Il marchingegno si è rotto. RetroMarch(e): cambiare direzione

Intervista di Sergio Sinigaglia a Carlo Carboni e Michele Serafini [QUI IL PDF]

A metà marzo ad Ancona, presso la Facoltà di Economia, si doveva tenere un incontro pubblico promosso dalla nostra rivista insieme al mensile Gli Asini e al Circolo Laboratorio Sociale. Alla vigilia di una tornata elettorale in cui si prefigurava un successo della destra, l’intento era quello di ragionare sulle trasformazioni avvenute nelle Marche, sui mutamenti sociali, economici, culturali e antropologici, specchio del contesto più generale. Tra i relatori era previsto Carlo Carboni, docente di sociologia presso la stessa facoltà, autore di numerosi saggi tra cui “Il marchingegno”, edito nel 2005 da Affinità elettive, che analizzava il defunto modello marchigiano incentrato sul “piccolo è bello” e cercava di ragionare sulle possibili alternative.

L’incontro di Ancona è saltato a causa delle restrizioni imposte dall’epidemia di Covid-19; abbiamo però ritenuto opportuno intervistare Carboni sulle tematiche di cui avremmo dovuto discutere a marzo. L’intervista contiene alcuni riferimenti alla “classe dirigente” che ovviamente non ci appartengono visto che le nostre idee guida sono, piuttosto, i concetti di autonomia sociale, autogestione, autogoverno. In ogni caso ci sembra un contributo importante e qualificato per riflettere sui cambiamenti in atto, con l’auspicio che nella prossima primavera si possano ricreare le condizioni per riproporre l’iniziativa annullata.

Per ampliare il quadro sulla situazione regionale abbiamo intervistato anche Michele Serafini che, ritornato nelle Marche dopo due anni da ricercatore in antropologia a Londra, ha contribuito alla formazione del gruppo di ricerca interdisciplinare “Emidio di Treviri” formato da antropologi, sociologi e urbanisti, seguendo fin dalle primissime fasi le vicende del terremoto e post-terremoto 2016. Michele ci ha parlato delle dinamiche dell’entroterra, in particolare delle conseguenze determinate dall’ultimo sisma in territori già gravemente alle prese con fenomeni sociali ed economici che ne hanno fortemente indebolito il tessuto civico.

Andrea Pazienza, “Vignette”

Intervista a Carlo Carboni

Nel 2005 hai scritto “Il marchingegno” dove riflettevi sul modello di sviluppo tradizionale della nostra regione e di come ormai mostrasse la corda, quindi sottolineando la necessità di un suo superamento e di un cambio di paradigma. A quindici anni di distanza sembra che siamo ancora al palo…

Non è cambiato nulla, anzi il contesto è peggiorato. Già due anni fa Ilvo Diamanti a un convegno all’Istao (Istituto Adriano Olivetti, ndr.) ad Ancona aveva osservato come le Marche fossero scivolate nella “media mediocritas” italiana. Devo dire che dopo la vicenda del terremoto di quattro anni fa, a cui dobbiamo aggiungere lo scossone della crisi del 2008, con tutte le conseguenze avute sia nell’apparato produttivo che nel sociale, molti di quelli che hanno fatto i cantori di questo modello di sviluppo diversi anni fa – mi riferisco al nostro ambito accademico – abbiano peccato di un eccesso di entusiasmo rispetto a una realtà che ha invece mostrato tutti i suoi limiti strutturali.

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Profondo bosco. Rifugio e incanto

Da “La guerra delle foreste”, Tabor edizioni [QUI IL PDF]

Le vili creature dei boschi vivono senza legge, non obbediscono e non rispondono a nessuno, perché ignorano ogni legame di dipendenza.

John Aubrey, storico inglese del XVII secolo

Boschi e foreste rappresentano da sempre l’emblema del selvatico, del misterioso, dell’ingovernabile, sede di tutto ciò che è altro, diverso e nemico rispetto al consorzio civile. Il bosco, a meno che non gli si faccia assaggiare la razionalità di una ruspa, rimane estraneo alla modernità e alle sue leggi, irrimediabilmente ostile alla rapidità dei flussi, allo sfruttamento estensivo, alla concentrazione umana. Presi da questi pensieri, pubblichiamo il capitolo conclusivo di “La guerra delle foreste”, un agile libretto della casa editrice valsusina Tabor, invitandovi a dare un’occhiata a tutto il suo bel catalogo (www.edizionitabor.it). La storia parte dalle foreste e dai terreni incolti su cui si svolge la lotta dei Diggers (Zappatori) nell’Inghilterra del Seicento, una lotta di contadini poveri che occupano le terre sottraendole alle “enclosures” (recinzioni), per coltivarle e viverle insieme in un progetto comunitario ed egualitario che inevitabilmente si scontra con la nascente società borghese e capitalistica. Nel solco della tradizione religiosa millenarista, continuando a rifiutare autorità e divinità estranee e predatrici, i Diggers vogliono portare il paradiso sulla terra, raccogliendo il testimone delle sommosse contadine del XIII e XIV secolo, del Movimento del libero spirito e della ribellione anabattista di Münster del 1534. Restituire risorse alla collettività è una lotta di ieri e di oggi, così come sottrarre la vita umana all’impero delle merci: l’inciviltà della “foresta”, se sappiamo ascoltarla, ha ancora qualcosa da dirci.

La guerra delle foreste, Tabor edizioni

La foresta è, da sempre, un dominio incantato. Che sia quello di Merlino, uomo dei boschi della leggenda arturiana, o quello di Robin Hood, il territorio della foresta è un grande serbatoio di sogni. Il popolo degli alberi vi conduce una vita oscura e misteriosa, e il melo, albero magico di Merlino, o la quercia pluricentenaria della foresta di Sherwood, rifugio di Robin Hood e dei suoi compagni, affondano le loro radici nell’inconscio dell’uomo medioevale.

Ma tuttora la foresta continua a proiettare l’ombra della sua inquietante alterità sul nostro immaginario. È un luogo in cui l’umano non detta legge, in cui è facile perdersi e abbandonare la propria umanità. Le fiabe della nostra infanzia, del resto, non raccontano nulla di diverso. La foresta è il territorio in cui si perdono Pollicino e i suoi fratelli, ormai alla mercé dell’altro, dell’umano regredito allo stato bestiale; o ancora Cappuccetto rosso e il lupo che la aspetta ai margini del bosco.

Parecchi romanzi recenti riprendono – trasformandola e attualizzandola – l’ossessione della “selva oscura”. Stephen King, ad esempio, racconta la storia di una bambina che si perde nella foresta e viene perseguitata da una forza ostile[i]. La foresta ha qui un doppio volto: luogo inquietante e pieno di pericoli ma anche territorio che può ammansirsi e da cui può sorgere il meraviglioso. Il giornalista Vatanen, protagonista di L’anno della lepre[ii], abbandona la propria vita umana razionale (fatta di automobile, lavoro, moglie e figli) per inoltrarsi nel bosco all’inseguimento della lepre che ha investito con l’auto.

O, ancora, nel romanzo La fune[iii], gli abitanti di un villaggio situato sul limitare di un’immensa foresta un mattino scoprono una fune che vi si inoltra. Seguendola lasceranno il loro villaggio per sprofondare nell’ignoto. La foresta è questo territorio che spalanca un altrove talvolta minaccioso. È l’animale, è l’albero, è l’altro da sé.

Marty Woods

Anche nelle nostre edizioni, Tabor, con il fumetto Fondobosco[iv], abbiamo intrapreso un’avventura analoga: quella di Pinot, boscaiolo delle Alpi che si trova catapultato in un allucinante e apocalittico viaggio nel selvatico (e nell’inconscio) innescato dagli spiriti dei larici oltraggiati dall’arroganza della civiltà.

Il cristianesimo farà una gran fatica a liberarsi dalle leggende legate alle foreste, dove al riparo dei grandi alberi si nascondono le streghe, i maghi o i druidi, trovandovi il loro rifugio naturale. Un’arcaica civiltà vi si è ritirata, quella della Dea madre e del ciclico ritorno delle stagioni, quella dell’accordo tra umano e animale e tra il principio maschile e femminile.

I poveri che vivono nelle foreste all’epoca della rivoluzione inglese del 1649 conservano un certo numero di pratiche e di credenze provenienti da tale civiltà, in particolare il ricorso all’uso delle erbe e alla magia.

Questi miti e saperi agresti sopravvivranno ancora a lungo, e gli uomini e le donne dei boschi potranno per lungo tempo ancora nascondervisi con i propri intrighi, le proprie trame e le proprie esistenze, agli occhi dei potenti potenzialmente sediziose oltre che dissolute.

Possiamo rintracciarne una traccia anche in diversi film. Tra questi, La fiancée du pirate[v], in cui la protagonista vive in una capanna nel bosco vicino al villaggio e grazie ai suoi poteri si vendicherà degli abitanti del paese, colpevoli di aver maltrattato lei e sua madre. Anche qui, la vita al margine, nella foresta, dona alla donna una forza che proviene da un mondo arcaico, simboleggiato dal suo animale da compagnia, il caprone, e dal suo rapporto con la natura e la sessualità.

Reynolds Stone

Gli alberi sono anche i testimoni della storia e la loro tranquilla opacità ci lascia immaginare i tempi antichi in cui loro erano già lì. Nel film Vertigo[vi] di Hitchcock, il momento in cui i due personaggi principali si ritrovano in una foresta di enormi sequoie e risalgono i tempi osservando i cerchi concentrici di un tronco è una delle scene più enigmatiche del cinema. La mano guantata della protagonista indica due punti sul tronco mentre dice: «Qui sono nata… e qui sono morta». L’albero rappresenta qui il tempo che passa, testimone del tempo perduto.

Anche nel cinema più recente, e nelle serie tv, che più di ogni altro genere contribuiscono oggi alla costruzione dell’immaginario collettivo, la foresta continua a rivestire il suo ruolo di “altro” contrapposto all’umano e alla sua razionalità: ad esempio, tra le tante, Zone Bianche (2016), serie poliziesca in cui è il bosco, con le forze arcaiche che vi risiedono, il vero, ambiguo, protagonista nella catena di omicidi e sparizioni che colpisce il villaggio di Villefranche.

La foresta e le sue creature popolano il nostro immaginario, e camminando tra i suoi alberi, nelle Cévennes come nelle Alpi o nei Pirenei, non ci sorprenderemo di scorgere con la coda dell’occhio il guizzo di una fuga precipitosa, lo scatto furtivo di un abitante dei boschi, di un troll o di un folletto, che si nasconde da noi, dai nostri tracciati e… dai nostri bulldozer.

La foresta da vivere emerge come tema chiave nei testi di Winstanley [principale portavoce del movimento comunitario dei Diggers nell’Inghilterra del Seicento]: essa servirà ai «carpentieri, falegnami, tornitori, costruttori di aratri, liutai e costruttori di altri strumenti musicali, e tutti coloro che lavorano il legno». È un bosco da usare quello descritto, ma a differenza dello sfruttamento capitalista, si tratta di un uso collettivo e finalizzato al bene comune.

L’aumento demografico portò con sé una crescente pressione su foreste e terre demaniali da parte degli occupanti (squatters) che vi costruivano le loro capanne. La consuetudine garantiva loro il precario diritto di installarsi a meno di un miglio dagli insediamenti industriali. Altri costruivano le loro baracche illegalmente, e la lontananza dai poteri garantiva loro una maggiore tranquillità. Per lo più si trattava di artigiani (forgiatori, fabbri ferrai, arrotini, tessitori…), ma anche di banditi, commedianti, venditori ambulanti, predicatori e ogni sorta di nomadi e fuggiaschi.

The Diggers

Il bosco rappresenta quindi un rifugio per i proscritti e per i poveri, oltre che una riserva di ispirazione per i poeti. Il buio della foresta stende un insopportabile cono d’ombra sulle carte di chi vorrebbe il controllo totale del territorio. Perciò è da sempre tenuta in grande sospetto dai poteri d’ogni epoca, nel solco di «un’ostilità radicale, di origine religiosa, tra le istituzioni umane e le foreste circostanti»[vii].

Beninteso, la storia cui abbiamo accennato non è affatto conclusa, in Inghilterra come altrove. Di fronte all’emergenza posta dalle distruzioni del capitalismo globalizzato, essa non fa che acquisire importanza. E il legame di filiazione con gli uomini e gli eventi qui citati, malgrado più di tre secoli di distanza, si mostra in tutta la sua evidenza. Dal Messico al Brasile, dall’India al continente africano, fino a contrade a noi più prossime, nei territori rurali di un’Europa forse non pacificata come appare, la guerra dei boschi, delle terre e delle risorse è più attuale che mai.

La sollevazione degli Zappatori è destinata a risorgere ancora e ancora…

La foresta – ne siamo certi – non ha ancora detto la sua ultima parola.

Noi, piuttosto, siamo ancora capaci di sentirla?


[i] Stephen King, La bambina che amava Tom Gordon, Sperling & Kupfer, 1999.

[ii] Arto Paasilinna, L’anno della lepre, Iperborea, 1994.

[iii] Stefan aus dem Siepen, La fune, Neri Pozza, 2013.

[iv] Marco Bailone, Fondobosco, Tabor, 2014.

[v] La fiancée du pirate, traduzione italiana: Alla bella Serafina piaceva far l’amore sera e mattina, regia di Nelly Kaplan, 1969.

[vi] Vertigo, traduzione italiana: La donna che visse due volte, regia di Alfred Hitchcock, 1958.

[vii] Robert Harrison, Foreste. L’ombra della civiltà, Garzanti, 1992.

Territori in battaglia

Dopo la collaborazione con Nunatak e NurKuntra per la serie di cartoline che avete trovato in allegato al numero 14 della rivista, continuiamo a dare il nostro contributo a progetti editoriali rivolti a sovvertire questo stato di cose.

La scorsa primavera è nata la collana “Territori in battaglia”: l’idea di fondo è inaugurare una collaborazione tra più realtà interessate a narrare, tradurre, diffondere racconti di “lotte territoriali”, con l’obiettivo di creare una rete di legami e alleanze, anche a livello internazionale. Ogni libretto della collana verrà infatti tradotto in diverse lingue e diffuso a varie latitudini. Ci siamo subito sentiti a casa nostra e abbiamo accolto volentieri l’invito dei promotori del progetto, ovvero le edizioni Tabor della Valsusa e il collettivo a variabili multiple Mauvaise Troupe, che avevamo già incontrato sulle pagine di Malamente #11 (giugno 2018). Le prime due uscite della collana sono già in distribuzione, contattateci se ne volete una copia: Errekaleor. Il più grande squat dei Paesi Baschi (n. 1) e NOTAP. Il Salento in lotta contro il gasdotto transadriatico (n. 2). Per presentare la collana pubblichiamo le introduzioni scritte da Mauvaise Troupe e Tabor nelle introduzioni, anche perché non potremmo trovare parole migliori.

Introduzione alla collana

Mauvaise Troupe

Con «Territori in battaglia», ci proponiamo di redigere e diffondere delle brevi narrazioni che diano visibilità e voce alle dinamiche in opera nei diversi spazi in lotta, in Europa e nel mondo. In continuità con lo spirito del libro Contrade, che incrocia le esperienze della ZAD di Notre-Dame-des-Landes e della Valsusa No Tav, l’idea è quella di far attraversare le frontiere, in particolare linguistiche, alle esperienze di resistenza radicate in luoghi specifici.

A strutturare il racconto saranno le voci dei protagonisti, alla ricerca dell’arte e del modo di interrompere il normale corso degli eventi, alla scoperta dei mille modi in cui far entrare in secessione un pezzo di terra, del momento in cui le esistenze deragliano uscendo dalle categorie stabilite o, ancora, delle maniere di organizzarsi per ottenere delle vittorie.

La circolazione di questi testi parteciperà, si spera, a intensificare la comprensione, i legami e le solidarietà tra e con questi territori in battaglia. Perché ciò di cui abbiamo bisogno non è tanto una «convergenza delle lotte» – che presuppone che queste prendano la medesima direzione per raggiungersi in un punto misterioso – quanto di legami profondi e specifici tra ciascun territorio, in ciascuna situazione particolare.

Tutto può succedere

Introduzione all’edizione italiana
Edizioni Tabor, dicembre 2018

«La libertà è un viaggio di gruppo su un campo minato»
(Ayse Deniz Karacagil)

Viviamo in un tempo in bilico. Non passa giorno senza che un disastro ecologico e sociale, un passo avanti nel totalitarismo o un sussulto di resistenza e di rivolta ci ricordino che tutto può succedere. I governanti faticano a governare, e ogni loro decisione non è altro che un tentativo di posticipare quel crollo imminente che è ormai il clima di quest’epoca.

Ma questo crollo non è imminente. È in atto. Semplicemente ha tempi lunghi, diversi da quelli creati da un immaginario hollywoodiano della catastrofe. Sono i tempi della storia. L’Impero romano non è crollato in un giorno…

Un ordine va disgregandosi, vecchie e nuove forze si combattono per affermarsi o per non soccombere. Nel caos di questo processo, tra le macerie delle passate forme della politica, si forgiano nuove forme di vita. Ecco dove siamo. La rivoluzione non sarà la resa dei conti finale al culmine di questo processo. La rivoluzione è questo processo. Quello che stiamo vivendo.

Nei quartieri delle metropoli come nei territori rurali e montani, si moltiplicano esperienze di lotta ed esperimenti di vita alternativa e comunitaria. Sono rotture che germogliano nelle crepe, nei fallimenti, negli spazi vuoti del sistema. Sono tasselli di un variegato mosaico internazionale. Non siamo soli. Riconoscerlo, riconoscersi, è il primo passo per rafforzare quell’autonomia indispensabile a liberarsi dalle dipendenze che ci stritolano vincolandoci al sistema.

Confederare le resistenze in atto significa dare a ogni specifica battaglia la forza che deriva dall’essere e sentirsi parte di una resistenza globale. Ogni pezzetto di terra riconquistato, ogni tempo ritrovato, ogni vittoria strappata, costituisce al tempo stesso una nuova retrovia per il diffondersi di ulteriori avventure.

I libretti di questa collana, «territori in battaglia», sono racconti di vite e di lotte fatti dai loro protagonisti, non freddi resoconti di una qualche area politica. Tradurli, diffonderli, stimolarne di nuovi, è uno strumento per innescare relazioni, saldare complicità, stringere alleanze. Perché nell’isolamento i limiti si ingigantiscono, le contraddizioni si incancreniscono, mentre è conoscendosi e lottando insieme che quelle distanze che rappresentavano una barriera possono trasformarsi in una ricchezza.

Oggi più che mai, le ragioni per unire le forze sono più grandi di quelle che ci dividono.

Per richiedere copie degli opuscoli potete usare il modulo in questa pagina oppure scrivere a malamente@autistici.org

 

Auto-ricostruzione nel cratere. Come tornare ad abitare i territori colpiti dal sisma (#14)

Intervista di Luigi a Sara Campanelli (ARIA Familiare), Chiara Braucher (Emidio di Treviri) e Stefano Mimmotti. Da Malamente #14, maggio 2019 [QUI IL PDF]

In un precedente numero di Malamente (#8, settembre 2017) avevamo parlato di autocostruzione di case, concentrandoci in particolare sull’utilizzo di legno e balle di paglia. Torniamo ora sullo stesso argomento, calandolo nel contesto della ricostruzione post terremoto dell’Appenino centrale. Siamo stati nei pressi di Camerino, ospitati nella casetta di legno provvisoria di Stefano e Simona, e abbiamo discusso delle possibilità di auto-ricostruzione, in cantieri aperti ai volontari, insieme a Sara Campanelli dell’associazione ARIA Familiare [Associazione rete italiana autocostruzione] e Chiara Braucher del gruppo di ricerca Emidio di Treviri. L’auto-ricostruzione ci sembra particolarmente interessante sia perché consente la riappropriazione comunitaria e la condivisione gratuita di un “saper fare” che non dovrebbe essere esclusivamente delegato a imprese specializzate, sia perché non riguarda solo il mettere in piedi un edificio, ma comporta la creazione di legami sociali sul territorio e la ricostruzione di relazioni umane, a partire dallo stare insieme, volontariamente, attorno a un progetto di vita molto concreto. Ci sembra, insomma, una buona strada per tornare veramente ad “abitare” i territori interni colpiti dal terremoto del 2016 ed evitare che un giorno questi paesi si ritrovino pieni di case ristrutturate ma vuote perché prive di tessuto sociale.

Partiamo da voi stessi: come siete entrati in contatto attorno al tema dell’auto-ricostruzione nel cratere del sisma?

Sara: Con Stefano e Simona ci siamo incontrati per la prima volta nel novembre 2016 a Fermo, a una piccola fiera post sisma dedicata all’edilizia (Riabita). Io era stata invitata a parlare di costruzioni leggere, naturali e loro erano interessati alla possibilità di auto-ricostruirsi la casa che si trova in condizione di inagibilità di tipo E, cioè un edificio che risulta inutilizzabile in ogni sua parte. Mi ricordo una frase che mi disse Simona: “se devo rimanere a Calcina e ricostruire non voglio più avere le pietre intorno a me”. Dopo poco tempo mi hanno chiesto di diventare il loro tecnico incaricato per seguire la pratica sisma, così mi sono iscritta all’elenco speciale dei professionisti abilitati.

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Sciare a tutti i costi. A due passi dal mare. Monte Catria: lo scempio dei nuovi impianti sull’Appennino marchigiano

In questi giorni sui social e sui giornali locali si fa un gran parlare dell’appena inaugurato impianto di risalita sul Monte Catria e del più generale progetto di ampliamento del comprensorio sciistico. Gli amministratori locali, le ditte appaltatrici e i gestori degli impianti e del rifugio gongolano nei loro selfie sorridenti su uno sputo di neve ormai mezza sciolta, sbeffeggiano un pugno di temerari ambientalisti che sono andati a contestarli e ripetono il ritornello dell’“investimento strategico” e del “progetto di sviluppo”. Noi, su Rivista Malamente (#13, gennaio 2019) abbiamo cercato di spiegare con un lungo e dettagliato articolo perché questi lavori sono un bel vantaggio per pochi (per quelli che vedono girare i quattrini), ma un grave danno per l’ambiente montano e per chi ha davvero a cuore la vita della montagna appenninica.

QUI IL PDF

Che bello sciare sul Catria

di Luigi

Tutte le statistiche sono concordi: gli sciatori diminuiscono anno dopo anno e la neve sotto una certa quota di altitudine è sempre più scarsa. Eppure politici e amministratori dell’Appennino non si scollano da un modello di sviluppo dannoso e irragionevole, nell’assurdo tentativo di rilanciare l’economia montana ampliando il parco giochi dello sci di pista e degli impianti di risalita. Un modello che fa la fortuna di pochi imprenditori che possono speculare sui cantieri di lavoro e accaparrarsi sovvenzioni pubbliche. È quello che sta accadendo nel comprensorio del Monte Catria, a 1.700 metri, sull’Appennino nel nord delle Marche. Poco importa se le attrezzature resteranno inutilizzate e le ferite inferte alla montagna saranno difficili da rimarginare, per ora si pensa solo a spianare e livellare piste disboscando vaste porzioni di faggeta e a costruire impianti di risalita sempre più potenti e veloci. Noi pensiamo che la montagna non abbia bisogno di invasori equipaggiati all’ultima moda Decathlon che scivolano a testa bassa su e giù per i suoi pendii, ma di comunità che la vivano quotidianamente, in un’insanabile lotta contro leggi di mercato fatte a misura dell’economia cittadina.

Protesta dell’associazione Lupus in fabula, luglio 2018

Dalla “valanga azzurra” alla fine dello sci di massa

Fino alla scoperta illuminista e romantica delle Alpi, le alte quote sono sempre state un ambiente ignoto e pericoloso. Poi, da un lato gli scienziati hanno iniziato a esplorare e studiare il territorio, dall’altro scrittori e poeti vi hanno trovato i segni del bello e del sublime. Vengono così avviate le prime escursioni e, lentamente, si allargano le pratiche dell’alpinismo e dello sci. Il vero e proprio turismo montano nasce però solo a metà Ottocento, inizialmente come villeggiatura estiva per le famiglie della borghesia cittadina attirate dall’aria buona della montagna. Nel corso del secolo successivo si afferma gradualmente l’idea della vacanza durante la stagione invernale e lo sci, da semplice strumento di mobilità sulla neve dalle origini antichissime, diventa divertimento e sport, mentre fanno la loro comparsa i primi impianti di risalita.

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Il gasdotto Rete Adriatica: un lungo serpente tra le faglie sismiche dell’Appennino (#8)

Il gasdotto Rete Adriatica: un lungo serpente tra le faglie sismiche dell’Appennino
Intervento di Francesco Aucone [QUI IL PDF]

Il gasdotto Rete Adriatica Brindisi-Minerbio è uno dei principali progetti di ampliamento della rete di trasporto nazionale di metano. Il suo tracciato attraversa l’intera penisola, dalla Puglia risale fino all’Emilia Romagna toccando dieci regioni, tra cui Abruzzo, Umbria e Marche, per una lunghezza complessiva di 687 km. Il condotto ha un diametro di 1,2 m e va interrato a 5 m di profondità, con una servitù di pertinenza di 40 m (20 m per lato) e una capacità di trasporto di 28 milioni di m3/giorno da Sud verso Nord, cioè dall’approdo di altri gasdotti provenienti dal mar Caspio (tra cui la ben nota Trans Adriatic Pipeline – TAP) fino a raccordarsi ad altre linee e raggiungere le destinazioni finali europee. Il tracciato complessivo si suddivide in cinque tronconi (Massafra-Biccari, Biccari-Campochiaro, Sulmona-Foligno, Foligno-Sestino, Sestino-Minerbio), il primo dei quali già realizzato e il secondo in cantiere, oltre a prevedere una centrale di compressione e spinta a Sulmona (AQ), con tutti i veleni connessi, estesa su 12 ettari di terreni agricoli a poca distanza dal centro abitato.

Il progetto presentato da Snam Spa nasce sulla carta nel 2004. Riconosciuto di pubblica utilità e anzi considerato infrastruttura strategica, inserita tra i progetti di interesse comunitario, è stato approvato dalle autorità predisposte grazie a procedure accelerate di autorizzazione, nonostante i malumori degli enti locali e le preoccupazioni degli abitanti dei territori attraversati e delle associazioni ecologiste. Il gasdotto infatti, che inizialmente era previsto lungo la costa adriatica ma a causa dell’elevato grado di urbanizzazione è stato spostato sui monti appenninici, interferisce con aree ad alto valore naturalistico, protette, sottoposte a vincolo paesaggistico o gravate da usi civici, la cui modificazione andrà a causare danni irreversibili a ecosistemi fondamentali per la conservazione della biodiversità. Il gasdotto, inoltre, solcherà numerosi torrenti, fossi e fiumi, con il concreto pericolo di incidere negativamente sull’assetto idrogeologico del territorio. Senza contare i potenziali rischi dovuti al fatto che i due tratti settentrionali del tracciato, da Sulmona a Sestino, attraversano in pieno zone a elevata sismicità, che si può manifestare con eventi di magnitudo anche elevata come accaduto con le ultime disastrose scosse del 2016.

Snam Rete Gas, interamente controllata da Snam Spa, progetta, realizza e gestisce le infrastrutture per il trasporto di gas naturale. È un’azienda privata, quotata in borsa, che macina profitti (per il gasdotto Rete Adriatica si stima una resa di 26,5 milioni di euro all’anno) e stacca bei dividendi agli azionisti. Da qualche anno nel suo logo non c’è più il cane a sei teste della Eni, che puzzava troppo di petrolio e sangue, ma un’anonima scritta su un rassicurante sfondo blu, così come la sua immagine di mercato è quella di azienda “sostenibile” e amica dell’ambiente. La propaganda industriale vende infatti il gas come combustibile pulito, al contrario di petrolio e carbone, protagonista della fase di transizione “verde” verso le rinnovabili: in questa logica è quindi interesse collettivo rendere il gas commercialmente appetibile investendo in nuove estrazioni, gasdotti, rigassificatori, senza riguardi per i costi ambientali immediati (per estrarre e portare il gas dalle profondità della terra al mercato di consumo) e per l’impatto sociale e geo-politico (sia lungo i tracciati che nei paesi “produttori” colonizzati dalle multinazionali dell’energia).

Il 2 aprile 2017 presso il Parco regionale di Colfiorito si è tenuto l’incontro nazionale “Gasdotti e terremoti. Diritti delle popolazioni e tutela del territorio”. In quell’occasione numerosi comitati e associazioni impegnati nella lotta contro il progetto di metanodotto Rete Adriatica hanno costituito il Coordinamento nazionale No Tubo che si propone di comunicare e diffondere le ragioni della protesta, collegandola al movimento salentino che si oppone alla realizzazione della TAP – Trans Adriatic Pipeline.

A Colfiorito il geologo Francesco Aucone ha tenuto un approfondito intervento, che qui riproduciamo in forma sintetica, incentrato sui rischi del gasdotto in relazione alla sismicità del territorio appenninico. Riteniamo che un’informazione adeguata, anche su alcune nozioni tecniche di base, sia importante per mettere in campo un’opposizione efficace. Ovviamente non sono solo le possibili conseguenze di un terremoto a giustificare la nostra avversione per quest’opera, che è dannosa in assoluto, necessaria a sostenere ed estendere la voracità del capitalismo tecno-industriale nella sua corsa al “progresso”, incurante dei territori martoriati che si lascia alle spalle. Colline e montagne già segnate da uno spopolamento che ha radici lontane, ulteriormente abbandonate dopo i recenti terremoti e l’evidente volontà di non-ricostruzione dei borghi montani, si apprestano a diventare una terra di nessuno non più da vivere ma solo da sfruttare, una “servitù di passaggio” per i flussi che alimentano l’economia delle merci e i lontani centri di potere economico e politico.

Non vogliamo quest’ennesima nocività industriale né nel nostro cortile né qualche chilometro più in là. A partire dallo spettro del terremoto ci proponiamo di approfondire il discorso su questa lotta: lo faremo sia in queste colonne che sui sentieri dell’Appennino.

Origine dei terremoti e sismicità dell’Appennino centro-settentrionale

Se guardiamo dall’interno il nostro pianeta vediamo che è un organismo dinamico, che presenta un continuo movimento tra i vari strati, un continuo scambio sia di energia che di materia. I terremoti, ormai lo sapete tutti, sono generati dalla cosiddetta tettonica delle placche, cioè il fenomeno che permette questi scambi tra la superficie terrestre e l’interno del pianeta. Oggi in realtà si parla di tettonica delle placche “polarizzata”, come il risultato della sovrapposizione di più fenomeni che indicano come la tettonica sia influenzata dalla rotazione terrestre. Le placche non sono omogenee, offrono una resistenza differente alla rotazione, oltretutto tra litosfera (la parte più esterna della Terra, l’involucro solido) e astenosfera (la parte di mantello subito sotto la superficie) c’è una superficie di scollamento e anche qui l’attrito non è omogeneo. Di conseguenza la litosfera è spaccata in queste placche di diversa grandezza i cui margini sono le zone dove si concentrano i terremoti.

Fig. 1 - Mappa delle placche tettoniche della Terra
Fig. 1 – Mappa delle placche tettoniche della Terra

L’Italia è al margine tra la placca euroasiatica e quella africana, se la osserviamo a una scala più grande essa è costituita da un insieme di microplacche. In particolare, la catena appenninica e l’ossatura della penisola sono caratterizzate dal margine tra la microplacca tirrenica e quella adriatica, che tendono ad avvicinarsi con uno sovrascorrimento della prima sulla seconda. In realtà si generano diversi meccanismi, dal momento che il lembo di crosta che sottoscorre lo fa più velocemente rispetto all’avvicinamento della placca tirrenica sull’adriatica. Senza entrare troppo nel dettaglio, questo vuol dire che sulla catena appenninica sono presenti tutti i differenti meccanismi focali, cioè i meccanismi che generano i terremoti: quello “distensivo”, a faglia diretta, specialmente nella parte occidentale, quello “compressivo”, a faglia inversa, specialmente nella parte orientale, e quello “trascorrente”, le cui faglie hanno una direzione all’incirca perpendicolare al percorso che dovrebbe fare il gasdotto.

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Trivelle in Adriatico (#1)

Trivelle in Adriatico
Intervento di Augusto De Sanctis

Fig. 1 - Critical mass No Ombrina, Pescara, 19 maggio 2015
Fig. 1 – Critical mass No Ombrina, Pescara, 19 maggio 2015

 

Il mare Adriatico, dalla Puglia all’Emilia-Romagna, si trova al centro di una serie di progetti energetici che riguardano in particolare l’installazione di piattaforme per l’estrazione di idrocarburi e le perforazioni per lo stoccaggio in profondità di biossido di carbonio prodotto dalle emissioni industriali, con tutto il corollario di impianti di gestione e di logistica. Anche senza doversi interrogare su cosa farne dell’energia, di quanta e per quale modello di sviluppo ne dovremmo avere bisogno, è evidente che progetti di questo tipo presentano un significativo impatto inquinante sull’ambiente, tanto più in un mare piccolo e chiuso come l’Adriatico, oltre a fattori di rischio non prevedibili. In gioco ci sono grandi profitti per le multinazionali che fanno girare l’economia del petrolio, agevolati dal decreto Sblocca Italia del governo Renzi che individuando in questi progetti delle attività “di interesse strategico nazionale” li impone dall’alto ai territori e alle comunità che vi abitano.

Dopo il corteo abruzzese del 23 maggio 2015 che ha visto sfilare a Lanciano sessantamila persone, anche nelle Marche sono partite le mobilitazioni per cercare di impedire l’ennesima devastazione ambientale. Per informare su quanto sta accadendo di fronte alle nostre coste e organizzare la resistenza si sono svolte assemblee pubbliche molto partecipate e stimolanti in diverse località marchigiane. Riteniamo importante costruire un’opposizione dal basso a questa grande opera, inutile per le nostre vite e dannosa per il territorio, ma allo stesso non dimenticare la pluralità delle lotte per l’ambiente e la salute che, benché su scala minore, necessitano del nostro impegno e della nostra azione.

Non riponiamo fiducia nelle battaglie condotte a suon di ricorsi amministrativi e carte bollate e nessuno riuscirà a convincerci che le istituzioni locali possano essere nostre alleate, così come non ci interessa porci su un piano prettamente tecnico-scientifico per confutare le affermazioni degli specialisti del petrolio e dimostrare la nocività dei loro progetti. Ci ostiniamo però a voler ostacolare con ogni mezzo i disegni di dominio del capitalismo, tanto più nella sua forma industriale, e per questo siamo interessati ad approfondirne la conoscenza. Su questo numero di Malamente pubblichiamo la trascrizione dell’intervento di Augusto De Sanctis, attivista del coordinamento “No Ombrina”, registrato durante l’assemblea del 1° luglio al Parco del campo d’aviazione di Fano.

Fig. 2 - Critical mass No Ombrina, Pescara, 19 maggio 2015
Fig. 2 – Critical mass No Ombrina, Pescara, 19 maggio 2015

 

Buonasera a tutti, questa è già la quarta volta che vengo nelle Marche e sono molto contento del movimento che si sta sviluppando attorno a questi temi. Io vorrei questa sera illustrare, anche da un punto di vista un po’ tecnico, la problematica della deriva petrolifera che i governi da Monti in poi, fino a Renzi, stanno cercando di implementare e imporre sui territori. Vi invito intanto a visitare i nostri siti e le nostre pagine (https://stopombrina.wordpress.com). Per la manifestazione di maggio a Lanciano ci siamo inventati anche un photo contest e ovunque le persone andavano, dall’Argentina a Cuba, dalla Malesia all’Islanda, ci mandavano foto con cartelli con scritto “No ombrina”; addirittura una persona si è portata dietro la bandiera “No ombrina” e si è fatta un percorso in bicicletta, passando peraltro anche da qui, per arrivare fino in Croazia.

In generale, per noi è importante studiare e approfondire, poi però andiamo sempre nelle piazze. Durante la conversione in legge del decreto Sblocca – io lo chiamo Sporca – Italia siamo stati in sit-in davanti a Montecitorio. Io rivendico questo passaggio, credo sia un passaggio fondamentale per i prossimi anni del movimento ambientalista in Italia, perché in quella mobilitazione ci siamo incontrati con diverse centinaia di persone provenienti da tutta Italia per farci sentire non solo rispetto alle trivellazioni ma anche su tanti altri temi, dal momento che il decreto parla non solo di petrolio, ma anche di gasdotti, di stoccaggio gas, di bonifiche, di privatizzazione dell’acqua e chi più ne ha più ne metta.

Lo Sblocca Italia è nato ad agosto dell’anno scorso. Il 3 agosto Renzi aveva detto più o meno così: “farò un decreto che sbloccherà l’Italia, solo che purtroppo non posso farlo subito, l’avrei voluto fare oggi, ma prima devo sentire le persone” e quindi apre alla partecipazione. Allora, io che voglio essere un buon cittadino che partecipa, sono andato sul sito del governo e ho cercato il materiale su cui esprimermi. Sul sito, su questo decreto, c’era solamente una pagina scarsa con elencati dieci punti: “Sblocca porti”, “Sblocca autostrade” e giusto due righe di spiegazione; anzi lo “Sblocca porti” non aveva neanche due righe di spiegazione, c’era scritto “Sblocca porti” e basta. Al che io ho mandato un’email per richiedere il materiale. L’indirizzo a cui mandarlo era, non sto scherzando: rivoluzione@governo.it. Nessuno ha risposto alla mia richiesta e il materiale non me l’hanno mandato. È interessante notare che a quanto pare nessuno della stampa abbia fatto il mio stesso percorso, avrebbero potuto far fare una figura meschina a questo governo.

Perché il decreto Sblocca Italia costituisce un punto focale della politica aggressiva del governo sui territori? Ora non ve lo leggo tutto, ma soffermiamoci sull’articolo 38, “Misure per la valorizzazione delle risorse energetiche nazionali”: “al fine di valorizzare le risorse energetiche nazionali e garantire la sicurezza degli approvvigionamenti del Paese, le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi e quelle di stoccaggio sotterraneo di gas naturale rivestono carattere di interesse strategico e sono di pubblica utilità, urgenti e indifferibili”. In questo articolo si dice che qualunque giacimento del paese di idrocarburi, quindi metano e olio, è di interesse strategico nazionale, è di pubblica utilità e anche tutto quello che si trova intorno diventa di pubblica utilità. E quindi si deve fare. Noi abbiamo subito commentato questo passaggio dicendo che è paradossale che il paese del sole, il paese dei beni artistici, delle bellezze paesaggistiche, veda come strategico il petrolio e non i nostri ulivi, le nostre vigne, il nostro paesaggio, che invece vengono tutti dopo lo sviluppo petrolifero.

L’articolo precedente, il 37, dice una cosa che è passata sotto silenzio. Voi nelle Marche avete il parco dei Sibillini e penserete che quello è un posto intoccabile, ebbene in questo decreto c’è scritto che se qualcuno volesse fare un gasdotto enorme, sbancando tutto, verrebbe meno il piano del parco. Automaticamente. Io vengo dall’Abruzzo, nel parco nazionale d’Abruzzo abbiamo la “camosciara” che è famosa in tutto il mondo, protetta da cento anni, ma anche qui, se la Snam decidesse di far passare un gasdotto, ci andrebbero le ruspe e verrebbe meno il piano del parco. Lo dice espressamente l’articolo 37, andatelo a leggere, è una cosa terrificante.

Lo Sblocca Italia pone quindi degli obiettivi molto chiari: privilegio totale delle fonti fossili rispetto a tutto il resto, come se fossimo in un deserto. Su questo noi eravamo già mobilitati. Nel 2008, con migliaia di persone in piazza, abbiamo vinto la battaglia contro il Centro Oli di Ortona che volevano costruire in mezzo alle vigne. Peraltro hanno sbagliato proprio il posto perché a Tollo c’è la più grande cantina sociale abruzzese… e quindi è successo un finimondo! L’abbiamo battuto. Da lì è partita tutta questa lotta che ci ha portato in piazza a Lanciano lo scorso maggio; per sottolineare l’unitarietà, davanti al corteo non c’era nessuna bandiera che non fosse quella “No Ombrina” che ci siamo dati tutti assieme.

Cos’è Ombrina? E perché tutto questo macello in Abruzzo? Davanti alla costa teatina, a sud di Pescara, dovrà arrivare una piattaforma da quattro a sei pozzi, molto vicina alla costa, a sole tre miglia e mezzo, ma la cosa più grave è che questa piattaforma sarà agganciata ad una meganave raffineria lunga 330 metri, tre volte un campo da calcio. Il nome tecnico è FPSO: Floating Production Storage and Offloading. Il nostro petrolio è infatti di scarsa qualità e quindi deve essere desolforato subito, non può essere trasferito a lunga distanza perché la presenza di zolfo andrebbe a rovinare gli oleodotti e le navi per il trasporto. Quindi ci dovrebbero piazzare per venticinque anni un aggeggio del genere davanti alle nostre coste. Quattro mesi fa, a febbraio, una nave simile è scoppiata di fronte alle coste del Brasile, per fortuna stava a duecento chilometri di distanza, ma purtroppo sono morte nove persone se ricordo bene; quattro anni fa di fronte alla Nigeria una FPSO della Shell, quindi di una grossa società, ha perso 40mila tonnellate di petrolio in mare, immaginate cosa vorrebbe dire perderle in Adriatico: mezzo Adriatico verrebbe precluso alle attività umane.

Molto spesso noi ci accorgiamo di questi progetti quando vengono messi a “valutazione di impatto ambientale”. La procedura è pubblica; l’azienda proponente deve fare uno studio di impatto ambientale e mandarlo al Ministero dell’ambiente (perché i progetti, anche in terraferma, adesso sono stati accentrati tutti a Roma, mentre prima se qualcuno voleva fare un pozzo di petrolio doveva mandarlo alla Regione). Sul sito del Ministero dell’ambiente compare quindi l’annuncio e voi avete sessanta giorni di tempo per fare delle osservazioni, poi va tutto a una commissione nazionale, sempre presso il ministero. In questa commissione per l’impatto ambientale le nostre tasse diventano progetti. Qui ogni anno vengono decisi progetti da miliardi di euro di valore, fra cui il TAV, le autostrade, la Quadrilatero qui nella vostra zona.

Si potrebbe pensare che della commissione facciano parte dei grandi nomi. Ebbene, recentemente la stampa nazionale ha evidenziato che alla commissione nazionale ci sono personaggi che come minimo hanno qualche “ombra” sopra, per cui, tra l’altro, sono in corso interrogazioni parlamentari ed esposti a varie procure della Repubblica. Vado a memoria: c’è un personaggio che da dieci anni siede in questa commissione, Vincenzo Ruggiero. Vi invito a fare una prova, cercate il suo nome su internet e troverete la relazione dello scioglimento del consiglio comunale di Gioia Tauro nel 2008 per infiltrazioni mafiose. Il paragrafo su questa persona inizia così: “Ruggiero Vincenzo, commercialista”, un commercialista nella commissione di valutazione impatto ambientale è già un po’ particolare…, “è fortemente sospettato di essere asservito alla cosca dei Piromalli”[1]. Questa persona decide per voi, per noi, se si devono fare questi megaprogetti, compreso Ombrina. Ma non è il solo, su almeno una ventina di questi commissari ci sono ombre da chiarire, soprattutto sul lato del conflitto di interessi.

La questione non riguarda solo l’Abruzzo, o la Basilicata. Questa è la mappa delle concessioni dei titoli minerari in Italia [fig. 3]. Come vedete parte dal Piemonte, dalla zona di Novara, poi scende sulla pianura padana, va in mare davanti alle coste emiliane, riscende sulle Marche dove prende sia la costa che l’entroterra, l’Abruzzo, poi va verso l’interno, la Basilicata, una zona del Salento e il canale di Sicilia: questi sono titoli minerari già concessi.

Fig. 3 - Carta dei titoli minerari in Italia, 2015
Fig. 3 – Carta dei titoli minerari in Italia, 2015

 

Veniamo alle Marche. Noi abbiamo realizzato un dossier che si chiama Tutti i numeri degli idrocarburi nelle Marche, può essere scaricato in pdf[2]. Nella figura vedete i titoli già concessi [fig. 4]: nelle Marche circa il 22% del territorio è già stato dato alle compagnie petrolifere in concessione, alcune sono già produttive, nella terraferma ci sono una trentina di pozzi, tutti a gas. Poi ci sono altre due istanze, una delle quali a Monte Porzio, proprio qui vicino a Fano, dove c’è la richiesta da parte di una società di ottenere in concessione 20mila ettari di terreno. Tutte queste mappe potete trovarle su un sito ufficiale che funziona molto bene e vi invito a consultare, cioè il sito dell’Unmig, l’Ufficio minerario dello Stato (http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it). Apro una parentesi: di solito quando si fa un piano regolatore ci si scanna per qualche metro, poi però piazzano sopra i territori concessioni petrolifere con interi paesi dentro; in Molise le tre più grandi città, Isernia, Termoli e Campobasso sono all’interno di concessioni petrolifere, con tutte le case, tutte le persone. Avete visto che le concessioni petrolifere sono tutte dritte, ricordano i confini dell’Africa: si traccia una riga e cosa c’è sopra non interessa.

Fig. 4 - Carta dei titoli minerari nelle Marche, 2015
Fig. 4 – Carta dei titoli minerari nelle Marche, 2015

 

Poi abbiamo le concessioni a mare, sono moltissime, circa 400mila ettari di mare sono stati già concessi ai petrolieri. Ci sono diverse piattaforme, venticinque pozzi se ricordo bene, alcuni anche ad olio, non solo a metano. Qui c’è un aspetto particolare che vi riguarda direttamente. In realtà tutte queste concessioni ci riguardano, ma questo è molto particolare perché è un caso unico in Italia e credo uno dei pochi del Mediterraneo. Si tratta di Sibilla. Sibilla non è una concessione per cercare e trovare metano o petrolio, ma è una concessione per verificare se ci sono le condizioni per stoccare in profondità l’anidride carbonica responsabile dell’effetto serra, che andrebbe sottratta dai cicli produttivi industriali e, appunto, stoccata a migliaia di metri in profondità sfruttando delle rocce porose che si trovano sotto il mare e che secondo loro avrebbero caratteristiche idonee per ospitarla. Sibilla ha già avuto la valutazione di impatto ambientale positiva nel 2013, però è ora dormiente o almeno non ci sono attività a nostra conoscenza. A mio avviso, siccome ci sono stati grossi finanziamenti dell’Unione europea qualche anno fa, loro hanno intanto preso l’autorizzazione e per ora il progetto è lì fermo, potrebbe non partire mai come potrebbe partire improvvisamente. Come ho detto si tratta di un’attività sperimentale, perciò gli impatti non sono ben noti. In Norvegia, dove hanno fatto una cosa simile, si è verificato un problema di tenuta di queste rocce porose riempite a pressione di gas, l’anidride carbonica tendeva a scappare da dove volevano confinarla.

Che il governo italiano stia puntando proprio sugli idrocarburi lo dice chiaramente questa immagine [fig. 5]; questa è una mappa ufficiale, noi tendenzialmente usiamo sempre dati ufficiali anche se certe volte sottostimano il problema. Quello segnato è un permesso di ricerca di prospezione, non di perforazione, risalente al 3 giugno. La Regione Abruzzo, così come la Regione Puglia, faranno ricorso al TAR, noi abbiamo già emesso un comunicato stampa chiedendo anche a Ceriscioli (Regione Marche) di far ricorso. L’attività di prospezione prevede l’utilizzo della tecnica Air-Gun: una nave fa su e giù lungo tutto quel tratto trascinando un aggeggio, scusate i termini, che ogni qualche secondo rilascia aria a pressione creando come un’esplosione e producendo un’onda sonora ad altissima intensità che viene immessa in mare migliaia di volte. Queste onde arrivano negli strati geologici, si riflettono e permettono di registrare dati per individuare in profondità gli eventuali giacimenti. Immaginate l’impatto che potrebbe avere, soprattutto sui cetacei. Esistono ricerche scientifiche che provano come i cetacei reagiscano molto male a questa forma di inquinamento acustico, ma c’è anche forte preoccupazione per le attività di pesca. La cosa che a noi preoccupa di più è che se vogliono fare questa ricerca su aree così immense (si tratta di un milione e mezzo di ettari in mare) è chiaro che hanno idea di venirci poi a trivellare.

Fig. 5 - Aree di prospezione in Adriatico, progetto Spectrum Geo Ltd
Fig. 5 – Aree di prospezione in Adriatico, progetto Spectrum Geo Ltd

 

Voi però penserete: se trovano il metano qui, a noi ci arriverà gratis, o quasi. Ebbene, avete visto quante concessioni già ci sono nelle Marche in terraferma, vediamo allora a quanto ammontano le famose royalties date alla Regione Marche negli anni. Il massimo è stato un milione e mezzo di euro nel 2012 a fronte di 183 milioni di metri cubi di metano, estratti l’anno precedente. Il gas si paga sugli 80 centesimi a metro cubo, quindi il valore estratto è di circa di 150 milioni di euro. Vi è convenuto dare ai petrolieri 150 milioni di euro di controvalore a fronte di un milione e mezzo? Cioè l’1%. In pratica noi stiamo regalando i nostri giacimenti alle aziende. Questo perché le royalties in Italia derivano da quando c’era l’ENI, che era pubblico, e quindi era una partita di giro: l’ENI dava soldi allo Stato ma era lei stessa dello Stato. Adesso non è più così in quanto ad agire ora sono spesso aziende private straniere. E poi, in teoria, le royalties in Italia sarebbero dal 7 al 10%, ma nella pratica esiste il regime delle franchigie, in base al quale fino a un tetto di produzione le compagnie non pagano niente. E non è poco: in mare fino a 80 milioni di metri cubi di gas all’anno. Noi veramente lo stiamo regalando. Al di là delle questioni ambientali, noi regaliamo a delle aziende il nostro metano. È una cosa incredibile e ci dovrebbero essere rivolte solo su questo aspetto. L’Italia è un territorio dove le aziende multinazionali del petrolio dicono: andiamo lì perché conviene, ce lo danno gratis!

Un altro punto che pochi immaginano va oltre la questione delle trivelle. Forse ancora più preoccupante è infatti quello che c’è dietro, perché il pozzo da solo non può vivere. Ha bisogno del gasdotto, dell’oleodotto, di posti dove stoccare il materiale. E infatti vogliono fare stoccaggi di gas nel vostro territorio, nelle Marche. E poi ci sono i grandi impianti di rifiuti, solo per perforare un pozzo si fanno 3.500 tonnellate di rifiuti; un pozzo in Basilicata solo di acqua inquinata da trattare tira fuori sessanta autotreni al giorno. Dovete perciò immaginare che se un territorio viene indirizzato verso gli idrocarburi, il problema non è solo il pozzo in sé, ma tutta la logistica che viene costruita attorno.

Fig. 6 - Assemblea Trivelle Zero, Ponterio (PU), 5 agosto 2015 - Foto di Mirko Silvestrini
Fig. 6 – Assemblea Trivelle Zero, Ponterio (PU), 5 agosto 2015 – Foto di Mirko Silvestrini

 

Faccio un rapido accenno agli stoccaggi perché riguardano due aree del territorio marchigiano, una è San Benedetto del Tronto, l’altro Palazzo Moroni, un po’ più a nord, dove Acea, Gaz de France e altre compagnie vogliono stoccare in profondità il metano estratto dai pozzi. Immaginate come un palloncino che d’estate viene riempito e poi d’inverno, quando c’è la richiesta, il metano viene tirato su e portato coi gasdotti verso il Nord Europa. Quali problemi può comportare? I terremoti. In Italia sulla questione dei terremoti legata agli idrocarburi c’è stata un’omertà micidiale, mentre all’estero, nel mondo della ricerca, gli stessi petrolieri ammettono da decenni che l’estrazione degli idrocarburi può comportare terremoti. L’Italia comunque non poteva far finta di niente per troppo tempo e se prendiamo il decreto di valutazione impatto ambientale dell’anno scorso firmato dal ministro Galletti per lo stoccaggio di San Benedetto troviamo scritto, testuale, che “qualora la micro sismicità riconducibile alle attività di esercizio dello stoccaggio” (ammettono quindi che c’è un legame tra terremoti e un’attività umana), “eguagli o superi la magnitudo locale 3.0” (ma fino a che magnitudo ci possiamo aspettare? 4? 5? L’Aquila era 6), “dovranno essere adottati dal soggetto gestore responsabile tutti gli accorgimenti opportuni atti a riportare la magnitudo massima dei sismi a valori inferiori a 2.0”[3]. Come se ci fosse la manopola con cui il terremoto si regola. Voi, se dovessero fare uno stoccaggio qui sotto, leggendo questa autorizzazione, vi fidereste ad avere una casa qui?

Se cercate in internet “gas storage earthquake” troverete che in Spagna il progetto Castor da un miliardo e mezzo di euro, di fronte a Valencia, lo hanno dovuto spegnere in tutta fretta dopo due mesi perché aveva prodotto oltre duecento terremoti. E adesso gli spagnoli stanno pagando l’azienda con le proprie tasche, con le bollette, perché avevano un contratto dove la parte pubblica si assumeva i rischi. Oppure fate una ricerca su “Groningen earthquakes”: nel più grande campo a metano d’Europa, in Olanda, si è innescata una sequenza sismica dal 2002-2003 in poi. Dopo che per trent’anni hanno tirato su grandi quantità di metano ora si trovano con cento terremoti all’anno, con 150mila case da ristrutturare, trenta miliardi di euro di danni e non si sa che cosa accadrà. C’è una lettera del ministro dell’economia olandese al Parlamento che afferma: abbiamo dovuto ridurre del 20% l’estrazione, ma non sappiamo se si il fenomeno si bloccherà, non sappiamo neanche se si blocca se non estraiamo più niente, non sappiamo quanto sarà forte la prossima scossa, sostanzialmente non sappiamo nulla se non che questo fenomeno si è innescato a causa dell’estrazione di gas.

Fig. 7 - Assemblea Trivelle Zero, Ponterio (PU), 5 agosto 2015 - Foto di Mirko Silvestrini
Fig. 7 – Assemblea Trivelle Zero, Ponterio (PU), 5 agosto 2015 – Foto di Mirko Silvestrini

 

Tornando all’Italia, uno dei primi progetti partiti dopo lo Sblocca Italia riguarda proprio le Marche ed è la concessione Santa Maria Goretti (le chiamano con nomi davvero imbarazzanti) a Ripatransone. Lì ha sede una delle più importanti aziende marchigiane di vino biologico. Il titolare, Vagnoni, mentre a ottobre noi facevano il sit-in a Roma stava vincendo i tre calici della guida del Gambero rosso. Immaginiamo che era tutto contento, poi, a gennaio, io sul sito del ministero vedo la notizia di questo pozzo e insieme al comitato di San Benedetto del Tronto facciamo un comunicato stampa. A Ripatransone nessuno sapeva niente, il sindaco non aveva detto niente alla sua popolazione. Insomma quella persona da un giorno all’altro si è trovata con il progetto di un pozzo quasi in mezzo alle sue vigne. A cinquecento metri da uno dei centri storici più belli d’Italia dovrebbe nascere una torre di sicurezza di cinquanta metri con la fiammella accesa in alto. Voi pensate questo imprenditore che esporta tantissimo all’estero, che ha fatto una cantina con le opere d’arte in mezzo alle botti, per dire l’eccellenza del nostro paese, e che ci mette il governo Renzi? Un pozzo.

Nel piano di sicurezza ed emergenza che la società Appennine Energy, inglese, ha previsto per Ripatransone, si trova come primo rischio il blowout, cioè le eruzioni in testa pozzo di cui poi vi dirò qualcosa in più, seguito dall’inquinamento a mare (a mare? Ripatransone sta in mezzo alle colline!), esplosione, incendio, evacuazione sanitaria, mezzi aerei, radioattività, mezzi navali (?!) e operatori subacquei (?!), questo tanto per dirvi come il copia-incolla di questi studi è evidente. Viene presa in considerazione anche l’emergenza maggiore, descritta come “situazione di pericolo già in atto che interessa gran parte o in toto il cantiere e rischia di estendersi all’esterno con conseguenze considerate gravi dal punto di vista umano”, e voi già pensate all’esplosione nel cantiere, a Ripatransone in fiamme… “che potrebbero influenzare negativamente l’immagine della società e dell’attività presso l’opinione pubblica”[4]. Cioè, il problema per loro è chiamare un esperto di marketing che sappia vendere il problema alla popolazione!

A un certo punto abbiamo visto che si parla di radioattività. Questo è un altro problema poco conosciuto. Durante le operazioni dei pozzi si possono produrre, a seconda del contesto geologico, materiali radioattivi, per due motivi. Il primo è un aspetto naturale: quando si scava un pozzo a tremila metri di profondità e si iniziano a tirare fuori idrocarburi, per una questione chimica si concentrano radionuclidi. Non è tantissima ma una certa radioattività è presente ed è vero che è naturale, ma prima stava sotto a tremila metri di profondità, una volta fatta affiorare va gestita, con tutta la filiera legata al corretto trattamento di questi materiali. La seconda ragione è invece legata all’attività di ricerca. Nel pozzo, per studiare il giacimento, vengono mandate ogni tanto delle sonde, dei bussolotti con una sorgente radioattiva. Col piccolo particolare che ogni tanto le perdono nei pozzi e le lasciano andare perché recuperarle sarebbe troppo problematico. In Italia non si sa quante se ne sono perse, una sicuramente in Basilicata l’anno scorso in base alle notizie apparse sulla stampa. Un gruppo di ricercatori nigeriani ha pubblicato un report su quante sonde sono state perse nel mondo: solo negli U.S.A. centoquattro in diciannove anni, che non è un numero piccolo. Negli Stati Uniti, nel 2002, si è verificato un incidente nucleare con irraggiamento di una trentina di persone, in pratica si sono dimenticati la sonda aperta vicino al pozzo per due giorni.

Avevo fatto cenno al blowout, l’eruzione in testa pozzo, che è un fenomeno fortunatamente raro consistente in una risalita incontrollata di idrocarburi nel pozzo a fortissima pressione che, esplodendo, forma una vera e propria eruzione. In Italia è successo a Trecate nel 1994. Per Ripatransone e Ombrina ci hanno detto che non può accadere perché metteranno sopra la testa del pozzo il BOP, il blowout preventer. Cioè un sistema di valvole e ganasce che dovrebbe impedire in caso di risalita la fuoriuscita incontrollata dal pozzo. Io che non sono ingegnere ma mi informo molto, come spero che anche voi farete, ho cercato in rete “accident blowout preventer” e ho trovato il sito della Commissione d’inchiesta del governo degli Stati Uniti (http://www.csb.gov), quindi un sito ufficiale, non ambientalista o altro, in cui si parla del più grave incidente mai accaduto nella storia degli idrocarburi, nel 2010 nel Golfo del Messico. Ricordate? Bene, sul sito trovate anche un bel video, il problema è stato proprio il BOP che non ha funzionato e il suo malfunzionamento ha moltiplicato l’impatto. Quindi, quando i petrolieri dicono che è tutto sicuro, non credeteci, non è vero.

Fig. 8 - Piattaforma Deepwater Horizon, Golfo del Messico, 2010
Fig. 8 – Piattaforma Deepwater Horizon, Golfo del Messico, 2010

 

Un’altra cosa poco nota l’hanno scoperta due ricercatrici di Princeton. Di solito ci si preoccupa sempre dei nuovi pozzi, ma quelli abbandonati? In Italia sapete quanti pozzi sono stati scavati in terraferma e in gran parte abbandonati, anche nelle campagne marchigiane? 7.220 (circa 200 sono ancora attivi). Che fine hanno fatto? Li hanno tappati, si chiama “chiusura mineraria del pozzo”, cioè un bel tappo di cemento. Queste due ricercatrici hanno trovato che questi pozzi perdono in atmosfera quantità di metano non da poco, si stima che solo in Pennsylvania, che è uno Stato industriale, dal 4 al 7% delle emissioni di metano sia legato ai pozzi abbandonati[5]. Questo in atmosfera, poi però dobbiamo pensare anche alle nostre falde acquifere, noi non ce ne accorgiamo ma sotto abbiamo quantità di acqua molto più grandi dei fiumi che vediamo in superficie. Se noi ci piazziamo sopra un pozzo che succede?

Avete mai sentito parlare di fracking? Si pensava che l’inquinamento negli Stati Uniti dei pozzi di acqua potabile fosse legato al fracking, una tecnica molto aggressiva di stimolazione dei giacimenti attraverso l’iniezione a pressione di fluidi che rompono le rocce e fanno sì che gli idrocarburi scorrano in maggior quantità verso il pozzo. In Italia il fracking è vietato, ma comunque non siamo al sicuro perché una ricerca pubblicata in una rivista scientifica tra le più importanti al mondo, gli atti dell’Accademia di scienze degli Stati Uniti, aggrava il problema. I ricercatori hanno infatti dimostrato che non è tanto il fracking a far andare gli idrocarburi nelle fratture per poi arrivare all’acqua, ma in realtà è molto più semplice e può accadere in qualsiasi pozzo, e cioè i pozzi perdono. La contaminazione dell’acqua avviene attraverso le rotture della camicia di cemento attorno al pozzo[6]. E noi stiamo già perdendo la nostra acqua; le Marche hanno perso un quarto della loro acqua di falda, non solo per gli idrocarburi.

Dobbiamo pensare che questa lotta contro il petrolio non è solo perché non vogliamo il pozzo dietro casa, ma è parte di un problema più generale che riguarda il nostro modello di sviluppo e l’impatto dei cambiamenti climatici. Bastano pochi gradi di aumento della temperatura media causata dalle emissioni in atmosfera derivanti dal consumo di fossili, carbone, petrolio, metano e avremo grossi problemi con l’acqua. Perciò noi dobbiamo combattere assolutamente le emissioni in atmosfera, lo dice anche l’enciclica di papa Francesco. Che, devo dire, la cita pure Renzi e questo mi limita molto, ma evidentemente lui non l’ha capita. Io me la sono letta e dice delle cose quasi millenaristiche, visionarie, sulla gravità di quanto sta accadendo sul nostro pianeta. Io sono ateo ma penso che il papa sia un’autorità morale sicuramente importante. I vescovi abruzzesi sono venuti con noi a manifestare, le diocesi abruzzesi hanno scritto secondo me il più bel documento contro lo Sblocca Italia, sostenendo che è necessaria una “biociviltà” con una “democrazia ad alta intensità”. Qualcosa si sta muovendo nelle coscienze, qualche volta ci viene voglia di rispondere in maniera più energica ma noi siamo nonviolenti, però ci ribelliamo e contestiamo, dobbiamo assolutamente combattere quello che sta accadendo, cercando di formare un movimento con l’idea di bloccare lo Sblocca Italia. Già da stasera e nei prossimi mesi ci daremo da fare per organizzare un movimento “Trivelle Zero – Salviamo l’Adriatico”, in tutta la riviera dal Friuli fino al Salento.

 

[1] Prefettura di Reggio Calabria, Accesso al comune di Gioia Tauro […] eseguito dal 18 dicembre 2007 al 18 aprile 2008. Relazione, <http://www.genovaweb.org/GIOIA-TAURO-Relazione-Comm-Accesso.pdf>.

[2] Tutti i numeri degli idrocarburi nelle Marche, a cura di Augusto De Sanctis, <http://www.globalproject.info/public/resources/pdf/Tutti_i_numeri_idrocarburi_Marche_2015_10_06_2015.pdf>.

[3] DM-0000166 del 19/06/2014, Stoccaggio gas naturale in strato denominato San Benedetto Stoccaggio, <http://www.va.minambiente.it/File/Documento/108572>.

[4] Appennine Energy Spa, Permesso “Santa Maria Goretti” – Studio di impatto ambientale, <http://www.va.minambiente.it/File/Documento/125264>.

[5] Mary Kang [et al.], Direct measurements of methane emissions from abandoned oil and gas wells in Pennsylvania, Proc Natl Acad Sci USA, 2014; 111(51): 18173-18177. doi:10.1073/pnas.1408315111.

[6] Thomas Darrah [et al.], Noble gases identify the mechanisms of fugitive gas contamination in drinking-water wells overlying the Marcellus and Barnett Shales, Proc Natl Acad Sci USA, 2014; 111(39): 14076-14081. doi: 10.1073/pnas.1322107111.

Miguel Amorós, Breve esposizione della nozione di territorio e delle sue implicazioni (#7)

Breve esposizione della nozione di territorio e delle sue implicazioni
Di Miguel Amorós

Il sottotitolo che abbiamo scelto per Malamente è “rivista di lotta e critica del territorio”. Non solo perché la rivista si rivolge in prima battuta a uno specifico territorio – quello marchigiano – ma anche perché dal momento in cui il territorio viene sempre più ridotto a serbatoio di risorse da sfruttare per le esigenze dei centri di potere urbani, riteniamo che la “questione territoriale” sia diventata uno dei punti nevralgici dell’attuale questione sociale.

Con questo testo di Miguel Amorós, col quale inauguriamo i supplementi di Malamente, andiamo alla scoperta dei fondamenti storici e teorici della nozione di “territorio” e soprattutto di una prospettiva per la sua difesa, che allo stesso tempo sia anche una rottura insanabile con il sistema, i suoi difensori e i suo co-gestori ecologisti, non potendosi avere difesa senza conflitto. Un territorio realmente autonomo e liberato presuppone infatti, necessariamente, la fine dello Stato e la fine dell’economia di mercato e anche la fine delle conurbazioni metropolitane create e organizzate dal capitale. Resistenza al capitalismo, dunque, e fin dove possibile secessione da questo, per riscoprire qui e ora le modalità di autogoverno, il consolidamento di legami comunitari, la democrazia diretta e la dignità della vita umana.

Pensiamo che il concetto di “territorio” non si appiattisca su una dimensione spaziale né tanto meno amministrativa, assoggettata da un potere che risiede esternamente ad esso e ne pianifica flussi e sviluppo, ma sia per prima cosa l’unità di ambiente e abitanti, natura e memoria. Un luogo non colonizzato dalle merci e dal loro consumo e non piegato all’agricoltura industriale, in cui ritrovarsi e da dove ripartire. Inoltre, la riappropriazione dello spazio vitale all’insegna dell’autonomia e dell’autogestione acquisisce il suo senso pieno solo se non è disgiunta dai principi dell’accoglienza e della solidarietà con gli sfruttati ed esclusi di ogni angolo di questo mondo globalizzato.

Quelle che dovremmo cercare di costruire sono le forme di uno “sviluppo insostenibile”, cioè che il sistema non possa sostenere. In questo senso, avvertiamo come sempre più impellente la necessità di dare vita e sviluppare opposizioni locali determinate a difendere i propri territori dalle grinfie del progresso, dallo loro pianificazione funzionale ai poteri che vi si intrecciano, estranei e nemici rispetto alle comunità residenti. Opposizioni che fin da ora devono prendere coscienza dei propri obiettivi e delle proprie aspirazioni, senza aspettare la prossima grande – o piccola – opera devastatrice e che sappiano rifuggire dalla ricerca spasmodica della contestazione spettacolare, buona solo per le colonne dei giornali e gli scatti dei fotografi.

Il contributo di Amorós che appare su queste pagine in prima traduzione italiana è stato utilizzato dall’autore per alcune presentazioni pubbliche tenute alla Biblioteca Social A. Gavilla (Santiago), al CSO Palavea (La Coruña), all’Ateneo Ecaixe (Lugo) e alla Cova dos Ratos (Vigo), rispettivamente il 30 e 31 ottobre e il 1 e 4 novembre 2013; successivamente è stato pubblicato con titolo “Nocividades, defensa del territorio y crisis”, in «Argelaga», dossier n. 1, dicembre 2013.

Furlo Land Art 2016. Sacer, opera di Rosario D'Andrea. Foto di Giulia Gilebbi
Furlo Land Art 2016. Sacer, opera di Rosario D’Andrea. Foto di Giulia Gilebbi

 

1. Il concetto

Il monte Lushan in Cina si trovava spesso avvolto da nubi ed era molto difficile distinguere la sua figura. Lo ha detto in un verso Su Shi, poeta della dinastia Song: “Non conosco il vero aspetto del Monte Lushan / quando vi sono immerso…”. Questo verso indica la difficoltà reale di conoscere la vera essenza delle cose, poiché questa non appare mai immediatamente e chiaramente alla comprensione che si pone al di sotto di esse. La metafora poetica ci servirà come ammonimento prima di affrontare l’idea di “territorio”, il cui sviluppo dovremo tirare fuori dalla nebbia in cui è immerso e che non potremo altrimenti dissipare, per mostrare in tal modo solo ciò che “territorio” significa in realtà. In caso contrario, come dice un altro proverbio cinese, non prenderemo che del vento e non coglieremo che delle ombre.

L’impresa non sarà facile, visto che non viviamo più in una “bella totalità” come gli antichi, dove lo spazio si confondeva con il Cosmo, popolato di forze vive in perfetta armonia, e dove gli individui e la Terra “Madre” costituivano dialetticamente un’unità. Nei periodi di crisi, il potere unificante scompare dalla vita sociale e i suoi elementi non interagiscono più, essi cessano di relazionarsi, svincolandosi gli uni dagli altri e comportandosi come realtà indipendenti e perfino ostili. Il concetto non corrisponde più all’oggetto e la coscienza non ha altro rimedio che guardare oltre se stessa: la critica anti-industriale è la rappresentazione contemporanea di questa ricerca.

Il territorio si presenta davanti agli individui, essi stessi separati gli uni dagli altri, come una cosa estranea, mentre è il risultato della loro attività. Nella bocca di un urbanista, questo territorio sarà considerato come una riserva di spazio in prossimità di un’area urbana o come lo spazio compreso tra due conurbazioni. Questa nozione è strettamente correlata a quella di “terreno”, una superficie non costruita il cui uso e destino devono essere regolati per mezzo di una corretta politica di zonizzazione. Un politico o un immobiliarista sarebbero d’accordo con l’idea di suolo edificabile, anche se per determinarne l’uso impiegherebbero meglio l’espressione “corretta riqualificazione”. Un esperto di pianificazione utilizzerebbe il termine “territorio” alludendo a uno spazio o a un “sistema” neutro composto da nodi interconnessi tramite “reti e flussi”. Per gli strateghi del capitalismo verde il territorio è prima di tutto una fonte di risorse energetiche e la base di uno sviluppo sostenibile dell’economia autonoma, appoggiato su macro-infrastrutture, mentre per i loro collaboratori ecologisti, sarebbe un complesso di ecosistemi la cui preservazione costringe alla ricerca di una formula giuridico-politica che lo renda compatibile con il suo sfruttamento, vale a dire con il dominio sociale delle merci. Così dunque troveremo, dissimulato sotto un gergo scientifico e tecnico, qualcosa di simile all’idea di “ambiente”.

La definizione di “territorio” è stata quindi contaminata dagli interessi economico-politici che si nascondono alle sue spalle, per ridurla generalmente a uno spazio fisico, un vuoto geografico, un supporto, un’epidermide, un paesaggio, un mondo esterno e, in definitiva, a ciò che il sociologo Marc Augé chiama un “non-luogo” – che potrebbe anche essere chiamato “palcoscenico” o “scenografia” – ossia una porzione di spazio senza una vera identità e senza abitanti stabili, dove ogni soggiorno è provvisorio perché al suo interno tutti sono o passanti o clienti e si comportano in maniera codificata e controllata. Da questo punto di vista, il territorio sarebbe l’opposto della “città”, opposizione puramente formale dal momento che la diffusione selvaggia o pianificata degli agglomerati urbani che portano impropriamente questo nome tende a fondere le due cose. Attualmente quello che si chiama “città” è solo un “non-luogo” abitato. Alla fine dei conti, in una società pienamente urbanizzata, dove non ci sono più rotture chiare tra città e circondario, il territorio visto da un manager non dovrebbe essere che il periferico confuso con l’urbano nel medesimo spazio dell’economia, in altre parole, una grande fabbrica che come tale si oppone solo alle masse che la occupano. Ma questo non è quello che era, è ciò che è diventato.

Furlo Land Art 2010. Tuffo, opera di Antonio Sorace
Furlo Land Art 2010. Tuffo, opera di Antonio Sorace

 

Nell’interesse di una comprensione globale del termine dovremo scavalcare gli interessi contingenti che si basano su delle determinazioni pietrificate per andare direttamente alla contraddizione nella sua esistenza concreta e cangiante. Il territorio è lo spazio definito nel e attraverso il tempo o, per dirlo in altro modo, è un fatto sociale e storico. Parafrasando Hegel, diremmo che non contiene unicamente la sostanza (la natura come totalità astratta), ma anche il soggetto (l’umanità come agente della trasformazione), formando così un’unità dinamica tra i due. Il suo concetto è legato fin dagli inizi a quello di civitas, che assicurava il nesso, più che a quello di habitat.

Nella Grecia antica, la polis includeva tanto la città quanto il territorio circostante. Clistene divise la polis ateniese in demi, unità territoriali o villaggi i cui membri erano i demoti, i cittadini. Il territorium, secondo il diritto romano, era l’ambito d’influenza di una comunità politica, “un raggruppamento di uomini uniti dal diritto” (Cicerone). In senso stretto, il suo significato era simile a quello del municipio romano, ma senza perdere il carattere di spazio sacro: il re Numa Pompilio instaurò il culto del dio Termine [il dio dei confini di proprietà] dopo una distribuzione delle terre. L’ager (il campo) e il saltus (lo spazio selvatico), uniti con il populus (la popolazione) e l’urbs (la cinta urbana), costituivano la città propriamente detta. In un senso più largo significava qualcosa di simile all’hinterland, la sua area di influenza culturale ed economica.

Per gli spazi più vasti, oggetto d’amministrazione e di governo, si preferiva il vocabolo regio (regione), derivato da regere, che all’origine significava “dirigere in linea retta”, da cui a sua volta derivavano “regola”, “reggimento”, “re”, “rettore” e anche “regicida”, “rettificare”, “insurrezione”… Nel VII secolo, quando i municipi romani erano letteralmente scomparsi, la parola “territorio” faceva solamente riferimento a una terra lavorata dall’aratro e delimitata da solchi (Isidoro di Siviglia, Etymologiae); ma alcune tracce del suo passato significato si mantenevano nei distretti diocesani. Tuttavia una nuova struttura sociale, la comunità di villaggio, prodotto e causa di un movimento di messa a coltura delle terre provocato dalla scomparsa dello Stato e della sua morsa fiscale, fondata sull’idea di un comune territorio e non su quella di una comune origine, apparirà durante l’Alto Medio evo e si consoliderà nel corso dei secoli successivi. In Francia il territorio in cui si stabilisce la comunità rurale, comprendente la chiesa, le case, le strade, i campi e i boschi, si chiamerà finage; equivaleva più o meno a “municipio”, o meglio alla “giurisdizione”, visto che contemplava implicitamente il diritto ad auto-amministrarsi. In Catalogna sarà la universitat, nei Paesi Baschi la anteiglesia e, in altre regioni iberiche, il concejo.

Nel corso del XII e XIII secolo, quando rifioriscono le città europee, la parola “territorio” recupera il suo significato iniziale di terreno costruito, lavorato o incolto, delimitato da confini che includono la città o villa, “luogo cinto da mura, con i suoi edifici e sobborghi”, alla cui giurisdizione è sottomesso (Alfonso X, Ley de las Siete Partidas). In Castiglia, per definire i confini formali della città si utilizza di preferenza la parola alfoz, derivata dall’arabo alfohoz, in Francia banlieu o districtus, in Italia contado, ma la definizione migliore della nozione di territorio è quella di “comunità di villaggio e di terra”, formula utilizzata per descrivere le terre appena ripopolate in Castiglia e in Aragona. Il territorio non è dunque solamente uno spazio geografico, è lo spazio dell’uomo, della natura trasformata dall’attività umana; “cultura” significa in origine “natura lavorata” e la parola “coltivazione” ha le stessa radice. È dunque lo spazio della cultura e della storia, lo spazio sociale che contiene, riproduce e sviluppa delle relazioni sociali. Spazio che è anche naturale. Elisée Reclus, nel suo L’uomo e la terra, fa riferimento all’armonia delle comunità indigene con il loro ambiente: “Non possiamo forse dire che l’uomo è la natura che prende coscienza di se stessa?”, mentre Marx chiama la natura “il corpo inorganico dell’uomo”, lasciando intendere che il genere umano non si concepisce senza la natura di cui fa parte e con la quale intrattiene un “metabolismo” speciale. Il territorio è la scena di questo metabolismo.

Sappiamo che il dominio delle forze naturali non ha liberato gli esseri umani, al contrario, questo dominio si è tradotto in differenti forme di oppressione sociale che poterono essere attenuate là dove il dinamismo storico fu maggiore e dove il soggetto, l’essere sociale, poté almeno in parte emanciparsi dall’oggetto, la natura: vale a dire in un tipo particolare di insediamento fortificato, il borgo, la villa o il sobborgo, cioè la città medievale, una comunità autogovernata, rinsaldata da un giuramento (conjuratio). La sua esistenza non sarebbe stata possibile senza l’apporto delle eccedenze alimentari e del lavoro artigianale dei villaggi vicini, ad essa collegati da uno spazio di interscambio, ossia un mercato. Il suo segno distintivo era la porta, che la metteva in comunicazione con il territorio e con il mondo. D’altra parte, come dice un proverbio spagnolo, non si possono mettere porte alla campagna. La città fu la culla della libertà e della democrazia, della scrittura e delle arti, della giustizia e del diritto, della scienza e del pensiero razionale, ma fu anche il luogo in cui nacquero la burocrazia, la tirannia, il lavoro salariato, le classi e il denaro.

Furlo Land Art 2016. Il Dono, opera di Ricardo Macias. Foto di Giulia Gilebbi
Furlo Land Art 2016. Il Dono, opera di Ricardo Macias. Foto di Giulia Gilebbi

 

Man mano che si svilupparono ed estesero la propria influenza, le città assorbirono le popolazioni, l’energia e le ricchezze, stratificandosi socialmente e concentrando il potere, compromettendo in questo modo il loro equilibrio interno ed esterno (i conflitti all’interno e all’esterno delle mura delle città medioevali furono infatti costanti). Nella loro prepotenza, si impossessarono delle campagne che avevano poco prima contribuito a liberare, scatenando frequenti jacqueries. I contadini iniziarono a creare proprie distinte istituzioni. In alcune zone rifiutarono di porre se stessi sotto il dominio delle città: Plebs semper in deterius prona est (“la plebe è sempre propensa al peggio”) dirà l’arcivescovo di Magonza nel 1127 dopo essere stato informato del rifiuto dei contadini di pagare la decima.

Il sogno egualitario è stato fortemente presente nei movimenti ereticali, nelle guerre di religione e nelle rivolte contadine. La classe contadina, liberata dalla tutela feudale, esprimendosi nel linguaggio della religione, si lanciava nella realizzazione immediata del paradiso terrestre. Le campagne non erano prive di esperienza storica e né l’arte, né la libertà, né le insurrezioni erano loro sconosciute, ma il tempo della campagna trascorreva meno linearmente del tempo della città, privilegiando il collettivo rispetto all’individuale, la sussistenza comune al profitto privato, la tradizione alla novità, la morale all’economia, l’abitudine al mercato. Erano uno spazio intensamente ordinato, mediante usi sanciti da pratiche antiche. Mentre la città potrebbe descriversi come Gessellschaft, nel senso in cui l’intendeva Ferdinand Toënnies di “associazione”, aggregato in cui predomina l’interesse individuale centrato sul valore di scambio e in cui la coesione di un ordine regolato nei minimi dettagli deriva da una “volontà arbitraria”, la campagna si potrebbe intendere come Gemeinschaf, “comunità” produttrice e consumatrice di valori d’uso, retta da un unico interesse comune a tutti e in cui l’ordine iscritto nella memoria si dispiega naturalmente, per abitudine, da una “volontà essenziale”. In entrambi i casi, sebbene in maniera differente, l’interesse individuale coincideva con l’interesse collettivo o, il che è lo stesso, con la ragione, anche se in un caso restavano separati nonostante i fattori che li facevano coincidere e, nell’altro, non erano più distinguibili malgrado i fattori che tendevano a separarli.

Se, come dice Spinoza nel Trattato politico, “la libertà umana è tanto più grande quanto più l’uomo è capace di farsi condurre dalla ragione”, si può quindi concludere che i bisogni comuni guidavano il contadino libero e i desideri comuni il cittadino. Due forme diverse di ragione e di conseguenza due forme diverse di libertà: una organica e una economica, una basata sulla comunione il consenso, l’altra sul contratto e il patto. Nelle campagne il diritto consuetudinario impediva la separazione contenuta nel diritto romano tra i domini pubblico e privato; il prestigio era preferibile alla proprietà, le radici allo sradicamento, la stabilità al movimento e, infine, l’economia domestica al mercato. Ma niente di tutto ciò le ha messe al riparo dai poteri separati che la storia aveva prodotto: da una parte la Chiesa, i signori feudali e i proprietari terrieri, dall’altro le città divenute parassitarie e lo Stato. La società rurale non è mai stata una “società congelata”, profonda e immutabile al margine degli avvenimenti. Spesso, anzi, vi ha preso parte in maniera rilevante, come nota Guy Debord ne La società dello spettacolo: “[…] le grandi rivolte dei contadini in Europa sono anche il loro tentativo di rispondere alla storia […]”.

Il decadimento della comunità rurale fu lento ma inesorabile: l’intrusione dell’autorità centrale attraverso oneri e decreti inappellabili, l’eccessiva fiscalità imposta da diversi poteri, la perdita dei diritti e, soprattutto, l’usurpazione dei terreni comuni da parte di potenti e signori determinarono la separazione tra la popolazione rurale e il territorio (tra “finage” e “village”) e tra il territorio e la città. La dispersione dei contadini impoveriti ne fu il corollario obbligato. Un sistema punitivo crudele consistente nell’impiccare a gruppi di cento i vagabondi fuggitivi dai domini dei signori inglesi venne nel XVI secolo a culminare l’opera genocidaria delle enclosures (“recinzioni”): era chiaro che davanti alla scelta di integrarsi nel mercato del lavoro oppure di vivere di mendicità o di furti, essi inclinassero per quest’ultimi. Tuttavia, malgrado il loro sradicamento forzato conservavano la dignità di uomini liberi. La pratica sbrigativa per sbarazzarsi di queste persone sradicate, considerate come un pericolo sociale, non è stata abbandonata che quando la mancanza di forza lavoro s’è fatta sentire e ha reso necessario lo sfruttamento di questi esclusi, come manodopera a buon mercato.

Duecento anni dopo, il progetto dei fisiocrati illuministi, che avrebbero dovuto risolvere la questione agraria senza violenze e allo stesso tempo incrementare i prelievi per le casse dello Stato, può essere riassunto nella creazione di una classe di proprietari terrieri, cosa difficilmente realizzabile ricorrendo all’enfiteusi o alle leggi sui beni alienabili, ma perfettamente possibile con la ripartizione delle terre derivanti dalla scomparsa violenta dell’aristocrazia, che si verificò unicamente in Francia. La fine dell’Ancien Régime e il trionfo politico della borghesia, ereditaria del secolo dei Lumi, nel XIX secolo non hanno risolto la questione. La privatizzazione e l’industrializzazione non l’hanno che aggravata, senza che il movimento operaio, essenzialmente urbano, ne abbia preso sufficientemente coscienza. La lotta di classe non ha prestato adeguata attenzione alle questioni agrarie. La proprietà privata ha definitivamente sottratto l’individuo a un territorio divenuto forza produttiva, rompendo così i legami organici che li univano e preparando il terreno al dominio della merce. In definitiva: lo ha trasformato in proprietario o proletario. La natura, il campo, il villaggio, la città, il territorio sono diventati, nel corso del medesimo processo storico di alienazione, delle entità reificate, separate e distinte, estranee le une alle altre.

Furlo Land Art 2016. L'albero dei totem, opera di Gabriele Biancone. Foto di Stefania Cimarelli
Furlo Land Art 2016. L’albero dei totem, opera di Gabriele Biancone. Foto di Stefania Cimarelli

 

2. La frammentazione

Quali che siano state le vicissitudini delle tappe dell’accumulazione e le metamorfosi del libero mercato, non c’è dubbio che il capitalismo sia stato un fenomeno urbano e che la sua espansione sia proceduta parallelamente all’urbanizzazione e all’affermarsi dello Stato, ovviamente a spese del territorio. Le città hanno dato vita a una classe legata al commercio e all’industria, la borghesia, sotto la cui direzione s’è prodotta la “rottura metabolica” tra la società urbana e la prima fonte di ricchezza: la terra (l’altra è il lavoro). La produzione capitalistica, alleata ai signori della terra e protetta dallo Stato, s’è imposta nelle campagne impoverendole allo stesso modo degli operai. In un’ottica economica ogni progresso agricolo, effettuato in condizioni capitalistiche, è stato un progresso contro la stessa campagna: la “separazione radicale tra i produttori e i mezzi di produzione” (Karl Marx, Il Capitale), responsabile della figura del “bracciante giornaliero”, provocò di conseguenza una separazione completa e irreparabile tra la citta e il territorio, causa di irrisolvibili guai nella misura in cui quest’ultimo non venne considerato altro che una fonte di capitali.

Il progresso delle ideologie liberali significò espropriazione dei contadini, spoliazione delle proprietà comunitarie, disboscamenti e bonifiche, imposte e consolidamento di una classe di grandi proprietari terrieri. La proprietà inamovibile fondata sul patrimonio familiare si trovò soppiantata dalla proprietà alienabile fondata sullo sfruttamento del lavoro altrui. Il principale effetto della produzione capitalistica è stato di portare a compimento “la separazione tra lavoro e proprietà, tra lavoro e condizioni oggettive del lavoro”. Successivamente “il capitale distrusse il lavoro artigiano, la piccola proprietà fondiaria lavoratrice etc., e anche se stesso nelle forme in cui non si presentava in antitesi al lavoro: nelle forme del piccolo capitale e in quelle forme intermedie, ibride, tra i vecchi modi di produzione (o come essi si sono rinnovati sulla base del capitale) e il modo di produzione classico, adeguato al capitalismo stesso” (Karl Marx, Grundrisse).

Il ciclo si chiudeva: l’attività umana aveva generato delle forze che, sottraendosi ad ogni controllo, opprimevano la società. Il mondo storico si era rivelato come un mondo disumanizzato, coercitivo e contrario alla ragione, che aboliva e ricreava costantemente se stesso su basi sempre più opprimenti per un nuovo ordine sociale. L’oppressione si manifestava soprattutto nello smantellamento della vecchia struttura urbana e nel suo rimpiazzo con un’altra, molto più aggressiva. Le nuove oligarchie cittadine non bramavano tanto le rendite della terra quanto la forza lavoro divenuta eccedente. La città prodotta dalla cosiddetta “rivoluzione industriale” si ridefiniva infatti in totale opposizione al mondo rurale, del quale aveva assorbito la popolazione, e oscurava la nozione stessa di territorio riducendone la portata e relegandolo alla sfera del non-urbano. Il territorio era sempre più assimilato a quello che i Romani chiamavano suburbia, luogo al di fuori delle mura, spazio disarticolato e mal definito, senza un ordine preciso né un funzionamento regolato, nel quale erano collocate le attività sporche e rumorose, ma suscettibile di possedere un valore di scambio che lo rendeva malgrado tutto attraente. Ci fu senza dubbio nelle campagne, a partire dal XVIII secolo, un processo di “proto-industrializzazione”, sospinto dal diffondersi del lavoro e della produzione a domicilio. Qui si installarono le prime fabbriche, oggetto delle rivolte luddiste.

Furlo Land Art 2011. Labirinto, opera di Walter Zuccarini
Furlo Land Art 2011. Labirinto, opera di Walter Zuccarini

 

Il territorio restava così alla mercé di forze principalmente urbane, che regolavano le loro divergenze nei mercati, nelle borse, nelle cancellerie e nei ministeri, piuttosto che in spazi aperti e liberi. Naturalmente, nelle prime fasi del capitalismo, quando la campagna era ancora lontana dall’abbandono e dalla distruzione attuale e concentrava la maggior parte della popolazione, il problema agrario era di gran lunga la più grande preoccupazione dei riformatori sociali, che hanno in effetti prodotto un’abbondante letteratura sul tema. Tuttavia prendendo per buono il postulato quasi dogmatico di Marx che la classe redentrice dell’umanità era il proletariato, cioè una classe urbana, se ne deduceva che la soluzione sarebbe passata per le città, dopo che la classe operaia avesse preso il controllo dei mezzi di produzione e assolto il compito che la borghesia era incapace di realizzare, cioè l’ulteriore sviluppo delle forze produttive. Ma questo sviluppo, benché diretto dalla classe operaia, conduceva a conseguenze nefaste per la campagna perché imitando il modello produttivista borghese provocava una miseria intollerabile che gettava i contadini fuori dai loro villaggi per spingerli verso le porte delle fabbriche alla ricerca di un salario.

Non senza una certa ingenuità la rivoluzionaria Vera Zasulič domandava a Marx quanti secoli ci sarebbero voluti in una Russia arretrata dove esisteva ancora la comune di villaggio, il mir, prima che nelle campagne si fosse conclusa l’opera dissolvente della borghesia, segno inequivocabile dell’inizio della rivoluzione socialista. Marx rispondeva brevemente che il mir era “il punto di appoggio della rigenerazione sociale in Russia” (lettera dell’8 marzo 1881), ma spiegava più a fondo la sua idea in alcuni appunti preparatori alla risposta. L’annientamento della comunità rurale per creare una minoranza contadina prospera e una massa proletarizzata non era una fatalità storica; se “nel momento dell’emancipazione” lo si aiutava a “distaccarsi dalle sue caratteristiche primitive”, il mir sarebbe potuto diventare “un elemento della produzione collettiva su scala nazionale”. Marx, ispirandosi allo storico George Ludwig von Maurer, affermava che “la vitalità delle comunità primitive era incomparabilmente superiore a quella delle società semitica, greca, romana, etc., e più ancora a quella delle società capitaliste moderne”, inoltre “la nuova comune introdotta dai Germani in tutti i paesi conquistati aveva rappresentato durante tutto il Medio evo il solo focolare di libertà e di vita popolare”. Naturalmente in tutta Europa si sono conservati dei residui di questa comunità rurale, sotto forma di diritti di uso e sfruttamento comune di pascoli, terreni incolti, sorgenti, torbiere e boschi, chiamati allmende in Svizzera e Germania, commons in Inghilterra; avevano un toponimo che richiamava il thing, l’assemblea germanica degli uomini liberi presieduta da un giudice o langman (“colui che dice la legge”). Ma questa comunità si era mantenuta viva solamente in Russia, cosa che permetteva un’uscita originale dalla crisi capitalistica favorendo la trasformazione progressiva di una “agricoltura parcellizzata e individualistica in un’agricoltura collettiva” e facilitando “la transizione dal lavoro individuale al lavoro cooperativo”. Marx suggeriva che per coordinare gli sforzi, era necessaria la creazione di un’assemblea di delegati contadini eletti nelle comunità, ma che tutto sarebbe dipeso dai cambiamenti radicali il cui agente principale era comunque il proletariato: “per salvare la comune russa, ci vuole una rivoluzione russa”.

Furlo Land Art 2016. Divini contatti, opera di Paolo Garau. Foto di Giulia Gilebbi
Furlo Land Art 2016. Divini contatti, opera di Paolo Garau. Foto di Giulia Gilebbi

 

Kropotkin si spinse oltre e nel suo Il mutuo appoggio proclamò il “principio territoriale” della comunità di villaggio e i patti di solidarietà tra le città medioevali come fondamenti storici di una società libera. In particolare, la municipalità rurale, della quale restavano ancora abbondanti vestigia, era per lui “la cellula primitiva di tutta la vita sociale futura”. Tuttavia non la difendeva in quanto tale: “è in un territorio sufficientemente vasto per contenere città e campagna – e non in una città isolata o in un singolo villaggio – che si potrà, un giorno, lanciarsi verso l’avvenire comunista” (Pëtr Kropotkin, Campi, fabbriche e officine). In ogni caso, il cammino per raggiungere il comunismo libertario non appariva molto chiaro nell’opera di questo principe ribelle, che faceva eccessivo affidamento nell’evoluzione sociale e prevedeva il formarsi di sempre più libere associazioni che avrebbero regolato i problemi che lo Stato era incapace di risolvere. Il pensiero anarchico ha in gran parte adottato il suo ideale comunista, ma non il suo ottimismo darwiniano.

In questo sguardo al passato in cerca di ispirazione incontriamo altri autori come William Morris o Gustav Landauer. Quest’ultimo insistette ancor più di Kropotkin sulle comunità precapitalistiche, considerandole come “embrioni e specchi della vita culturale dell’avvenire”. Il periodo della Gemeinschaft medievale non rappresentava l’Età dell’oro alla quale si doveva ritornare, ma una fonte di esperienze autonome utili per la ricostruzione di una società senza Stato. Non si trattava di disprezzare i mezzi forniti dalla modernità, ma di mettere in conto tutti gli effetti negativi che poteva suscitare l’idea di progresso, verso la quale Landauer era molto critico.

Solamente in Spagna la comunità rurale consuetudinaria fu considerata come una risposta immediata al problema agrario, ovvero la questione territoriale dell’epoca, ma non da parte degli anarchici. In Spagna sussisteva una tradizione di riformismo illuminato che era culminata nel liberalismo sociale dell’erudito e politico “rigenerazionista” Joaquín Costa. Una costante del pensiero sociale agrario era rappresentata dalla subordinazione della proprietà della terra all’interesse generale, favorendo così uno sviluppo rurale che tratteneva le masse in campagna mediante vecchie formule di possesso e usufrutto come l’enfiteusi, il censo e la locazione, evitando così la loro miseria e la loro proletarizzazione. Lo Stato doveva essere il motore del cambiamento, motivo per cui questa riforma richiedeva la nazionalizzazione della terra, ma il dramma dei riformatori stava nel fatto che il potere statale era nelle mani di una minoranza di privilegiati, i cui interessi erano totalmente opposti a queste proposte.

Costa fu il solo tra i riformatori, alla fine della sua vita, dopo essersi convinto dell’inutilità dei tentativi di rigenerare “dall’alto” uno Stato liberale oligarchico e dispotico, a far appello a una “rivoluzione dal basso”. Nella sua importante opera pubblicata nel 1898, Colectivismo agrario en España, studiava, così come Kropotkin, la ricca tradizione delle istituzioni contadine di cui rimanevano abbondanti vestigia: le forme di insediamento e di cooperazione, i concejos, i beni privati e comuni, le terre franche, le riallocazioni a sorte, la gestione collettiva dell’acqua e dei punti di pesca, le corporazioni, le confraternite, i lavoro comunitari (auzolan, andecha, sestaferia), etc.Tra l’XI e il XIII secolo il municipio iberico fu un’entità pubblica con una giurisdizione e un’amministrazione autonome, governato da un concilium, la “giunta” o assemblea di tutti gli abitanti, che decideva sugli interessi collettivi e in particolare su quelli relativi all’utilizzo dei beni comuni, amministrava la giustizia e poteva anche mobilitare delle forze per assicurare la difesa. L’organizzazione del concilium era un sistema politico che emanava dal común, la gente comune, sistema che è stato pervertito dal crescente potere degli oligarchi e dal sistema di regimiento, fino a scomparire nelle città del XVI secolo, ma che ha trovato prolungata vita nei piccoli villaggi rurali. Partendo da questa constatazione Costa elabora una strategia collettivista che aspira a rompere il dominio dell’oligarchia terriera: abrogazione delle leggi sui beni alienabili, autorizzazione per le municipalità di acquisire delle terre o di prenderle in locazione e ripartirle tra i piccoli coltivatori, i braccianti e perfino gli artigiani e gli operai industriali, ricostruzione del patrimonio del concejo (anche se per questo bisognava ricorrere all’espropriazione forzata), recupero delle pratiche collettive e del diritto consuetudinario, etc.

Costa sosteneva che il più importante problema sociale fosse la risoluzione della questione agraria, cosa che non era così campata in aria in un paese prevalentemente rurale e la sua penna non aveva dubbi quando scriveva che tutto dipendeva dal fallimento dello Stato monarchico e oligarchico. Non si spinse oltre, ma l’anarchismo spagnolo, caratterizzato dall’adozione del principio territoriale della federazione di municipalità indipendenti come chiave di una riorganizzazione sociale libertaria, non ha mai dimenticato i suoi precursori e ha sempre riconosciuto la loro eredità: le misure di collettivizzazione della Rivoluzione spagnola del 1936-’37 non si possono comprendere senza considerare questa impronta secolare, che alcuni hanno confuso con il millenarismo, una tradizione impressa indelebilmente nella coscienza storica dei lavoratori e dei braccianti sindacalizzati, che Costa ha sostenuto essere la base indiscutibile di una società libera ed emancipata.

Furlo Land Art 2016. Omaggio all'albero, opera di Marisa Merlin. Foto di Stefania Cimarelli
Furlo Land Art 2016. Omaggio all’albero, opera di Marisa Merlin. Foto di Stefania Cimarelli

 

3. La pianificazione

Il capitale, basato sulle innovazioni tecnologiche, ha impresso alla città un ritmo di crescita che esaurisce le riserve disponibili in acqua, energia e cibo, obbligando allo sviluppo di infrastrutture idrauliche, energetiche, di trasporto e di smaltimento dei rifiuti. La moderna classe dominante non trova la sua origine esclusivamente nell’industria e nel commercio, ma si è sviluppata in gran parte anche attorno all’attività immobiliare, all’edilizia e alla gestione delle infrastrutture di base. La città industriale non era un insediamento compatto perché nulla la poteva limitare; con l’utilizzo delle macchine, con un’importante quantità di energia, con un imponente apparato burocratico e i nuovi mezzi di trasporto che ha sviluppato, non ha cessato di crescere e di estendersi nella sua periferia, configurando così una morfologia spaziale radicalmente inedita, articolata in una struttura di mobilità meccanica.

La società divisa in classi è una società urbana. Durante il XX secolo, la logica di concentrazione ha prodotto una civilizzazione urbana senza vere città: negli agglomerati urbani si trova un centro quasi disabitato dove tutto il potere è concentrato nelle mani di una élite industriale, finanziaria e immobiliare, circondato da aree suburbane sempre più estese e popolate da masse salariate. Alcuni sociologi parlano di “città diffusa”, di “metacittà” o di “post-città”, ma per Lewis Mumford in Il futuro della città (1956) si tratta piuttosto di una “anti-città”: “città disseminata, città annichilita”. Questa città è il prodotto della decomposizione della realtà urbana iniziato con la nascita dello Stato moderno, costituito da un insieme di frammenti sradicati e disseminati nell’ambiente circostante, senza vita pubblica, senza normale comunicazione: uno spazio in rovina dove è disgraziatamente ammassata una popolazione massificata e uniformizzata. Patrick Geddes, che ha osservato la nascita del fenomeno nei bacini minerari britannici, ha coniato il nome “conurbazione” per indicare questo tipo di agglomerato che permette solamente una vita ridotta ai minimi termini, motorizzata e confinata in spazi chiusi per la maggior parte del tempo.

La relazione tra città e territorio è degenerata fino all’inconcepibile man mano che le innovazioni tecnologiche si diffondevano. L’ambiente urbano ha invaso e disumanizzato tutto lo spazio sociale, ammassando una popolazione senza alcuna autonomia in condomini patogeni, distruggendo le terre coltivabili, deteriorando o banalizzando il paesaggio: il territorio non è più che uno spazio suburbano risultante da un nuovo barbaro modello di occupazione. Il caos urbano ha raggiunto tali livelli estremi che i dirigenti della città industriale sono stati costretti a prevedere una certa organizzazione della sua trama urbana, dando vita alla scienza dello spazio economico: l’urbanesimo.

Di fronte a territori sfigurati e degradati prodotti dall’espansione urbana, Geddes ha proposto la “pianificazione regionale” sistematica, ripresa dalla Associazione per la pianificazione regionale americana fondata nel 1923 da Lewis Mumford, Clarence Stein e Benton McKaye. I riformisti dell’Associazione intendevano stimolare un modo di vita intenso, gioioso e creativo, fondato su un equilibrio territoriale, proponendo un’agricoltura di prossimità, una decentralizzazione della produzione di energia, una decongestione delle metropoli e una distribuzione equilibrata della popolazione in unità abitative ben equipaggiate e interconnesse. La pianificazione regionale era pensata per eliminare le concentrazioni eccessive di popolazione, lo spreco generalizzato d’energia, di alimenti e di beni di consumo, ma anche per ridurre i trasporti a lunga distanza e per reinstallare le industrie vicino alle fonti di materia prima. Il punto di partenza non era più la “città dinosauro”, ma la regione così definita: “una regione è un’area geografica che possiede una certa unità di clima, di vegetazione, di industria e di cultura. Il regionalista cercherà di pianificare questo spazio in maniera che tutti i luoghi e le fonti di ricchezza, dai boschi alla città, dalla montagna al mare, si sviluppino in equilibrio e che la popolazione sia distribuita in modo da utilizzare, anziché annullare o distruggere, questi vantaggi naturali” (L. Mumford, Regions. To Live In, «Survey», 1925). L’idealismo di questi intellettuali impegnati salta agli occhi quando pensano di “porre un argine al diluvio metropolitano”: idealismo destinato a naufragare nella marea degli interessi economici e a perdersi nei labirinti della burocrazia amministrativa favorevole a questi interessi.

Furlo Land Art 2011. Le geometrie solari, opera di Benedetta Jandolo
Furlo Land Art 2011. Le geometrie solari, opera di Benedetta Jandolo

 

Il tema della pianificazione regionale venne ripreso dal Congresso internazionale d’architettura moderna (CIAM), ma in un’ottica opposta, cioè cercando di conciliare le riforme con i grandi interessi che governano il mondo. Nella Carta di Atene del 1933 il CIAM definiva la pianificazione regionale come una totalità che inglobava anche “il piano di gestione della città” e insisteva nel criticare quei “discendenti degenerati delle periferie” chiamati sobborghi (banlieues), una “specie di schiuma” che sbatte contro i muri della città e che in questi ultimi decenni si era “trasformata in marea e poi in inondazione”, nei cui confronti, al fine di assicurare un nuovo equilibrio o almeno di consolidare il disequilibrio esistente, era necessario non separare il piano della città da quello della regione, cioè dal territorio. Gli architetti funzionalisti parlavano in nome degli interessi generali del capitalismo: accettavano quindi il condizionamento o la domesticazione del territorio come conseguenza economica dei piani di espansione urbana e optavano semplicemente per una verticalizzazione, cioè per un’occupazione intensiva del territorio, inaugurando così l’architettura degli appartamenti “in blocco” per i poveri, tipica del dopoguerra. Questi piani, tuttavia, non potevano contraddire le leggi permissive in materia di beni immobili, che favorivano sfacciatamente i concreti interessi dei proprietari terrieri e degli speculatori. Il profitto immobiliare privato passava avanti a qualunque razionalizzazione della crescita urbana e i piani “regolatori” non si concretizzeranno se non dopo gli anni Cinquanta del XX secolo, nel momento in cui automobile e calcestruzzo apportarono un importante impulso alla suburbanizzazione del territorio e gli interessi legati allo sviluppo prendevano il controllo della politica urbana.

La conurbazione richiedeva costantemente più terra e più motorizzazione. La “zonizzazione” tanto raccomandata dagli architetti del CIAM, che stabiliva grandi distanze tra i luoghi del piacere, del consumo, di residenza e di lavoro, con delle “cinture verdi” intervallate tra loro – che non avevano niente a che vedere con la cintura agricola raccomandata dall’Associazione per la pianificazione regionale – unita alla mancanza di trasporti pubblici, a delle condizioni di vita sempre più sordide e all’accesso a finanziamenti agevolati, precipitò le masse verso l’automobile privata, moltiplicando strade e autostrade e di conseguenza aumentano esponenzialmente la mobilità, la domanda di energia e il disordine. Il processo innescato non fu una semplice diffusione di edifici con aumento dello spazio residenziale, ma una vera e propria urbanizzazione generalizzata, in altre parole una fogocitazione del territorio, che risultava infine coperto da un tessuto urbano indifferenziato. L’abitazione, definita da Le Corbusier “una macchina in cui abitare”, non poteva essere sostenibile economicamente in altro modo. Lo spazio urbanizzato estensivamente è dunque diventato principalmente uno spazio di circolazione dei veicoli; le autostrade modellano il territorio e determinano la sua articolazione.

Nonostante la priorità del profitto privato, la formazione di “megalopoli” o “città-regioni” come buchi neri che assorbivano tutto lo spazio, il patrimonio comune e la vitalità che poteva incontrare esigevano in qualche modo una regolamentazione degli insediamenti extra-urbani e delle installazioni industriali, cosa che è stata chiamata “pianificazione del territorio”, consistente in un prolungamento della già conosciuta pianificazione urbana. La pianificazione del territorio, la cui redazione dipendeva dagli ingegneri e dagli architetti, ha preteso di essere una disciplina scientifica la cui funzione era quella di offrire un quadro giuridico all’azione degli “agenti economici” ma che in realtà serviva nient’altro che a legalizzare gli atti arbitrari e gli eccessi dei costruttori, degli industriali e degli speculatori immobiliari. Fungeva cioè da copertura scientifica per lo sviluppo immobiliare. Cercava innanzitutto di accrescere il territorio edificabile, la sua facile “interconnessione” e quindi la moltiplicazione delle infrastrutture. Era il territorio a sottomettersi alle infrastrutture e non viceversa. Quest’ultime condizionavano e determinavano ogni utilizzo del territorio: paesaggio, cultura, circolazione, dormitori, tempo libero, discariche, carceri, produzione di energia, etc. E dove arrivano le autostrade ci sono sempre sviluppatori immobiliari e speculatori.

La legislazione elaborata per giustificare questa “cultura delle strade” con il pretesto dello “sviluppo regionale”, di “economie di scala”, di “creazione di posti di lavoro” e di aumento della fiscalità, si chiamò anche “regolamentazione territoriale”. Era la consacrazione del disordine a un livello qualitativamente più alto di degrado perché per i dirigenti non si trattava di controllare o proteggere qualcosa, ma di “connettere” e “dinamizzare”, cioè di creare le condizioni ottimali per una crescita speculativa che producesse profitti considerevoli e soprattutto rapidi. La “pianificazione” era il contributo dei funzionari, dei tecnici urbanistici e delle pubbliche istituzioni alla distruzione del territorio e alla creazione delle regole politiche per la sua completa trasformazione in capitale.

Furlo Land Art 2015. Riflessa, opera di Simone Giacomoni e Valentina Baldelli. Foto di Valentina Baldelli
Furlo Land Art 2015. Riflessa, opera di Simone Giacomoni e Valentina Baldelli. Foto di Valentina Baldelli

 

Cinquant’anni dopo la Carta di Atene, quando le corporazioni dei finanzieri e degli speculatori erano diventate molto più forti, la Conferenza europea dei ministri responsabili della pianificazione del territorio (CEMAT) che si è tenuta il 25 maggio 1983 a Torremolinos, luogo emblematico della distruzione selvaggia della costa spagnola, precisava i suoi obiettivi in una Carta europea di pianificazione del territorio, definendola “espressione geografica della politica economica, sociale, culturale ed ecologica di tutta la società”, vale a dire la trascrizione geografica dell’ideologia dello sviluppo. Era un tentativo molto più serio di pianificare lo sfruttamento sistematico del territorio. In quel momento si cominciavano a percepire i risultati dei cambiamenti tecnologici del dopoguerra che derivavano dalla corsa alla produttività. L’ambiente urbano, sviluppandosi esponenzialmente, si scontrava frontalmente con il territorio, ostacolando i suoi processi ciclici. Inoltre, le novità che riguardavano l’agricoltura (principalmente l’utilizzo massiccio di fertilizzanti e pesticidi) e i trasporti (automobili di grossa cilindrata e sostituzione del trasporto merci ferroviario con quello su ruota) uniti allo sviluppo della produzione di energia e dell’industria petrolchimica, originarono nocività fino allora inimmaginabili. La vera tragedia era già tutta lì: l’esodo rurale, l’accumulazione di rifiuti, l’inquinamento, l’esaurimento delle risorse energetiche, i buchi nell’ozono, il riscaldamento planetario, il cambiamento climatico, etc., ne erano le prime manifestazioni.

Nel corso di questo disastro il movimento ecologista è degenerato in partito “verde” e ha preso rapidamente il treno della politica sviluppista. In risposta alla statalizzazione dell’ecologismo, lo Stato si è ecologizzato finendo per ammettere che le “profonde modificazioni” provocate dal capitalismo nella società civile richiedevano “una revisione dei principi che reggono l’organizzazione del territorio per evitare che si ritrovino determinati esclusivamente da obiettivi a corto termine”, per procedere ad una “sistematica implementazione di piani di utilizzo del suolo” che dovrebbe porre le basi di una “utilizzazione razionale del territorio”. La fraseologia del “benessere”, dello “sviluppo equilibrato tra regioni”, della “qualità della vita” e dell’“interazione con l’ambiente” marcava il passaggio ad una società di massa in cui il territorio non era più principalmente una fonte di cibo, ma piuttosto uno spazio-capitale organizzato per essere consumato in ogni sua parte. E il principale consumo proveniva dall’industrializzazione del tempo libero attraverso seconde case e attività turistiche.

Nel frattempo, il territorio non era solo una semplice riserva di suolo urbanizzabile, perché nello sfruttamento delle sue risorse andavano sorgendo interessi che si sommavano a quelli del settore immobiliare e delle grandi infrastrutture. Da allora c’è stata una cascata di leggi di “pianificazione” e di piani territoriali, ma la forte domanda di suolo, i condizionamenti politici e le crisi – la “variabilità della congiuntura economica”, direbbe un esperto – hanno impedito la loro applicazione globale. Dopo il “Rapporto Bruntland” delle Nazioni Unite (1987) i decisori economici di fronte al problema della prossima penuria di energia, hanno preso coscienza della dimensione “verde” del capitalismo. Per il futuro, l’ideologia dello sviluppo sarà sostenibile o non sarà. Per essere più precisi, questa ideologia è stata definita nella Conferenza di Rio de Janeiro del 1992 come l’unione dell’ambiente con l’economia globale, in forma di “capitale territoriale”. Il territorio acquisiva così una “nuova dimensione” all’interno dell’alta politica, situandosi al centro di un triangolo società-economia-ambiente. Diveniva prioritario dargli una “strutturazione” in quanto “periferia” di una serie di nuclei centrali con i quali doveva connettersi tramite le nuove infrastrutture in progetto. Con questo tipo di decentralizzazione avrebbe “massimizzato” la sua competitività – aumentando al massimo il suo “valore” come “risorsa” – e si sarebbe rinsaldata la “coesione economica e sociale”, correggendo i gravi disequilibri causati dal diseguale potenziale economico tra il territorio e le aree metropolitane, questi “laboratori dell’economia mondiale” e “motori del progresso”.

In Spagna la pianificazione territoriale è responsabilità di un livello burocratico intermedio, quello delle regioni autonome, che ha portato a piani di sviluppo esagerato sulla cui sostenibilità “vigilano” comitati composti da quadri finanziari, manager aziendali e politici responsabili delle aree in questione. I leader europei hanno concretizzato il loro obiettivo nel 1999 in un documento intitolato Strategia territoriale europea, dove esprimevano la volontà di integrare anche le zone più recondite del territorio nell’economia mondiale, rivalorizzandole grazie all’accesso alla “rete transeuropea” di trasporti, telecomunicazioni ed energia, cioè attraverso la costituzione di un mercato europeo integrato di costruzione, distribuzione, turismo di massa, gas e elettricità. I fondi per la ristrutturazione, i piani per lo sviluppo locale, la legislazione ambientale, l’aumento produttivo e l’informatizzazione totale saranno i componenti di un “nuovo modello di sviluppo policentrico” che, tramite meccanismi di partecipazione online e di concertazione pubblico-privato, darà vita a una “nuova cultura del territorio” che dissimulerà finché possibile la contraddizione insuperabile tra i processi naturali che realmente governano il territorio e i processi industriali che strutturano la società globalizzata. Detto in altri termini: stanno cercando di spegnere il fuoco bruciando un diverso tipo di combustibile.

Furlo Land Art 2016. Stone balancing, opera di Luca Zaro
Furlo Land Art 2016. Stone balancing, opera di Luca Zaro

 

4. La difesa

Nell’attuale stadio della crescita capitalistica, quello dello sviluppo globalizzato, il territorio è stato trasformato non solamente in supporto delle infrastrutture e nel più solido pilastro dell’urbanizzazione, ma anche nella principale risorsa sfruttabile e nel principale motore dell’attività economica. In un’economia terziarizzata, con quasi più nessuna attività agricola, si scopre che il capitale-territorio contende al capitale-città il primo posto come forma dominante di capitale. L’accumulazione del capitale è stata delocalizzata e il territorio è diventato ora l’elemento primario della fabbrica diffusa e allo stesso tempo il punto finale del processo di industrializzazione della vita. Parallelamente, il territorio in quanto capitale deve essere controllato e messo in “sicurezza” in funzione dell’importanza strategica acquisita. Ma, precisamente, le conseguenze delle sue nuove funzioni hanno portato il territorio a diventare la contraddizione che contiene tutte le altre per il sistema capitalistico: da un lato, la sua distruzione in quanto risorsa finita impedirà uno sfruttamento che si vuol pretendere illimitato, minacciando così i fondamenti stessi dell’economia; dall’altro la sua distruzione intesa come completa artificializzazione dello spazio sociale in cui si accumulano le nocività di una crescita avvelenata comporterà per la sopravvivenza della specie umana delle condizioni così abominevoli che difficilmente si potranno sopportare.

La crisi energetica è l’esempio della prima contraddizione; le rivolte spontanee delle banlieues metropolitane del mondo quello della seconda. Per di più, la distruzione del territorio è inevitabile nel contesto attuale, poiché la tecnologia, la forza produttiva preponderante, è una forza eminentemente distruttiva; la catastrofe è allo stesso tempo il risultato e la precondizione del funzionamento capitalistico contemporaneo. Le catastrofi conducono a più controllo – la soluzione tecnica per eccellenza – e così la distruzione del territorio non si ferma davanti alle sue conseguenze, ma impone una tecnosorveglianza che i “verdi” chiamano “tracciamento”, gli esperti di polizia “contenimento” e i dirigenti semplicemente “mantenimento dell’ordine”. I controlli hanno per scopo sia di adattare la popolazione alla devastazione che di canalizzare e dissuadere la protesta. Per il primo obiettivo il potere farà ricorso alla legislazione ambientale e ai media, proponendo come diversivo le piattaforme di azione della società civile, l’ecologismo politico o il volontariato. Per l’altro obiettivo, utilizzerà direttamente la tecnovigilanza e le forze dell’ordine. Questi sono i due poli il cui unico compito è quello di neutralizzare la lotta anticapitalista per eccellenza: la difesa del territorio. La dialettica capitalistica della distruzione e della ricostruzione si completa con una dialettica dell’integrazione e della repressione.

Il territorio, dopo essere stato in gran parte convertito in una fabbrica diffusa è diventato il luogo in cui gli antagonismi sociali hanno potuto svilupparsi in tutta la loro ampiezza, tanto che la questione sociale si può presentare come una questione territoriale. In Castiglia, la “difesa del territorio” come difesa dei beni comuni contro l’usurpazione della nobiltà è menzionata dal XV secolo, ma l’utilizzo generale dell’espressione è molto più recente e proviene probabilmente dalle lotte delle comunità contadine latinoamericane degli anni Settanta e Ottanta in difesa del loro ambiente e della loro cultura contro l’agro-industria, lo sfruttamento delle miniere a cielo aperto e la costruzione di dighe. Al saccheggio del territorio per interessi economici ben precisi, le comunità opponevano l’idea di un territorio considerato bene comune, con un utilizzo collettivo regolato, tale da garantire una protezione, una risorsa e una fonte di vita. Nei paesi in cui regna il turbocapitalismo la difesa del territorio si manifesta nelle campagne sotto forma di attività per proteggere l’habitat rurale e lo stile di vita che quest’ultimo rendeva possibile, a partire dalle lotte contro lo stoccaggio dei rifiuti nucleari, mentre nelle conurbazioni appare come risposta alla degradazione insopportabile dello stile di vita urbano. In entrambi i casi si tratta di difesa di un’identità perduta, quella di cui Catone parlava già nel De Agri Cultura: “quando i nostri antenati elogiavano un uomo dabbene, così lo elogiavano: che era un buon agricoltore e un buon contadino” (i Romani consideravano il lavoro della terra come l’unica vera occupazione di un uomo libero).

Furlo Land Art 2012, Dialogo tra Terra e Cielo, opera di Walter Zuccarini
Furlo Land Art 2012, Dialogo tra Terra e Cielo, opera di Walter Zuccarini

 

Nelle campagne questa difesa si prolunga in una resistenza alle infrastrutture e all’industrializzazione dell’attività agraria, una resistenza che tenta di restaurare la democrazia assembleare; negli agglomerati urbani è una lotta per la decolonizzazione della vita quotidiana che prende le forme di una lotta per il ritorno alla vita pubblica o per la diserzione della città. Nel primo caso fa appello all’appoggio delle masse urbane, nel secondo si invitano i cittadini dalla piazza pubblica a occupare e coltivare le terre. La difesa del territorio è dunque una lotta per la città e viceversa la lotta per la città è una difesa del territorio. Ci fu un tempo in cui la popolazione cittadina comprendeva una forte componente contadina rappresentata nelle sue istituzioni. La città e il territorio non sono mai state realtà distinte e opposte, ma interdipendenti, non si possono concepire l’una senza l’altra, né essere trasformate separatamente. La libertà cittadina non potrebbe esistere in un territorio asservito e l’autonomia comunale non potrebbe esercitarsi nel contesto di una megalopoli. Perché ci sia un versa simbiosi entrambe esigono lo smantellamento delle conurbazioni e l’autogoverno, ma non l’abolizione della città: la deindustrializzazione segue i passi della ruralizzazione e non quelli della barbarie anticivilizzatrice. De-urbanizzare le campagne e ruralizzare le città, ritornare in campagna e ripristinare le città, sono queste le linee convergenti di una futura rivoluzione antistatale e anticapitalista. Il diritto al territorio che deve promanare da un uso razionale dello spazio è anche un diritto alla città e necessita tanto della fine dello Stato che di quella del mercato globale.

Se affermiamo che la difesa del territorio è la nuova lotta di classe, se ripetiamo che la questione sociale è prima di tutto una questione territoriale, non è perché gli obiettivi della classe oppressa si siano spostati dalla fabbrica verso l’agricoltura, la raccolta o la caccia. In una società in cui lo sfruttamento è fondamentalmente tecnologico, gli oppressi non formano una classe poiché non sono nient’altro che protesi delle macchine, delle masse fatte a immagine del mondo urbano nel quale sopravvivono. Ciò che li definisce non è il fatto di percepire un salario in cambio di un lavoro, ma l’essere stretti in un ingranaggio che li obbliga a consumare e a indebitarsi in uno spazio chiuso e condizionato: quello dell’economia di mercato. Si definiscono quindi per un modo di vita imposto, sul quale non hanno alcun potere decisionale. Il suddetto spazio è uno spazio urbano, ma senza una reale vita urbana, ideale per innescare comportamenti nevrotici, parassiti e sociopatici; è lo spazio delle masse senza voce e senza coscienza, amministrate meccanicamente e autoritariamente dai professionisti dell’addomesticamento. Il degrado della convivenza sociale e l’aggressività che la caratterizza sono entrambi un prodotto di fattori morbosi provocati dal sovraffollamento, dal ritmo delle macchine, dalla tensione consumista, dalla mancanza di comunicazione e dalla solitudine.

Furlo Land Art 2013. Giulia abbraccia l'albero, opera di Antonio Sorace
Furlo Land Art 2013. Giulia abbraccia l’albero, opera di Antonio Sorace

 

Patrick Geddes ha chiamato pathopolis le metropoli degenerate, queste città malate dove la vita umana è effettivamente limitata da condizioni patologiche che si vanno sempre più aggravando. L’intensità delle rivolte urbane riflette l’enorme violenza che devono sopportare quotidianamente gli abitanti demoralizzati di queste conurbazioni. Non è una violenza di classe, ma una violenza di “declassati”. L’insurrezione latente delle masse non è che l’espressione violentemente logica della patologia di una vita privata mediocre, apatica e schiava dell’economia. La miseria della vita quotidiana, aggravata dalle crisi, è il comune denominatore di tutti i disordini urbani, è il substrato di tutte le rivolte, che abbiano avuto luogo nelle città statunitensi degli anni Cinquanta o più recentemente a Stoccolma, Ankara o San Paolo. È attraverso queste rivolte che si annuncia il nuovo proletariato.

Né è quindi nelle questioni del lavoro che dobbiamo cercare la base su cui ricostruire il soggetto della storia, l’unificazione di oggetto (la realtà oggettiva) e soggetto (l’agente della Ragione), poiché tale soggetto si trova in realtà nella protesta contro l’espropriazione totale della vita. È una protesta che contiene implicitamente il rifiuto di uno spazio reificato e massificato in cui regnano la perdita di memoria, l’assenza di legami e la sottomissione; ovvero il rifiuto dell’ambiente metropolitano. Così la critica della vita quotidiana comporta una critica dello spazio: dalla critica del concentrazionismo urbanistico dei dirigenti arriviamo a una critica della domesticazione del territorio, acquisendo in questo cammino una coscienza sociale dello spazio, altrimenti detta una coscienza territoriale. La difesa del territorio, che naturalmente prende forme assembleari, è la materializzazione di questa presa di coscienza. La comunità si manifesta come riunione, come junta, non come un’associazione, cioè un’entità suscettibile di essere istituzionalizzata. Da un certo punto di vista si potrebbe dire che se l’oppressione, penetrando in tutti gli interstizi della vita, ha acquisito una dimensione legata allo spazio, la lotta contro di essa ha fatto altrettanto. Nel fragore della battaglia, la classe che ha coscienza, il nuovo proletariato, si costituisce creando e difendendo il proprio spazio, che è il suo mondo, il suo oggetto. Il suo habitat è la fabbrica diffusa che egli deve deindustrializzare e de-urbanizzare per poterlo gestire liberamente e il suo strumento organico non è altro che la comunità territoriale rappresentata dall’assemblea.

Se la pianificazione del territorio era l’ultima fase della pianificazione della vita, in altri termini il caos pianificato, il primo compito della sua difesa sarà di “de-pianificarlo”, cioè de-massificarlo, de-privatizzarlo, condurlo verso quell’anarchia che, come diceva Reclus “è la più alta espressione dell’ordine”. La difesa del territorio deve fare fronte a importanti contraddizioni. La prima di queste risiede nel fatto che il soggetto che deve condurla è in larga parte concentrato nelle conurbazioni, terreno sterile dell’incoscienza e dell’oblio, ed è per questo che i movimenti di esodo e ripopolamento seguiranno ritmi differenti e non coordinati. Rendendo quasi impossibile l’appropriazione liberatrice dei luoghi e l’abbandono delle zone sovraffollate, l’urbanesimo e la pianificazione territoriale hanno infatti innalzato enormi ostacoli alla redistribuzione delle popolazioni.

Questa contraddizione si sovrappone a un’altra: la lotta a partire dalla conurbazione è principalmente distruttrice, perché poco si può costruire di autonomo e reale in questi spazi deserti di servitù salariata e consumistica, mentre nelle campagne l’aspetto costruttivo ha più opportunità, dal momento che la “cultura contadina” riemerge facilmente in un terreno che è separato dal mercato. Tutto questo favorisce, in assenza di coscienza sociale, lo sviluppo di ideologie messianiche e nichiliste nelle zone urbanizzate e di ideologie cittadiniste e di ritorno alla terra nelle zone non urbanizzate: tutte forme di falsa coscienza che oscurano lo spirito e rendono gli individui estranei a una vita libera. Così, nelle aree metropolitane le lotte salariali saranno incensate come l’espressione più alta della “lotta di classe” mentre il confronto con le forze dell’ordine potrà essere elevato sull’altare della radicalità e la violenza eretta a valore assoluto come “poesia della rivolta”. Dall’altra parte, nelle zone neo-rurali il protezionismo legalista, il ricorso ai partiti e alle amministrazioni, i compromessi ambientali degli imprenditori dell’economia pseudo-solidale saranno considerati come la panacea della decrescita e della ruralità ben intenzionata.

Ovunque si deve costruire una comunità di lotta per andare avanti e se non dobbiamo disprezzare gli orti urbani, il co-working e i metodi di autodifesa delle mobilitazioni, non bisogna dimenticare l’occupazione dei terreni abbandonati o espropriati, né il sabotaggio delle culture transgeniche, né quello delle macchine destinate alle infrastrutture o quello dell’industria turistica. È altrettanto utile alla lotta saper fare il pane che saper montare e tenere una barricata. Secessione e resistenza non hanno come obiettivo una sopravvivenza isolata senza il consolidamento di una comunità e l’abolizione del capitalismo. Il ristabilimento delle antiche comuni libere e delle juntas, la creazione di una moneta “sociale”, i circuiti corti di produzione e consumo cooperativi o, ancora, il recupero delle terre comunali non devono diventare delle vie per “un altro” capitalismo e dei pretesti per l’inattività o il cittadinismo. Il loro scopo nell’ambito dell’oikos (unità di base della società) è la produzione di valore d’uso e non di valore di scambio. Tutti questi non sono i simboli identitari di un sorta di ghetto rurale hipster, ma aspetti distinti di una stessa lotta per un territorio emancipato dalle merci e dallo Stato, la cui atmosfera può liberare coloro che la respirano. Sono elementi di importanza capitale il cui assemblaggio corretto determinerà una strategia efficace per condurre le forze della coscienza storica alla vittoria. L’elaborazione di questa strategia è l’obiettivo della riflessione anti-industriale, che non si perde in generalizzazioni teoriche astratte e non assume posizioni di pura negatività né di solo attivismo in positivo, dal momento che sa, in modo molto concreto, quello che vuole. Ecco perché non cerca di catturare la luna nel suo riflesso sull’acqua. Sa esattamente dove guardare per trovare le cose.

Furlo Land Art 2012. L'Abbraccio, opera di Edda Bonini e Andrea Pavinato
Furlo Land Art 2012. L’Abbraccio, opera di Edda Bonini e Andrea Pavinato

Territori in subbuglio. Storie di ZAD e No Tav (#11)

Da Malamente #11 (giugno 2018)
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Presentazione di “Contrade. Storie di ZAD e No Tav”
Intervento di Mauvaise Troupe

Cartina della ZAD

A febbraio 2018 abbiamo ospitato alcuni membri del collettivo Mauvaise Troupe e delle edizioni Tabor per le due tappe marchigiane del tour di presentazione del libro “Contrade”, a Urbino (in collaborazione con la Libera Biblioteca De Carlo) e Senigallia (presso lo Spazio sociale Arvultura). Nel libro ci si interroga su concetti complessi: territorio, popolo, autonomia, in relazione alle esperienze di lotta e di vita della Valle NoTav e della ZAD, la “Zone à défendre” sorta nei pressi di Nantes per impedire la costruzione di un contestato aeroporto.
La ZAD ha visto nascere una comunità umana in secessione dal capitalismo, una comunità aperta, fatta di abitanti originari e di nuovi arrivati che, nonostante percorsi e metodi differenti, si cercano gli uni con gli altri per progettare insieme il proprio futuro, facendo a meno dell’aeroporto “e di tutto il suo mondo”.  La dimensione di una lotta radicata e di lungo corso ha permesso al movimento di aprire uno spazio e un tempo dai quali estromettere le dinamiche del denaro e delle merci, per sperimentare nuove forme di convivenza.
Ma l’aver dimostrato che si può ben vivere senza banchieri e poliziotti è un esempio troppo pericoloso per il potere. Un pubblico ministero torinese sosteneva che il progetto Tav andasse portato fino in fondo non tanto per la sua utilità, ma per riaffermare l’autorità dello Stato (chiamata “democrazia”) di fronte a una valle ribelle. Sulla stessa logica, il governo francese ha ritirato definitivamente il progetto di aeroporto a gennaio 2018, ma non potendo permettersi di lasciare la vittoria agli zadisti, appena arrivata la primavera ha inviato le truppe per sgomberare l’area. Mentre scriviamo queste righe, la violenza dell’operazione di polizia ha distrutto molti luoghi di vita della ZAD e ferito, anche gravemente, diversi occupanti, ma zadisti e zadiste hanno saputo resistere e si stanno riorganizzando. A loro tutta la nostra complicità e solidarietà.

La Route des Chicanes. Foto di ValK
La Route des Chicanes. Foto di ValK

Di come un movimento ha fermato una “grande opera”

Il libro che presentiamo è costruito sulle parole di chi ha preso parte alla lotta No Tav e alla lotta contro l’aeroporto a Notre-Dame-des-Landes; per fare una giusta presentazione avremmo dovuto portare qui e far parlare tutte le persone che hanno lottato. Ma le edizioni Tabor sono una piccola casa editrice e non hanno i mezzi per affittare dei pullman… allora cercheremo noi di fare del nostro meglio.
Parleremo soprattutto della ZAD perché pensiamo che la lotta No Tav sia da voi già abbastanza conosciuta e, soprattutto, perché dopo cinquanta anni di lotta contro questo progetto di aeroporto finalmente il mese scorso siamo arrivati a vincere. Vittorie come queste non sono vittorie che capitano tutti i giorni. È vero che avevamo già avuto in Francia delle vittorie contro altri progetti di questo tipo, ma spesso erano conseguenti all’elezione di un candidato che aveva nel suo programma l’abbandono del tale progetto. Al contrario, alla ZAD di Notre-Dame-des-Landes abbiamo vinto contro tutti i governi. Ed è per questo che è così importante raccontare questa vittoria, è per questo che abbiamo fatto questo libro e stiamo facendo questi incontri.

Il progetto di aeroporto è nato negli anni Settanta e i primi a opporsi, quella che possiamo chiamare la prima componente della lotta, sono stati i contadini. Ma non sono contadini qualunque, nella regione della Loira atlantica esiste da molto tempo una tradizione di sindacalismo rivoluzionario. La loro azione all’interno della lotta ha avuto due caratteristiche principali: sono molto numerosi ed estremamente determinati. Partecipano alle manifestazioni con i loro trattori, che hanno sempre messo in prima linea di fronte alla polizia e per difendere le occupazioni dagli sgomberi. Grazie ai loro trattori siamo riusciti a fare le più belle barricate dal Sessantotto a oggi!
Di fronte a questa iniziale opposizione dei contadini il governo ha messo il progetto sotto il tappeto per circa trent’anni, fino agli anni Duemila. Quando è stato ritirato fuori è apparsa una nuova componente della lotta, quella dell’associazionismo “civico”, la cui principale azione è stata di portare avanti un sacco di ricorsi giuridici contro il progetto e questo ha permesso al movimento di guadagnare tempo per organizzarsi. Un’altra conseguenza dell’azione di questa componente è stata di dividere il fronte nemico, nello specifico il partito socialista dai movimenti ecologisti.
Passano gli anni e arriviamo al 2008, quando gli abitanti della zona si rendono conto che molte case all’interno del perimetro previsto per l’aeroporto sono ormai vuote, alcuni proprietari sono infatti morti, altri sono andati via e lo Stato ha comprato queste case.
Un piccolo gruppo chiamato “Gli abitanti che resistono” ha riflettuto su come sarebbe stato impossibile difendere un territorio vuoto e ha quindi lanciato un grande appello a venire ad occupare queste case, che è stato subito raccolto da molte persone, specialmente giovani che dalle città sono andati lì a occupare. Si è formata così la terza componente del movimento, cioè gli occupanti. Questa componente ha contribuito a costruire anche lo stile della ZAD, con l’occupazione delle case, la costruzione di case sugli alberi e ai bordi delle strade, portando inoltre nel movimento delle pratiche radicali come il sabotaggio e l’azione diretta.

Sulla Route des Chicanes, 2013. Foto di Valk.
Sulla Route des Chicanes, 2013. Foto di Valk.

Nel 2012 il governo ha avuto un’idea geniale. Ha pensato bene di sgomberare proprio questa componente di giovani occupanti, pensando che gli altri abitanti della zona non li avrebbero difesi, che non avrebbero solidarizzato. Poi ha avuto una seconda idea geniale: nel paese di Asterix e Obelix, ha chiamato l’operazione di sgombero ed espulsione “operazione Cesare”. Non possiamo garantire che il responsabile della comunicazione del governo abbia ancora il suo posto di lavoro oggi…!
Sono arrivati sul posto 1.200 poliziotti per distruggere le case, ma la resistenza è stata molto forte, con lanci di pietre, barricate e con tutto quello che il movimento di occupazione è riuscito a mettere in campo. Sui media, ovviamente, c’è stata una criminalizzazione parlando di “selvaggi” e “terroristi”, ma se in altre circostanze questo mostro mediatico fa paura e crea divisioni, nel nostro caso è stato esattamente l’opposto. Immediatamente, in tutta la Francia, si sono creati oltre duecento comitati di sostegno e, soprattutto, le altre due componenti della lotta, i contadini e le associazioni civiche, hanno assolutamente solidarizzato con gli occupanti.

I primi scontri sono durati qualche settimana. Il movimento non era ancora molto strutturato e organizzato ma aveva un piano: a un mese dall’intervento di sgombero avrebbe organizzato una grande manifestazione per la rioccupazione. All’epoca non si sapeva bene cosa volesse dire una “manifestazione per la rioccupazione”, ma poi le cose hanno preso forma e ampiezza e a questo appuntamento sono arrivate 40.000 persone, che in una radura nella foresta al centro della ZAD hanno costruito una sorta di villaggio di capanne. Le strutture erano state prefabbricate e messe sui trattori per raggiungere la radura, ma c’era talmente tanto fango che per i trattori era impossibile raggiungere il centro della foresta e così tutti i materiali sono passati attraverso una catena umana lunga centinaia di metri, mano dopo mano, ed è stato costruito questo superbo villaggio.
Dopo questo dispiegamento di forze da parte del movimento, la polizia ha ancora cercato di attaccarci, ma invano. Anzi, a partire da quel momento e almeno fino a oggi, la polizia non è mai più riuscita a entrare nella ZAD. Questa vittoria è l’inizio di quello che è un po’ diventato il mito della ZAD come zona di non-diritto, di libertà.

Trattori verso Nantes, 2016. Foto di Valk
Trattori verso Nantes, 2016. Foto di Valk

Dal 2012 in poi ci sono stati molti episodi, non possiamo raccontarli tutti ma ne citiamo giusto un paio. Nel 2014, in risposta a una nuova minaccia di sgombero, è stata organizzata una manifestazione al centro di Nantes: 60.000 persone, 500 trattori e scontri di un’intensità che raramente si è vista in Francia. Dopo la manifestazione il governo ha fatto decadere la minaccia di sgombero, non sappiamo se perché c’erano così tante persone o per l’intensità degli scontri.
Le varie componenti del movimento hanno però prodotto delle analisi molto diverse tra loro. Per i giovani un po’ agitati quello è stato il momento più bello della loro vita, mentre chi doveva spiegare ai propri vicini perché era stato saccheggiato il centro di Nantes ha avuto qualche difficoltà… Dopo questa manifestazione è stato impossibile andare di nuovo tutti insieme al centro di Nantes.
Ma la bellezza del movimento è che invece di dividersi e fare ognuno le proprie azioni, si è cercato di trovare altre modalità per stare tutti insieme. E così nel 2016, di fronte a una nuova minaccia di sgombero, sono state occupate la tangenziale e l’autostrada che porta a Nantes, in particolare il ponte di passaggio sulla Loira. La resistenza è durata fino all’intervento della polizia, ma anche in quel caso il governo si è infine ritirato.

Poi il governo ha messo in campo la sua ultima arma, far “parlare il popolo”. Ha organizzato un referendum, limitato alla sola dimensione territoriale in cui era sicuro che avrebbe vinto, e infatti il Sì all’aeroporto ha vinto al 55%, ma la sera di questa cosiddetta vittoria del Sì c’è stata una scena formidabile: i giornalisti sono andati al quartiere generale del movimento aspettandosi di trovare gente triste e in lacrime, in realtà hanno trovato centinaia e centinaia di persone che urlavano “Resistenza! Resistenza!”.
Dopo il referendum sono arrivate dal governo nuove minacce di espulsione, per tutta risposta ancora 40.000 persone sono tornate a manifestare sulla ZAD facendo un gesto allo stesso tempo poetico e guerriero. Tutti hanno piantato un bastone sul terreno come in una sorta di giuramento: oggi lo piantiamo, se ci sarà uno sgombero torneremo a riprenderlo.

I bastoni della rivolta, 2016. Foto di Valk
I bastoni della rivolta, 2016. Foto di Valk

In seguito c’è stata l’elezione di Macron, il quale ha annunciato che il 17 gennaio 2018 avrebbe dichiarato se il progetto di aeroporto era ancora valido o meno. Per noi il solo fatto di dire che si sarebbe pronunciato era già una vittoria, visto che c’era stato il referendum. Il 17 gennaio abbiamo atteso queste dichiarazioni tutti insieme alla biblioteca della ZAD, con decine di giornalisti da Francia e mezza Europa, alla fine la decisione del governo è stata l’abbandono del progetto. Per raccontare un po’ lo stile e l’impertinenza del movimento, quando è arrivata la notizia, dal faro che sovrasta la biblioteca è stato aperto uno striscione con semplicemente cinque lettere: “Et Toc!” [“Tiè!”]. La cosa più divertente è stata al telegiornale della sera il giornalista che domandava al primo ministro che cosa volesse rispondere a questi zadisti che vi dicono “tiè!”? E, soprattutto, la sua faccia…

C’è vita alla ZAD

Dopo aver ripercorso a grandi linee la storia della lotta, io cercherò di spiegare cos’è e cosa facciamo alla ZAD. Il territorio è lungo dieci chilometri e largo due, sono quasi duemila ettari, con una sessantina di luoghi di vita, case e costruzioni di vario tipo dove abitano sia nuovi occupanti sia i contadini che sono rimasti. Siamo circa in duecento, in realtà oggi sono molti di più gli occupanti rispetto ai contadini. Quella che si vive lì è una dimensione inedita, cioè un territorio in secessione, una zona di non diritto dove gli sbirri non entrano dal 2013. Quando lo Stato o i giornalisti parlano di ZAD è proprio per denunciare lo scandalo di una zona che per loro costituisce un buco nella mappa francese, un buco nella mappa del potere, a pochi chilometri da una città di 400 mila abitanti come Nantes. Dal nostro punto di vista, al contrario, non è un buco ma un pieno. È una concentrazione di legami, densi, perché la battaglia del 2012, che è durata un mese, ha creato legami molto forti tra occupanti, contadini e gente dei comitati, legami che sono rimasti nella vita comune e quotidiana, molto diversi da quelli che si vedono “normalmente” altrove. E poi una zona di non diritto vuol dire la possibilità di accogliere persone che hanno problemi con la giustizia, così come i migranti, e permette di fare costruzioni senza chiedere permessi e autorizzazioni.
In Francia si dice spesso che il territorio è di chi l’abita, in realtà alla ZAD questo non è vero, il territorio appartiene infatti a un intero movimento e non solamente a noi occupanti. Abbiamo due principali assemblee mensili, l’assemblea di lotta e l’assemblea degli usi in cui parliamo dell’utilizzo del territorio, cioè di cosa fare di un campo o di una casa rimasta vuota, di come organizzare i cantieri comuni ecc.: a queste assemblee partecipa tutta la gente del movimento che può quindi decidere insieme a noi abitanti che cosa fare di questo territorio. Ovviamente non difendiamo solo un “uso” del territorio, ma un tipo di condivisione, Ad alcuni parlare di “comune”, nel senso della Comune di Parigi, o almeno ci proviamo…

La torre-barricata Bison Futé, 2016. Foto di Valk
La torre-barricata Bison Futé, 2016. Foto di Valk

La ZAD è una zona agricola, coltiviamo e condividiamo il cibo. Su alcuni prodotti possiamo dire di essere autosufficienti, come sulle patate, cipolle, cereali, grano saraceno e anche sul latte, abbiamo un gregge di mucche del movimento. Dal 2013 si è formato un gruppo che si chiama “Semina la tua ZAD”, composto di occupanti e di contadini vicini, che si occupa della rotazione delle colture, dei lavori comuni sui campi, di produrre la farina al mulino comune. Alla ZAD abbiamo due forni e produciamo il pane cinque volte alla settimana, oltre alle galettes bretonnes, che sono una specialità locale a base di grano saraceno, la base tradizionale dell’alimentazione tradizionale della zona.
Il pane è a prezzo libero. La cosa significativa, però, non è tanto il prezzo libero, ma l’uso del denaro che si fa ZAD. Sarebbe un’ipocrisia dire che rifiutiamo il denaro, nel senso che alla ZAD non circolano soldi, in realtà i soldi ci sono ma è il loro uso che cambia rispetto al solito: per noi il denaro non deve essere mezzo per deresponsabilizzarsi dalla vita comune, non è che pagando si è a posto rispetto al lavoro comune. Pago, se posso e voglio, ma ci vuole anche il mio aiuto per far funzionare tutto. E tutto quanto si basa sulla fiducia reciproca, non si fa un conto aritmetico dei servizi che si danno e che si ricevono, ma complessivamente si riesce a trovare un certo equilibrio (e quando non si trova, le cose non funzionano).

Anche la produzione di cibo per noi è parte della lotta. Non cerchiamo l’autarchia, ma esattamente l’inverso, cioè la circolazione, l’estendere la potenza della ZAD e non separare il vivere e il lottare. Un anno fa abbiamo creato una rete di approvvigionamento con i contadini della regione. Se c’è una manifestazione, un picchetto di sciopero o qualche iniziativa da qualche parte carichiamo il cibo in un furgone che si apre da tutte le parti, con tutto il necessario per cucinare e andiamo lì. Le galettes bretonnes degli zadisti sono ormai diventate famose. Abbiamo potuto mettere in piedi questa rete perché nel 2016 c’è stato in Francia un movimento di protesta molto forte contro la Loi travail che ci ha permesso di conoscere molte persone e soprattutto ci ha fatto incontrare i sindacati, che sono diventati una quarta componente della lotta contro l’aeroporto. Alcuni lavoratori della ditta incaricata della costruzione hanno scritto un testo bellissimo, dicendo “noi non siamo mercenari”, non andiamo a fare l’aeroporto sulle rovine delle vostre vite e hanno lanciato un appello agli altri lavoratori perché nessuno vada a costruire quell’aeroporto.

Cantiere di costruzione, 2017. Foto di Valk

Alla ZAD di attività organizzate ce ne sono molte: abbiamo una biblioteca, una radio (Radio Klaxon) che si prende anche dall’autostrada che passa lì vicino, uno studio di rap, un’officina meccanica, una forgia, un birrificio, una serigrafia, una carpenteria e molte altre cose. La carpenteria è importante perché il lavoro sulla legna è rappresentativo del modo di essere della ZAD. Un gruppo già da tempo ha incominciato a interessarsi ai boschi e ha imparato tutto il lavoro sulla legna, dalla scelta dell’albero fino al taglio e alla produzione delle assi da costruzione. È stato anche organizzato un cantiere scuola di carpenteria tradizionale, dove ottanta carpentieri hanno costruito un grande capannone, senza motoseghe, senza elettricità; l’hanno chiamato Hangar de l’avenir (Hangar del futuro), anche se nessuno poteva sapere il destino di questa costruzione, sarebbe potuta rimanere distrutta da uno sgombero in qualunque momento. Ovviamente gli alberi vengono anche ripiantati. La prima volta che sono andata alla ZAD per me è stata una sorpresa vedere questa gente molto giovane e con l’incombere di minacce quotidiane di sgombero che progettava il territorio a lungo termine, perché dovranno passare almeno due generazioni prima di poter tagliare quel rovere appena piantato. Ma è così, progettandoci il futuro, che si difende un territorio.

Oggi che abbiamo vinto dobbiamo capire come mantenere questa intensità. Ci si può preparare e immaginare la vittoria per molto tempo, ma quando arriva è differente. Sappiamo che la posta in gioco è storica. Sappiamo che possiamo essere una retrovia per altre lotte, per la città di Nantes, ma essere una retrovia, con i mezzi materiali, non è il solo obiettivo della ZAD. Oggi si sta aprendo un nuovo fronte, quello della battaglia sulle terre, perché lo Stato potrebbe vendere i terreni a diversi proprietari spezzettando e spaccando l’unità del territorio che fa la nostra forza. C’è quindi l’idea di dar vita a un’entità comune che possa avere, anche giuridicamente, la gestione delle terre, una sorta di vetrina legale per continuare a fare tutte le attività che abbiamo sempre fatto. Vedremo… di certo per riuscire a strappare questo bisogna per prima cosa mantenere i nostri rapporti di forza con lo Stato e, a oggi, le minacce di sgombero sono sempre presenti.

Zad against the machine
Zad against the machine