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L’incendio del Morrone, i volontari, le istituzioni (#9)

L’incendio del Morrone, i volontari, le istituzioni
Intervista di Luigi a Savino Monterisi

Ricorderemo l’estate 2017 per la siccità e il caldo soffocante. Ma anche per il gran numero di incendi boschivi che hanno mandato in fumo ettari su ettari di territorio: una piaga in realtà non nuova, che con alti e bassi si ripete ogni estate, tanto che dal 2010 a oggi la somma totale delle superfici bruciate in Italia raggiunge l’incredibile cifra di oltre 446.000 ettari, in pratica come se fosse andata a fuoco una zona vasta quanto il Molise[1].

Nonostante capiti ancora di vedere qualche sciagurato che lancia il mozzicone acceso dall’automobile, in realtà quella dell’incauto fumatore colpevole di innescare l’incendio è una figura in buona parte leggendaria. Ancora più improbabile è l’autocombustione e rarissimi gli inneschi per cause naturali (fulmini). Non altrettanto insoliti, invece, sono i roghi colposi, dovuti a irresponsabilità o distrazione, talvolta legati all’incapacità di gestire quell’utilizzo controllato del fuoco che, tradizionalmente, veniva messo in opera come strumento rapido ed economico per eliminare residui di colture, ripulire terreni incolti, stimolare la rigenerazione erbacea dei pascoli. Bisogna però prendere atto che la gran parte degli incendi sono di natura dolosa e non si tratta tanto dell’impulso distruttivo, patologico, della piromania, o di conflitti personali e ritorsioni di vario genere, quanto di ben precisi interessi speculativi. Distruggere boschi porta affari. È il businness degli incendi con tanto di mandanti, intermediari e idioti che appiccano le fiamme: un giro di affari che si lega innanzitutto al loro spegnimento, gestito per via aerea da società private, e poi, tramite amministrazioni compiacenti, alla bonifica delle aree colpite, allo smaltimento del materiale arso e al successivo rimboschimento o alla riconversione dei terreni a uso edificatorio.

Nell’estate appena trascorsa le regioni maggiormente colpite dal fuoco sono state Sicilia, Calabria, Campania e Lazio, ma un vasto incendio si è sviluppato e propagato per parecchi giorni anche sul parco della Majella in Abruzzo, interessando oltre tremila ettari di vegetazione di cui almeno duemila di boschi. Durante quelle terribili settimane tra fine agosto e inizi settembre abbiamo visto il coraggio e la volontà degli abitanti che si sono prontamente autorganizzati per combattere l’incendio, aiutati da volontari arrivati da vicino e da lontano, come le Brigate di solidarietà attiva che avevamo già imparato a conoscere durante l’emergenza terremoto.

Le istituzioni, al contrario, non hanno certamente brillato per efficienza. Sono innanzitutto mancate nella fase della prevenzione: già a giugno la Protezione civile stigmatizzava il fatto che sei regioni, tra cui l’Abruzzo, la cosiddetta “Regione verde d’Europa” o anche “Terra dei parchi”, non si fossero dotate di idonei strumenti per affrontare eventuali emergenze incendi[2]. Sono, inoltre, apparse del tutto disorganizzate e allo sbando nelle ore più calde, salvo mettere in mostra qualche loro rappresentante con ai piedi le scarpe da trekking, a uso dei fotografi: “le inutili passerelle a camicie di fuori e codazzi al seguito, i vertici un giorno sì e l’altro pure, gli insopportabili selfie le parole le chiacchiere gli annunci. E l’improvvisazione, l’inadeguatezza, la caduta dalle nuvole, i verbi coniugati al futuro quando il futuro è già passato. Sempre così. Oggi come sette mesi fa. Il terremoto, Rigopiano e poi gli incendi: le lezioni non insegnano nulla a questa classe dirigente roboante ed esibizionista”[3].

Per fronteggiare il fenomeno degli incendi hanno un ruolo a livello nazionale il Ministero dell’ambiente e il Dipartimento della Protezione civile, ma sono le Regioni a doversi dotare di un “Piano di previsione, prevenzione e lotta attiva contro gli incendi boschivi” e, nel momento dell’emergenza, a dover coordinare e gestire il lavoro delle squadre antincendio aeree e di terra. La situazione generale è cambiata in seguito alla Riforma Madia che nell’ambito della ristrutturazione della pubblica amministrazione ha sciolto il Corpo forestale, militarizzandone le funzioni[4]. La maggior parte dei forestali è infatti stata assorbita dall’Arma dei Carabinieri, con funzioni investigative e repressive, mentre solo una parte residuale ha portato le proprie competenze in materia di effettivo contrasto degli incendi boschivi nel corpo dei Vigili del fuoco, da sempre specializzato in interventi di spegnimento in aree urbane. Con, inoltre, inevitabili ritardi da parte di molte regioni nel trasferire ai Vigili del fuoco le convenzioni attivate con l’ex Corpo forestale[5].

Ai singoli Comuni è demandata la cura e tutela del territorio per mitigare il rischio incendi, nonché l’aggiornamento costante del catasto delle aree percorse dal fuoco al fine di predisporre vincoli di uso e quindi impedire speculazioni economiche sulle aree stesse. La legge 353 del 2000 (Legge quadro in materia di incendi boschivi), per quel che può valere una legge di fronte al tornaconto economico, è infatti chiara: per i successivi quindici anni le aree incendiate non potranno avere destinazione d’uso diversa da quella preesistente, per dieci anni sono interdetti la costruzione di edifici, così come il pascolo e la caccia, per cinque anni è vietato parlare di rimboschimento con finanziamenti pubblici. Le ragioni di quest’ultimo divieto – impedire che la stessa mano che ha interesse economico al rimboschimento sia anche quella che accende le fiamme – pare siano però sfuggite all’assessore regionale Andrea Gerosolimo, seguito a breve distanza dal presidente della Regione Abruzzo Luciano D’Alfonso, che a poche ore dal primo innesco scriveva: “superata la fase dell’emergenza e misurati gli ettari di bosco incendiato, ci attiveremo affinché sia possibile un sollecito rimboschimento anche in deroga alle norme vigenti”[6]. Una dichiarazione quanto meno inopportuna, visto che in ballo ci sono quasi 400 milioni di euro di fondi pubblici. Dichiarazione alla quale sono seguiti numerosi nuovi focolai.

I residenti e le associazioni ambientaliste presenti sul territorio, dopo essersi mobilitati per arginare e spegnere le fiamme si sono detti fermamente contrarie ai rimboschimenti: la natura è capace di fare il suo corso e di riportare la vita là dove oggi ci sono cenere e tronchi anneriti. Quello che è necessario sarà di essere presenti sul territorio montano, viverlo giorno dopo giorno, per non lasciarlo all’abbandono, al degrado, alle speculazioni di qualche avvoltoio. Siamo andati a parlare di tutto questo con Savino Monterisi del collettivo AltreMenti Valle Peligna, che dopo diversi anni passati a Roma è tornato a vivere a Sulmona e quest’estate si è ritrovato in prima linea come volontario sul fronte del fuoco.

Sulmona, 20 agosto 2017, il campanile dell'Annunziata. Studio fotografico Paradisi, Pratola Peligna

Sulmona, 20 agosto 2017, il campanile dell’Annunziata. Studio fotografico Paradisi, Pratola Peligna

 

Ci racconti cos’è successo tra agosto e settembre su queste montagne che vediamo ancora completamente annerite?

Tutto ha inizio il 15 agosto con l’incendio nel comune di Rocca Pia, poi sono iniziati gli incendi del monte Morrone, a partire dal 19 agosto nel comune di Pacentro e, mano a mano, nei giorni successivi ci sono stati altri inneschi sempre sul Morrone, andando avanti verso Roccacasale. Quando qui di fronte a Sulmona sembrava che l’incendio si stesse per spegnere, è scoppiato un nuovo fronte dall’altra parte della valle, tra i comuni di Prezza e di Raiano, che di fatto ha spostato tutte le forze sul campo dal Morrone a lì, anche perché tirava un gran vento e il fuoco stava mettendo a repentaglio le abitazioni. C’è stata quindi una specie di mossa a tenaglia. E va detto che quanto successo in Valle Peligna si incastra alla perfezione nell’attacco che hanno subito tutte le aree interne del centro Italia, a partire dal Monte Giano, a Rieti, alla Marsica e poi più giù fino in Campania.

Non so per l’incendio di Rocca Pia, ma quello di Pacentro, del Morrone di Sulmona e della montagna di fronte sono iniziati nella stessa maniera, con lo scoppio di tre inneschi: ci sono delle foto in cui si vedono nitidamente i tre pennacchi di fumo concentrati nella stessa area. Ci sono ancora indagini in corso, ma pare che siano state ritrovate taniche di benzina con dei temporizzatori, quindi non parliamo di un rozzo innesco ma di una tecnica abbastanza sofisticata.

Sembra ci sia stata una precisa regia dietro questi incendi, voi che idea vi siete fatti?

Sicuramente sono incendi dolosi e sicuramente c’è una regia, questo è evidente. Anche il procuratore Bellelli ha affermato che dietro questi incendi ci sarebbe la mano di un “unico disegno criminale”. Ma questo lo dicono i fatti. Basta mettere in fila dei dati, a partire dall’estrema accuratezza con la quale il piano è stato messo in campo, l’uso dei temporizzatori, il posizionamento degli inneschi in zone impervie, in pendii molto ripidi, in giornate ventilate. Poi però non so dirti quale sia stata la regia, cioè chi materialmente sia stato, può essere stata un’organizzazione criminale così come un pazzo esperto di montagna. Non abbiamo prove.

La mappa degli inneschi

La mappa degli inneschi

 

Abbiamo visto che molti volontari, e anche tu stesso, vi siete autorganizzati per aiutare a spegnere l’incendio, com’era la situazione?

Per tre giorni si è cercato di spegnere l’incendio solo attraverso lo sgancio di acqua dai Canadair e dagli elicotteri. Il terzo giorno la gente s’è rotta di questa storia e ha detto: se nessuno si organizza, ci organizziamo da soli e saliamo noi a spegnere le fiamme. Così, spontaneamente, ha preso ed è salita sopra. C’è da dire che qui in Valle Peligna non c’è una grossa cultura degli incendi. L’ultimo importante incendio è del 1994, sul monte Playa nel Massiccio del Genzana, dove anche lì la gente si era organizzata autonomamente, però stiamo parlando di più di vent’anni fa. Prima di quello, il Morrone era già stato interessato da altri due incendi, nel 1974 e 1978.

I primi a salire sono stati dei ragazzi che la domenica mattina, quando è scoppiato l’incendio del Morrone, si trovavano in un rifugio dove erano andati a passare una nottata. C’era fuoco sulla strada carrabile e quindi hanno dovuto lasciare i mezzi lassù e sono scesi a piedi, passando da un’altra parte della montagna che non era ancora interessata dalle fiamme. Arriva il mercoledì, con la montagna che brucia e i Vigili del fuoco fermi a valle: questi ragazzi hanno deciso di risalire, almeno per andarsi a riprendere i mezzi. Il giorno successivo, vedendo che la cosa era fattibile, quello stesso gruppo di persone è di nuovo tornato sul monte per iniziare a spegnere le fiamme basse che avanzavano verso nord.

Il giovedì sera i Vigili del fuoco iniziano a lamentarsi dicendo che i volontari erano d’intralcio perché impedivano il lavoro dei Canadair: una cosa falsissima, io stesso quando sono stato sopra ho visto che non c’era davvero nessun problema di questo tipo. Tant’è che se parli con gli ex Forestali che si sono occupati di antincendio ti dicono che quando scoppiava un incendio la prima cosa che facevano era andare nella piazza del paese a reclutare volontari, creando di fatto una squadra antincendio, ovviamente mettendoli in sicurezza e facendo loro fare quello che potevano. È mancato proprio questo.

Poi il prefetto ha imposto al Comune di Sulmona di emettere un’ordinanza contro i volontari, impedendo di fatto a chiunque di salire sopra. Chi voleva dare una mano si sarebbe dovuto andare a registrare al Centro operativo comunale. Noi la mattina siamo andati lì, ci saranno stati almeno un centinaio di ragazzi pronti, con le pale e tutto. Aspettiamo un po’ ma non si vede nessuno, dopo un’oretta capiamo che ci stavano a fare la melina e allora ce ne siamo andati sopra per i fatti nostri. È davvero sembrata un’esca per non tenerci in mezzo alle scatole, una serie di disorganizzazioni continue.

L'incendio al Parco della Majella. Foto di Savino Monterisi

L’incendio al Parco della Majella. Foto di Savino Monterisi

 

Le istituzioni come si sono mosse?

Intanto c’è la Regione, che dovrebbe predisporre un piano antincendio. A fine giugno alcune associazioni ambientaliste hanno scritto una nota alla Regione Abruzzo chiedendo conto della mancanza di un piano adeguato, poi la Regione in qualche modo si è adeguata e, come forze aggiuntive antincendio, prescrive una squadra composta da quattro Vigili del fuoco per ogni provincia – cioè in totale sedici Vigili del fuoco – più un elicottero. Ai primi di agosto un barbecue sfugge di mano a dei ragazzi a Campo Imperatore, dove erano radunate moltissime persone per una rassegna organizzata dalla Camera di commercio; prende fuoco una pineta per non so quanti ettari e addirittura il fuoco arriva fino quasi a Rigopiano, ovviamente senza che si riuscisse a spegnerlo. Le forze in campo erano veramente debolissime.

In generale, abbiamo visto grossi problemi di disorganizzazione legati al fatto che quest’anno, per la prima volta, la gestione dello spegnimento spettava ai Vigili del fuoco e non alla Forestale, sciolta dal decreto Madia. Io non sono uno di quelli che dice che la Forestale debba essere ricostituita, non mi interessa la discussione in questi termini, quello che mi interessa è che ci sia un corpo specializzato per lo spegnimento degli incendi boschivi. Il problema, infatti, qual è? Che quando prima scoppiavano gli incendi sostanzialmente ci si divideva tra i Vigili del fuoco che si mettevano a protezione delle strutture e la Forestale che, insieme ai volontari, attaccava l’incendio nel bosco. L’incendio può essere attaccato in due modi, entrambi importanti: dall’alto, con lo sgancio di acqua, e dal basso, con l’azione dell’uomo che va a spegnere le fiamme basse nel sottobosco. C’è stato quindi questo passaggio di consegne delle operazioni di spegnimento che sicuramente non ha aiutato, ed è mancato l’ente che materialmente prendeva le persone e le portava su ad attaccare le fiamme.

Poi ci sarebbe anche l’Ente Parco della Majella: in fase di prevenzione non ha fatto nulla e addirittura per tutta la prima settimana dell’incendio il direttore era in vacanza, è rientrato quando la situazione era già da un pezzo sfuggita di mano. Da parte del Parco della Majella abbiamo visto una sostanziale insussistenza. Cioè, quella è casa loro, quelli sono i loro boschi, il loro territorio, ma non sono stati in grado di organizzare niente: abbiamo visto una completa assenza.

Volontari al lavoro sulla linea tagliafuoco. Foto di Savino Monterisi

Volontari al lavoro sulla linea tagliafuoco. Foto di Savino Monterisi

 

A un certo punto sono intervenute anche le Brigate di solidarietà attiva?

Sì. Allora, da una parte il Comune di Sulmona si è messo completamente nelle mani del DOS, il Direttore delle operazioni di spegnimento, che gli diceva di non mandare i volontari in montagna e che l’incendio l’avrebbero spento con i Canadair. Invece il Comune di Pratola Peligna, che è il comune successivo a Sulmona verso il fronte del fuoco, si era organizzato per costruire una linea tagliafuoco. Il lunedì successivo, quindi otto giorni dopo lo scoppio dell’incendio, le fiamme sono arrivate alla tagliafuoco che di fatto le ha contenute, anche se essendo una giornata molto ventilata della roba incendiaria ha saltato la linea facendo ripartire l’incendio al di là. A parte questo, si è però visto che la tagliafuoco era un argine abbastanza efficace.

Quindi il Comune successivo, Roccacasale, ha detto: facciamola anche noi, e ha lanciato degli appelli per la sua costruzione. Lì sono intervenute le Brigate di solidarietà attiva, che già conoscevamo. Ci hanno contattato da Pescara, sono arrivati in tantissimi e insieme abbiamo cominciato ad aprire questo varco in mezzo al bosco. La situazione era preoccupante perché mentre a Sulmona e Pratola l’incendio incontrava le case a valle, ai piedi della fascia montana, a Roccacasale per la prima volta il fuoco incontrava un paese nel mezzo del fronte, quindi c’è stata una grande mobilitazione, sia da parte della valle sia da fuori.

Monte Morrone, pale vs fiamme

Monte Morrone, pale vs fiamme

 

Come si costruisce materialmente una linea tagliafuoco?

La tagliafuoco è un’apertura nel bosco, larga diversi metri. Vanno avanti tagliatori esperti con le motoseghe che abbattono gli alberi e tagliano tronchi e rami, poi le persone dietro prendono questi pezzi tagliati e li buttano dal lato opposto rispetto a dove dovrebbe arrivare l’incendio e poi, ancora dietro, passa gente con rastrelli che cerca di eliminare tutto quanto può fungere da combustibile, quindi pigne, aghi, rametti eccetera.

La tagliafuoco di Pratola è stata in realtà fatta con mezzi meccanici, lì i volontari sono intervenuti pochissimo, si trattava infatti di una vecchia strada che è stata allargata con le ruspe e poi la linea si ricongiungeva a un canalone di ghiaia che scende dalla montagna. A Roccacasale era ben diverso perché si è intervenuti ad aprire quello che era un sentiero di montagna dove le ruspe non potevano arrivare. Si è fatto tutto a mano, per quattro giorni di fila… una fatica enorme! Pensa solo al problema di portare acqua da bere per tutte le decine di persone che erano a lavorare lì in mezzo alla montagna, ad agosto, con 35 gradi.

Sulmona, 12 settembre 2017, assemblea pubblica in Piazza XX settembre

Sulmona, 12 settembre 2017, assemblea pubblica in Piazza XX settembre

 

Oggi, a incendio spento e con la montagna in queste condizioni desolanti, che prospettive ci sono? Andare in deroga alla legge che vieta l’immediato rimboschimento è una soluzione o è solo un modo per specularci sopra?

Il nostro post-incendio inizia già cinque ore dopo lo scoppio dell’incendio, quando l’assessore regionale Gerosolimo, che tra l’altro non era qui perché è rientrato in valle solo il martedì mattina, a distanza scrive un post in cui parla di rimboschimento in deroga. Fa quasi un’operazione emotiva, come se volesse tranquillizzare le persone dicendo: non vi preoccupate, faremo il rimboschimento in deroga, ripianteremo tutto e subito. Secondo me, ci sta anche che lo abbia fatto in buona fede, da politico, ingenuo, ma da politico. Però, man mano che il fuoco si andava attenuando, in molti hanno cominciato a rendersi conto che questo discorso era folle, perché se noi cominciamo a parlare di rimboschimento in deroga potremmo fare proprio il gioco di chi ha messo fuoco e ha interessi economici in questo.

Inoltre, il rimboschimento non è immediatamente efficace per una serie di ragioni. Intanto perché se il problema è quello di prevenire il rischio idrogeologico con la piantumazione, allora bisogna mettere piante già grandi, che però sono più soggette al trauma dello spostamento, e comunque per contenere il rischio idrogeologico ci sono anche altre soluzioni. E soprattutto bisogna considerare che la natura ha una grande forza, una grande capacità di rigenerarsi da sola. Il monte Playa, bruciato nel 1994, se lo andiamo a vedere adesso è diventato un bosco impenetrabile, perché in realtà l’incendio è nutrimento per il terreno di un bosco. Quindi sarebbe più opportuno aspettare qualche anno, almeno i cinque anni previsti dalla legge, e poi, se alcune zone della montagna per qualche motivo non si fossero riprese, intervenire con un rimboschimento mirato, se necessario.

In città si è generato un dibattito contro il rimboschimento, anche noi come AltreMenti abbiamo fatto una serie di interventi, tra i quali un’assemblea pubblica in piazza XX Settembre, al centro di Sulmona, con più di duecento persone. E allora l’assessore regionale, dopo le sue dichiarazioni a caldo e, mettiamo, in buona fede, quando gli cominciano ad arrivare una serie di rapporti che dimostrano come il rimboschimento non serva e altri che mettono in guardia dal rischio di speculazioni… poteva anche fare una smentita! E invece addirittura è stato chiesto lo stato di calamità, che prevede la gestione dell’emergenza e la nomina di un commissario che decide su tutto, annullando totalmente la possibilità di partecipazione democratica della gente.

Il 13 settembre si è tenuta una riunione in Regione, convocata dal governatore D’Alfonso per parlare proprio di rimboschimento con i sindaci di tutti i comuni colpiti, il presidente della provincia e il prefetto. Il Comune di Pratola ha detto subito che era contrario e anche il Comune di Sulmona aveva approvato all’unanimità il rifiuto del rimboschimento. Al che l’assessore Gerosolimo, un paio di giorni prima, scrive un post dove dice che essendo lui rappresentante del territorio, farà la volontà del territorio. Alla riunione D’Alfonso non ha gioco facile, prova a spostare un po’ la questione, ma tutti i sindaci fanno capire che l’urgenza non è il rimboschimento, ma la bonifica e la messa in sicurezza del territorio. Quindi per adesso il rimboschimento non parte, ma li conosciamo bene questi… non possiamo cantare vittoria. L’assessore Gerosolimo? Non si è presentato. I suoi fedelissimi lo hanno giustificato dicendo che non è andato perché non era invitato; cioè un assessore regionale alle aree interne, in un tavolo tecnico della Regione in cui si parla di aree interne bruciate, non ci va perché non invitato… Si capisce quanto sia stata strumentale la sua posizione. Se voleva rappresentare il territorio a quel tavolo si poteva e si doveva presentare.

Volontario in azione. Foto di Savino Monterisi

Volontario in azione. Foto di Savino Monterisi

 

Visto che si è creata in questa Valle una certa mobilitazione e c’è voglia, ma anche necessità, di autorganizzarsi, è ipotizzabile una sorta di coordinamento popolare che vigili sulla messa in sicurezza del territorio, senza dover sempre dipendere dall’agire delle istituzioni?

Già quest’estate, quando stavano bruciando le montagne attorno a Sulmona, alcune associazioni ambientaliste si erano organizzate con dei “gruppi di controllo territoriale” per presidiare il massiccio del Genzana, perché si riteneva che quello sarebbe potuto essere il luogo dei successivi inneschi. Questo tipo di controllo possiamo pensare di riproporlo la prossima estate in maniera diffusa su tutto il territorio. Con una recente assemblea abbiamo avviato un percorso, che è anche un esperimento, proprio in questo senso, a partire dal monitoraggio di tutta l’attività post-incendio. Ci siamo dati il nome di “Territori uniti per la prevenzione”, anche se va detto che qui siamo in zone dove non c’è una grande cultura politica e dell’agire politico. Ma intanto ci stiamo muovendo.

Anche a livello nazionale si sente sempre più spesso parlare di messa in sicurezza del territorio, da lanciare come campagna politica. Intanto a metà ottobre siamo stati a Bergamo, al controvertice G7 sull’agricoltura, dove uno dei tavoli tematici è stato su “territorio e ambiente”. Vogliamo dire alla politica che non ci servono le grandi opere e che una sola e utile grande opera è la messa in sicurezza del territorio. Qui in Abruzzo in particolare, tra terremoto, nevicate e incendi c’è assolutamente una grossa necessità di questo.

Dopo l'incendio la rinascita. Foto di Savino Monterisi

Dopo l’incendio la rinascita. Foto di Savino Monterisi

 

[1] Cfr. Le Mani sporche degli incendi, dossier a cura dell’Ufficio comunicazione dei Verdi, 2017.

[2] Incendi, sei regioni ancora senza flotta aerea, http://www.repubblica.it/cronaca/2017/06/18/news/incendi_regioni_flotta_aerea_curcio-168458874.

[3] Lilli Mandara, Morrone, brucia anche l’onore, http://www.lillimandara.it/labruzzo-che-non-ricorda.

[4] Decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177, Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera a), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche.

[5] Cfr. Le Mani sporche degli incendi, cit.

[6] https://www.ilgerme.it/linferno-del-morrone-ritardi-della-politica.

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