro modo di vita, perché la terra è di tutti. Nella seconda metà del Novecento, quando in molte parti del mondo si sono sviluppate le lotte di liberazione dal colonialismo, in Polinesia gli antropologi trovavano comunità che, forse ingenuamente, sostenevano di non riconoscersi in questa necessità di liberazione nazionale visto che il mare è di tutti, la terrà è di tutti. Facevano piuttosto un altro tipo di lotta, che era una lotta di resistenza, di diserzione dai comandi dei colonialisti per continuare a vivere come avevano sempre vissuto. Questo ha prodotto una cosa interessante, cioè che in Polinesia ci sono ancora migliaia di persone che vivono con un’economia del dono e della condivisione, mentre se guardiamo a cosa è successo in Africa vediamo che la lotta anticolonialista ha finito per produrre la distruzione totale delle economie preesistenti e nuovi Stati nazione che hanno determinato condizioni ancora peggiori di quelle degli Stati nazione europei. Con questo non voglio dire che una strada sia stata migliore o peggiore dell’altra, non è mio interesse mettermi a giudicare su questo tipo di scelte.

Quelle che ho visto con i miei occhi sono le popolazioni Hmong, Tà Ôi, Dao, Giay, Tay, che ho conosciuto dal 2010 fino alla scorsa estate nei territori che noi chiamiamo Vietnam, Thailandia, Laos, Cina, ma loro in realtà non si riconoscono in nessuno di questi Stati, parlano una propria lingua e hanno una propria cultura. Sono comunità schiacciate dall’avanzata continua del capitalismo (anche se in Cina, Laos e Vietnam ci sarebbe il comunismo). Ora i regimi hanno quantomeno smesso di massacrarle ma i territori in cui vivono sono depredati e stanno diventando terreno per il turismo indigenista, che è una cosa terribile: arrivi a Bangkok e le agenzie turistiche ti propongono di fare il giro per andare a visitare gli indigeni. Una specie di zoo degli umani!

Vi consiglio anche di leggere l’antropologo James Scott. Al contrario di quanto ho fatto io che mi sono avvicinato a questi studi da attivista anarchico, lui non era un libertario ma capisce di esserlo proprio attraverso l’etnografia. Dopo trent’anni di studi etnografici in Asia scrive L’arte di non essere governati, Dominio e arte della resistenza ed Elogio dell’anarchismo. Secondo lui nel Sud-Est asiatico la maggior parte della popolazione, quindi non solo le piccole comunità, vive con l’arte di non essere governata. Sono società statali ma in realtà gli abitanti non si riconoscono affatto nello Stato. Non lo attaccano direttamente in maniera conflittuale ma più che altro non fanno quello che viene loro imposto di fare. Io mi sono reso conto abbastanza bene di questa cosa la scorsa estate quando sono stato in Nepal, dopo il terremoto; a Kathmandu a trenta giorni dal terremoto era evidente l’impossibilità totale di creare “zone rosse”. In Durbar square, la piazza principale con bellissime costruzioni antiche di templi, crollati o pericolanti, c’erano tutti i cartelli di “zona proibita” ma in realtà i motorini sfrecciavano ovunque, le signore vendevano gli ortaggi in strada ecc. Questo non vuol dire che sia una società più bella della nostra, ma mi è parso chiaro come nella quotidianità della gente ci sia veramente quest’arte di non essere governati.

Mi pare che nello sviluppo storico dell’umanità siano i criteri del dominio e della conquista ad aver maggiormente inciso, rispetto a quelle società primitive che invece vivevano in pace nelle loro comunità a-statali. Secondo te perché nella lunga storia umana alla fine sono riuscite ad imporsi la società statuale e l’economia del profitto?

Una risposta univoca non si può dare. Di certo, a mio parere, non ci sono stadi evolutivi nella storia della società umana, con passaggi necessari da un assetto a un altro come ci diceva la teoria marxista. Sul perché a un certo punto si introduca l’organizzazione di tipo statuale, con tutto ciò che ne consegue, gli antropologi hanno elaborato diverse ipotesi. Una di queste riguarda la figura del capo e il fatto che in caso di guerra detenesse il potere di tipo comando-obbedienza. Era un’eccezione legata alle necessità di un momento particolare, il momento dell’azione. Ma il prolungarsi delle battaglie deve aver determinato, a un certo punto, che questo potere diventasse stabile concentrandosi nelle mani di qualcuno. Un’altra lettura parte invece dal potere religioso. In queste società c’erano degli sciamani e probabilmente, a causa di calamità naturali o del prolungarsi di situazioni di carestia, un gran numero di persone ha sentito il bisogno di una protezione slegata dalla realtà quotidiana, portando in questo modo ad una cristallizzazione del potere religioso. In ogni caso, la formazione di gerarchie sociali è un processo che non si è compiuto dall’oggi al domani ma ha avuto bisogno di tempi molto lunghi.

Illustrazione di Giulia Pellegrini
Illustrazione di Giulia Pellegrini

 

Cosa ne pensi delle attuali pratiche di scambio e di condivisione rappresentate da tutto quello che gira attorno alla sharing economy?

Il capitalismo soprattutto in tempo di crisi è ben capace di sfruttare a suo vantaggio determinate tematiche come quella della condivisione, che è una buona economia, facendoci sopra il suo guadagno. Prima dicevo che la condivisione e il dono sono economie senza profitto, la sharing economy è una invece cosa differente ma che comunque rimane un passaggio perlomeno interessante. Se prendiamo l’esempio del car sharing e pensiamo all’abolizione in città di tutte le macchine private per lasciare solo macchine condivise, non sarebbe male. Ma qual è la differenza? È che nella sharing economy ci sono soldi che girano e c’è dietro qualcuno che fa profitti. Anche quello del coworking è un discorso stimolante, si lavora fianco a fianco con persone diverse, si crea uno scambio di saperi, si risparmia sulle bollette. A Milano negli ultimi anni c’è stato davvero un boom del coworking, ma anche qui la cosa pazzesca è che c’è qualcuno che lucra sui centimetri di tavolo che prendi in affitto. La sharing economy per come la conosciamo oggi è più che altro una soluzione per il capitalismo in crisi.

All’inizio della presentazione hai detto che ti occupi principalmente di etnografie dei migranti, qual è la tua visione sul fenomeno delle migrazioni oggi? Quali sono secondo te la strategie da adottare?

Partiamo dal dato di fatto che tutte le culture umane sono impure, tutte sono in transito. Ma fermarsi a quest’affermazione sarebbe semplicistico, è evidente che da dieci anni a questa parte stiamo affrontando un fenomeno che ha raggiunto una consistenza molto maggiore di quella a cui erano abituate le nostre società. Il perché, lo abbiamo sotto gli occhi. Non voglio far demagogia ma la colpa è dell’Occidente, è di quegli Stati che sono andati a colonizzare il mondo, che hanno depredato interi territori dove adesso è impossibile creare economie sostenibili, che hanno infine voluto esportare la democrazia. Avesse almeno garantito un minimo di vita degna e invece in certe zone adesso si sta molto peggio di prima e quindi le persone sono costrette ad andarsene. Ho raccolto molte testimonianze in questi anni di lavoro etnografico, molti migranti vengono qui perché scappano da una situazione economica impossibile, da guerre, da carestie.

Il discorso sarebbe lungo, ma andando proprio al nocciolo della questione io sono convinto che sia possibile creare un mondo che sappia accogliere e che sappia nutrirsi di questi fenomeni migratori, ma non c’è una via di mezzo: deve cambiare strutturalmente la società neoliberale che conosciamo. La soluzione non è al suo interno. A me ad esempio non piace parlare di “integrazione”, anche se il termine può essere usato con una valenza positiva, perché significa che qualcuno deve inserirsi nel mio corpo e io nel suo, mentre io più che integrare vorrei scambiare, vorrei trovare assieme la soluzione per la coabitazione e per un’intercultura reale. Anche il multiculturalismo non è un concetto che mi soddisfa, perché indica un separare le differenze e renderle poi omogenee in un insieme assurdo. Pensare di trovare una soluzione a tutto questo senza cambiare completamente lo stato delle cose nella fortezza Europa, nella fortezza Occidente, credo sia impossibile.

 

[1] Pierre Clastres, Archeologia della violenza, Milano, La Salamandra, 1982, p. 121.

[2] L. Pospisil, in Marshall Sahlins, L’economia dell’età della pietra: scarsità e abbondanza nelle società primitive, Milano, Bompiani, 1980, p. 67

[3] P. Clastres, Prefazione, in M. Sahlins, L’economia dell’età della pietra, cit., p. 11.

Voja de fadigà salteme addosso (#7)

Voja de fadigà salteme addosso
Di Vittorio

Così fa un detto dialettale marchigiano ancora in voga e finisce con il sincero endecasillabo “fadiga te padròn che io nun posso”.

bravi ragazzi e ragazze del servizio civile.
bravi ragazzi e ragazze del servizio civile.

 

Non è una novità che l’offerta di lavoro nelle Marche sia in calo dal 2008 ad oggi mentre la disoccupazione per la fascia di età tra i 15 e i 29 anni è cresciuta dal 9,9% del 2008 al 25,2% del 2016. Basta farsi un giro nella miriade di zone artigianali e industriali della regione o domandare nel primo bar: la distruzione di posti di lavoro ha avuto un impatto notevole sulla situazione sociale ed economi­ca di chi oggi è considerato giovane fino ai 35 anni.

L’isola felice descritta nella favola della “Terza Italia” e del distretto industriale marchigiano diffuso non esiste più. Chi ha tempo di leggere i dati può accorger­sene facilmente e la sequenza sismica iniziata ad agosto 2016 ha reso fragilissimo il tessuto industriale e produttivo già provato da pesanti ristrutturazioni delle province di Ascoli Piceno, Macerata e in parte della provincia di Fermo. Certo qualcuno potrebbe obiettare che i macchinoni in giro si vedono ancora e i negozi di lusso continuano a restare aperti. La ricchezza infatti c’è ancora, ma è distribui­ta sempre peggio e sempre più lontano dai giovani, sono loro infatti i più a rischio povertà anche secondo l’ISTAT. Anche nelle Marche, di fronte al fallimento delle promesse e dei progetti della classe imprenditoriale e dirigente locale si preferisce, come ovunque in Italia, spostare la responsabilità su chi è arrivato dopo. E quindi ecco che da qualche anno è iniziata ad apparire sui giornali e nel lessico dei po­litici la contabilità dei cosiddetti NEET: l’acronimo anglosassone che etichetta i giovani che non lavorano, non studiano e non frequentano corsi di formazione.

Nelle Marche le statistiche ufficiali ne contano 41.800, ovvero il 19,8% dei gio­vani nella fascia di età tra 15 e 29 anni. Noi non vogliamo prendere per buone le etichette negative e deprimenti della statistica ufficiale. Ci piacerebbe pensare che migliaia di quelli censiti in questa categoria abbiano scelto di non lavorare per fare qualcosa di meglio ma tuttavia è plausibile pensare che un giovane su cinque sia gravemente a rischio povertà e sempre secondo le statistiche ufficiali almeno altri due abbiano sicuramente un contratto di lavoro molto precario. Alcune interviste raccolte nell’arco di diversi mesi nel 2016 durante la prima fase di Garanzia Gio­vani mi hanno dato uno spaccato in presa diretta di quello che sta succedendo per i lavoratori e le lavoratrici più giovani. Le prime esperienze lavorative spesso pro­ducono una profonda delusione ma servono anche a stimolare un senso critico:

«In cucina ho lavorato al Girasole, qui a Marotta, dove ho lavorato per due mesi che dopo sono andato via… e sempre con la scuola… solo che il professore mi ha detto tu vieni a lavorare con me e dopo un mesetto ti do qualcosa. È passato un mesetto e non mi ha dato niente… e [ha detto] guarda è meglio che lavori gratis e in inverno vieni a lavorare con me. Non mi è piaciuto quello. Io mi sono fatto un culo grosso così per tutto un mese e tu mi dici questo? Quello non mi è piaciuto per niente, dopo che mi ha fatto così io non sono andato mai più a lavorare.»
A.F., uomo, 20 anni, Mondolfo.

Tanti giovani anche di fronte alla mancanza di opportunità non smettono co­munque di rimanere attivi, perché il lavoro e in generale l’essere attivi e produttivi rimane un tassello fondamentale della cultura e dell’identità marchigiana:

«Poi ho continuato a cercare fino al 2013, diciamo che sono stato due anni dal 2011 al 2013 sempre a cercare ma non ho trovato nulla… solo a casa diciamo facevo le scale del palazzo, ogni tanto aiutavo mia nonna, facevo queste cose… facevo le scale nel senso che pulivo le scale poi mi davano qualcosa così, ma giusto per fare qualco­sa, perché io volevo fare ma non trovavo nulla allora almeno… siccome vivo in un palazzo con sei famiglie, allora le altre famiglie invece di pagare un’altra persona o una ditta io mi sono proposto e lo faccio tutt’ora questa cosa e la faccio da quando ho finito la scuola perché proprio me la sento io, senza far niente non ci riuscivo…»
V.C., uomo, 26 anni, Corridonia.

Fino qui nulla di nuovo, ma vorrei riflettere criticamente sull’idea che il dramma provocato dalla disoccupazione giovanile non consista nell’evidente stato di su­bordinazione in cui essa mantiene i giovani della regione ma nel fatto che quasi nessuno sia spinto a interrogarsi sul senso e sul futuro del lavoro in quanto tale.

commenti da FB
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Garanzia giovani: il circo dei tirocini

Intanto dopo l’ondata di rivolte giovanili del 2011, che alle latitudini più diverse aveva portato in piazza migliaia di giovani combattivi dalle più diverse regioni d’Europa e del Mediterraneo, negli ambienti istituzionali e della gestione eco­nomica della crisi finanziaria si è fatto strada il timore dei “rischi per la coesione sociale” portati dall’aumento vertiginoso della disoccupazione. Soprattutto in risposta a queste inquietudini nel 2013 la UE ha tirato fuori dal cappello il pro­getto Garanzia Giovani, che ha iniziato a veicolare verso le regioni maggiormen­te colpite dalla disoccupazione giovanile un nuovo flusso di risorse economiche condizionate a specifici interventi di politiche attive del lavoro, cioè a un nuovo progetto di disciplina sociale per i giovani lavoratori e studenti del continente.

Garanzia Giovani è arrivata nel 2014 nelle Marche e ha messo subito a ballare tutta la rete regionale delle cosiddette politiche attive per il lavoro. Le risorse in arrivo dall’Europa hanno ringalluzzito tutto l’esercito di imprenditori che ruota­no attorno al business delle “risorse umane”. Si sono moltiplicate le Associazioni Temporanee di Impresa che associano agenzie interinali molto note come Man­power e Obiettivo Lavoro o altri centri di formazione meno famosi come lo IAL del sindacato CISL e tante altre imprese di servizi più piccole che sono nate come funghi durante la crisi economica del 2008 e dopo il 2014 in corrispondenza con l’arrivo dei nuovi fondi europei. In queste aziende della formazione e della gestione del “capitale umano” centinaia di persone, spesso precarie e sfruttate anch’esse, lavorano per far girare la macchina della formazione e dell’orientamen­to professionali.

I risultati dal punto di vista della trasformazione delle condizioni dei giovani? Praticamente nulli. Ci dicono le statistiche ufficiali che una buona metà trova un lavoro a tempo determinato dopo sei mesi di tirocinio svolti con un compenso di 500 euro mensili. Poi, come accade per percentuali altrettanto maiuscole, lo perderà e comunque non riuscirà a cambiare la propria condizione individuale di sfruttamento e incertezza. Insomma trova lavoro chi lo avrebbe trovato anche senza regalare soldi pubblici alle aziende e intanto il valore del lavoro dei giovani continua a diminuire. Anche i servizi per l’impiego pubblici spesso non brillano per efficienza e serietà e i risultati non tardano ad arrivare:

«Io sono iscritto da quando avevo 16 anni ma non mi ha mai trovato un lavoro, un corso formativo interessante, non è servito a nulla se non per rinnovare ogni sei mesi la disoccupazione che poi non serve a nulla… l’anzianità di disoccu­pazione non serve a nulla in un territorio come Fabriano perché quando io ero interessato a seguire un corso di formazione ero immediatamente surclassato da un cassaintegrato che aveva la priorità su di me… quindi il centro per l’impiego non mi è servito a nulla.»
G.T., uomo, 29 anni, Fabriano.

Anche nelle Marche per tutti gli anni 2000, ben prima della grande ubriacatura renziana, l’entusiasmo per le “politiche attive” aveva prodotto distorsioni evidenti come l’uso massiccio dei voucher da parte delle amministrazioni comunali per stipendiare forme di lavoro assistenziale o clientelare rivolto ai disoccupati cronici e alle categorie più deboli.

A partire dal 2014 il progetto Garanzia Giovani ha portato con sé il classico corol­lario di distorsioni e disagi all’italiana: pagamenti in ritardo per mesi, contratti di lavoro stagionale o temporaneo sostituiti dai tirocini pagati con i soldi pubblici, progetti di auto-imprenditorialità fallimentari. Specialmente nel settore turistico e della ristorazione è emerso chiaramente il rischio concreto di vedere sostituiti dei pessimi lavori pagati male con dei pessimi interventi di politiche attive, pa­gati ancora peggio o addirittura non pagati come nel caso dell’alternanza scuola lavoro.

Da questo punto di vista anche chi ha le idee chiare su queste contraddizioni non vede nell’immediato una possibilità politica di attivazione:

«Se una azienda si mette a disposizione di un progetto del genere ci deve essere una minima apertura verso il fatto che questa persona possa rientrare dentro l’a­zienda o che ci siano dei margini di continuità perché altrimenti questo diventa uno strumento che le aziende sfruttano per avere una persona in più. A me mi è andata benissimo perché in tutto questo ho fatto un progetto che mi piaceva però immagino che ci siano persone che hanno lavorato “a uffa” senza guadagnarci una “cippa”. Per cui un minimo di garanzia ci dovrebbe essere in questo per cui l’azienda che si mette in discussione su un progetto del genere ha dei benefici ma ha anche degli impegni verso la persona che sta lì e che lavora sei mesi anche se è giovane. A me hanno detto: “una volta i tirocini non erano pagati, ringrazia che adesso lavori e ti pagano”. Ma non è che se una volta si facevano le cose male, adesso dobbiamo accontentarci no? Che ragionamento è?»
E.B., donna, 26 anni, Senigallia.

A partire dalla grande vetrina di Expo 2015, l’idea che il lavoro dei giovani possa essere svolto gratis e l’estensione anche ai trentenni di questa aberrante idea di “esperienza” provoca anche in provincia situazioni paradossali:

«Mi sono trovata bene perché la mia titolare era concreta, giovane, comprensiva, mi ha aiutato tanto e poi addirittura dopo quattro mesi che ero lì e non avevamo ricevuto lo stipendio dalla Regione lei mi ha dato qualcosa, si è sentita in dovere di anticiparmi qualcosa. Per il resto a livello lavorativo lavoravo 5 ore al giorno [il minimo previsto] e quando la mia titolare è andata a chiedere informazioni per il mio contratto ci ha fatto un po’ strano che al centro per l’impiego le hanno detto: “come solo per 5 ore? Ne può fare di più…” [infatti] c’è un massimo di 8 ore. E lei ha risposto che per 500 euro non se la sente di far lavorare più di 5 ore. Quindi anche al centro per l’impiego lo sfruttamento è una cosa normale… [L’unico contatto con il centro per l’impiego si è ridotto all’attivazione del con­tratto]. Poi quando si è trattato di reclamare i soldi che non arrivavano loro non sapevano mai niente, però visto che era una situazione comune non abbiamo insistito tanto, poi la titolare mi aveva già anticipato qualcosa.»
A.S., donna, 30 anni, Ancona.

Garanzia Giovani, malgrado le buone intenzioni dichiarate della Regione Mar­che, ha quindi inserito nuove risorse nella dinamica distorta dei tirocini che spes­so coprono forme di sfruttamento:

«Quando mi hanno chiamata c’era già una parrucchiera che mi richiedeva, si chiama M. di San Benedetto. Cercava qualcuno che avesse un minimo di espe­rienza. Quest’esperienza non mi è piaciuta più che altro perché ci marciano tutti, ci marciano, non t’insegnano nulla, ti mettono lì come sciampista, non mi hanno fatto alcun tipo di formazione. Io dopo quattro mesi, senti a me, già mi date poco, insegnate non m’insegnate niente, io me ne sono andata! Era una ditta piccola, un negozietto con due soci, mi avevano preso solo per alleggerire il loro lavoro.»
M.R., donna, 20 anni, Macerata.

Mentre dal lato dei giovani professionisti e free-lance la consapevolezza dei propri diritti è molto bassa e la solidarietà è inesistente come testimonia questa donna:

«Quello che mi frega è che per quanto stai male economicamente, i pagamenti a singhiozzo, fai quello che ti piace, sei in un ambiente giovanile, con gente inserita in vari discorsi… Però vedo altre imprese che devono mandare i dipendenti in ferie perché sennò li devono pagare alla fine, quando mi vedo io che devo star qui 10 o 11 ore per una “micragna” e devo pagarmi io le tasse ed è tutta una rimessa e dico perché io devo fare così e gli altri hanno tutto questo gran tappetto davanti e non fanno niente soprattutto i dipendenti pubblici?»
V.T., donna, 28 anni, Camerano.

Cosa succede poi quando dopo sei mesi a 500 euro si torna alla vita di disoccupa­ti? La delusione è forte e non tutti riescono a essere abbastanza resilienti:

«Io più che altro sono stato scoraggiato, avevo molto puntato sull’esperienza di sei mesi perché loro avevano detto che c’erano possibilità di assumere e allora io ho cercato di dare il massimo per essere assunto. È stata un po’ una delusione lì, dopo mi sono un po’ abbattuto e c’è stato un po’ sto calo che sono stato un anno senza fare niente e dopo mi sono ripreso perché comunque sia devi riuscire anche un po’ a riprenderti, è anche una fortuna. Ci sono tante persone che conosco che magari cadono anche in depressione, può sfociare in una cosa abbastanza seria.»
G.R., uomo, 25 anni, Civitanova.

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Scuola/lavoro alternate: sfruttamento fisso

Spesso si sente dire dagli esperti in materia che molti dei problemi a trovare lavoro dei giovani dipendono dallo scarso collegamento tra scuola e lavoro. Certo spesso la scuola è un mondo a sé, chiusa in logiche auto-referenziali ma che dire dell’in­vecchiamento della popolazione? Del nepotismo e della corruzione, dei vecchi ag­grappati alle poltrone e ai posti di potere, del paternalismo e del mammismo all’i­taliana? Quanto pesano sulle possibilità di costruirsi una vita autonoma e libera?

A partire dal 2015 l’alternanza scuola lavoro obbligatoria è stata imposta dall’al­to, come tutta la riforma della scuola della legge 107/2015 e coerente con le sue origini altolocate ha portato con sé la puzza di privilegio e sfruttamento. Se infatti da un lato gli studenti e le studentesse si dichiarano per la maggior parte contenti/e di svolgere un periodo fuori da scuola, se si analizza bene cosa succede troviamo che non c’è in atto nessun sistema per promuovere la mobilità sociale: i più attrezzati svolgono le settimane di alternanza presso amici di famiglia o im­prese amiche, mentre ai più sfigati non resta che attingere all’offerta istituzionale.

E qui la situazione delle Marche è comunque allarmante poiché anche in que­sta regione è arrivata l’attivazione di partenariati con pescecani industriali come Mc Donald’s, Autogrill e perfino con l’Anonima Petroli Italia proprietaria della mefitica raffineria di Falconara Marittima. Un passaggio del protocollo di intesa firmato tra il ministero della pubblica istruzione e l’API è particolarmente surre­ale quando nell’art. 1 dichiarano “che intendono promuovere la collaborazione, il raccordo e il confronto tra il sistema educativo di istruzione e formazione, il sistema universitario e il mondo del lavoro e dell’industria […] al fine di diffon­dere conoscenze e competenze relative ai temi dell’energia, della tutela dell’am­biente e del futuro della mobilità attraverso il contatto diretto con gli operatori del settore”.

Peccato che lo stabilimento API di Falconara sia dal 2011 nella posizione 274 dei 622 impianti più inquinanti per l’aria in Europa secondo l’Agenzia europea per l’ambiente. Non certo un esempio di ecologia e tecnologia del futuro. Per non parlare della terribile eredità di tumori e inquinamento marino che da anni ven­gono denunciati dai comitati di cittadini del piccolo centro costiero. La raffineria e i suoi padroni piuttosto che ricevere ancora soldi e lavoro gratuito dallo Stato dovrebbero iniziare a riparare i danni al territorio che hanno sfruttato, ma questa è un’altra storia. Sono più di ventimila ogni anno i ragazzi e ragazze nelle Marche che dovranno obbligatoriamente entrare in percorsi di alternanza scuola lavoro. Si tratta di un immenso cantiere pedagogico purtroppo fino a oggi contraddi­stinto dalla più totale mancanza di senso critico rispetto allo sfruttamento nel mercato del lavoro e dall’assenza di una visione del lavoro come attività umana cooperativa e collettiva ben diversa dall’idea di una merce da svendere in compe­tizione con il proprio compagno di banco. Il concetto di occupabilità promosso dal ministro Poletti altro non è che un invito stucchevole a obbedire alle leggi ingiuste del mercato.

Pesaro, marzo 2017 - Corteo contro l’alternanza scuola/lavoro
Pesaro, marzo 2017 – Corteo contro l’alternanza scuola/lavoro

 

Le risposte

È da molto tempo che provo a cercare le tracce di una risposta conflittuale al continuo deterioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei giovani ma pur­troppo ho trovato molte risposte individuali, molta consapevolezza delle contrad­dizioni della situazione ma poca sensibilità rispetto all’esistenza di una condizione comune, di classe e generazionale.

Garanzia Giovani e in generale la retorica delle “politiche attive per il lavoro” (che non c’è) nelle Marche non hanno incontrato fino ad ora una opposizione e una criticità organizzate. Anzi, fino a febbraio 2017, ben 36.600 giovani si erano iscritti al programma, circa 17.000 erano entrati attivamente in contatto con gli uffici e poco più di 8.000 avevano ricevuto un qualche tipo di offerta di attività formativa o di tirocinio. Il disagio per l’ingiustizia dei ritardi nei pagamenti delle indennità per i tirocini si è sfogato soprattutto sulla rete web senza però dare luogo a scelte rivendicative forti o momenti di solidarietà concreta. La scelta dei sindacati confederali è stata quella di partecipare alla gestione dei fondi per la formazione nel caso di CISL e UIL o di restarne fuori come nel caso della CGIL senza però svolgere un ruolo attivo di contrasto, bensì con deboli tentativi di organizzare le rivendicazioni dei borsisti e con una posizione critica che non ha inciso sui problemi di fondo. Alcuni aspetti dei tirocini sono stati riformati: dal 2017 le aziende che vogliono assumere un tirocinante devono contribuire con 200 euro all’importo dell’assegno e così forse qualche sciacallo in meno si avvici­nerà a questa mangiatoia, ma per i giovani la musica non cambia.

Nel campo dell’alternanza scuola lavoro i pochi studenti che non hanno rinun­ciato al senso critico hanno provato a organizzarsi, ma la risposta delle migliaia di studenti marchigiani per il momento non è sembrata corrispondere all’urgenza dei problemi. Nella provincia di Pesaro e Urbino il collettivo Studenti Attivi ha fatto una partenza in salita. Un corteo a Pesaro nell’ottobre 2016, poi un altro a fine marzo 2017, la risposta in termini di numeri è stata molto debole anche perché la polizia politica ha il vizio di telefonare preventivamente ai rappresen­tanti degli studenti per dissuaderli dallo scendere in strada. In parallelo alcuni studenti e studentesse del collettivo hanno avviato un monitoraggio delle espe­rienze di alternanza, un racconto corale nel tentativo di arginare l’indifferenza e l’individualismo che spesso circondano le difficoltà dei più giovani nell’esperienza scolastica e lavorativa.

Cosa succederà in futuro? È necessario ancora molto lavoro di ascolto, di colle­gamento e di educazione di base per riportare tra i più giovani la consapevolezza delle contraddizioni e dei conflitti che si nascondono dietro il mantra delle la­mentele istituzionali per la disoccupazione. Di chi è la colpa dei nostri problemi? Qual è la soluzione che possiamo trovare insieme? Non sono domande stupide, ma l’inizio di un necessario processo di organizzazione e di lotta per liberarsi dal posto di lavoro come forma di oppressione sociale e per riscoprire il valore del lavoro libero, della cooperazione e del mutualismo come forme di uscita dalla cappa di pesantezza e obbedienza imposta da dieci anni di prediche sulla crisi.

La fine di un mondo non è la fine di tutto (#8)

La fine di un mondo non è la fine di tutto
Intervista a Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro.
Di Andrea Cavalletti

Cranio street art
Cranio street art

 

Il Brasile è la terra del futuro, scriveva nel 1939 Stefan Zweig. Con minore ottimismo, Déborah Danowski e Eduardo Viveiros de Castro suggeriscono che è piuttosto il futuro della Terra, fatto di inquinamento, di problemi migratori e povertà, ad assomigliare al Brasile. Lei è una filosofa (specialista di Leibniz), lui, teorico del «multinaturalismo» e del «prospettivismo amerindo», è uno degli antropologi oggi più noti e influenti. Entrambi libertari, impegnati sul fronte ambientalista, vivono e insegnano a Rio de Janeiro. Abbiamo avuto la fortuna di incontrarli a Bologna dove hanno presentato il loro Esiste un mondo a venire? Sag­gio sulle paure della fine, recentemente tradotto da Alessandro Lucera e Alessandro Palmieri per i tipi di Nottetempo. Questo libro tanto apprezzato da Bruno Latour è certo uno dei più intelligenti che siano apparsi negli ultimi tempi. Spaziando dalla fantascienza alla mitologia degli amerindi, dalle nostre visioni apocalittiche (i film di Lars von Trier o Béla Tarr e Ágnes Hranitzky, il romanzo La strada di Cormac McCarthy) ai sogni degli sciamani, dispiegando un apparato teorico che va dal «principio disperazione» di Günther Anders al sociomorfismo universale di Gabriel Tarde, Danowski e Viveiros de Castro affrontano il tema più attuale e impegnativo che vi sia, gettando una luce inedita su ciò che Paul Crutzen ha chiamato Antropocene. Certo, riguardo agli spaventosi mutamenti ambientali prodotti dall’uomo e ormai irreversibili non si fanno illusioni: il nostro è il tempo della fine. Ma la fine di un mondo, del mondo occidentale e capitalista, aggiun­gono, non è la fine di tutto. Lo testimoniano proprio quei popoli amazzonici ai quali tutto è stato sottratto, e che hanno saputo resistere inventando nuovi stili e tecniche raffinate di sopravvivenza. È da un futuro assai prossimo che ci vengono così incontro i «primitivi», mentre il globo reagisce al nostro dominio con la vio­lenza di un gigante impazzito.

Privati del loro mondo e quasi totalmente sterminati dai conquistadores, gli ame­rindi sono riusciti a sopravvivere e – malgrado le continue persecuzioni – a molti­plicarsi. Maestri di diplomazia, sono stati capaci di resistere in condizioni estreme mettendo in atto continue trattative con gli altri esseri, che per loro non sono mai stati «inferiori». Secondo un singolare superamento per eccesso dell’antro­pocentrismo, ogni vivente (appaia ai nostri occhi come uomo o come animale) ha infatti, per gli indios, un’anima umana; più precisamente: ogni essere si vede come un uomo e vede come uomo quello della stessa specie (noi stessi potremmo essere quindi degli animali, e animali certo dobbiamo apparire, per esempio, dal punto di vista dei giaguari, che sono invece uomini l’uno per l’altro). Soprattutto, gli amerindi, che non hanno uno stato e non si riconoscono neanche come un popolo, non concepiscono la politica come un’azione sull’ambiente e quest’ulti­mo come qualcosa con cui la società deve entrare in rapporto in maniera più o meno conflittuale, ma sanno che la vita di ogni singolo è una vera e propria as­sociazione di esseri, e che la politica e la società sono l’ambiente stesso: «pensano che, tra il cielo e la terra, esistano molte più società… di quante ne sognino la nostra antropologia e la nostra filosofia. Ciò che noi chiamiamo ambiente è per loro una società di società, un’arena internazionale, una cosmpoliteia. Non esiste dunque una differenza assoluta di statuto tra società e ambiente, come se la prima fosse il “soggetto” e l’altro l’“oggetto”. Ogni oggetto è sempre un altro soggetto, e sempre più d’uno. L’espressione che si trova comunemente sulla bocca dei giovani militanti di sinistra “tutto è politico” acquista nel caso amerindo una letteralità ra­dicale… che nemmeno il più entusiasta manifestante nelle strade di Copenhagen, Rio o Madrid sarebbe forse preparato ad ammettere».

Così gli indios – suggeriscono Danowki e Viveiros de Castro – possono essere per noi un esempio ispiratore, proprio quando dobbiamo (noi tutti) affrontare una minaccia tanto grave quanto quella della crisi nucleare ma ancora più com­plessa e difficile da definire. Sopravvivere, in queste condizioni, significa resiste­re, abbandonare i nostri abiti nocivi, le nostre attitudini suicide a favore di una forma di vita resistente, e innanzitutto attuare una presa di coscienza: conoscere i fenomeni, temerli, anzi imparare ad averne finalmente tutta la paura che biso­gna averne per averne davvero coscienza. E significa misurare le forze in campo, considerando anche le narrazioni o le prediche spettacolari, i loro effetti e le loro risonanze; tenendo conto, tra le altre cose, dell’ingresso «impattante del Vaticano all’interno del dibattito» o della contemporanea apparizione del Manifesto eco­modernista, «documento capitanato dal Breakthrough Institute e sottoscritto da diverse celebrità pro-capitaliste» ma in effetti non lontano dalla visione altrettan­to apologetica dei leninisti odierni. Oggi alcuni, a sinistra (per es. Nick Srnicek e Alex Williams, autori del Manifesto per una politica accelerazionista, tradotto e diffuso da noi dal sito euronomade), pretendono infatti che per sopravvivere all’Antropocene bisognerebbe «approfittare [sic] di ogni progresso tecnologico e scientifico» del tardo capitalismo, e anzi (anche ricorrendo, contro «l’orizzontalità e l’inclusione di molta sinistra “radicale”», alla «segretezza, alla verticalità e all’e­sclusione») che si dovrebbe «accelerare il processo dell’evoluzione tecnologica» per «liberare le forze produttive latenti» – come se proprio tali «conquiste» non consi­stessero nella riduzione della tecnica a puro apparato di sfruttamento (dell’uomo e insieme della natura), come se l’«evoluzione» fosse un valore indiscutibile, come se «produzione» non significasse distruzione del mondo, e, soprattutto, come se simili argomenti non fossero stati persino ridicolizzati, ormai cinquant’anni fa, proprio dai marxisti più avveduti (come Jean Fallot). Esiste un mondo a venire? dischiude invece una prospettiva del tutto nuova e finalmente rischiaratrice, ci viene insomma davvero in aiuto quando non c’è più tempo e dobbiamo agire.

Cranio street art
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Gli scienziati ci dicono da tempo che il limite è stato superato. La Terra non si sotto­mette più, anzi si ribella con tutta la sua forza alla follia del nostro dominio. Che cosa possiamo fare, quali scelte ci impone l’Antropocene?

La Terra ha sempre tenuto conto delle azioni umane, ne ha registrato gli effetti, ma non vi si è mai sottomessa, al contrario di quanto hanno creduto i Moderni con la loro ideologia del progresso. Da qualche secolo noi (o meglio: le civiltà che hanno inventato il capitalismo moderno e ne sono a loro volta il prodotto) viviamo come se il mondo, di cui non siamo che una parte, fosse fatto di materia inerte, cioè di risorse infinite da prelevare “gratis”, e di esseri “inferiori” sui quali avremmo ogni diritto, quasi fossero schiavi ridotti al silenzio per servirci. Ogni azione causa però una reazione (che è poi un’azione, dal punto di vista del sog­getto sul quale agiamo). E questa, certo, non è una novità. Del tutto inedita, in­vece, è la scala delle “reazioni”, la cui somma determina il passaggio dall’Olocene all’Antropocene. Siamo così entrati in un mondo del tutto ignoto, non solo alla nostra civiltà ma per certi aspetti all’intera specie homo sapiens. Si tratta di qualco­sa di immane. Si potrebbe anche dire che ci troviamo di fronte a una condizione davvero “sovrannaturale”, ma in un senso nuovo del termine (benché non privo di relazioni con quello antico e religioso).

Dunque, sì, abbiamo superato o stiamo superando quasi tutti i limiti riconosciuti dalle organizzazioni scientifiche internazionali, come quello dell’aumento della temperatura di 1.5°C, a cui richiama l’Accordo di Parigi. Siamo oltre i 350 ppm di CO2 nell’atmosfera, cioè, secondo gli scienziati, in una condizione pericolo­sissima, del tutto incontrollabile (negli ultimi tempi è stata raggiunto il picco di 410 ppm). I ghiacciai dell’Artico sono condannati, e così, verosimilmente, quelli dell’Antartico e della Groenlandia. E ci troviamo nel bel mezzo della sesta grande estinzione di massa nella storia del pianeta.

Che cosa possiamo fare? Intanto, dobbiamo ammettere che nessuno lo sa ve­ramente. Ma in ogni caso dobbiamo agire, in qualsiasi modo, sempre e ancora agire, per rallentare, per fermare la nostra fuga in avanti. E dobbiamo compiere un esercizio mentale, uno sforzo dell’immaginazione, iniziando a in­vertire la freccia del tempo cosiddetto “storico”, che d’altronde non è mai stato un tempo unico per tutta l’umanità e non ha mai marciato in modo rettilineo verso il Regno dei Fini dell’Uomo. In effetti, per quanto riguarda il decorso del tempo “fisico”, cioè la legge dell’entro­pia, sappiamo che il fenomeno della vita è finora riuscito per così dire a ingannarlo, costituendosi come entropia negativa, organizzatrice. Ma pare che “noi”, proprio noi, siamo diventati degli agenti entropici assai efficaci, ossia delle forze dell’anti-vita. E oggi è del tutto chiaro: il nostro “modo di vita” è mortifero.

Malgrado l’evidenza, parliamo però come se tutto fosse a disposizione della nostra volontà sovrana e, paradossalmente, come se non vi fossero altre maniere di vive­re, come se un’uscita dal nostro mondo “moderno” ci gettasse nel puro caos. Ora, dobbiamo sapere che entrambi questi presupposti sono falsi. In primo luogo, infatti, non possiamo fare qualsiasi cosa: vi sono limiti di ogni sorta e ovunque; non possiamo scegliere di conservare ciò che più ci piace e abbandonare il resto. In secondo luogo, la presenza di questi limiti non ci impedisce affatto di vivere, e di vivere in molteplici maniere, in comunione con gli altri viventi.

Allora, iniziando a immaginare la vita sulla Terra (la vita umana ma anche quella extraumana) da qui a, diciamo, cinquant’anni, ci renderemo conto che sarà molto diversa da quella che facciamo oggi, e sarà diversa per tutti noi e comunque, poco importa che l’abbiamo scelto o meno. Dobbiamo iniziare a farci delle domande. Potranno ancora esistere – dobbiamo chiederci – delle autovetture individuali e delle strade che coprono una parte enorme della superficie planetaria? E che ne sarà delle stesse grandi imprese che dominano il mercato? La foresta Amazzonica sarà ancora una foresta o una savana semiarida? I ghiacciai ci saranno ancora? E gli inquinanti negli oceani cosa potranno diventare? Quale sarà la nuova geo-politica mondiale quando le zone desertiche si saranno estese brutalmente? Esisteranno ancora gli stati-nazione? Quanti rifugiati politici e climatici conteremo, e dove saranno? Saremo anche noi, tutti, dei rifugiati? E cosa diventeranno gli indios e le altre collettività extra-moderne? Come saranno distribuite le ultime risorse? E che genere di guerre vi saranno? Ma anche: quali nuove comunità, quali nuovi legami “sovrannaturali” si creeranno? Forse soltanto la fantascienza potrebbe aiutarci a immaginare le possibilità di mondi così diversi e ricchi.

Quello che vogliamo dire, in conclusione, è che l’Antropocene ci imporrà di con­frontarci con molti limiti, sia antichi che nuovi. Ma vogliamo anche suggerire che quando dei mondi finiscono o si chiudono, altri si aprono: ed è in questi ultimi che dobbiamo imparare a “vivere con” – to stay with the trouble, come ha proposto Donna Haraway.

Cranio street art
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Si direbbe che per voi, come per altri studiosi, l’idea di uno “sviluppo sostenibile” o “durevole” esprima soltanto un pio desiderio, o addirittura una contraddizione in termini.

Sì, è proprio così. A meno che non si ridefinisca lo “sviluppo” nel senso di un cambiamento radicale del modo di vita, o ancor meglio, di uno “sviluppo” delle virtualità umane, o come un repliement che conduca a un “vivere bene” per tutti, compresi i non umani. E poi, soprattutto, l’idea di un “capitalismo duraturo” è ben peggio che un pio desiderio, è un’ipocrisia concettuale.

Voi conoscete e studiate gli indios, e ci fate notare che malgrado le persecuzioni, gli attacchi e le continue distruzioni, sono oggi molto più numerosi di quanto non fossero ai tempi del celebre viaggio di Lévi-Strauss. Che cosa possiamo imparare da loro, a sessant’anni da «Tristi tropici»?

 Da antropologo, Eduardo ha vissuto diversi anni tra gli indigeni amerindi. Questi uomini ci insegnano almeno due cose: in primo luogo, come sopravvivere in un mondo che è stato devastato da una civiltà nemica, convinta di avere il mondo intero (la Terra) ai propri piedi, e dunque un diritto di sovranità su ogni essere vivente – una civiltà che oggi, per ironia della sorte, sta diventando il nemico di se stessa; in secondo luogo, essi ci fanno comprendere concretamente che la terra (e la Terra) non ci appartiene: siamo piuttosto noi ad appartenerle.

Le civiltà amerinde – e quelle altre che non sono ancora spiritualmente sotto­messe al capitalismo (anche se la cosiddetta “sussunzione reale” si rivela un “fatto universale”) – non devono essere considerate in alcun modo un modello. Esse non hanno e non ci offrono delle ricette per il futuro. Costitui­scono invece un esempio, che è qualcosa di molto diverso da un modello. Il modello è co­me l’idea platonica: un ordine normativo che si impone su coloro che non potrebbero che copiarlo, in una maniera co­munque imperfetta. Il modello è un affare da FMI o da Banca mondiale per i paesi “in via di sviluppo”. L’esempio, al con­trario, è qualcosa che ci ispira a fare in modo “diversamente simile” o “similmente diverso”.

Il modello è normativo e verticale, l’esempio orizzontale e rizomatico. Qual è dunque l’esempio che ci offrono gli indios e gli altri popoli tradizionali? Sempli­cemente questo: come vivere, come insistere ad esistere (bisognerebbe scrivere: come resistere) in un mondo che è stato rubato, che è svanito, che è stato distrut­to da una civiltà estranea e incomprensibile. Il paradosso dell’attuale situazione planetaria sta nel fatto che questa civiltà distruttrice, estranea e incomprensibile è la “nostra” stessa civiltà, la pretesa “civiltà globale” – o per dirla tutta, e nei termini di Félix Guattari, il capitalismo mondiale integrato.

Cranio street art
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Vi avranno però obiettato: il problema è appunto che noi non siamo sullo stesso piano degli amerindi. Noi siamo i colpevoli…

Possiamo iniziare coll’interrogare questo “noi”. Gli statunitensi, i brasiliani, i ci­nesi, sono tutti colpevoli? E anche se lo fossero, avrebbero le stesse colpe degli europei? E che dire delle etnie minoritarie d’Europa? I lapponi sono forse colpe­voli come i francesi? E il contadino alverniate è colpevole come l’azionista Total o Syngenta? Il piccolo proprietario obbligato a piantare degli OGM e a usare i pesticidi tossici ha lo stesso genere di colpa della Monsanto o della Bayer, o dei governi piegati ai diktat di queste corporations sinistre? Gli operai-schiavi che si uccidono nelle fabbriche cinesi di iPhones sono colpevoli come i loro padroni, o come Apple? In ogni caso, se ogni classe, come diceva Hegel, ha i propri traditori, si può anche dire che ogni civiltà ha – deve avere – i suoi. Così gli indios e altri popoli extra-moderni iniziano a trovare alleati anche nei paesi cosiddetti “centra­li”. Basti pensare all’estensione e alla potenza del sostegno di cui hanno goduto il movimento zapatista e i curdi, per rendersi conto che le cose stanno cambiando. Non pochi “colpevoli” sono ormai pronti ad allearsi con gli indios e i loro simili.

 I popoli che non hanno una climatologia e una geofisica sono coscienti dei grandi mutamenti? Li temono? E reagiscono alla paura?

Gli indios, come d’altro canto gli inuit, i piccoli agricoltori del nordest del Bra­sile, o i popoli delle isole dell’Oceania che stanno per essere sommerse, sanno bene che cosa sta accadendo, benché non usino espressioni come “cambiamento climatico”, “riscaldamento globale” ecc. D’altronde citiamo nel nostro capitolo La fine del mondo degli indios questa frase dello sciamano Yanomami Davi Ko­penawa: «I Bianchi non temono, come noi, di essere schiacciati dalla caduta del cielo, ma un giorno avranno paura, forse, quanto noi!». I popoli tradizionali sono insomma molto consapevoli, e hanno molta paura. Il disfacimento o la de-sincro­nizzazione dei ritmi e dei cicli ecologici è ormai la “regola” che mina e sconvolge seriamente le loro pratiche di sussistenza: ad esempio, essi non sanno più quale sia il momento giusto per seminare una certa coltura perché il regime biosemio­tico dell’ambiente è diventato imprevedibile. Quanto al modo in cui reagiscono alla paura, possiamo citare Russell Means, il protagonista della rivolta Sioux di Woundend Knee del 1973: «Gli indiani americani hanno provato a spiegarlo agli europei per secoli. Ma questi sono stati incapaci di ascoltare. L’ordine naturale vincerà, e il suo nemico perirà, come muore il cervo quando offende l’armonia sovrappopolando una regione. Perché accada quel che i bianchi chiamano “una grave catastrofe di proporzioni globali”, è solo questione di tempo. Ma il ruolo dei popoli Indiani, e di tutti gli esseri naturali, è di sopravvivere. La resistenza fa parte della nostra sopravvivenza. Noi non resistiamo per rovesciare un governo o per assumere il potere politico, ma perché resistere allo sterminio, sopravvivere, è naturale. Non vogliamo perciò del potere nelle istituzioni dei bianchi: vogliamo che esse scompaiano».

Negli ultimi tempi si parla molto della paura e dei sentimenti legati al cambia­mento climatico. Alcuni chiamano coloro che sono coscienti della crisi ecologica pessimisti o “catastrofisti”. Altri, e innanzitutto Naomi Klein, spiegano in manie­ra interessante come la paura sia stata trasformata in dottrina di stato, come la Shock and Awe Doctrine paralizzi le popolazioni permettendo ai governi neoliberali di infierire sui più poveri e le classi medie. La nostra posizione è più vicina a quella di filosofi come Günther Anders o Hans Jonas, che credevano nella virtù preventiva della paura. Dobbiamo evi­tare che la paura (come la morte, del resto) venga catturata dalla destra e dalle sue politiche fasciste. Dobbiamo riappropriarci dei sentimenti, per non lasciarli nelle mani di chi sta distruggendo la foresta e gli ecosistemi.

Cranio street art
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Due anni fa il Papa è intervenuto con l’enciclica «Laudato si’»; poco prima era ap­parso «An Ecomodernist Manifesto». Si tratta di due documenti piuttosto diversi…

Del tutto opposti! Il Manifesto ecomodernista predica “l’avvento di un Antropoce­ne positivo, persino superlativo” per mezzo di soluzioni tecnologiche centralizza­te e pesanti investimenti energetici (fracking idraulico, fissione nucleare, grandi progetti idroelettrici, monoculture transgeniche, geo-ingegneria ambientale ecc.) Afferma che big is beautiful, e che dovremmo produrre ancora di più, innovare, accelerare, e sempre prosperare. Lo dice apertamente, senza dubbi o esitazioni, senza vergogna.

Da un lato, dunque, l’Enciclica propone un “ritorno alla semplicità” contro il consumismo e l’allucinazione della “crescita infinita o illimitata”, fa eco all’allar­me degli scienziati e li prende sul serio ripetendo che in natura tutto ha un valore intrinseco e tutto è collegato; e ci ricorda che dobbiamo porre un freno radica­le a quelle pratiche ecologicamente irresponsabili, che garantiscono dei profitti enormi distruggendo ovunque culture e modi di vita, devastando gli ecosistemi e riempiendo di veleni la “nostra casa comune”. Dall’altro, gli autori del Manifesto se ne escono col curioso concetto di decoupling (il disaccoppianento della crescita dall’impatto ambientale) per cui a un certo punto, a forza di “modernizzare la modernizzazione” (come dice Ulrich Beck) la stessa tecnologia che ci avvelena (l’unica, d’altronde, che riconoscono, cioè quella “di punta”, della Big Science e dei grandi capitali) finirà – non si sa come – per annullare i suoi “effetti collate­rali” e i suoi costi materiali. Sembra così che siano proprio costoro a credere, da buoni cristiani, che dopo l’Apocalisse verrà il Regno.

Cranio street art
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Oroscopo di primavera. Vite precarie, sfighe cosmiche, svolte epocali e destini infami (#10)

Oroscopo di primavera. Vite precarie, sfighe cosmiche, svolte epocali e destini infami
Di Astronza, con un’intervista di Valentina

Il cosmo questo sconosciuto… ma anche sottovalutato! Abbiamo incontrato Astronza, compagna romana, in uno dei suoi cabaret astrologici e ci ha fatto girare la testa fino vedere i pianeti, così abbiamo deciso di farci raccontare perché – e soprattutto come – restare connessi con il nostro cielo, anche se siamo irriducibili materialiste/i. Per chi continuerà a essere scettico dopo questa lettura: peccato… ma almeno avrete sempre qualcosa lassù con cui prendervela.

Illustrazione di Troche
Illustrazione di Troche

Ciao Astronza, senza troppi giri di parole e visto che il tuo nome lo suggerisce, spiegaci, soprattutto per lettori e lettrici diffidenti: l’oroscopo e l’astrologia sono una… stronzata?

Assolutamente, direi che è tutto il contrario. Il nome Astronza, come anche la grafica scelta, nascono un po’ come provocazione: molto spesso l’astrologia viene considerata cosa di poco valore, inserita spesso nella categoria tempo libero, quando invece è uno strumento complesso di conoscenza di se stessi, degli altri e di tutto ciò che ci gira attorno e ci attraversa, le energie! Ma molto spesso risulta essere pesante e noiosa quando studiata, o approcciata in maniera errata quando consultata. La previsione del futuro non è possibile per fortuna e l’astrologia ha solo il compito di decifrare quello che c’è e ci potrebbe essere, il mio intento è dare un’impronta ironica e divertente e che soprattutto esca dai soliti canoni fatti di amori solo eterosessuali e rapporti stile famiglie vecchio stampo, far arrivare il messaggio in una chiave diversa. E poi è il caso di non prendersi mai troppo sul serio, un po’ di sana autocritica ci vuole sempre.

Qual è il nostro rapporto con stelle e pianeti? C’è sintonia tra la vita umana e i corpi celesti? Perché dovremmo osservare di più il “nostro” cielo?

Come diceva Ermete Trimegisto: ciò che è in basso è come ciò che è in alto e ciò che è in alto è come ciò che è in basso. Il cielo è sempre stato il punto di riferimento dell’essere umano, è da lì che partono tutte le scoperte. Osservando il cielo l’uomo ha imparato a navigare, coltivare e ad avere una concezione del tempo. Guardare al cielo e riconoscerlo vuol dire orientarsi, non penso che possa esistere un motivo più valido di questo. Se so che vado a Berlino a gennaio di certo non parto con le infradito, come non vado alle Canarie con i doposci, così se so che ho Mercurio o Venere opposti e quadrati a Saturno o Nettuno non vado a fare una dichiarazione d’amore. Come non è il caso di darsi all’illegalità o non faccio uscire un libro quando mi trovo un Giove quadrato in aspetto difficile, per esempio con Mercurio. Queste sono sempre indicazioni, poi c’è la scelta che rimane sempre nostra.

Oggi siamo abituati a considerare l’oroscopo con un approccio frivolo e superstizioso, suggerito anche da un modo leggero e/o commerciale di proporre la materia. Dai giornali alle tv la figura dell’astrologo (quasi sempre maschio!) ha una connotazione a tratti folkloristica. Che ne pensi di questi personaggi, ma soprattutto c’è stato un tempo in cui l’astrologia aveva un’altra considerazione?

Illustrazione di Troche
Illustrazione di Troche

Penso che alcuni astrologi sono molto bravi, ma non vedo la tv da oltre vent’anni e non sono molto aggiornata. C’è Paolo Fox che, quando mi è capitato di vederlo, l’ho visto consumato dalla mole di lavoro e nemmeno gli lasciano lo spazio giusto; Branko, che gli vuoi dire, è leggendo le sue previsioni annuali che è scattata la mia prima molla nel cervello, il transito di Saturno! I loro oroscopi sono veritieri, si basano su transiti reali e danno indicazioni giuste, poi come lo presentano è un altro discorso. Da una parte sono contenta che sia stato dato spazio alla materia anche in altri canali, con la possibilità di uscire dai giornaletti da bagno o dai discorsi da parrucchiere, negli ultimi anni ho visto la riscoperta e crescita di tale disciplina, quindi non mi sento di criticarli. E sì, spesso gli astrologi famosi sono maschi, come i cuochi, quando poi sembra essere di interesse soprattutto femminile, ma si sa la donna in cucina è normale mentre l’uomo è “chef ”… L’astrologia in realtà ha avuto sempre un’altra collocazione, è solo dai tempi moderni che si guarda all’oroscopo personale, prima veniva utilizzata per vedere i grandi accadimenti mondiali tipo le guerre, ciò che poteva accadere a personaggi di un certo rilievo, o anche per i matrimoni illustri, quelli decisi a tavolino dalle grande famiglie come in India, lì ad esempio vengono comparati i due temi e si vedono affinità e possibilità.

Per anni le mie mattine sono state accompagnate dalla voce di Linda Wolf che in una finestra di pochi minuti su Radio2 offriva agli ascoltatori un oroscopo sintetico e sibillino. Linda è stata studiosa, scrittrice e docente nel campo dell’astrologia, personaggio curioso e poco conosciuto. Come lei altre donne hanno dato un contributo fondamentale allo studio delle stelle, anche in una prospettiva razionale e femminista. Ci puoi citare qualche esempio? Hai dei riferimenti nella tua arte?

La mia musa, colei che mi ha convinto della validità dell’astrologia, è stata proprio una donna, Lisa Morpurgo. Venuta a contatto con l’astrologia per motivi lavorativi dopo averla studiata, ha gettato nuove fondamenta per una nuova comprensione dello zodiaco arrivando a ipotizzare l’esistenza di due nuovi pianeti che successivamente sono stati scoperti, Eris e Sedna, governatori del segno del Toro e della Vergine. In realtà ne sono stati scoperti molti altri, ma il discorso si fa lungo e ci facciamo notte, però vi dico che si stanno studiando anche a livello astrologico oltre che astronomico. La Morpurgo sicuramente è un punto di riferimento dell’astrologia italiana, Lidia Fassio, sua allieva, ha fondato la scuola italiana dell’astrologia umanistica, una branca dove l’astrologia mondiale sta volgendo il suo sguardo…

E ora spazio all’oroscopo.

Ariete
La primavera! Grazie al vostro impeto, chiamiamola pure irruenza, la vita esce allo scoperto, viene alla luce e quest’anno il Sole è in compagnia di Mercurio, Venere e Urano agli ultimi gradi pronto a lasciarvi a maggio dopo ben sette anni di transito. Voi in primis e tante energie potenti, innovative e rivoluzionarie. Alcune, a dire il vero molte, però vi richiamano al dovere, ma voi adesso pensate al piacere, alla soddisfazione, ai sentimenti. Tirati tra gli opposti il vecchio e il nuovo, stimoli, indecisione, passioni e progetti lavorativi. Aprile vi vede più sereni e compiaciuti, anche se la stanchezza è tanta come gli impegni che tanto vi piacerebbe evitare, ma non si può! Con Mercurio fino a metà maggio non sapete a chi dare i resti, comunicazioni a go go. Nei sentimenti c’è meno ansia, ci si accasa volentieri. Il mese è scorrevole, sociale e piacevole ma a giugno un po’ di malinconia, di insicurezza vi fa venire voglia di dolcezza…

Illustrazione di Troche
Illustrazione di Troche

 

Toro
A marzo avete un’ottima forma psicofisica e tanta voglia di fare qualcosa di nuovo, di eccitante, solo che sarà da aprile che i tempi saranno veramente maturi. Il mese vedrà Venere transitare nel vostro segno dal 1 al 24, è il momento delle piacevolezze, voglia di comprarsi qualcosa, di uscire, di viversi qualche emozione. Siete più belli, Venere in congiunzione emana fascino anche quando non vi piacete. Le forze ci sono ma dalla metà di maggio ci saranno due transiti di grande rilievo per voi. Il primo è quello di Urano il pianeta del cambiamento, della rivoluzione, che il 15 entra nel vostro segno dopo 84 anni e il secondo è la sosta di Marte, pianeta dell’energia fisica e sessuale, che dal 16 che vi si mette in aspetto di chiusura. Evitate gli eccessi e non stressate il fisico, qualcosa di grosso si smuove dentro e fuori di voi, la vita per voi può prendere tutt’altra forma, siete nell’alba di una nuova era…

Gemelli
tante le cose che accadono in questa primavera. Siete svegli e svelti nel prendere le occasioni al volo. Buon momento per avviare nuovi progetti professionali, per riscuotere qualche soldo e anche le relazioni vivono un periodo roseo. Specialmente quando Venere dal 24 aprile arriva nel vostro segno mettendo in risalto il fascino. La voglia di relazionarsi è forte, siete pronti per buttarvi nella mischia. Maghi della parola, suscitate ottime impressioni sulle persone. La sosta di Mercurio fino a maggio favorisce gli scambi, gli spostamenti e stimola la vostra infinita curiosità, voglia di conoscenza. A metà maggio poi comincia la sosta di Marte in Acquario che viene a darvi quella forza in più che vi permette di fare molto. Sicuramente è per voi la stagione più favorevole dell’anno dove è possibile rinverdire rapporti come anche avviarne di nuovi. Giugno vi vede più dolci e disponibili verso gli altri e chissà che non vi sentiam parlar d’amore…

Cancro
La primavera si apre e voi non vi sentite tanto pronti, troppe attività, cose di fretta, cavoli a merenda. La fine di marzo vi vede infastiditi e reattivi con l’ambiente esterno, ma già da aprile qualcosa si muove e pure bene. Venere dal 1 vi rende più belli, di nuovo socievoli e stranamente sociali. Certo c’è la quadratura di Mercurio che non vi permette di esser al top, evitate l’impulsività. È da maggio che la situazione cambia dalla notte al giorno quando Marte si toglie dall’opposizione, Mercurio dalla quadratura, Venere entra nel segno il 19 e, notiziona dell’anno, Urano dopo sette anni in posizione ostile viene a vostro favore! Incontri che fanno battere il cuore come tanto piace a voi, coppie più stabili, l’amore diventa protagonista e soprattutto sereno. Finisce il periodo di magra, qualche soldo torna a girare, nel lavoro comincia a vedersi qualche luce e non è Natale. Giugno vi vede soddisfatti, i cambiamenti che incontrerete stavolta saranno molto positivi…

Illustrazione di Troche
Illustrazione di Troche

 

Leone
L’inizio della stagione è foriero di buone occasioni. Sole, Mercurio e Venere a marzo vi danno quella marcia in più che avete fin dalla nascita e che vi porta verso qualche risultato ambizioso che perseguite da un po’ di tempo soprattutto nel lavoro. Anche la sfera erotico sentimentale non è male. Dal primo aprile però i nodi vengono al pettine nei rapporti con gli altri, nei gruppi, nelle relazioni, c’è tensione ognuno sta sulle sue e i nuovi amori, se ci sono, non sono facili. È da metà maggio che la pazienza scema e le cose si complicano, capirsi con gli altri diventa difficile sembra che parlate diverse lingue e pure quella dei segni non sembra funzionare. Marte dal 16 si mette in opposizione e la resistenza la fa da padrone e c’è anche Urano che il 15 entra in quadratura portando un po’ di ribellione. A giugno siete già un po’ più teneri e leggeri e poi arriva Venere nel segno e l’estate vi vede brillare…

Vergine
La primavera comincia con tante anche troppe cose da fare, cosa che comunque a voi piace visto che fermi non ci sapete troppo stare. Tutto accade molto velocemente e non avete molto da prendere fiato. Ad aprile siete sostenuti dal trigono di Venere dal 1 al 24, grande momento per i senti¬menti, nelle coppie c’è affiatamento e per i single è possibile fare incontri interessanti che hanno il sentore di diventare qualcosa di importante e duraturo. Marte fino a metà maggio vi dà la forza necessaria per affrontare tutto. Il periodo è ricco di occasioni per confermare la vostra posizione lavorativa, per trovare consenso e sostegno, sia morale che economico. Sa¬turno è sempre in trigono e a metà maggio lo sarà anche Urano, pianeta del cambiamento, dell’inaspettato, delle novità importanti. L’inizio di giugno vede qualche nuvola affacciarsi nel vostro cielo, con Mercurio negativo meglio andarci piano, a comunicare trovate difficoltà…

Bilancia
L’inizio di primavera vi trova con qualche perplessità. È un periodo in cui siete stressati, agitati, un tantino ansiosi anche. I transiti dei pianeti in opposizione non vi lasciano per niente sereni, vi mancano delle sicurezze. Nel lavoro sembra tutto in forse, vano, faticoso! Occhio nelle finanze, ci sono più uscite che entrate e fino alla metà di maggio non se ne esce. Ma tanto voi siete proiettati verso le relazioni e il godervi la vita, lo sforzo già si sa non fa per voi e con Venere opposta che aspira all’ozio ancor di più. Già dal 1 aprile però il pianeta degli affetti comincia a mandarvi influssi gentili e dal 24, quando entra nel segno dei Gemelli rendendo tutto più bello e armonioso soprattutto a livello relazionale. Dalla metà di maggio c’è una rinascita a livello fisico, Marte il pianeta dell’energia torna in aspetto positivo, finisce il periodo di stasi. Verso giugno vediamo i pianeti transitare nel Cancro e a voi risalir qualche fisima…

Scorpione
Marzo vi vede attivi e propositivi, aprile è invece un mese in cui vorrete prendervela con molta calma. Venere in opposizione fino al 24 vi fa stare un po’ fermi sulle vostre posizioni, non avete molta voglia di sforzarvi, di fare cose impegnative e nemmeno di lavorare, il mood è più che altro sul godereccio andante. È la seconda metà di maggio ad essere difficoltosa quando sia Mercurio che Marte vi mettono a rischio di qualche incidente o accidente dovuto per lo più a distrazione e anche al fatto che non state a sentire quanto vi dicono gli altri e parlo sia di partner sentimentali che professionali. Meglio rimandare acquisti importanti e se vi fanno proposte valutatele perché non sempre sono a vostro favore. Siete sempre i beniamini delle stelle grazie a Giove ma a giugno dovete stare attenti a come vi ponete, la grazia, il tatto, potrebbero venire a mancarvi. Venere e Mercurio una mano ve la danno, datevela pure voi…

Illustrazione di Troche
Illustrazione di Troche

 

Sagittario
Pimpante questa primavera soprattutto agli inizi quando i tanti trigoni di fuoco arricchiscono la vostra quotidianità di belle esperienze e persone. Buon momento quindi per darsi da fare, difficile non vi accada nulla perché anche senza troppo volerlo saranno gli altri a cercarvi e trovarvi. Mercurio in sosta porta nuove possibilità lavorative, di ampliare la vostra cerchia o qualche premio. Giusto tra la fine di aprile fino a metà maggio Venere si mette in opposizione facendovi salire un po’ di pigrizia, non avete molta voglia di cose impegnative, c’è più voglia di svago che di altro. Magari sarà proprio la sfera erotico sentimentale a catturare la vostra attenzione e il vostro tempo. Di amori belli ne possono nascere, non solo storielle. Nei rapporti già avviati c’è un maggiore feeling e disponibilità. Da metà maggio potete contare sulla sosta di Marte, insomma state belli parati, il divertimento e la soddisfazione sono assicurati…

Capricorno
Sole, Mercurio e Venere quadrati, quindi ostili, è così che cominciate la primavera! Non bisogna spingere e nemmeno correre se si vuole ottenere veramente un buon risultato, ci sono ritardi incomprensioni e dovete tenere sotto controllo la vostra intolleranza soprattutto a livello pratico lavorativo. Marte nel segno fino al 16 maggio vi rende belli decisi e poco comprensivi, è il caso di ascoltare anche le ragioni degli altri! A marzo pure le relazioni affettive non sono al massimo, ma ad aprile, grazie al trigono di Venere dal 1 al 24, la situazione erotico sentimentale diventa interessante e pacifica, nuovi progetti, incontri interessanti. È verso la metà di maggio che possono arrivare quelle conferme lavorative economiche a cui tanto aspirate, Marte esce dal segno e voi vi sentite meno col fiato sul collo, finalmente potete godere delle soddisfazioni della vita. Giugno porta qualche nuvola, melanconia, voglio di un certo non so che, permalosità…

Acquario
Aria frizzante per voi all’inizio della stagione. Ad aprile c’è giusto un transito breve di Venere fino al 24 che vi rende meno vogliosi di uscire e relazionarvi col prossimo, partner compreso. Difficile scendiate a compromessi, poi la musica cambia e la disponibilità torna. È maggio che dal 16 vede l’ingresso di Marte che rimarrà nel vostro segno fino a novembre. Tanta è l’energia che arriva dal pianeta specialmente perché si trova da subito ostacolato dal transito di Urano in Toro dal 15. Importante è incanalarla bene questa energia altrimenti potrebbe fare danni. Un po’ di rabbia va messa in conto, soprattutto perché le cose non sempre, anzi spesso, non andranno come volete voi. Datevi a qualche esercizio fisico, se non fate all’amore rischiate di fare alla guerra soprattutto se qualcuno invade i vostri spazi o vi sposta i vostri oggetti dai vostri posti prestabiliti. La prima parte di giugno è interessante e divertente e verso la fine che vi mettete di punta…

Pesci
Una primavera ricca quella che vi aspetta. I pianeti portano attività e anche soldi. Periodo intenso e dinamico dove ci sarà poco tempo per fermarsi e rilassarsi. Marte vi dà tono e fermezza per smaltire la gran mole di cose da fare. Il sestile di Venere dal 1 al 24 porta piacere, stabilità e coraggio nella sfera erotico sentimentale. Conferme nelle storie avviate come anche nuovi incontri. Giusto una breve parentesi di disagio può esserci a maggio quando sarete così catturati dalle varie e tante attività da portarvi a trascurare gli affetti ma giugno vede i transiti dei pianeti nel Cancro, segno di acqua come il vostro e lì sì che farete il pieno di situazioni emozionanti e benefiche. Difficile tro¬vare esperienze bloccanti, siete tra i beniamini delle stelle e comunque vadano le cose per voi sarà sicuramente un successo anche se a primo impatto potrebbe non sembrare…

Ringraziamo di cuore Astronza per averci fatto strada sulla via lattea.
Per continuare a leggerla e conoscere i suoi appunta¬menti:
https://www.facebook.com/ AstrOnzaConFabula

Illustrazioni di Troche
portroche.blogspot.it

L’inferno marchigiano nei racconti delle prostitute nigeriane (#10)

“On the road” un documentario di Piers Sanderson
Di Paola Via

Il 18 febbraio l’autore del documentario “On the road” ha presentato il suo lavoro davanti al pubblico del teatro “La Fenice” di Senigallia. Piers vive da anni nella città di provincia e ha rivolto lo sguardo a uno dei tanti fenomeni “globali” che caratterizzano da anni la vita quotidiana dei nostri territori. La prostituzione forzata di donne di origine nigeriana è da troppo tempo la normalità sulle nostre strade. La violenza sui corpi delle donne nere, quotidiana e normalizzata, è l’altra faccia della falsa indignazione per le violenze sulle “nostre” donne bianche da parte degli immigrati. Il maschilismo e la violenza di genere non hanno purtroppo nazione. Apprezziamo questo documentario perché conoscere la quotidianità degli “altri” e delle “altre” per rifiutare il loro sfruttamento è il primo passo per ricostruire un terreno di umanità comune, unico antidoto al razzismo e al sessismo dilaganti.

Andare oltre è quello che facciamo quando le vediamo sulla strada. Loro. Le prostitute nigeriane. Donne giovani. O forse meglio dire bimbe o ragazzine in corpi di donna. Poiché l’ètà si è sempre più abbassata. Arrivano nei centri di accoglienza italiani per sparire misteriosamente. Sparire per poi riapparire ai bordi delle strade, dove sono costrette a offrire prestazioni per pochi euro su vecchi materassi. Camminano mezze nude, restano in equilibrio per ore su alti tacchi, respirano diossina. Perché quando la plastica brucia, l’aria è tossica. E l’unico calore che le scalda ha il sapore del veleno. Non c’è calore umano in queste strade. In nessun momento. Si lavora sempre, di giorno e di notte. Non ci sono influenze, malattie, diluvi, tempeste, nevi, postumi da gravidanze interrotte che tengano. Non un lavoro normale. Un lavoro che ti chiede di vendere il tuo corpo. Un corpo venduto per una manciata di euro. Per pagare un debito. Un debito inestinguibile, infinito, sempre in aumento. Si inizia con 25-30.000€, ma si arriva anche a 50.000€ se qualcosa non funziona. Non si finisce mai. Non si vede mai la fine. La loro non è vita. Questa è la cosa difficile. Avere a che fare con esseri umani che non sono trattati da esseri umani. Lo sfruttamento a cui sono sottoposte è anormale.

On the road. Di Piers Sanderson
On the road. Di Piers Sanderson

Azione. Azione come agire per cominciare a pensare in modo diverso. Ci riesce un uomo, londinese, senigalliese di adozione, regista, che trasforma la sua professione in una causa etica. Girare documentari per conoscere la realtà, inoltrarsi in luoghi improbabili, ascoltare storie sepolte, marginali, o raccontate sottovoce per la paura che si portano dentro. E poi un’occasione: la lettura di un articolo, una scoperta sconcertante, una molla che scatta dentro. A pochi chilometri dalle nostre case sicure, al confine tra Marche e Abruzzo in provincia di Ascoli Piceno lungo il fiume Tronto si estende per dieci chilometri la Strada della Bonifica. Nel documentario emerge l’eufemistico soprannome di “Strada dell’Amore” per l’elevato numero di prostitute nigeriane che vi si prostituiscono ogni giorno. Da un lato la spiaggia, dove d’estate i bagnanti passano tranquille ore da vacanzieri sotto il sole, dall’altro lato, proprio a pochi passi, vi si insediano numerose fabbriche e industrie. Ed è proprio in questa zona che l’associazione Onlus On the road, da cui trae nome il documentario, concentra le sue forze per contrastare un racket e un giro di sfruttamento e violenza ormai sempre più diffuso. Realtà presente sul territorio dal 1990 e che testimonia il lungo percorso che porta le ragazze sfruttate nel mercato del sesso a essere da vittime a cittadine. Più di 400 ragazze sono state tolte dalla strada dall’estenuante lavoro dei volontari dell’associazione On the road. Nel 2014 le autorità italiane hanno investigato su 2.897 sospetti trafficanti, la Corte d’assise ne ha condannati 169. Nel 2016 sono arrivate in Italia dalla Nigeria 11.089 persone. Di queste l’80% era destinato alla prostituzione! L’ 80%! Perché arrivano proprio dalla Nigeria? Per capirlo bisogna fare un salto indietro nel tempo. Negli anni ‘80. Quando tutto ebbe inizio.

Una promessa. Un desiderio. Desiderio di migliorarsi, di migliorare la propria vita e quella dei propri familiari. L’inizio di un viaggio. Il viaggio della speranza. Ma che di speranza non ha nulla. Si lascia un paese. Non un paese povero, come spesso si è soliti pensare. La Nigeria è il paese più popoloso e più ricco del continente africano. La sua economia si colloca al 26° posto mondiale per il PIL. In un articolo del Corriere della Sera del 2014 si legge proprio che le sue ricchezze hanno superato quelle dell’Africa del Sud. Crescita recente, dunque. Ma tali ricchezze non sono distribuite equamente. E la disparità sociale è sempre più in aumento, la situazione è peggiorata dopo la guerra civile nel 1967 per la secessione del Biafra. I soldi finiscono nelle tasche degli agenti governativi e il divario tra ricchi e poveri è in crescita. Ci sono uomini in Europa che intuiscono la possibilità di fare soldi facili per vie illecite; per farlo si sfrutta la povertà come trampolino di lancio. Tutto ha inizio in Upper Sakponba road, uno dei quartieri più disagiati di Benin city, capitale dello Stato di Edo, nel sud della Nigeria. Qui le ragazze si prostituiscono per meno di due dollari a cliente. Qui vengono intercettate le famiglie bisognose da uomini della rete che si affidano ad amici, conoscenti per avvicinare i parenti della vittima; famiglie a cui è andato storto qualcosa, un’attività economica in crisi, un genitore scomparso improvvisamente… All’inizio il livello sociale non era così basso come quello attuale (oggi le ragazze provengono dalle zone rurali di tutto l’Edo State e il Delta State e in alcuni casi arrivano che non sanno scrivere neanche il proprio nome). Ce lo racconta Iyamu Kennedy nella sua bellissima testimonianza “Lucciole nere” (Kaos edizioni), una raccolta di storie delle prime partenze per Torino, meta prescelta per l’Italia.

Sono storie di persone normali, proprio come noi, giovani con i loro progetti per il futuro, come quella di Isoken, che sogna di diventare vigile urbano, Mea avvocata, Linda scrittrice, Rosaline insegnante che prima di partire vince un concorso in farmacia. E qui sta l’inganno. Inganno diventano la promessa di realizzare il proprio sogno, di ottenere un lavoro come baby sitter, donna di compagnia, cameriera, etc. e la possibilità di mantenere la propria famiglia nel paese d’origine. Spese di viaggio coperte, documenti falsi e si mette in moto la macchina; l’arrivo in Italia, la scoperta di una realtà diversa, l’impossibilità di ribellarsi per le minacce subite. Le donne raccontano di lavori ben retribuiti e quello che fanno realmente rimane un segreto. Per paura o per vergogna. Il giro prende piede al punto che in Nigeria i sacerdoti pentecostali dal pulpito esaltano i vantaggi delle migrazioni e nel nostro Paese la prostituzione nigeriana va a sostituire quella delle prostitute tossicodipendenti italiane per via dell’aids. Corpi in vendita. Uomini che comprano. Il giro si allarga e a metà degli anni ‘90 la rete si consolida, entra in gioco la figura della “madame”, una ex prostituta che, ripagato il debito, decide di entrare nel giro di affari e diventa essa stessa tenutaria, affiancata da gente con ruoli sempre più specializzati (i reclutatori, i trafficanti che si occupano del viaggio, i falsari di documenti, etc.).

Una rete capillare insomma. Cosa è cambiato rispetto agli anni ‘80? La situazione di povertà delle ragazze di partenza è peggiorata; le ragazze sono consapevoli che andranno a fare le prostitute, ma accettano comunque, perché convinte dalla famiglia a sacrificarsi per un breve periodo per poi fare una vita normale e permettere ai fratelli in Nigeria di studiare (la scuola in Nigeria non è un servizio pubblico, ma a pagamento); le vittime non immaginano la schiavitù e lo sfruttamento a cui saranno sottoposte; il viaggio, non più in aereo, è via mare. Ed è proprio in questi anni che si accendono i riflettori sulla questione nigeriana, però con scarso successo. Esce infatti un rapporto dell’ONU che denuncia l’uccisione di 116 donne nigeriane tra il 1994 e il 1998 e nel 2003 la Nigeria approva la prima legge contro il traffico di esseri umani. Legge che non verrà mai applicata. Perché? Ormai è troppo tardi. Tutte le famiglie dello Stato dell’Edo sono coinvolte. Tutti sono complici. A causa di credenze popolari che sono forme di controllo spaventose! In Nigeria la maggior parte della popolazione, oltre a essere cristiana, crede a particolari leggende e tradizioni tribali legate alle credenze Ju-Ju; per sancire il patto tra la famiglia e i trafficanti si compie un rito che ha valore di affiliazione. La ragazza viene portata in un tempio, spogliata, le vengono tagliati capelli, unghie, pelo pubico unito a indumenti intimi sporchi di sangue mestruale, tagliuzzata in alcune parti del corpo per permettere agli spiriti di entrare e costretta a fare un giuramento: pagare il debito ai trafficanti. Solo a debito sanato, sarà libera; fino ad allora qualsiasi tentativo di allontanarsi o ribellarsi agli uomini della rete scatenerà una ritorsione degli spiriti che si accaniranno su di loro con eventi nefasti. Di questo rito le ragazze hanno una paura incontrollata, che diventa una violenza psicologica più pericolosa di quella fisica. Un potente strumento di controllo. A oggi il rito voodoo è uno dei maggiori ostacoli alla lotta contro la tratta di esseri umani. Tant’è che quando arrivano in Italia, anche quando i volontari delle associazioni riescono a toglierle dal giro, rifiutano di farsi aiutare. Soffrono di attacchi di panico, insonnia, allucinazioni, attacchi psicotici che leggono come una maledizione degli spiriti per aver tradito il giuramento. Negli ospedali italiani si è registrato un aumento di sintomi post traumatici legati a episodi di violenza. Numerosi centri italiani stanno sperimentando protocolli di cura di disturbi mentali di cittadini stranieri che si rifanno agli studi di etnopsichiatria. Tra questi il più importante è il centro Frantz Fanon di Torino, attivo dal 1997.

Mancano però dei tasselli, anzi tre tappe per completare questo dipinto dalle tinte oscure.

La Strada della Bonifica del Tronto
La Strada della Bonifica del Tronto

Prima tappa, l’inizio dell’inferno: Agadez. 1500 km separano Benin city da questa città del Niger. Niger, paese appartenente alla Comunità Economica degli Stati africani, dove non serve il visto per circolare. Qui i trafficanti possono circolare liberamente. Niger, il primo produttore africano di petrolio e 12° al mondo. Paese anche questo ricco. Da qui passa ogni genere di contrabbando: merci contraffatte, hashish, cocaina, eroina, petrolio venduto ai margini delle strade in bottiglie di liquore rubato. Il valore di tale commercio illegale è però ormai di gran lunga superato da quello degli esseri umani. Esseri umani sbattuti per un periodo indefinito (da qualche mese fino a due anni, anche se ultimamente i tempi si sono abbreviati) nella famose case di collocamento. Ad Agadez ce ne sono almeno 70. Luogo che di casa ha solo il nome. Veri ghetti soffocanti e sovraffollati, protetti da poliziotti corrotti e controllati da uomini armati di spade e pugnali. Vitto e alloggio, per chi arriva in modo spontaneo e autonomo, si pagano con il proprio corpo. A meno di tre dollari a cliente. E parte di questa miseria va alla madame locale.

Seconda tappa: attraversare il deserto per raggiungere la costa libica. Attraversare le stesse vie del commercio che hanno percorso gli schiavi 800 anni prima. Con una sola differenza. Le stesse vie oggi sono ingovernabili e inondate di armi! I migranti sono caricati 30 alla volta su dei pick up come bestiame, i trafficanti conoscono i posti di controllo sicuri, i soldati corrotti accettano le tangenti per pagarsi cibo, benzina e pezzi di ricambio perché i fondi destinati all’esercito sono rubati a Niamey, poco più a ovest. E la storia si ripete: nel 2015 il Niger approva la prima legge contro il traffico di esseri umani. Ma ancora una volta questa legge non viene rispettata. Troppe le persone coinvolte. Ogni trafficante dà lavoro a cento famiglie.
Significa che, se non ci fossero tali traffici, queste famiglie non saprebbero di che mangiare e i giovani rischierebbero di finire sotto il reclutamento dei gruppi Jihadisti. Una guerra tra poveri. Ma da quando i controlli sono aumentati, paradossalmente sono aumentate le morti di migranti. Per evitare i controlli si percorrono strade meno battute, ma più pericolose e in presenza di convogli militari i trafficanti non esitano ad abbandonarli lungo la via. In mezzo al deserto. Senza acqua col sole a picco per giorni. In queste condizioni è impossibile sopravvivere. Si è costretti a bere la propria urina per non morire. A centinaia le pietre disposte in forma circolare trovate lungo la traversata a testimoniare la presenza di cadaveri. Morti ignoti. Di cui nessuno sa nulla.

Terza tappa: se l’inferno ha un nome è Sebha. Siamo in Libia. Le torture a cui sono sottoposti nelle case di collocamento libiche sono note a tutti. Ce lo racconta il giornalista Ben Taub del New Yorker in un’inchiesta pubblicata su Internazionale. Qualsiasi persona passata dalla Libia ha subito vio­lenza. Violenze inenarrabili. Atrocità illeggibili. Non sembra siano passati 73 anni dai lager nazisti! Qui vengono violentate anche le bambine. Chi si ribella viene ucciso. Uomini torturati con la corrente elettrica. Malati sepolti vivi. Ogni venerdì ne vengono uccisi cinque a scopo dimostrativo. Proprio Piers Sanderson racconta che la storia che lo ha toccato di più viene da questo posto. Una ragazza ricorda l’amica mortale tra le braccia dopo un’iniezione letale perché era affetta da malaria. Con un ultimo desiderio. Chiedere di raccontare al figlio in Nigeria che il suo corpo si trovava lì, in Libia. E l’unica certezza, che si trasforma in un senso di colpa logorante: di non poterlo fare.

Infine un viaggio senza fine: il mare. Naufragare o sopravvivere e rimanere deturpati. A vita. Perché i migranti oggi non sono più accompagnati dagli scafisti su imbarcazioni sicure. Dopo la tragedia di Lampedusa nel 2013, si sono intensificate le politiche di contenimento degli sbarchi da parte dell’Unione Europea. Con un unico risultato. L’incremento di decessi. I trafficanti temono, non rischiano. Prendono dai cinesi gommoni a 20 € e li caricano con un cellulare satellitare in mano. Nient’altro. Al centro, dove si fanno sedere donne e bambini, le esalazioni di benzina sono più forti e se vengono a contatto con l’acqua del mare scatenano una miscela esplosiva che causa problemi respiratori ai polmoni e corrode la pelle. La brucia. Rimani segnato, in modo indelebile.
Una volta approdate in Italia, le ragazze hanno l’ordine di dire che sono maggiorenni, perché nei centri di accoglienza per adulti i controlli sono minori. Chiamano la madame che attiva la rete dei trafficanti, i quali sanno bene come accelerare le vie burocratiche per farle uscire inosservate dai centri. Spariscono. E, come già detto, ricompaiono misteriosamente sui cigli delle strade delle nostre città. Sotto l’indifferenza di tutti. Costrette a una vita che non hanno scelto. Naufragano in un mare di silenzio.

Lo stesso Piers ha impiegato mesi prima di potersi avvicinare, fingendo di essere un volontario di On the road. Inizialmente senza telecamera. C’è voluto tempo. Per guadagnare fiducia, per trasmettere umanità, per far sentire che nessuno avrebbe fatto loro del male, nessuno voleva usarle. Convincerle a parlare non è stato semplice. Nessuno le ha pagate per farsi intervistare. Ma se le loro storie fossero state diffuse, forse, altre ragazze non avrebbero dovuto subire tutto ciò dopo di loro. Questo è stato detto. Un racconto in cambio di salvezza. Non per loro. Per chi verrà dopo. Un forte messaggio di speranza. Speranza di cui oggi tutti abbiamo un grande bisogno. E di una nuova etica. Non si chiede a nessuno di essere dei supereroi. Ma qualcosa si può fare.
Informarsi, studiare i fenomeni con dati certi prima di farsi la bocca bella con pregiudizi fasulli e che non fanno un bel regalo alla nostra intelligenza.
Sostenere, anche economicamente, associazioni come On the road, unica voce che lotta quotidianamente contro un muro di omertà.
Capire che ormai stiamo attraversando una svolta epocale e ogni evento ha ricadute globali: siamo interconnessi, interdipendenti, non possiamo più dire “non posso farci niente” e i fatti di Macerata ce lo dimostrano. Ogni persona è chiamata alle proprie responsabilità.

Il documentario si può vedere qui: https://youtu.be/DIR_3U5KmuM

L’articolo è estratto dal #10 di Malamente, disponibile in pdf qui:
L’inferno marchigiano nei racconti delle prostitute nigeriane.

Scarica il pdf del numero #10 completo.

La rovina del litorale adriatico, ovvero Del turismo balneare (#5)

La rovina del litorale adriatico, ovvero Del turismo balneare
Di Luigi

Sul litorale marchigiano, così come altrove, lo sviluppo del turismo balneare di massa ha profondamente compromesso nel giro di qualche decennio il sottile equilibrio che da sempre regolava la linea di confine tra terra e acqua. Con questo articolo cerchiamo di capire alcuni aspetti dell’avanzata del cemento e della gestione economica privata che hanno fatto delle spiagge dei luoghi sempre più invivibili. Ma speriamo che non tutto sia perduto e che ci sia spazio per la difesa delle ultime spiagge ancora libere e “selvagge”, come Mezzavalle sulla riviera del Conero e, nonostante il recente incendio, Fiorenzuola di Focara sotto il Monte San Bartolo.

Senigallia. L'invasione degli ombrelloni
Senigallia. L’invasione degli ombrelloni

Pressione antropica e fragilità delle coste marchigiane

Alcuni dati tratti dal dossier di Legambiente Spiagge indifese del maggio 2015 tornano utili per incrinare un po’ la beata immagine delle Marche baciate dal mare, con le sue trovate di marketing turistico come la “spiaggia di velluto” di Senigallia o la “riviera delle palme” di San Benedetto del Tronto. In Italia su 7.465 km di costa le spiagge ne occupano circa la metà, cioè 3.950 km; 1.661 di questi, vale a dire il 42%, sono colpiti da fenomeni di erosione. Nelle Marche la situazione è ancora più critica e la percentuale di spiagge in erosione supera il 54% (78 su 144 km, a cui si aggiungono altri 28 km di coste alte e aree portuali)[1].

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“Free vax” a Pesaro

di Vittorio

Sabato 8 luglio sono stato al parco Miralfiore di Pesaro per vedere che aria tirava alla manifestazione contro l’obbligo vaccinale. Era un evento che si annunciava molto partecipato e che stava suscitando l’interesse di amiche, amici e compagni/e che per varie ragioni hanno scelto di non vaccinare i figli. Anche se personalmente non ho mai fatto grande resistenza ai vaccini, non sopporto le imposizioni e questa storia dell’obbligo vaccinale così massiccio e coatto non mi va giù, dunque ho preso il treno insieme a una comitiva con magliette arancioni – che aumentava di numero a ogni fermata da Ancona in avanti – e sono partito, praticamente senza sapere cosa avrei trovato.

La manifestazione, per chi non fosse informato, è stata organizzata da associazioni quali Comilva (Coordinamento italiano per la libertà delle vaccinazioni), Comitato salute e diritti di Pesaro, Vaccinare Informati e tante altre, per esprimere contrarietà al Decreto Lorenzin approvato a maggio di quest’anno (il Parlamento ha 60 giorni per convertirlo in legge) ed entrato immediatamente in vigore. Questo decreto oggi prevede l’obbligatorietà di 10 vaccini per bambine e bambini per avere accesso ad asili nido, scuole materne e scuole dell’obbligo e introduce sanzioni per i genitori che non intendono vaccinare i propri figli. Pertanto chi vuole continuare a non vaccinarli potrà farlo dietro pagamento di un dazio allo Stato. La decisione, per riprendere le parole del governo, è stata presa per evitare un’emergenza sanitaria, visto che la copertura vaccinale nel nostro Paese è al limite della soglia di sicurezza.

Quella di sabato 8 luglio non è la prima manifestazione contro il decreto, ma sicuramente quella con maggiore partecipazione ed è stata organizzata a Pesaro perché il Comilva oggi ha base a Rimini e raccoglie molti sostenitori tra Romagna e nord delle Marche. A Pesaro inoltre si è svolto un processo civile significativo per le associazioni “free vax” poiché nel luglio 2013 il Tribunale di Pesaro ha disposto l’indennizzo da parte del Ministero della Salute a carico della famiglia di una bambina morta nel 2003, riconoscendo una correlazione tra la vaccinazione e la morte della piccola.

L’entrata del parco, sotto un sole cocente, era presidiata da coppie di carabinieri sonnolenti e altre divise barocche di guardie provinciali, finanzieri e simili. In ossequio alle nuove norme dettate dal ministro Minniti sulle manifestazioni pubbliche, migliaia di persone entravano praticamente in fila indiana, silenziosamente. Gli organizzatori ripetevano dal palco che avevano rinunciato al corteo, che la Questura e la Prefettura avevano cercato di restringere il loro diritto a manifestare e loro lo avevano accettato pacificamente. Neanche a dirlo erano proibite le birrette, così ho dovuto scovare un varco nella selva del parco per poter contrabbandare una busta di Corona tiepide per non disidratarmi completamente.

In questa atmosfera rovente ho trovato effettivamente migliaia di persone provenienti da tutta Italia. Non è facile stimare a occhio i numeri, però lo scontro tra i media mainstream e gli attivisti che si definiscono “free vax” in rete è stato da subito forte e con l’evento ancora in corso. Sulle reti sociali rimbalzavano immagini dall’alto riprese dal drone di ordinanza, perplessità per aver accettato di svolgere la manifestazione in un parco recintato e generici insulti.
Erano 40.000? Questione poco interessante, sicuramente un numero importante e significativo per la piccola città di Pesaro e, secondo molte persone che avevano partecipato a iniziative precedenti, un numero in crescita.

Il caldo unito all’abuso del colore arancione ovunque poteva dare delle allucinazioni, ma ho cercato di restare lucido anche quando ho sentito parlare il cantante Povia dal palco (sì, quello che dice che l’omosessualità è una malattia che si può curare). Dopo il primo stupore: “ma dai me l’avevano detto ma pensavo mi prendessero per il culo” ho realizzato che tutto il programma culturale della manifestazione era pesantemente inclinato verso la destra più irrazionale e reazionaria. Finito lo strazio canoro un sorriso me l’ha regalato il filosofo più alla moda tra i neofascisti nostrani: Diego Fusaro. All’inizio le sue scemenze si sentivano appena, sovrastate dal pianto e dal chiasso di centinaia di bambini accaldati e scorrazzanti. Il giovane luminare infatti, in preda all’infervoro, parlava a macchinetta fuori dal microfono. Quando le pettorine della associazione Comilva l’hanno portato davanti all’apparecchio, ecco apparire i due concetti chiave: “la resistenza parte da due principi: famiglia e interesse nazionale”. Inizialmente ho dato la colpa alle birre ormai calde e alla farcitura delle sigarette, ma poi mi è balzata agli occhi l’evidenza: la maggior parte delle persone applaudivano convinte un mucchio di concetti fascisti e falsificati oppure, peggio, applaudivano ma erano totalmente indifferenti a quanto veniva detto, semplicemente applaudivano il fatto di essere lì insieme.

Gironzolando per il parco tra un intervento dal palco imbarazzante e l’altro ho incontrato amici, militanti di centri sociali e associazioni di base che hanno scelto di non vaccinare i figli o che nutrono legittimi dubbi sulle vaccinazioni: tutti erano piuttosto turbati. Non eravamo a casa nostra, anzi più passava il tempo e più l’effetto straniante, complice anche il caldo torrido, cresceva. L’arrivo sul palco di un fascistone dall’accento romanesco con tanto di maglietta nera “prima gli italiani” ha chiarito definitivamente le idee a tutti. Poi è stato il turno di Gianluigi Paragone, ex vicedirettore di Libero e giornalista della Padania, già conduttore della trasmissione “La gabbia” su La7. Il tenore generale degli interventi era populista e di destra, l’informazione scientifica e legale comunicata dagli interventi molto ridotta e poco utile.

La giornata è finita verso le 21, un sacco di passeggini che tornavano lentamente verso la stazione, madri con magliette che ringraziavano il governatore leghista del Veneto Zaia, striscioni che scomodavano Mengele associandolo ai medici che difendono le vaccinazioni e altro folclore. La sensazione che mi ha lasciato questa piazza è che gli spazi per i compagni e le compagne dentro quel movimento arancione siano inesistenti. Quella piazza poteva forse essere attraversata in modo intelligente da chi vuole criticare l’autoritarismo del governo associato alla scienza egemonica soltanto boicottando quel clima populista insopportabile e facendo emergere posizioni culturalmente diverse. Nessuno ha voluto e potuto farlo.

Ma quindi chi c’era in piazza? Come dice un amico sociologo che lavora a Bergamo, venuto a Pesaro mosso da buone intenzioni: siamo in compagnia della classe media che non c’è più e vive tra paura e risentimento cercando una guida e un nemico. Un mondo a cavallo tra i grillini e i libertarians americani tutti proprietà privata e famiglia.

Significa che la critica alla tecno-scienza e al rapporto tra poteri e saperi medici sia un campo da lasciare alle destre? No di certo, ma sicuramente la manifestazione dell’8 luglio a Pesaro ci restituisce l’immagine della debolezza e dell’invisibilità nello spazio pubblico di una critica anti-capitalista e anti-fascista del rapporto tra scienze e poteri a cui sarà necessario rimediare nell’immediato futuro.

Solo le montagne sono serene

Riceviamo da un nostro redattore che si è recato sui luoghi del terremoto a portare solidarietà attiva.

Terremoto agosto 2016 [1]

29 agosto 2016

Solo le montagne sono serene nella luce piena di giallo di fine agosto, silenziose, più che mai.

Il terremoto ha colpito a macchia di leopardo mettendo in luce le differenze, tra i suoli e le pendenze e tra i derivati minerali delle stesse montagne che compongono le case: i materiali. Tanti commentatori si improvvisano ingegneri e architetti e tutti scoprono che la materialità del nostro abitare nel mondo è importante. Pescara del Tronto si scorge dietro una curva mentre il nostro convoglio sale lentamente, soltanto il cartello stradale è rimasto leggibile, le forme delle case, tutte distrutte, possiamo solo intuirle da quelle che abbiamo visto nei borghi lungo la strada. Alcuni paesi sono crollati, altri sembrano intatti. Altre disuguaglianze mute colpiscono l’occhio: le case vuote e pulite con i fiori al balcone e la palazzina col primo piano che sembra esploso perché il movimento sussultorio ha fatto scoppiare i muri. Nella stanza vivisezionata i calcinacci sfondano il letto, lo specchio è pulito e il cassetto ancora aperto. La vita interrotta.

Terremoto agosto 2016 [4]

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Il Parco nazionale del Catria, Nerone e Alpe della Luna: tutelare l’ambiente e sopravvivere allo sviluppo (#2)

Il Parco nazionale del Catria, Nerone e Alpe della Luna: tutelare l’ambiente e sopravvivere allo sviluppo
Intervista redazionale al collettivo Squola di Pergola

Raduno sul Monte Catria per 'Il Parco che non c'è', settembre 2014
Raduno sul Monte Catria per ‘Il Parco che non c’è’, settembre 2014

 

Da oltre dieci anni diversi soggetti hanno avviato una campagna di sensibilizzazione e si stanno battendo per la costituzione del Parco nazionale del Catria, Nerone e Alpe della Luna: una vasta area protetta a cavallo di Marche, Toscana e Umbria che racchiude gran parte dei massicci montuosi della provincia di Pesaro e Urbino. Si tratta di zone riconosciute come altamente significative dal punto di vista geologico, ambientale e della biodiversità. L’iniziativa è nata dal basso, grazie alla spinta generosa di tanti soggetti che hanno interesse a tutelare e valorizzare questo comprensorio montano e che in tutti questi anni hanno cercato di stimolare le comunità locali, di informarle, di far sì che la mobilitazione sia il più possibile partecipata e condivisa. Abbiamo deciso di intervistare i compagni e le compagne dello spazio autogestito Squola di Pergola che seguono questa campagna partecipandovi in prima persona e in prima fila, per farci raccontare la loro esperienza, le motivazioni che li hanno portati su questa strada, le loro aspettative, i passi in avanti fatti in questi anni, le difficoltà e le resistenze che il progetto incontra, ma anche per esporre e discutere con loro alcune nostre perplessità su progetti di questo tipo, riguardanti in particolare i risvolti gestionali, politici, burocratici ed economici che l’istituzionalizzazione di un Parco porta con sé.

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