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La rovina del litorale adriatico, ovvero Del turismo balneare (#5)

La rovina del litorale adriatico, ovvero Del turismo balneare

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Di Luigi

Sul litorale marchigiano, così come altrove, lo sviluppo del turismo balneare di massa ha profondamente compromesso nel giro di qualche decennio il sottile equilibrio che da sempre regolava la linea di confine tra terra e acqua. Con questo articolo cerchiamo di capire alcuni aspetti dell’avanzata del cemento e della gestione economica privata che hanno fatto delle spiagge dei luoghi sempre più invivibili. Ma speriamo che non tutto sia perduto e che ci sia spazio per la difesa delle ultime spiagge ancora libere e “selvagge”, come Mezzavalle sulla riviera del Conero e, nonostante il recente incendio, Fiorenzuola di Focara sotto il Monte San Bartolo.

Senigallia. L'invasione degli ombrelloni
Senigallia. L’invasione degli ombrelloni

Pressione antropica e fragilità delle coste marchigiane

Alcuni dati tratti dal dossier di Legambiente Spiagge indifese del maggio 2015 tornano utili per incrinare un po’ la beata immagine delle Marche baciate dal mare, con le sue trovate di marketing turistico come la “spiaggia di velluto” di Senigallia o la “riviera delle palme” di San Benedetto del Tronto. In Italia su 7.465 km di costa le spiagge ne occupano circa la metà, cioè 3.950 km; 1.661 di questi, vale a dire il 42%, sono colpiti da fenomeni di erosione. Nelle Marche la situazione è ancora più critica e la percentuale di spiagge in erosione supera il 54% (78 su 144 km, a cui si aggiungono altri 28 km di coste alte e aree portuali)[1].

Sarà anche vero che onde, maree, burrasche stagionali e cicli ambientali di lungo periodo rendono perennemente instabile e provvisorio il limite tra terra emersa e mare, ma oggi, tralasciando l’innalzamento delle acque causato dal cambiamento climatico globale, appare evidente che qualcosa sulle nostre spiagge ha rotto l’equilibrio tra il materiale “in entrata” ridistribuito dalle correnti litoranee, costituito principalmente dagli apporti solidi dei fiumi e dal disfacimento delle coste rocciose, e quello “in uscita”, riportato al largo per effetto del moto ondoso. Le cause del fenomeno sono molteplici, tutte collegate all’impatto dannoso dell’uomo moderno che con il suo insostenibile modello di sviluppo accelera il naturale processo di erosione e, allo stesso tempo, ostacola l’altrettanto naturale processo di reintegrazione.

In primo luogo, i fiumi non sono più quelli di una volta: a causa della cementificazione lungo i corsi d’acqua e del prelievo massiccio di sedimenti dai letti, il loro contributo materiale al rinnovamento delle spiagge è oggi sempre più effimero. Un ulteriore fattore negativo sono gli stessi interventi posti a difesa dell’erosione, che spesso non fanno che spostare di qualche miglio il problema, aggravandolo, ma è soprattutto evidente l’irrefrenabile antropizzazione delle coste: una colata di cemento e asfalto che ha già trasformato in maniera difficilmente reversibile oltre la metà dei paesaggi costieri marchigiani. Legambiente ha calcolato che almeno il 58% dei circa 180 km di costa marchigiana sia stato stravolto ad uso urbano e infrastrutturale. Di libero rimangono solo 26 km nelle aree protette e montuose a picco dei monti Conero e San Bartolo, oltre a qualche altra manciata di chilometri di terreni ancora agricoli e naturali che non si sa per quanto potranno resistere di fronte alla continua saldatura tra i centri abitati[2].

Nel corso di poche generazioni le città affacciate sul mare hanno infatti esteso la loro urbanizzazione parallelamente alla linea di costa; i porti sono aumentati per numero e dimensioni; le abitazioni private, i complessi alberghieri e la rete stradale hanno coperto intere aree costiere spazzando via i sistemi dunali di retrospiaggia. Le dune non sono solo caratteristiche del deserto ma fino a non troppo tempo fa erano il paesaggio tipico nelle retrovie delle nostre coste, costituendo un ecosistema unico nonché un fondamentale serbatoio di sabbia utile per fronteggiare le naturali fasi erosive. Oggi sono praticamente scomparse ovunque, tranne in qualche raro caso in cui si è costretti a salvaguardarle come “oasi protette”: si stima che nel corso dell’ultimo secolo l’Italia abbia perso l’80% delle proprie dune.

La massiccia occupazione delle spiagge marchigiane è cominciata nel secondo dopoguerra con l’esodo della popolazione che viveva nell’entroterra ed è legata alla nascita delle aree industriali e allo sviluppo delle attività turistiche. In particolare, buona parte delle colpe del degrado degli ecosistemi costieri e marini ricadono sul turismo di massa che, se è stato determinate per lo sviluppo economico del litorale adriatico, ha d’altra parte scardinato il delicato equilibrio che regola quella sottile linea di confine tra terra e acqua. Le esigenze economiche legate al turismo balneare, nato e sviluppatosi con la società industriale, hanno infatti determinato una lunga serie di conseguenze negative, soprattutto per quanto riguarda l’inquinamento ambientale e il consumo di suolo. Spostandosi lungo il litorale marchigiano da Gabicce a Porto d’Ascoli il paesaggio costiero ha lasciato il posto a una sequenza quasi ininterrotta di strutture ricettive, alberghi, centri residenziali, seconde case, ristoranti e stabilimenti balneari, tra l’altro vuoti per gran parte dell’anno. Dov’erano le elastiche dune ora c’è un mondo irrigidito di cemento e asfalto. Il turismo richiede inoltre la costruzione di porti per piccole imbarcazioni, moli e banchine che vanno a trasfigurare artificialmente la morfologia del litorale, con ripercussioni riscontrabili anche per lunghi tratti adiacenti all’area portuale.

I picchi di presenze che si raggiungono durante la stagione estiva aggravano notevolmente gli effetti negativi di questa pressione umana sull’ambiente costiero. Nella sola Senigallia, tanto per fare un esempio, nel 2014 si è passati dall’arrivo di 2.500 turisti a gennaio ai 38.000 di luglio e 49.000 di agosto. Alcuni, chissà, forse attirati su queste spiagge anche dal noto spot della Regione Marche con protagoniste le fatine Winx che volteggiano su coste e borghi: “bambini incollati agli schermi che poi chiedono ai genitori di andare in vacanza nelle Marche, terra delle Winx” [3], gongola il loro ideatore. D’altra parte la nostra regione, in controtendenza rispetto alle statistiche nazionali, presenta dati in crescita per quanto riguarda arrivi (numero di clienti ospitati nelle strutture ricettive) e presenze turistiche (numero di notti trascorse), oltre 2 milioni i primi e 12 milioni le seconde, nel 2015, su un totale di circa 200.000 posti letto disponibili. Chi arriva lo fa principalmente per andare al mare (il 70% delle destinazioni di soggiorno), distaccando nettamente le richieste di città d’arte (16%) e montagna (9%)[4].

Ma quanto possono reggere le località balneari? Per rispondere a questa domanda l’Organizzazione mondiale del turismo ha escogitato il concetto di “capacità di carico”, cioè il numero massimo di persone che possono contemporaneamente visitare una determinata località “senza compromettere le sue caratteristiche ambientali, fisiche, economiche e socioculturali e senza ridurre la soddisfazione dei turisti”. È legittimo sospettare che in una società abituata a piangere dopo ogni disastro “naturale” ma anche a godere del tintinnio delle monete, l’asticella della “capacità di carico” si sposti a seconda della convenienza economica, un po’ come succede per i valori limite delle polveri sottili o dell’inquinamento elettromagnetico.

Formicaio a Tortoreto Lido
Formicaio a Tortoreto Lido

Per quanto riguarda la specifica questione dell’erosione costiera, tecnici e amministratori tentano come loro solito di correre ai ripari senza preoccuparsi delle cause del problema. Durante l’inverno non mancano i ripascimenti artificiali cioè, letteralmente, si tratta di “nutrire di nuovo” la spiaggia con apporti di sabbia dall’esterno. Un’operazione molto delicata dal momento che c’è sabbia e sabbia: quella riportata dovrebbe avere caratteristiche granulometriche e sedimentologiche identiche all’originaria. Il ripascimento può avvenire anche con materiale prelevato dai fondali marini al largo e in profondità. Sono, quest’ultime, sabbie antiche dette “sabbie relitte”, il cui dragaggio comporta drastiche modificazioni per le comunità di organismi che popolano i fondali, con tutta una serie di conseguenze a catena dannose per l’ecosistema adriatico. Non parliamo di qualche palettata di sabbia: nel 2006 al largo di Civitanova Marche ne sono stati prelevati oltre 1.100.00 metri cubi, andati a rinfoltire le spiagge del centro-sud marchigiano e dell’alto Abruzzo[5]. Un’altra soluzione di ripiego sono le scogliere, più o meno aderenti alla riva. Come sostiene l’ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) e non un pericoloso sovversivo: “qualunque opera realizzata a mare costituisce un ostacolo al libero propagarsi delle correnti e delle onde e pertanto interagisce con esse, dando luogo a effetti di vario genere che possono risentirsi anche a grandi distanze”[6]. In altri termini: la scogliera può forse proteggere un determinato tratto di riva dall’erosione, ma allo stesso tempo innesca un fenomeno erosivo sui tratti adiacenti. Nelle Marche almeno i tre quarti del litorale a costa bassa è inadeguatamente protetto da opere rigide di difesa.

Sarà forse il caso di rendersi conto che la soluzione più efficace per salvaguardare determinate aree è quella di non costruirci sopra, piuttosto che creare a tutti i costi l’attrattiva turistica per poi passare il resto dei giorni a combattere contro la naturale instabilità della linea di costa, spesso mettendo in opera nuovi interventi invasivi che se tamponano momentaneamente il problema, sul lungo periodo non fanno che aggravare la situazione. Insomma, è la solita storia: prima si costruisce là dove non si dovrebbe, cioè a due passi dalla battigia, poi si incolpano le mareggiate quando le onde arrivano sotto le finestre. Vale la pena di chiedersi come si sia arrivati a questo punto anche se, purtroppo, ormai il danno è fatto.

Turismo balneare di ieri e di oggi

Tutto ha inizio nell’Inghilterra aristocratica del Settecento, quando una vera e propria “invenzione” rovescia l’atavica repulsione verso le acque di mare. Da sempre, infatti, chi navigava per lavoro come marinai e pescatori non mostrava alcun interesse a immergersi in mare, che anzi rappresentava il luogo della fatica, dell’imprevisto e del pericolo, mentre per chi viveva in città costiere il bagnarsi era tutt’al più un gioco da bambini.

A un certo punto, però, la scienza moderna prende ad esaltare l’efficacia terapeutica e vitalizzante dell’acqua di mare, consigliandola all’aristocrazia inglese come cura per alleviare le angosce e ritrovare sonno e appetito, così come si faceva abitualmente nei centri termali. Il concetto di “bagno” era cosa ben diversa da quello che conosciamo oggi. Si praticava in inverno nelle fredde acque del nord e consisteva in rapide immersioni alla ricerca dello shock termico: una mossa che taglia il respiro ma attenua la tensione nervosa, gli strizzacervelli dell’epoca ne sono certi. Niente pinne, fucile e occhiali, ma bathing machine, ovvero una cabina su ruote trainata da cavalli o facchini fin dentro l’acqua, con una scaletta per immergersi, in alcuni casi dotata di una botola interna per poterlo fare al riparo da sguardi indiscreti. Cura, piacere e vita di società incominciano a fondersi nelle località balneari che vanno nascendo sulle coste britanniche e dell’Europa settentrionale, dove lo stabilimento balneare, insieme a teatro, casinò e café-chantant, crea il contesto in cui i cittadini benestanti possono riprendersi dalle proprie malinconie.

Bathing machines in Sussex, XIX secolo
Bathing machines in Sussex, XIX secolo

Quanto detto si riferisce alle salubri acque britanniche, mentre le coste mediterranee con il loro clima caldo, soffocante e marcescente, venivano considerate portatrici delle peggiori malattie. Le coste adriatiche erano giudicate meno peggio delle tirreniche, visto che il sole levante spazzava via al mattino i miasmi notturni e la lontananza dalle montagne dell’entroterra permetteva un più agevole ricircolo dell’aria. Solo nel corso dell’Ottocento questi litorali che suscitavano la ripugnanza dei lord d’oltremanica diventano anch’essi mete turistiche, a partire dalla Costa Azzurra, subito seguita dalla riviera ligure. Il turismo di alto bordo è ancora soprattutto invernale; in estate si immergevano nelle calde acque italiane solo i giovani contadini locali, senza ricercare alcun effetto curativo ma solo per trovare sollievo dal caldo, oltre che per divertimento.

Lentamente, l’usanza dei bagni da privilegio di una ristretta élite si diffonde tra le classi borghesi, mentre si fa strada l’idea che immergersi in mare serva non solo ai malati ma anche ai sani. Uno dei primi documenti che attestano questa pratica nelle acque italiane è riferito proprio a Pesaro: nel 1814 il delegato apostolico, per evitare offese alla morale, prescrive che “niuno, sia uomo o donna, possa nuotare ignudo in vicinanza dell’abitato, del passeggio e della spiaggia”[7]. Ma gli stabilimenti balneari che vedono la luce nella prima metà dell’Ottocento – tra i primissimi in Italia vi è lo Stabilimento di bagni dorici di Ancona del 1835 attaccato al molo del Lazzaretto – rappresentano ancora degli universi separati. Sono infatti i luoghi di un altrove dove la buona borghesia abbandona le preoccupazioni degli affari e della vita domestica e, anche fisicamente, si presentano distaccati dal mondo ordinario. Lo stabilimento è una costruzione galleggiante, realizzata su piattaforme, con lunghi pontili che dalla terraferma arrivano ai camerini. La spiaggia con la sua fastidiosa sabbia è una terra di nessuno sulla quale il bagnante non si ferma, tutt’al più lascia parcheggiata la carrozza. La popolazione locale agli occhi di quei goffi cittadini appare composta di strani indigeni dai tratti esotici, pescatori dalla pelle bruciata e abitanti del vicino borgo che parlano una lingua incomprensibile. Con loro ancora non ci si mischia, anche se ben presto la gente della costa inizierà a muovere i primi passi nel percorso che la trasformerà in popolazione di servizio (affittacamere, ristoratori, bagnini etc.) della nuova imprenditoria turistica.

Fano, Stabilimento balneare, 1905 circa
Fano, Stabilimento balneare, 1905 circa

La Romagna, è risaputo, per quanto riguarda turismo e vita balneare è un modello trainante e lo è stata fin dal 1843, quando lo stabilimento Tintori-Baldini di Rimini segna una piccola rivoluzione per l’epoca: non più un isolotto a sé stante, bensì collegato alla lunga spiaggia retrostante. L’evoluzione contagia nel giro di pochi anni il resto del litorale adriatico. Ovunque, da allora in poi, le costruzioni turistiche scendono dalle palafitte e si piantano nella sabbia. Nel luglio 1853 vengono inaugurati gli stabilimenti di Pesaro, Fano e Senigallia, mete della borghesia locale e forestiera che viene così adescata in apertura di stagione: “uno Stabilimento di Bagni marittimi era la sola comodità che mancasse a rendere compiutamente grato, piacevole ed utile il soggiorno dei forestieri in Sinigaglia. Clima dolcissimo, ridente amenità di situazione, spiaggia marina sottilissima e pura, ed abbondevole numero di case allestite al bisogno dei forestieri, sono naturali pregi che offre il paese”[8]. Siamo ancora solo agli albori del circo turistico e l’effetto di questa réclame dev’essere evidentemente ancora limitato se dopo alcuni anni di gestione privata gli stabilimenti si ritrovano sull’orlo del fallimento e in tutte le località citate sono costretti a passare in gestione municipale. A San Benedetto del Tronto il progetto di un vero stabilimento su modello riminese è del 1877, ad Ancona sempre negli anni Settanta gli ormai sorpassati Bagni dorici vengono soppiantati dai più moderni Bagni Morotti. E così via anche nelle località minori delle coste marchigiana e romagnola, tra le quali Riccione, attuale meta di discotecari, nata come località estiva per scrofolosi che la signorile Rimini teneva lontani come la peste.

A questo punto la costa non è più vissuta come luogo dell’alterità ma diventa il palcoscenico su cui un’intera comunità si ritrova per celebrare se stessa. La borghesia della società produttiva industriale e, più tardi e lentamente, anche gli strati popolari dopo l’introduzione delle ferie godute collettivamente, si danno appuntamento nelle località marine più in voga, quelle esuberanti della costa romagnola, quelle più rudi abruzzesi oppure nelle oasi tranquille e discrete della “costa gentile” marchigiana. Il decollo turistico procede inesorabile, sospinto dallo sviluppo della ferrovia che inaugura il tratto Bologna-Ancona nel 1861 e quello Ancona-Pescara due anni dopo. Nel frattempo nascono nuovi sobborghi fatti di graziosi villini con vista mare. Nel 1909 una delle prime moderne guide turistiche annota sulla costa marchigiana la presenza delle seguenti località balneari dotate di strutture ricettive per il turismo: Pesaro, Fano, Senigallia, Falconara Marittima, Portorecanati, Cupramarittima, Grottammare e San Benedetto del Tronto[9].

Sulle coste adriatiche la vera svolta si realizza però solo negli anni Venti e Trenta del Novecento, quando il bagno perde anche le ultime vestigia di pratica terapeutica e rimane senza imbarazzi un momento di svago, mentre sulla spiaggia, che va diventando il vero centro pulsante delle attività balneari, si afferma il mito dell’abbronzatura. Ora, dopo la scoperta dell’acqua e dell’aria di mare è la volta del sole e della spiaggia. Nel mare non ci si immerge ma si nuota, non si passeggia sulla riva vestiti di tutto punto ma ci si abbronza. La nuova vitalità delle spiagge va infatti di pari passo con l’inedito piacere di esporre i corpi al sole cocente. È una vera e propria rivoluzione culturale quella che investe l’abbronzatura. Da sempre la pelle candida era infatti un connotato del nord del mondo e della classe dominante, mentre il colore scuro era simbolo di inferiorità sociale, tipico dei contadini insieme alle scarpe grosse e alle chiazze di fango sui vestiti. Ma dopo la prima guerra mondiale e nei decenni seguenti le cose cambiano: l’abbigliamento e la fisicità delle donne assumono connotati diversi, all’ozio aristocratico sotto l’ombra subentra il culto del fare, mentre i volti abbronzati della gente di campagna trasferitasi in città scoloriscono negli ambienti ostili delle fabbriche. Quindi basta con ombrellini, veli, guanti e soprabiti. Il colorito della pelle viene ricercato come nuovo simbolo di benessere da sfoggiare e come tratto distintivo rispetto a quei poveracci chiusi alla luce dei neon, privi di sole e di aria, di tempo e di denaro. Sulla spiaggia si può ora sostare senza timore di perdere il proprio pallore. Nel 1936 sui giornali italiani compare la prima pubblicità dell’“Ambra solare”. Da lì alle lampade al quarzo il passo sarà breve.

Pesaro, Stabilimento balneare, 1910
Pesaro, Stabilimento balneare, 1910

Stessa spiaggia stesso mare

Gli ultimi decenni sono quelli dell’esplosione del turismo di massa, delle giornate da bollino nero sulle autostrade, delle partenze intelligenti e delle città deserte in agosto; solo in tempi recenti il quadro sta subendo qualche incrinatura e cedendo il passo a una domanda turistica più diversificata e segmentata. Il concetto di “villeggiatura” che rimanda al piacevole riposo viene soppiantato dalla moderna “vacanza”: durante le ferie si è vacanti dal luogo di lavoro, di cui si è interiorizzata la logica totalizzante, e bisogna fare tutto ciò che si è lungamente atteso nel resto dell’anno.

La costa marchigiana è una delle mete privilegiate degli esodi estivi, adatta a famiglie che cercano tranquillità, a giovani che cercano divertimento e a tedeschi che cercano, anche qui, le proprie weiss. L’edilizia, di conseguenza, procede a testa bassa e occupa tutto lo spazio disponibile. Nascono come funghi pensioni, alberghi, campeggi, affittacamere, ristoranti, discoteche e parchi acquatici. Al ritmo di film demenziali, da Sapore di mare ad Abbronzatissimi girati tra gli anni Sessanta e Ottanta, con attori del calibro di Jerry libidine Calà, le concessioni balneari si moltiplicano (oggi sono circa 1.300 nelle Marche). Mentre le aree ad accesso libero rischiano di diventare un antico ricordo, le spiagge sono occupate da file di ombrelloni a schiera in perfetto ordine, tre metri tra l’uno e l’altro, quattro metri da fila a fila, allineati per uomini e donne che sanno stare al proprio posto, come i banchi a scuola, come i tombini al cimitero.

Lido del Carabiniere, San Benedetto del Tronto
Lido del Carabiniere, San Benedetto del Tronto

Le spiagge del turista devono essere luoghi idilliaci, la cui immagine ricalca quel manto omogeneo color oro delle cartoline illustrate, in cui non c’è spazio per la natura selvaggia che, anzi, va rifuggita e le sue tracce come alghe, legni e altri detriti del mare vanno prontamente eliminate. Così come vanno celate alla vista le condizioni di vita e di lavoro di chi sul litorale non viene per godere del rumore del mare ma, ad esempio, per tirare su due soldi in quel girone infernale che sono le cucine di alberghi e ristoranti estivi. Allo stesso modo devono scomparire dalla scena le tradizionali attività di vita dell’insediamento locale che, al limite, possono essere riadattate in forma spettacolare. Ricordo ancora, solo qualche decennio fa a San Benedetto del Tronto, la barca da pesca tirata a riva di fronte agli ombrelloni, lo scarico delle reti e la loro pulizia e quel tipico odore nauseabondo che oggi sarebbe inammissibile nel bel mezzo di una spiaggia turistica, mentre non stupirebbe se quella barca venisse recuperata ed esposta come complemento d’arredo urbano.

Detto questo, si capisce come la spiaggia delle vacanze estive sia ovunque uguale a se stessa, un perfetto nonluogo indifferente a tutto quanto lo circonda. Tra Fano e San Benedetto cambia tutt’al più il modo di cucinare il brodetto di pesce, a Pesaro il sole sorge sul mare e a Livorno vi tramonta, ma il concetto sociale di “vita da spiaggia” è lo stesso. Lo spazio compreso tra il lungomare e gli scogli non è che una grande vetrina dove affermare il proprio esserci, in mezzo a una folla che conferma di aver scelto il luogo giusto. L’attuale turismo balneare si configura come un rito da rinnovare annualmente per rinsaldare il proprio senso di appartenenza a una collettività, che non è connotata dal far parte della stessa comunità di vita, figuriamoci dalla condizione di classe, ma dal fatto di calpestare contemporaneamente lo stesso fazzoletto di sabbia, ascoltare lo stesso tormentone estivo, mangiare fette della stessa anguria e scansare lo stesso vu cumprà.

Lavorare lavorare lavorare preferisco il rumore del mare. San Benedetto del Tronto, lungomare
Lavorare lavorare lavorare preferisco il rumore del mare. San Benedetto del Tronto, lungomare

Le distinzioni sociali in spiaggia sono abolite. Lo spazio e il tempo, com’era per i nobili del Settecento, tornano a posizionarsi in una dimensione separata rispetto alla vita di tutti i giorni. Ricchi e poveri, professori e operai, renziani e antirenziani, tutti in mutande a ripararsi sotto l’ombrellone dopo un tuffo e una pisciata in mare. I bagnanti sono semplicemente parte di una rappresentazione che talvolta assume i tratti grotteschi del carnevale estivo. Un mondo capovolto: il manager che non si nega il viaggio alle Maldive e il safari in Kenya porta però la famigliola anche al mare vicino casa, per raggiungerla la domenica quando colleziona figure da imbranato nel tentativo di accostare la sua boccia al pallino, al fianco di impiegati fantozziani nella vita ma ben più allenati sul campo in terra battuta. Il campionario antropologico dei “tipi da spiaggia” è ben vasto, ognuno con la sua parte sulla scena, indifferenti a quell’odiosa sabbia che si attacca al corpo umido, entra nel costume e ritrovi fin sotto il lenzuolo. Ci sono le famiglie più o meno caciarone, gli sportivi lucidati nel campo da beach volley, gli adolescenti col chiodo fisso al flirt estivo, le reginette del bagnasciuga, gli scoglionati bianco latte, le lucertole da lettino, i bambini ipereccitati che sfogano le repressioni di un anno sui banchi scolastici e i pensionati con la monomania del gioco a carte.

I problemi ecologici, ambientali e sociali che questo popolo di vacanzieri scatena passano per tutti e tutte in secondo piano. Roba da geologi e da guastafeste. E intanto, nonostante la trovata pubblicitaria delle Bandiere Blu, talmente falsa che in pochi continuano a tenerne conto, il monitoraggio effettuato dalla Goletta Verde di Legambiente nell’estate 2015 nelle acque marchigiane ha riscontrato su dodici campioni esaminati ben dieci punti critici per inquinamento e carica batterica. Ma chi se ne importa? Ci si tuffava felici perfino dentro le mucillagini melmose degli anni Ottanta. L’importante è esserci!

Bibliografia

  • Giorgio Triani, Pelle di luna, pelle di sole. Nascita e storia della civiltà balneare, 1700-1946, Venezia, Marsilio, 1988.
  • Alain Corbin, L’invenzione del mare. L’Occidente e il fascino della spiaggia, 1750-1840, Venezia, Marsilio, 1990.
  • Ferruccio Farina, La costa gentile. Appunti per una storia del turismo balneare sulla costa marchigiana, «Storia e problemi contemporanei», n. 23, 1991, p. 215-230.
  • Paolo Sorcinelli, Che pazzia affidarsi al mare! Per una storia del turismo balneare sull’Adriatico, «Il Risorgimento», v. 45, n. 2, 1993, p. 235-241.
  • Le sirene dell’Adriatico: 1850-1950. Riti e miti balneari nei manifesti pubblicitari, a cura di Ferruccio Farina, Milano, Motta, 1995.
  • Bartolomeo Corsini, L’impresa balneare. Storia, evoluzione e futuro del turismo di mare, Milano, Hoepli, 2004.
  • Regione Marche, Dipartimento territorio e ambiente, Piano di gestione integrata delle aree costiere, «Bollettino ufficiale della Regione Marche», n. 21 del 25.02.2005. <http://www.autoritabacino.marche.it/costa/piano>.
  • Maria Grazia Pagnani, L’invenzione del mare. Il turismo balneare a Civitanova Marche tra Otto e Novecento, «Proposte e ricerche», n. 57, 2006, p. 186-210.
  • «Studi costieri», n. 10, 2006: Lo stato dei litorali italiani, p. 77-82: Le spiagge delle Marche.
  • Asterio Savelli, Sociologia del turismo balneare, Milano, Franco Angeli, 2009.
  • Legambiente, Il consumo delle aree costiere italiane. La costa marchigiana, da Gabicce a San Benedetto del Tronto: l’aggressione del cemento e i cambiamenti del paesaggio, dossier, luglio 2011.
  • Legambiente, Spiagge indifese. Storie di erosione lungo la costa italiana, dossier, 22 maggio 2015.
  • Legambiente, Salviamo le coste italiane, dossier, agosto 2015.
  • Regione Marche e Istituto di Idraulica dell’Università di Ancona, Studi, indagini e modelli matematici finalizzati alla redazione del Piano di difesa della costa, <http://www.autoritabacino.marche.it/costa/studi/costastudi.asp> [s.d.].

Note

[1] Legambiente, Spiagge indifese. Storie di erosione lungo la costa italiana, dossier, 22 maggio 2015.

[2] Legambiente, Salviamo le coste italiane, dossier, agosto 2015.

[3] http://www.ilrestodelcarlino.it/ancona/cronaca/2013/07/05/915076-spot-winx-marche-turismo.shtml.

[4] Fonti: Osservatorio Turismo della Regione Marche, http://statistica.turismo.marche.it e ISTAT, http://dati.istat.it (Turismo).

[5] ISPRA, http://annuario.isprambiente.it/ada/scheda/5012/11.

[6] Legambiente, Spiagge indifese, cit, p. 6.

[7] In Le sirene dell’Adriatico, a cura di F. Farina, Milano, Motta, 1995, p. 39.

[8] Ivi, p. 50.

[9] Cfr. Guido Olivieri, Acque e monti. Guida-annuario degli alberghi climatici, balneari e di villeggiatura d’Italia, Milano, 1909.

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