Domenica 20 maggio abbiamo partecipato alla giornata conclusiva del Festival delle cucine popolari autogestite a Pesaro. Giunto alla terza edizione itinerante, il festival è un appuntamento non solo per tante e tanti cucinier* delle varie cucine popolari, mense e osterie in giro per l’Italia in rete grazie al percorso Cucine in Movimento, ma anche per chi vede nel cibo – nei suoi aspetti più pratici come in quelli culturali – un terreno di riflessione, intervento e conflittualità politica. Tanto ancora si può e deve fare, per questo è importante continuare a incontrarsi e a mettere in comune buon cibo, idee e pratiche di ribellione.
Per l’occasione abbiamo avuto il piacere di scambiare due chiacchiere con Wolf Bukowski a margine della presentazione del suo ultimo libro La santa crociata del porco (Ed. Alegre, 2017).
A partire dall’esito di questo libro, dalle tue presentazioni, dalle relazioni che hai intessuto nelle tue esperienze, come la partecipazione a questo festival, hai trovato materiale per nuovi lavori? Dove stai portando la tua ricerca adesso?
W: Visto l’intersecarsi così robusto e ripetuto tra le questioni del cibo e la riscrittura delle città, ho voglia di occuparmi forse più di città, di retorica del decoro e securitarismo che direttamente di cibo: questo mi sembra un po’ l’esito necessario. Alla fine come la foodification serve a produrre gentrificazione e città neoliberali, allo stesso modo penso che anche il mio lavoro debba seguire lo stesso percorso.
Sicuramente un punto di contatto tra questi due discorsi è che, nel regime neoliberale che stiamo vivendo – e che invece di tramontare si sta intensificando -, è evidente che ognuno debba avere il suo posto ben definito, dopotutto anche il discorso sul cibo è un modo per dare a ogni individuo, a ogni identità e cultura un posto nella scala sociale, gerarchicamente ordinato. Il contatto che vedo tra il discorso sul decoro e quello sul cibo è che non si sta cercando di imporre un unico modello alimentare per tutti, ma piuttosto si cerca di creare delle gerarchie anche di consumi e tra le identità alimentari e culturali. Luoghi come questo festival dove si tenta una critica anticapitalista riescono a dare delle risposte? Non rischiano di essere delle nicchie dorate ma isolate o, se lo sono, a cosa possono servire in questo momento?
W: Secondo me, in questo momento mantenere i legami sociali tra di noi, la riflessione politica e culturale è fondamentale, nel senso che si sta rischiando molto in questo momento, quindi è necessario portare avanti questi discorsi, condividerli anche per chiarirsi le idee su quali siano le strade da seguire o no. Ad esempio la strada del consumo critico, che ritorna spesso, per me non va seguita ma problematizzata con delle riflessioni critiche e riconosciuta per quello che è, ovvero l’ennesima nicchia di segmentazione dei consumi. Sapere questo, dircelo e trovare delle strategie diverse per continuare a mettere in comune anche degli aspetti di produzione e riproduzione dell’esistenza, senza illuderci che siano di per sé un’alternativa al capitalismo, è una cosa importante che può nascere anche da momenti di incontro e confronto come questo festival.
Le cucine popolari e ribelli, dalla tua esperienza in giro per l’Italia, sono per te un fenomeno in espansione? Un modello esportabile nelle realtà in cui non ci sono?
W: Non ho una visione complessiva della situazione, ma ovunque si cucina: nei luoghi in cui ci si incontra, negli spazi sociali, nei luoghi in cui si fa politica c’è questa esigenza e quindi è chiaro che il tentativo di politicizzarla e non ridurla a una questione di servizio è utile e ha un portato che può essere arricchente, come questa esperienza del festival, come il percorso nato da qualche anno delle cucine autogestite e popolari.
Nei tuoi testi ci sono spesso dei riferimenti internazionali approfonditi. Dalle tue conoscenze in giro per l’Europa cosa hai visto rispetto al discorso delle cucine popolari e alla consapevolezza sul cibo? Stiamo seguendo una tendenza, la stiamo anticipando?
W: Non ho grandi riferimenti, ma ho la sensazione che non siamo indietro anzi credo che rispetto alle poche esperienze che ho avuto modo di incrociare siamo avanti nella comprensione del fatto che nella cucina, nella produzione e nel consumo del cibo ci sia una politicità che va oltre il banale discorso ambientalista o della ricerca del cibo di qualità come il bio da negozio chic.
Parliamo di Fico. Nel tuo libro “La danza delle mozzarelle” sei stato uno dei propulsori della critica al modello Eataly; adesso Fico a Bologna c’è e i bambini ci vanno in gita con la scuola. Cosa è successo? C’è ancora un’opposizione che si sta riorganizzando, siamo in una fase di riflusso? Raccontaci.
W: C’è qualche realtà che ha cercato di mantenere fermo il livello di opposizione e di critica culturale al progetto, c’è sempre stata e continua a esserci, ad esempio c’è stata una biciclettata critica qualche giorno fa, ci sarà un incontro a breve sempre per parlare di Fico soprattutto nel suo rapporto tra lavoro gratuito, alternanza scuola-lavoro etc. Quindi si mantiene un livello di critica politico-culturale, che poi questa possa incidere sulla sua esistenza, sul fatto che venga frequentato… non è mai stato nei piani, per dire mi sembra anche che non ci sia alcuna capacità di penetrarlo a livello sindacale, ma questo era un po’ scontato: Fico è un’operazione fatta ai margini della città che si regge su se stessa e su grandi investimenti di capitali, in qualche modo il suo fallimento o il suo esserci sono emblematici e guardiamo a questo come qualcosa di esemplare, ma il fatto che si potesse impedire che nascesse è sempre stato fuori dalla portata di chiunque.