Il futuro trionfa. Ma non abbiamo un avvenire.
Piattaforma critica della ricerca scientifica.
Di Groupe Oblomoff
In principio pensavamo che con le conoscenze scientifiche, mettendole a disposizione di un numero sufficiente di persone, saremmo arrivati a trovare la migliore soluzione ai problemi che abbiamo di fronte. Ci siamo ripresi da questa illusione. Ora crediamo che la soluzione non proverrà da un supplemento di conoscenze scientifiche, da un supplemento di tecniche, ma da un cambio di civilizzazione.
Alexander Grothendieck, matematico
Negli ultimi mesi in molti hanno seguito con attenzione la questione delle vaccinazioni obbligatorie e le polemiche attorno a omeopatia e medicine non convenzionali. In redazione le discussioni sono state animate, con diverse posizioni che pur partendo da basi comuni non riescono a trovare una conciliazione. Poco male, non è la sintesi che cerchiamo. Un punto di affinità, sul quale riusciamo a non prenderci a male parole, però lo abbiamo: è la visione del rapporto tra scienza e potere. Pensiamo che ci sia spazio sulle nostre pagine per chi ribadisce che non esiste una distinzione tra “scienze pure” e “scienze applicate” e che la scienza non possa essere neutrale, ma faccia parte integrante di questo sistema di potere al quale fornisce i mezzi tecnici per le sue disastrose ambizioni di sviluppo. Quelle che vengono propagandate come le meravigliose possibilità di benessere aperte dalla ricerca scientifica e tecnologica, appoggiano infatti su un’organizzazione sociale e produttiva che ha fatto dello sfruttamento, della diseguaglianza sociale e della devastazione ambientale i suoi tratti immediatamente riconoscibili.
Nel 2004, mentre cresceva il movimento di rivendicazione dei ricercatori francesi “Sauvons la recherche”, qualche voce stonata raccomandava ai cervelli dell’università di rilassarsi: “quello che ci aspettiamo oggi dai ricercatori è che si mettano in congedo per malattia a tempo indeterminato, che restino a dormire a casa, che si sforzino, stesi nei loro letti, di leggere un po’ di poesia” (États généraux de la servitude). Di fronte alle richieste di più finanziamenti per la ricerca scientifica, di più “progresso” e più tecnologia, l’intento era di riflettere sul ruolo sociale dei ricercatori, spesso essi stessi precari e sfruttati, nell’evoluzione di questo mondo. Su questa scia, pubblichiamo qui un manifesto-piattaforma di critica della ricerca scientifica redatto dal gruppo parigino Oblomoff, il cui nome riprende provocatoriamente quello del protagonista di un romanzo dello scrittore russo Ivan Gontcharov, che immerso in una proverbiale indolenza trascorreva le sue giornate sul divano. Trattandosi di una piattaforma, i vari punti sono esposti con una certa schematicità. Per un approfondimento sul tema rimandiamo al libro “Un futur sans avenir. Pourquoi il ne faut pas sauver la recherche scientifique” (L’échappée, 2009).
Quello che ci sta a cuore, pur nelle divergenze già accennate, non è di certo condannare la conoscenza libera e razionale (merce rara nei laboratori di ricerca) per cadere nel baratro di un discorso mistico e religioso, quanto sollecitare l’intelligenza critica del proprio stare al mondo, affinché i saperi e i saper-fare si inscrivano in una cultura collettiva diffusa, locale, gestibile in autonomia da individui e collettività. La situazione si fa drammatica se, come recita il titolo di questo manifesto, a trionfare sarà il futuro delineato dal progresso della civiltà industriale, per questo è necessario e urgente cercare di tracciare altre vie che disegnino un avvenire a misura di comunità umane e dei loro territori.
Il modello scientifico conserva oggi una grande forza, un’immagine di universalità e potenza nel contesto di alterazioni climatiche e di sfacelo sociale globalizzato. In mezzo a tutti questi progressi nell’assurdità della vita e alla crescente brutalità delle società, la Ricerca è il solo dominio che offre l’immagine rassicurante di una continuità con le epoche precedenti. Un dominio che sembra quasi al riparo dalla meschinità dei rapporti mercantili. Un dominio che, quando tutto sta crollando, continua ad avanzare. Funesta illusione.
Certamente, un corpus di conoscenze rigorosamente stabilite sarà sempre indispensabile, così come l’elaborazione di tecniche al servizio delle comunità umane. Ma tutto ciò è molto marginale all’interno di quella che oggi chiamiamo Ricerca e serve, il più delle volte, a giustificare il resto. Nelle sue conseguenze, infatti, l’ingenua buona fede si unisce al peggior cinismo, lasciando campo libero a tutte le aberrazioni immaginabili. Non ci si salva servendo da sostegno ideologico alle peggiori atrocità.
In questo periodo tormentato in cui, tanto nella bocca dei ricercatori che nell’immaginario collettivo, la tecnoscienza si mostra come la sola adatta a definire il nostro comune avvenire, noi, studenti e studentesse, ricercatori e ricercatrici, disoccupati e disoccupate, noi che avevamo creduto nella capacità dell’Università di salvarci da compiti idioti o irresponsabili, abbiamo deciso di organizzarci in vista di uno sconvolgimento radicale che abbiamo scelto di non attendere.
Denunciamo la collaborazione attiva dei ricercatori con i poteri militari e industriali che li finanziano, definiscono i loro obiettivi e utilizzano le conoscenze e le tecniche messe a punto nei laboratori.
Questa collaborazione risale alle origini della scienza moderna: i progressi delle scienze hanno sempre intrattenuto strette relazioni con quelli delle tecniche di guerra. Ma con la Seconda guerra mondiale si è avuto un decisivo salto quantitativo e qualitativo. Oggi, la maggior parte delle ricerche scientifiche servono prima di tutto ad accrescere il potere militare ed
l’alibi che serve a far accettare la corsa agli armamenti e la competizione economica internazionale.
Dal momento in cui questo servizio per il potere prende il posto dell’indagine problematica sul mondo, teniamo a denunciare i miti che legittimano o occultano tale collaborazione.
Il mito del progresso è sempre meno credibile mano a mano che si moltiplicano, soprattutto per i più poveri, le conseguenze catastrofiche dello sviluppo economico. Le ricerche più nauseabonde e interessate utilizzano sempre il pretesto di servire a curare e sfamare il maggior numero di persone, di migliorare le condizioni di vita. Ma, al posto di questi progressi, è evidente che la modernizzazione ha causato un tale disastro ecologico che le cose più elementari sono ore diventate di lusso: acqua e aria pura, alimentazione sana, vegetazione. Per di più, l’idea di un progresso continuo delle condizioni di esistenza grazie al perfezionamento tecnico nasconde la sottomissione degli individui a dei fenomeni che s’impongono su di loro, rendendoli quotidianamente dipendenti dalle nuove tecnologie e dalle soddisfazioni compensatorie che garantiscono.
Nella scienza, la visione progressista della storia si culla ancora nell’idea che ogni avanzamento delle conoscenze sia intrinsecamente buono, anche quando nell’immediato è associato alle peggiori cose. È pertanto urgente comprendere che i danni indotti dalla frenesia scientifica sono spesso irreversibili. La tecnoscienza, principale responsabile della loro moltiplicazione, non potrà far niente (o molto poco) di fronte alle radiazioni, ai cicloni o ai tumori, che sono e restano delle catastrofi. Pretendere di risolverli con nuove soluzioni tecniche corrisponde a una fuga in avanti assurda. E l’idea di un’eventuale riappropriazione di questo insieme tecnologico, ci pare altrettanto improbabile quanto quella di trasformare un autogrill in un luogodi convivialità.
Il mito della Ricerca pubblica disegna l’immagine di una ricerca che obbedirebbe a criteri fondamentalmente diversi da quelli della ricerca privata. In realtà, le due sono ormai da lungo tempo inestricabili, tanto a livello di organizzazione e di finanziamento dei programmi, quanto per il tipo di indagini portate avanti. Entrambe partecipano allo stesso progetto di artificializzazione della vita e di meccanizzazione delle relazioni umane. Vediamo tutto ciò esplicitamente confermato, già da anni, nella ricerca pubblica, dove vengono spinti avanti i valori e le pratiche dei settori più “dinamici” dell’economia commerciale (start-up, piccole e medie imprese all’avanguardia, etc.).
Il mito della scienza pura è nato esattamente nel momento in cui l’intreccio tra l’industria e la scienza era definitivamente suggellato. Dai suoi inizi, la scienza moderna consiste essenzialmente nel produrre dei principi a partire dalle macchine: è una tecnoscienza. La circolazione delle tecniche e dei saperi rende oggi insensata la fede in una scienza come pura conoscenza, al fianco di una scienza detta “applicata”. Nelle scienze dure, i principi sono informulabili al di fuori di tutta l’apparecchiatura tecnologica che li sottende, presiede alle sperimentazioni e struttura il rapporto dei ricercatori con la realtà. Nelle scienze cosiddette umane, quei rari ricercatori che rifiutano di gestire e strumentalizzare le popolazioni non sono nulla di fronte ai tecnici del sociale e finiscono spesso per lavorare per loro.
Bisogna dunque rompere con il progetto delle scienze moderne, per come si è cristallizzato nel XVII secolo (e che è ancora oggi un riferimento insuperabile, malgrado le precauzioni talvolta prese). Esso consisteva nello stabilire una conoscenza totale e oggettiva dei fenomeni grazie alle matematiche e ad acquisirne il controllo tecnico immediatamente associato, per il più grande benessere dell’umanità.
I progressi della scienza hanno confermato l’inanità di questa religione sostitutiva: la scienza, per quanto avanzata sia, non raggiungerà mai l’oggettività assoluta e non fornirà risposte alle domande fondamentali dell’essere umano. Quanto al versante pratico, il XX secolo ha consacrato lo scacco del punto di vista dell’ingegnere: lungi dal servire la felicità e la libertà, la formidabile crescita di potere permessa dalla Ricerca ha soprattutto contribuito a dissolvere le società umane a colpi di assoggettamento e di dipendenza e a mettere in pericolo le condizioni minimali della nostra sopravvivenza. Svincolata da tutti i freni sociali e politici, la gestione quantitativa del mondo si rivela catastrofica. Continua a dare l’illusione del suo controllo solo estendendo sempre più lontano il campo di sperimentazione, le sue iniziative riduzioniste e le sue equazioni fuori luogo. Nel loro desiderio di onnipotenza e di manipolazione, i gestori continuano a fare “come se” questo controllo fosse reale, persistendo, tramite pratiche fraudolente e sperimentazioni pericolose, a far entrare di forza nei loro modelli meccanicistici tutto ciò che hanno rinunciato a comprendere. Fino ad arrivare a produrre una vita in campana di vetro, nella quale nessuno dispone più dei punti di riferimento che permettono di riflettere e giudicare.
Al contrario di tutti i progetti politici, di sinistra o di destra, che appoggiano ancora questo programma di controllo totale del vivente e non propongono che di calarcisi un po’ di più, noi pensiamo che il punto di partenza di ogni riflessione politica dovrebbe risiedere in questa duplice constatazione:
– il crollo sempre più rapido delle condizioni biologiche della nostra sopravvivenza (e, correlato a questo, il dominio della tecnoscienza sulla sopravvivenza e la riproduzione di tutti);
– la crescente impotenza degli esseri umani sul corso della propria esistenza, che svuota di sostanza i concetti di ragione e di libertà.
Partire da questa duplice constatazione significa cogliere le difficoltà nelle quali ci troviamo a lottare. Da una parte, la precarietà delle condizioni di vita che resta sullo sfondo di ogni discorso e progetto politico, serve sempre più a giustificare la passività e a distruggere le iniziative che vanno nel senso dell’autonomia. Dall’altra parte, la riduzione di tutto allo stato di ingranaggi delle strutture di produzione e di scambio ci ha fatto disimparare persino l’uso della parola per riflettere insieme. Crediamo che la ragione critica e la sensibilità, benché atrofizzate come lo sono oggi, ci rendano malgrado tutto irriducibili a del bestiame, delle merci o delle macchine. È facendo leva, tra le altre, su queste facoltà, che potremo mantenere un’indipendenza critica e coltivare delle riflessioni e dei saper fare non sottomessi agli Stati, alle industrie e alle loro merci. Prendersela con la Ricerca significa mettersi a fianco di tutto coloro che cercano di riappropriarsi delle proprie vite.
Molte cose sono da fare per condurre una simile offensiva.
– Prendere coscienza che ci sono già delle linee di frattura interne alla Ricerca, che il disagio legato alla vita nei laboratori, alle concezioni che vi sono coltivate e al sentimento di partecipare all’annientamento delle persone è molto reale e non è solamente un problema di carattere, di psicologia individuale.
– Approfondire l’analisi in ogni dominio da noi conosciuto, individuare, attualizzare e mettere in comune le critiche della scienza moderna, per rompere con la specializzazione e l’isolamento vigenti nei laboratori.
– Comprendere come dei movimenti di contestazione forti negli anni Settanta, come per esempio le lotte contro la ricerca militare o il nucleare, si ritrovano oggi completamente soppressi, sommersi sotto l’avanzata tecnologica.
– Diffondere questa critica della Ricerca e del mondo industriale ovunque sia ancora possibile portare una voce discordante e mettere fine, laddove si può, all’insopportabile impunità dell’oscurantismo scientista.
– Denunciare senza ambiguità tutte le procedure pseudo democratiche (forum ibridi, consultazioni di cittadini, sondaggi su internet…) che consistono nel far validare dalla maggioranza decisioni già prese e che, in questo modo, incorporano, neutralizzano e discreditano la critica.
– Essere, insomma, ovunque si diffonda la dittatura ordinaria della verità degli esperti, per ricordare di quali verità si tratti e quali usurpazioni e quale tipo di mondo essi difendano.
Facciamo appello a stabilire i legami ancora possibili tra tutte le persone che, siano esse provenienti o meno dall’ambiente scientifico, talvolta non si conoscono e intendono resistere nei fatti all’avanzata della tecnoscienza. La questione non è di riavvicinare la scienza al cittadino, ma di rompere la logica delle specializzazioni, di denunciare la menzogna della neutralità della ricerca e d’impedire alla scienza contemporanea di contribuire, giorno dopo giorno, a distruggere la politica rimpiazzandola con un affare tecnico. Se abbiamo a cuore la curiosità e il desiderio di conoscenza, pensiamo che sarebbe molto meglio applicarli nei confronti di ciò che ci sta succedendo.