Difendersi in tribunale, costruire solidarietà nelle strade
Intervista di A. Soto al collettivo Prison Break Project
Oggi più che mai, parallelamente ai nostri percorsi di lotta, pensiamo sia importante parlare di repressione. Non tanto per un’attitudine al vittimismo, quanto piuttosto per offrire alle lotte stesse nuovi strumenti di autodifesa ma anche di critica, resistenza e opposizione. Anche nelle Marche e in Romagna, nonostante la situazione e la composizione delle lotte sociali non abbia motivato speciali ondate repressive, abbiamo sperimentato l’applicazione selettiva dei nuovi meccanismi di diritto penale. Senza dubbio un caso eclatante è quello di Alessio Abram, compagno e ultras impegnato nel calcio antirazzista, che ha visto di recente precipitare la sua situazione penale fino alla condanna a oltre 4 anni di carcere a causa della violazione del DASPO di cui ha già scontato più di un anno e mezzo in carcere ad Ancona e attualmente è in semi-libertà con obbligo di rientro notturno nel carcere di Barcaglione – Ancona. Insieme a lui nel capoluogo dorico altri ultras hanno visto aprirsi le porte del carcere con pene detentive irreali, intrappolati dalle misure di prevenzione. Sempre nelle Marche finiscono sotto osservazione le lotte dei terremotati, di cui ogni mobilitazione, anche la più pacifica e simbolica, viene costantemente monitorata e se necessario censurata dalla polizia politica. Non dimentichiamo infine la repressione spropositata in occasione della contestazione dell’aprile 2016 per il comizio di Salvini a Rimini e l’accanimento della stessa procura nei confronti delle esperienze di aggregazione e di lotta anfascista in Romagna di cui in parte abbiamo raccontato nel numero 7.
Per queste ragioni abbiamo scelto di proporre un’intervista al collettivo Prison Break Project, autore di un interessante lavoro edito da Be Press (Lecce) dal titolo “Costruire evasioni. Sguardi e saperi contro il diritto penale del nemico” (per contatti: prisonbreakproject@autoproduzioni.net). A condurre l’intervista è un compagno aderente all’Associazione di mutuo soccorso per il diritto di espressione, che opera da una decina di anni a Bologna e provincia. Gli obiettivi principali dell’Associazione sono di supportare materialmente e moralmente chi incappa in guai giudiziari per la propria attività nelle lotte sociali e di diffondere informazioni e consapevolezza sui meccanismi della repressione. È in preparazione la seconda edizione di un suo fortunato opuscolo del 2003: “Difesa legale. Note per una maggiore consapevolezza”.
Mi piace questo vostro approccio di volere “capire la logica del potere, conoscere le sue regole per scovare degli interstizi dove orientare sforzi, resistenze, offensive” (p. 24). Conquistare la consapevolezza di sé e del mondo è il primo passo per potere imbastire una lotta, senza il quale rischiamo di rimanere in ballo di forze più grandi di noi: condividete?
Sicuramente. Lo sforzo di consapevolezza è sempre fondamentale se si vuole durare nelle lotte e non essere travolti alla prima mareggiata. In passato, forse perché si operava in contesti di maggiore agibilità politica, diversi-e compagni-e tendevano a pensare che riflettere sui dispositivi repressivi fosse attività da delegare a specialisti e avvocati. Quasi per un riflesso scaramantico (“lontano dagli occhi, lontano dal cuore”) molti tendevano a non farne un tema di discussione comune. Noi pensiamo invece che serva affrontare a viso aperto la questione della repressione, senza certo farsi monopolizzare l’agenda dal problema ma, al contrario, per continuare a lottare più efficacemente. Le offensive repressive in corso ci confermano che non ci possiamo permettere il lusso di rimanere impreparati. È essenziale allora cogliere cosa nella dinamica repressiva si ripresenta con tratti sempre comuni, ad esempio la necessità di costruire un nemico pubblico, la differenziazione tra buoni e cattivi, il tentativo di dividere e isolare. Ma è importante anche capire quali sono i fronti di avanzamento e di sperimentazione da un quindicennio a questa parte, come quelli che noi tentiamo di indicare in relazione ai dispositivi repressivi del terrorismo, della devastazione e saccheggio, dei reati associativi, della repressione economica e delle misure di prevenzione.
Parliamo dell’argomento centrale del libro, l’analisi del diritto penale del nemico: che cos’è esattamente?
La teoria del diritto penale del nemico è stata elaborata dal penalista tedesco Gunther Jakobs nel 1985. In base a tale teoria, il diritto punitivo delle società democratiche contemporanee si compone di due binari paralleli: diritto penale del cittadino, che sanziona le violazioni commesse dai soggetti di diritto “comuni” e diritto penale del nemico, concepito per colpire talune categorie sociali che assumono, di per sé, valenza deviante. Questo secondo “binario” del diritto penale non è volto a reprimere degli illeciti ma a neutralizzare dei soggetti, definiti come veri e propri “nemici della società”; per fare ciò è possibile derogare alle garanzie del diritto per utilizzare le regole tipiche della “guerra”, orientate direttamente alla sconfitta dell’avversario.
Emblematica, per capire l’entità di questa concezione giuridica, è la seguente affermazione di Jakobs: “chiunque sia in grado di promettere almeno in qualche misura fedeltà all’ordinamento, è titolare di una legittima pretesa ad essere trattato come persona in diritto. Chi non offre simile garanzia in modo credibile, tendenzialmente viene trattato come non cittadino” (e dunque deve essere neutralizzato).
Abbiamo scelto di usare questa configurazione teorica perché, secondo noi, è particolarmente adatta a delineare il contesto generale in cui operano i diversi dispositivi repressivi presi in considerazione. Il trait d’union che collega i cinque profili specifici che abbiamo approfondito è proprio la finalità di attaccare, colpire e rendere inoffensivo ciò che le istituzioni concepiscono quale nemico della società, che in quanto tale non ha diritto di usufruire nemmeno delle labili garanzie che l’ordinamento offre ai “normali” criminali.
Il diritto penale del nemico è in grado di collegare e unificare adeguatamente le diverse dimensioni dell’attacco ai movimenti sociali, quella giuridica come quella politica e mediatica: il progressivo ma costante aumento repressivo degli ultimi 15-20 anni è stato reso possibile grazie a un’incessante mobilitazione del circuito legislativo, giudiziario e istituzionale ma anche agli attacchi concertati tra media, stampa e magistratura.
Insomma, la finalità del nostro lavoro è quella di sviscerare la strategia complessiva dietro la scelta dei differenti strumenti che il sistema offre agli organi atti a reprimere e svelare la logica di guerra, relativa ai rapporti di forza, che contrappone gli apparati repressivi ai movimenti. Tutto ciò nell’ottica di capire a fondo la natura e la funzione dei dispositivi repressivi al fine di poterli combattere meglio.
Potete descrivere il meccanismo di costruzione del “nemico pubblico” o folkdevil?
L’applicazione del diritto penale del nemico richiede preliminarmente che il potere repressivo segnali quali sono i “nemici pubblici” che vanno neutralizzati. Nominare e definire il nemico pubblico serve infatti a catturare consenso rispetto alla repressione di un determinato gruppo sociale.
Come diceva Carl Schmitt, avere un nemico comune è fondamentale nella costruzione della soggettività politica. Ad esempio, per capire qual è il pensiero politico dominante oggi basta vedere quali sono le categorie sociali colpite dal decreto Minniti: poveri, prostitute, migranti, occupanti di case, insomma, chi è incompatibile con l’ideologia del decoro urbano. Oggi sono questi i folkdevil, ossia quei soggetti contro i quali vengono scatenate vere e proprie campagne di “panico morale” che mischiano ansie sociali, bigottismo e difesa dell’economia capitalistica.
Se il meccanismo della costruzione del nemico pubblico è costitutivo delle società in cui viviamo e quindi permanente, sono invece variabili nel tempo i gruppi sociali capaci di impersonificare il nemico agli occhi di imprenditori morali, mass media e opinione pubblica. Per questo motivo anche nel campo della repressione delle lotte sociali di volta in volta si fabbricano nuove sigle ed etichette (il no global, il black bloc, l’anarco-insurrezionalista) o si ripropongono e rinnovano vecchie categorie (il teppista, il terrorista).
L’effetto a cui si mira è quello di delegittimare istanze di ribellione e trasformazione sociale, ma anche imporre una distinzione tra buoni e cattivi all’interno dei movimenti per dividere e isolare le sue diverse componenti.
A me pare che a fronte della costante politica del divide et impera ci sia da parte “nostra” un’incapacità di andare al di là di stupidi settarismi. C’è la salvaguardia cieca e inconcludente del proprio orticello, lasciando indietro quella solidarietà che, al di là delle differenti pratiche di azione, risulta spesso il fattore più importante di un movimento antagonista allo stato di cose presenti. Voi in questo andate, per fortuna, controcorrente: che ragionamento c’è alla base di questo vostro approccio?
Uno degli obiettivi primari della repressione è cercare di isolare, frammentare e fare “terra bruciata” attorno a individui e gruppi al centro della sua attenzione. Per questo motivo secondo noi una delle urgenze di risposta “minima” risulta essere quella della solidarietà a persone e pratiche attaccate, oltre alla circolazione d’informazioni e ragionamenti sulle offensive repressive.
Lo stato usa, affina e sperimenta in maniera ricorrente nuovi e vecchi dispositivi repressivi, crediamo quindi che la logica che chiamiamo “difendere solo i miei” risulti spesso fallimentare. In primo luogo, indebolisce la difesa delle lotte e delle loro pratiche, oltre a esporre una differenziazione nel profilo dei colpiti dalla repressione che può risultare deleteria, lasciando campo aperto alla dicotomia “buoni e cattivi” che tanti danni ha già portato…
In secondo luogo, pensiamo che sebbene possa essere (umanamente) comprensibile un sostegno riservato solamente ai membri del proprio gruppo, questo abbia la tendenza a scivolare verso una difesa dei profili degli accusati seguendo spesso le stesse categorie processuali (precedenti giudiziari, inserimento nel sociale e nel lavoro ecc.) più che ingaggiare una lotta all’interno del “sistema processo” dell’intero movimento attaccato dalla repressione. È in questo quadro che riprendiamo il motto No Tav “si parte e si torna insieme”, proprio per sottolineare l’importanza di una solidarietà tangibile e politica contro la repressione senza differenziazioni e a partire da un lavoro politico collettivo per non cedere alle tendenze di individualizzazione della difesa, per vantaggi materiali o nell’inseguire ortodossie di “purismo”.
È in questo contesto che si può inscrivere la nostra riflessione sul periodo storico del “movimento noglobal”. Senza entrare in una diatriba di valutazione dei gruppi che non ci interessa, nel libro segnaliamo come le conseguenze processuali del G8 di Genova con la frammentazione in mille rivoli delle iniziative processuali e (soprattutto) delle mobilitazioni solidali ha aperto di fatto la strada a condanne pesantissime su alcuni compagni-e, oltre ad aver sdoganato il reato di devastazione e saccheggio divenuto oggi ordinario nella repressione delle mobilitazioni di piazza. Le rivendicazioni tecniche formulate in quel contesto (riconoscimento di un “diritto di resistenza”, il numero identificativo per poliziotti e carabinieri…) non hanno offerto, se le valutiamo a 15 anni di distanza, un avanzamento nei margini d’azione politica né un freno alle offensive repressive.
L’applicazione delle misure preventive si sta moltiplicando oggi anche in Italia. Fuori da qualsiasi garanzia di legge, si tratta di misure di polizia, di questura. È un cambiamento di non poco conto questo: come lo interpretate?
Il proliferare delle forme preventive è senza dubbio un elemento centrale delle politiche repressive attuali. Tale tendenza caratterizza, a ben vedere, il sistema punitivo nel suo complesso e va oltre il campo di applicazione delle misure amministrative di polizia, che pure sono in aumento esponenziale. Lo scopo è quello di colpire il militante politico prima che riesca a manifestare una qualche potenzialità offensiva. L’utilizzo spregiudicato di tali armi, a nostro avviso, va inserito quale singola tattica nella strategia generale del diritto penale del nemico.
Le misure di prevenzione, gli avvisi orali, i fogli di via e i decreti di sorveglianza speciale, attuano la più accentuata forma di punizione preventiva possibile nell’ordinamento italiano. Non vertono, infatti, su fatti reato o su determinate condotte illecite, bensì su un profilo di “pericolosità sociale” dell’individuo.
Questi provvedimenti sono in crescita esponenziale, così come lo sono altre misure preventive, quelle cautelari giudiziarie (custodia cautelare, arresti domiciliari ecc.), che limitano la libertà personale in collegamento con un procedimento penale non ancora concluso.
Spesso gli organismi preposti alla repressione possono combinare i due tipi di dispositivi di punizione preventiva scegliendo quello che più conviene o è ritenuto efficace in un determinato momento, secondo una logica di performatività e preventività tipica del diritto penale del nemico. L’esigenza di sconfiggere la minaccia prima ancora che questa si manifesti, infatti, spinge gli apparati repressivi a dribblare il processo penale (che può essere fonte di ritardi e di incertezze dell’esito) e ad affidare direttamente alla polizia o al giudice delle misure cautelari il compito di sottrarre i-le compagni-e alle lotte e ai gruppi di appartenenza.
Il recente decreto Minniti, al di là delle misure specifiche che mette in campo, consegna una particolare agibilità a questo tipo di repressione. Quando parliamo di misure cautelari e di polizia, però, parliamo di provvedimenti introdotti da normativa precedente, di volta in volta emendata. Si può pertanto parlare di evoluzione in corso del sistema repressivo per cui la Minniti risulta solo l’ultimo tassello di un percorso omogeneo iniziato diversi anni fa.
Da dove provare a ripartire quindi? Dalle pratiche di movimenti come quello No Tav, dal “si parte e si torna insieme”, dalla solidarietà come collante ineliminabile dei movimenti antagonisti?
Sicuramente la solidarietà, materiale e politica, è indispensabile in questo contesto in cui ci confrontiamo con un aumento di compagni e compagne presi tra le grinfie giudiziarie (e amministrative).
Come dicevamo prima, per noi è prioritaria una visione ricompositiva nell’attenzione ai dispositivi repressivi e alle tendenze in atto. Crediamo che, a partire dall’intelligenza messa in luce dalle lotte, sia possibile rompere l’accerchiamento che la repressione vuole imporre sui movimenti.
Il movimento No Tav ci offre una molteplicità d’esempi in questo senso: rompere il rituale del processo, rifiutare i provvedimenti preventivi e cautelari, rivendicare pratiche di sabotaggio… Certamente senza lasciare nessuno indietro, ma anche con la volontà di allargare il fronte delle lotte, costruendo connessioni tra militanti, sfruttati e “banditi” dalle vecchie e nuove leggi nell’attuale fase dello scontro di classe. Una risposta alla repressione non può essere separata dalla continuazione e intensificazione delle lotte, non è un settore separato ma una parte integrante di esse.
In questo senso cerchiamo nel testo di presentare delle pratiche che riteniamo interessanti e auspichiamo che la stessa dimensione processuale non venga semplicemente delegata a tecnici. Allo stesso tempo crediamo tuttavia che il processo sia anch’esso un terreno di lotta da investire, poiché nonostante non abbiamo alcuna fiducia nella giustizia dei tribunali, le loro decisioni impongono conseguenze di cui si deve tener conto necessariamente.
Ringraziamo il collettivo Prison Break Project – prisonbreakproject.noblogs.org
Le opere che accompagnano l’articolo sono una gentile concessione di Federico Molinaro scultore, San Colombaro Certenoli (GE) – federicomolinaro.com