Intervista di Luigi a Nicoletta e Serena [da Malamente #12, ottobre 2018] [QUI IL PDF]
La natura non è un posto da visitare. È casa nostra.
Gary Snyder
Il rapporto di molti bambini con l’ambiente naturale è oggi sempre meno diretto, spesso si riduce al palcoscenico di una gita domenicale o alla visita programmata in fattoria didattica, anche perché la quotidianità della vita urbana o semi-urbana ne cattura l’attenzione, loro malgrado, in un mondo di cemento, plastica ed elettronica. Nelle scuole d’infanzia, a parte rare eccezioni in cui qualche nonno è chiamato a piantare pomodori in giardino, si diventa per lo più abili a colorare le fotocopie di un albero senza uscire dai bordi, poco importa se non si è più in grado di riconoscere le piante attorno casa o se non si è mai sentito il profumo di un bosco d’autunno. Anzi, non è infrequente che le nuove generazioni, sempre più abituate a vivere in spazi chiusi, artificiali e igienicamente ipercontrollati, provino sensazioni di disagio quando sono chiamate a uscire dalla propria bolla per entrare in contatto con la materia organica, si tratti di camminare a piedi nudi sulla terra o bere latte appena munto.
Ma ci sono anche bambini e bambine che trascorrono le proprie giornate principalmente all’aria aperta, che sia estate o inverno, tra osservazioni e scoperte, esplorando in libertà il mondo esterno e le potenzialità della propria autonomia. Spesso si sporcano, ogni tanto si sbucciano un ginocchio. Non sanno cosa siano i “lavoretti” uguali per tutti/e e la curiosità è il motore della loro crescita. Li potete incontrare a spasso tra le campagne e i boschi delle Cesane di Urbino: sono i bambini e le bambine di Maestra Natura, un progetto educativo che è da poco entrato nel suo secondo anno di attività, rivolto, per ora, alla fascia uno-sei anni.
Nella sede che domina la vallata da dove, quando l’aria è tersa, lo sguardo può correre fino al mare, i bambini non sono oggetto di un trasferimento di competenze da parte degli educatori, ma soggetti di esperienze vissute, con buona pace di quei genitori ansiosi che i figli non imparino mai abbastanza per “essere pronti” all’ingresso nella scuola primaria, che è in primo luogo imparare a restare buoni e seduti fino al suono della campanella. Inoltre, lo stile educativo di Maestra Natura (e delle molteplici esperienze di outdoor education che si stanno sviluppando anche altrove, anche nelle Marche) non tiene conto solo della sfera cognitiva, perché imparare a gestire fin da piccoli le proprie emozioni e i rapporti umani con gli altri è altrettanto importante che imparare l’inglese e le tabelline e, probabilmente, è una buona strada per iniziare a costruire un futuro di migliore convivenza.
Su Malamente abbiamo già dato spazio a esperienze educative fuori dagli schemi oggi maggioritari, questa volta abbiamo intervistato Nicoletta e Serena, fondatrici ed educatrici dell’associazione L’Albero Maestro, al cui interno si sviluppa anche il progetto Maestra Natura.
Vi chiedo intanto di presentarvi. Da che percorsi personali siete arrivate all’apertura dell’associazione L’Albero Maestro e del progetto Maestra Natura?
Se Urbino è morta, noi no Il Collettivo per l’autogestione, la città ducale e tutto il resto
Di Pimpi detto “il Sindaco”
Illustrazione di Leonardo Altieri
Urbino non sta troppo bene. L’Università, sempre più azienda, riesce a far tutt’uno dei concetti di cultura, merce e spettacolo e dopo le lauree honoris causa ad Arrigo Sacchi, Oscar Farinetti e Valentino Rossi conferisce, a dicembre 2015, il Sigillo di ateneo niente meno che ad Albano Carrisi. Felicità! In Comune è insediata una destra neanche troppo camuffata dal grottesco avanzo di cabaret del sedicente “assessore alla rivoluzione”, Vittorio Sgarbi. Le iscrizioni all’Università sono in calo e la Lega in crescita, non è un bel periodo. Da sempre Urbino si specchia nei suoi studenti, ma spesso si gira dall’altra parte; da troppo tempo li sfrutta per i piccoli guadagni di bottega o per nutrire le miserie del potere accademico. E a chi non si adatta al rassicurante modello di studente con portafogli aperto e testa china sui libri ci pensano le ordinanze comunali e una piazza militarizzata. In assenza di forti movimenti sociali a livello nazionale è molto difficile coltivare uno spirito libero e critico nell’ambiente studentesco locale. Eppure c’è chi ci riesce, incredibilmente e con grande generosità.
Manifestazione studentesca a Urbino, 21 ottobre 2013
Erano i primi di ottobre del 2012 quando sbarbato e deluso dai risultati del test d’ammissione a fisioterapia, approdai a Urbino. Un borgo bellissimo, surreale, quasi un campus universitario. In tutta quella bellezza mi saltarono subito all’occhio delle locandine appese ovunque: riportavano la scritta “waiting for…” sotto la celebre foto dell’anarcosindacalista arrestato descritta dal motto “Sarà una risata che vi seppellirà”. Una storia curiosa che conobbi meglio quando una mattina rividi il manifesto sotto un gazebo di studenti del collettivo dell’aula C1 autogestita. Al tempo era un collettivo in fase di scioglimento dopo lo sgombero dell’aula C1 e la diaspora militante, tipica dei collettivi caratterizzati da una composizione studentesca. Si trattava di una campagna contro la repressione, in risposta alle numerose denunce arrivate ai militanti del movimento studentesco urbinate.
Conobbi meglio quei ragazzi e quelle ragazze nei giorni successivi durante le varie assemblee. In quei giorni a Urbino diversi studenti e studentesse si avvicinarono alla campagna contro la repressione e si creò di conseguenza un nuovo collettivo, sulla linea politica del vecchio: il Collettivo per l’autogestione. Il nome venne scelto dopo una riflessione politica sull’esigenza prioritaria che legava tutti gli studenti e le studentesse del nuovo collettivo: quella di uno spazio sociale autogestito che da dieci mesi Urbino non aveva più, dopo lo sgombero della C1. La prima azione pubblica di protesta a cui partecipai fu l’occupazione dell’aula C2 di Magistero. Andò malissimo. Dopo cinque ore c’erano venti sbirri in Università, reparto DIGOS, questore e tutto l’apparato repressivo in funzione su di noi: decidemmo di uscire. Eravamo appena nati, insicuri e senza certezze sulla continuità e la tenuta del neonato collettivo. La risposta politica successiva però fu ottima. Decidemmo così di aprire una vera e propria campagna sugli spazi a Urbino: liberammo l’anfiteatro dello studentato Tridente con due giorni di autogestione e iniziammo a comunicare con la città – intesa come cittadini “autoctoni” e studenti – evidenziando il problema dell’assenza di spazi, tanto che perfino in paese avevano iniziato a parlarne. Nel frattempo, dal “fronte opposto”, l’Università con la compiacenza dei rappresentanti studenteschi varava un regolamento per l’utilizzo dell’aula C3 ad uso delle attività studentesche. Assurdo! Di fatto esisteva già un regolamento per le iniziative studentesche nelle aule, pieno di punti restrittivi fatti per tenere ben lontani gli studenti dalla pratica dell’autogestione delle strutture universitarie. Proprio a causa dei regolamenti gli studenti di fatto non avevano spazi per iniziative autonome nell’Università.
Occupazione degli uffici ERSU di Urbino, 5 novembre 2014
Viste le circostanze, il 15 maggio del 2013, con un buon numero di persone di diverse facoltà abbiamo occupato l’aula C3 di Magistero: la Libera Biblioteca De Carlo, in riferimento alla posizione politica e sociale del famoso “architetto partigiano” sulla gestione e l’utilizzo degli spazi. Era il primo traguardo per noi ma soprattutto il punto di partenza, lo zero. Avevamo uno spazio da riempire di politica e socialità. Il Collettivo per l’autogestione è riuscito a mantenere aperto uno spazio di contatto importante con gli abitanti di Urbino rappresentato da “(R)esistenze Anomale, festival delle resistenze d’oggi”. (R)esistenze Anomale è l’emblema del contributo in termini di partecipazione sociale e politica che gli studenti e le studentesse di Urbino possono dare contro l’ignoranza, la superficialità provinciale e il neofascismo. Il festival cerca infatti di attualizzare, attraverso iniziative e attività ludico culturali, l’importanza della resistenza partigiana, indicando ogni anno le nuove resistenze e i nuovi fascismi in una società fatta di individualismo sfrenato, profitti e repressione sociale. Nel 2013 era arrivato al quarto anno di attività, in programma come di consueto durante la settimana del 25 aprile. Quell’anno si parlava della resistenza dei popoli in lotta: un’analisi ad ampio raggio fra Palestina, Paesi Baschi, Chiapas e Val Susa, sottolineando e valorizzando alcuni particolari aspetti della resistenza partigiana. Ciliegina sulla torta del festival, senza ombra di dubbio, furono le due serate di concerti in Piazza della Repubblica, la piazza principale di Urbino. Tanta gente, tanta partecipazione, tanto movimento.
Il collettivo era ormai nato e rodato e nell’anno accademico 2012/2013 è riuscito a stare sulla politica territoriale in modo incisivo, mantenendo l’aula occupata e producendo contributi analitici e militanti anche in rapporto alle principali iniziative politiche nazionali di movimento. Negli anni successivi l’impegno fu quello di rilanciare in modo forte la Libera Biblioteca De Carlo e le attività politico culturali sul territorio provinciale, in particolar modo cercando di creare una piattaforma comune con le realtà politiche anticapitaliste di Pesaro e Fano. Partimmo in pompa magna verso due date, lo “sciopero sociale” del 18 ottobre 2013 costruito dalla “Rete lavoratori, precari, disoccupati, studenti” a Pesaro e la sollevazione generale del 19 ottobre 2013. Il primo andò benissimo: aderirono i sindacati di base, ci fu un’amplia composizione studentesca e i contenuti furono molto validi, particolarmente sentiti dalle tante persone presenti al corteo. Il 19 ottobre andò diversamente: 70 mila persone, concentramento del corteo in una gremita piazza San Giovanni a Roma, enorme la composizione popolare dei lavoratori, degli studenti e degli occupanti di case. Era un dato numerico e sociale davvero ottimo: da anni non si vedeva una piazza così! Alla fine della giornata però mancava qualcuno. Mancavano Rafael e Jei-Jei, due compagni che conoscevo ormai bene. Il primo militante del CSA Oltrefrontiera di Pesaro ma con alle spalle dieci anni di attivismo studentesco a Urbino, il secondo un giovane compagno del nostro collettivo. In serata gli avvocati di movimento ci comunicarono l’arresto. Eravamo distrutti. La carica della polizia era durata poco e aveva coinvolto lo spezzone in cui eravamo collocati… il corteo si era disperso, ma non avevamo pensato al peggio. Eravamo stati assieme fino a dieci minuti prima. E invece li avevano pescati nei viali adiacenti il Ministero dell’Economia, a random e senza tante spiegazioni come sempre.
Studenti di Urbino contro lo Sblocca Italia, Ancona, 12 dicembre 2014
Visto l’accaduto decidemmo di aprire una campagna per la liberazione di tutti i compagni arrestati in quella giornata. Restammo stupiti dalla solidarietà ricevuta in quei giorni. L’assemblea e il corteo spontaneo in centro a Urbino nei giorni successivi contarono centinaia di persone solidali con la causa e con i loro amici. La gioia più grande arrivò quattro giorni dopo con la liberazione improvvisa di tutti gli arrestati. Fu bellissimo. Così come fu speciale un altro corteo due giorni dopo: tanta gente dietro un unico striscione “sporchi, brutti e cattivi, tana libera tutti”. Il nostro slogan ironico e amareggiato era la risposta alle infamità del Resto del Carlino che attraverso lettere anonime e titoloni in prima pagina con i cognomi dei nostri compagni, aveva fatto una vera e propria campagna diffamatoria degna del titolo “pennivendoli dell’anno”.
Da quel momento in poi siamo riusciti a riprendere con più serenità i nostri percorsi quotidiani: la rete provinciale, con la questione “diritto alla casa” in testa, la Libera Biblioteca De Carlo e le attività culturali annesse, l’antifascismo militante, le lotte ambientali e tanta socialità… come sempre. Abbiamo creato relazioni con altre realtà politiche e studentesche sul territorio nazionale e abbiamo organizzato una nuova edizione di (R)esistenze Anomale, questa volta completamente dedicata all’abbattimento delle istituzioni totali: dalle carceri agli OPG. L’unica tematica su cui non eravamo riusciti a suscitare interesse e aggregazione era quella relativa all’Università stessa. Forse a causa del riflusso a livello nazionale, forse per nostri limiti e forse per una diversa composizione sociale degli studenti frequentanti dopo i tagli ai fondi per le borse di studio del DdL Gelmini. Sinceramente non saprei, ma sarebbe stata solo una questione di tempo. Infatti a settembre 2014 un’assemblea pubblica diede il via al percorso di lotta riguardante gli idonei non beneficiari. Questi ultimi sono studenti che pur essendo idonei ai criteri di assegnazione delle borse di studio, non rientrano nell’assegnazione delle stesse a causa dei tagli alle risorse per il diritto allo studio. Gli studenti e le studentesse “senza pane” hanno cercato immediatamente di organizzarsi per ottenere quello che spettava loro.
Urbino, studenti contro il Jobs Act, 14 novembre 2014. Foto di Miranda
È nata così l’Assemblea per il diritto allo studio di Urbino, che attraverso cortei “rumorosi”, presidi, invasioni degli uffici della sede dell’ERSU (Ente per il diritto allo studio della Regione Marche) e solleciti formali è riuscita a ottenere il pagamento delle borse a febbraio 2015! Fu una lotta vinta, che ci diede un’enorme soddisfazione, perché si trattava di noi e dei nostri più cari amici e compagni, del loro studio e della loro permanenza a Urbino. Una battaglia che è continuata anche nei primi mesi del nuovo anno accademico 2015/2016. Infatti una parte della quota conquistata durante le lotte non era stata ancora erogata e il problema degli idonei si era riproposto di nuovo. L’Assemblea per il diritto allo studio ha ripreso il passo grazie a chi l’ha sempre seguita e a chi puntualmente è stato colpito dalla questione materiale riguardante la vertenza in atto. Noi “vecchi” nel frattempo abbiamo sperimentato la classica diaspora militante e ci chiedevamo sfiduciati: “il collettivo come farà? il collettivo andrà avanti?”. Il collettivo alla fine c’è ancora, lotta per le borse di studio e sta andando avanti su tutti i fronti possibili. Questo è un dato eccezionale: a Urbino, piccola città e piccolo ateneo, ogni anno un gruppo di studenti e studentesse antifascisti e anticapitalisti si organizza, dà contributi alle lotte e mette in gioco la propria testa, i propri cuori e i propri corpi cercando di riequilibrare la bilancia della diseguaglianza e dello sfruttamento. È una situazione particolare, paesana ma allo stesso tempo meticcia, su cui nessuno scommetterebbe ma che ogni anno esiste e ritaglia il suo posto nello scenario purtroppo resistenziale che caratterizza le lotte in tutto il paese.
Urbino è morta, perché da quando ci viviamo è cambiata in peggio e noi non siamo riusciti a farci molto. La vita degli studenti è sempre più precaria e la socialità libera è soffocata: è vietato bere alcolici in piazza e per strada, non esistono spazi sociali liberi all’esterno dell’Università e l’anfiteatro del Tridente, uno dei pochi spazi dei collegi universitari che era ancora utilizzabile per eventi ludici ricreativi, è serrato con un portellone antincendio dalle 19 in poi. Urbino è morta e continuerà a morire se continuerà questo andazzo. Ma noi siamo vivi e continuiamo ad essere in contrasto con la direzione che Urbino sta prendendo. Siamo ancora qui a lottare per una città ricca di socialità e di dignità.
Se Urbino continua a morire, noi continuiamo a lottare
Di Libera Biblioteca De Carlo
Urbino, Libera Biblioteca De Carlo.
“Urbino è morta perché da quando ci viviamo è cambiata in peggio e noi non siamo riusciti a farci molto. La vita degli studenti è sempre più precaria e la socialità libera è soffocata. […] Urbino è morta e continuerà a morire se continuerà questo andazzo. Ma noi siamo vivi e continuiamo ad essere in contrasto con la direzione che Urbino sta prendendo. Siamo ancora qui a lottare per una città ricca di socialità e di dignità”.
Questo è ciò che scriveva Pimpi più di due anni fa, nell’edizione di gennaio [#2, ndr.] di Malamente, e ci piacerebbe dire che abbiamo fatto la rivoluzione, che la città è piena di spazi e libera dalla repressione, ma purtroppo le cose non stanno così. Urbino, ancora oggi, si porta dietro l’immagine di città-campus, una città pensata a misura di studente, piccola per conformazione, circondata da mura, quasi un museo a cielo aperto, ma anche un luogo dove divertirsi e trovare momenti di svago. L’Urbino composta dai suoi cittadini si affianca all’Urbino degli studenti, a tal punto che le due dimensioni si ibridano e si confondono, sovrapponendosi e mischiandosi in quella che è, appunto, definita come una vera e propria città-campus. Un’immagine che appare accattivante e invitante riuscendo così ad essere convincente per quella parte di studenti che devono decidere dove passare i prossimi anni della loro vita. Peccato che questa sia l’Urbino di quarant’anni fa!
Già Pimpi aveva descritto alcune problematiche della realtà urbinate: la mancanza di spazi liberi all’esterno dell’università, l’ordinanza anti-alcol e le numerose misure repressive nei confronti di chi osa dissentire. Ma se Urbino continua a morire, noi continuiamo a lottare. Anche se il ricambio generazionale e la dimensione universitaria portano questa città a essere un luogo di passaggio per studenti e studentesse, noi siamo qui oggi e continuiamo a batterci per gli stessi ideali. Il Collettivo per l’Autogestione non esiste più, o meglio, si è trasformato in quella che oggi è la Libera Biblioteca De Carlo che, a sua volta, ha adattato le sue pratiche conflittuali sulla base dei nuovi componenti che la animano. Il fulcro delle lotte in questi ultimi due anni è stata proprio la mancanza di spazi e l’opprimente controllo sociale. Non a caso in conseguenza alle politiche portate avanti dal Comune abbiamo sentito l’esigenza, nell’aprile del 2017, di aderire all’Assemblea per il diritto alla città insieme ad altri studenti e cittadini di Urbino. Alle modalità di gestione dell’ordine pubblico, repressive e limitanti, abbiamo quindi risposto creando momenti di dialogo, confronto e socialità, cercando di rendere nuovamente fruibili tutti quegli spazi che una volta potevano essere vissuti appieno dalla comunità.
Lavori di restauro all’aula occupata autogestita C3.
In tale clima siamo riusciti a organizzare una mobilitazione che ha raggiunto il suo apice l’8 maggio 2017, giornata in cui più di 400 studenti, e non, hanno popolato la piazza scontrandosi direttamente con il sindaco e la sua giunta in merito alle politiche intraprese negli ultimi anni. Il Comune infatti, in un’escalation di misure repressive volte a limitare l’accesso agli spazi pubblici e alla criminalizzazione dello studente, non ha fatto altro che accrescere il conflitto tra le diverse soggettività che animano la città. È stata proprio la piazza, luogo per antonomasia di discussione e incontro, a ritrovarsi di fronte a un emblematico svuotamento e a una perdita di significato a causa dell’eccessiva militarizzazione e chiusura dello spazio urbano. Per questo motivo, proprio da lì abbiamo deciso di rivendicare il nostro diritto a vivere la città. Impossibile negare che avevamo riposto numerose speranze nell’assemblea e nella mobilitazione dell’8 maggio. Purtroppo, a distanza di un anno, ci siamo resi conto di non essere riusciti a indirizzare verso veri e propri risultati pratici quelle potenzialità; forse per inesperienza, forse per un’analisi poco corretta o forse ancora non lo abbiamo capito!
Da questo percorso si è consolidata ancora di più la collaborazione tra i due soggetti che da tempo vivevano l’aula occupata ex C3: il Collettivo e La Sociologica, che hanno deciso di costituirsi come soggetto unico mettendo in comune le proprie pratiche e le proprie prospettive nella Libera Biblioteca De Carlo.
Essendo un collettivo universitario, abbiamo deciso per quest’anno di oc¬uparci in particolare dell’università e dei suoi mutamenti a partire dalla scelta presa dal nostro ateneo di aderire all’accordo tra CRUI e Ministero della giustizia. Tale accordo, che si palesa con una progressiva militarizzazione dell’istituzione universitaria, si configura come la base di un progetto molto più ampio. Se le sue fondamenta ci restano oscure, abbiamo potuto notarne chiare conseguenze nella costituzione del master in comunicazione strategica organizzato in collaborazione con il 28° Reggimento Pavia di Pesaro, con il conferimento del Sigillo di Ateneo al Capo della polizia e della Pubblica sicurezza Franco Gabrielli, regista della discutibile gestione delle situazioni emergenziali di Ventimiglia e de L’Aquila e con tutta un’altra serie di eventi-vetrina, volti a consolidare l’immagine di un’università propensa alla sicurezza e al decoro.
In piazza per il Diritto alla Città, 8 maggio 2017
Noi non ci siamo mai tirati indietro dal contestare il corteggiamento dell’università nei confronti dell’esercito e delle forze dell’ordine. Non l’abbiamo fatto prima e non lo faremo tanto meno ora, soprattutto dal momento in cui l’ateneo ha stretto accordi con i Carabinieri e la Guardia di finanza per la riduzione del 30% delle tasse per le forze dell’ordine e i loro familiari, dimostrando come un diritto di tutti possa divenire sempre più esclusivo. La repressione subita durante questi eventi è stata la solita degli ultimi anni: divieto di accesso alle aule in cui sono tenuti questi teatrini, la Digos che ci segue come ombre, la presenza del questore durante la contestazione ad Alfano, le telecamere puntate addosso, ma nulla al di fuori dell’”ordinaria repressione”. Come nel film L’odio, “il problema non è la caduta ma l’atterraggio” avvenuto quando durante la consegna del Sigillo di Ateneo al Generale Toschi della Guardia di finanza sono state attuate delle procedure di sicurezza anti-terrorismo, con il solo problema che il terrorista in questo caso era lo studente.
L’ironia della sorte ci riporta a venerdì 17, data carica di simbolismi all’interno del senso comune. Quella mattina ci siamo presentati all’ingresso dell’università dove stava avendo luogo il conferimento del Sigillo al Generale e il benvenuto ci è stato dato da un massiccio dispiegamento di carabinieri, poliziotti e finanzieri. A rigor di quella stessa ironia, in quanto studenti l’ingresso ci è stato negato, onorandoci esclusivamente della possibilità di poter manifestare le nostre “dimostranze fuori” (cit). Naturalmente non è mancata la volontà di oltrepassare lo sbarramento, tentativo che, seppur fallito nel suo intento, ha avuto il merito di concretizzare quella tensione che già si percepiva nell’aria. Difatti, una volta aperto lo striscione, ha avuto inizio il gioco del tiro alla fune con la Guardia di finanza che è andato a concludersi con una nostra “vittoria” portando, però, a un successivo inseguimento del nostro compagno che stringeva il premio tra le mani. La caccia al lupo si è conclusa con il rilascio di un calcio a un altro dei nostri che cercava di capire le intenzioni dell’uomo in divisa.
Il finale di alcune storie si mostra chiaro fin dall’inizio, ma in questo particolare caso la violenza che ne è scaturita è stata del tutto nuova nel contesto universitario urbinate. Il culmine dello scontro è stato raggiunto nel momento in cui un compagno è stato atterrato e sbattuto contro il muro per poi essere successivamente trascinato per i capelli all’interno dell’ateneo, spazio trasformatosi improvvisamente in una caserma. Il ragazzo ha subito il solito trattamento riservato alle “zecche”: insulti, minacce di violenza, di arresto ecc. Dopo una mezz’oretta, in cui non sono mancati atti intimida tori per coloro che si trovavano all’esterno, il compagno viene denunciato per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, e finalmente rilasciato dal “Commissariato degli Studi di Urbino”. Tutta la vicenda era stata ripresa da una compagna alla quale è stato letteralmente strappato il telefono dalle mani e poi riconsegnato dopo aver cancellato i video che testimoniavano gli eventi di quella mattinata. Il saluto, infine, ci è stato dato da un “tornate da dove siete venuti, è meglio per tutti!”.
Se il finale non è sempre prevedibile, al contrario la morale è sempre presente. Ciò che emerge dalla giornata di venerdì 17 è la chiara volontà di reprimere il dissenso al fine di facilitare la costruzione di una facciata pulita, ordinata e sicura, voluta dall’ateneo. Questo aspetto si è palesato in diverse circostanze, come il giorno dell’inaugurazione dell’anno accademico in cui ancora una volta ci è stato negato l’accesso all’interno del polo didattico Volponi, o quando siamo stati minacciati di denuncia per aver organizzato un pranzo sociale nella nostra aula occupata autogestita. A distanza di poco più di un mese dal fatidico venerdì 17, abbiamo ricevuto la visita di un responsabile delle sedi universitarie che, attraverso un ulteriore uso scontato delle intimidazioni più volte sentite, ci ha costretti ad annullare la “Fejolada Popular”. Ora, il problema non risiede assolutamente nei fagioli, questo è abbastanza chiaro, ma in un episodio repressivo avvenuto questa volta non fuori, ma proprio all’interno dell’ateneo. Visto l’accaduto abbiamo deciso di rispondere chiamando un’assemblea pubblica con l’obiettivo di discutere in merito a queste pratiche ormai sempre più frequenti che ogni giorno si presentano in modo esponenziale sulla nostra pelle. Il nostro slogan “Non ci avrete mai come volete voi. Viva i fagioli!”, tragicamente ironico, ha rappresentato poi la nostra presa di posizione nei confronti della papabile denuncia all’autorità di pubblica sicurezza se avessimo organizzato l’evento.
Aula C3, Libera Biblioteca De Carlo, “Fejolada Popular”.
Da cinque anni la Libera Biblioteca De Carlo è un esperimento di autogestione, un luogo dove poter sviluppare un pensiero critico, uno spazio di aggregazione e autorganizzazione dove si incontrano diverse esperienze. Sono numerose le persone che hanno attraversato e attraversano tuttora l’aula e non poche sono le attività organizzate: dalle presentazioni di libri, ai cineforum, alle assemblee e pranzi sociali. Uno spazio che possiede una propria unicità in una realtà piccola come quella di Urbino; uno dei molti spazi progettati dall’architetto Giancarlo De Carlo dove risiede l’idea dell’università orizzontale e partecipata, dell’incontro e del confronto, della diffusione e condivisione. In molti si sono dati da fare per rendere più accogliente questo unico spazio libero a disposizione degli studenti. La partecipazione e le idee si sono mostrate sempre più numerose nel lavoro pratico svolto quotidianamente: siamo riusciti a sbarazzarci di una moquette ormai rovinata sostituendola con un parquet, abbiamo creato una biblioteca autogestita, riordinando, catalogando e mettendo a disposizione più di duemila libri. Come realtà autorganizzata che porta avanti una politica dal basso, abbiamo potuto realizzare tutto questo attraverso la vecchia e buona pratica dell’autofinanziamento. Naturalmente, non sono mancate visite indesiderate che, con occhio attento, controllavano che il lavoro non andasse oltre la sostituzione del pavimento visto che, da parte nostra, c’era anche l’intenzione di ridipingere le pareti dell’aula per completare il lavoro di restauro. Fino a quando la manovalanza autogestita va a sostituire un obbligo di manutenzione dell’ente, va tutto bene, ma se poi si tratta di creare qualcosa come un murales, espressione libera di una socialità organizzata, l’unica risposta dallo stesso ente è una minaccia di denuncia (perché il pavimento glielo abbiamo fatto noi, ma poi il muro se lo devono pulire loro!).
Se Urbino era morta, oggi ne troviamo le macerie che continuiamo a raccogliere una a una, mettendo in gioco le nostre stesse teste, cercando di riequilibrare una socialità sempre meno libera che tocca da vicino tutte e tutti noi studenti. E come diceva l’ormai non più sbarbato Pimpi, continueremo ad essere in contrasto con la direzione che Urbino da anni ha intrapreso, trovandoci la maggior parte delle volte dalla “parte sbagliata” della barricata, che in fin dei conti non è nemmeno così male!
Trafficanti di armi nel Montefeltro: la Benelli di Urbino
Di Luigi
Il businness delle armi non è mai stato pulito. Da secoli si intreccia con la promozione di politiche repressive e reazionarie, con la cinica riproduzione e alimentazione di conflitti armati per aprire nuovi mercati e con intense amicizie nelle stanze del potere. Il crudele omicidio di Stato di Giulio Regeni al Cairo nell’anniversario della rivoluzione (sconfitta) del 25 gennaio 2011 ha rotto il velo dell’ipocrisia mostrando quanto il governo italiano sostenga in modo strutturale il regime militare egiziano. L’agitazione sguaiata dei nostri politici nel rassicurare l’opinione pubblica sulla volontà di verità delle istituzioni copre la cattiva coscienza di chi sostiene l’armamento e l’addestramento dei mastini egiziani. Il 20 dicembre 2014, il ministro Roberta Pinotti ha firmato un accordo di cooperazione militare con il ministro della Difesa egiziano, generale Sedki Sobhi, mentre le aziende italiane vendono armi che sostengono la repressione interna. Questa volta le contraddizioni cadono molto vicino a noi. L’OPAL di Brescia (Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa) a inizio febbraio 2016 ha reso pubblico che la Benelli Armi di Urbino (gruppo Beretta) tra maggio e giugno 2015 ha spedito 1.266 fucili nell’Egitto del regime militare di Al-Sisi. L’azienda di Urbino è produttrice del fucile antisommossa M4 S90, utilizzato dalle forze speciali e di sicurezza di numerosi paesi. Il cerchio si chiude facendoci sentire che il dolore per le vittime è legato a una catena di cause e di responsabilità che arriva fino a molto vicino a noi. Detto questo, la nostra opposizione all’industria delle armi non sposa le posizioni del pacifismo, essa è semplicemente parte del tentativo di restare umani, di sabotare la normalità della repressione brutale che colpisce i nostri fratelli e sorelle egiziane. La crudele tragedia di Giulio ci ha colpiti quando la stesura di questo articolo era già quasi completata, confermandoci purtroppo che stavamo guardando nella direzione giusta.
Benelli Armi – Urbino
Personalmente ho un paio di ricordi legati alla Benelli Armi di Urbino. Il primo è un po’ sfuocato, risale ai tempi delle scuole elementari: un giorno la nostra classe sale sullo scuolabus giallo e viene portata in “gita d’istruzione” a guardare la catena di montaggio dei fucili e una specie di poligono all’aperto dove venivano testati. Pare che oggi, con quel minimo di pudore che consiglia di evitare l’accostamento bambini-armi, queste esperienze formative non vengano più ripetute. Il secondo ricordo è più nitido, siamo verso gli inizi degli anni Duemila e all’osteria “La stazione”, un simpatico bar ricavato nell’ex stazione ferroviaria di Urbino, confinante con la fabbrica, suonano i Father Honey, gruppo cover dei Rage against the machine. Il concerto viene però disturbato dall’arrivo di alcune pattuglie di carabinieri, richiamate dal custode visto che qualche scalmanato sull’onda di Fuck you, I won’t do what you tell me, aveva preso a bersagliare i capannoni della Benelli con bottiglie e sassi dei binari.
L’illusione di una scuola montessoriana a Urbino
Di Luigi
Scuola dell’infanzia Villa del popolo, Urbino
La scuola a cui siamo abituati e che probabilmente tutti noi abbiamo frequentato non è esattamente il luogo adatto a svegliare le menti ma, piuttosto, un contesto in cui addestrarle riempiendole di idee e nozioni precostituite. Una scuola che privilegia l’obbedienza alla libertà, funzionale a quello che i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze, si troveranno di fronte quando andranno ad occupare il proprio ruolo in questa società.
Ma c’è anche un’altra idea di educazione, la cui storia viene da lontano e che negli ultimi anni sta riscuotendo un crescente interesse teorico, tradotto in sempre più diffuse sperimentazioni pratiche. L’idea di fondo vede nell’educare il portare alla luce, il facilitare lo sviluppo integrale di tutte le potenzialità dell’individuo: educare ad essere, dunque, in contrapposizione al plasmare per dover essere. In questo senso, c’è stata una vera e propria riscoperta del metodo pedagogico sviluppato da Maria Montessori agli inizi del Novecento, diffuso e apprezzato in migliaia di scuole di tutto il mondo tranne che, guarda caso (fascismo, chiesa e subcultura comunista c’entrano qualcosa…), nel nostro paese.