Hip hop Marche Nord
Intervista redazionale alla scena hip hop del nord delle Marche
Esiste una scena hip hop delle Marche Nord? Come si è formata, quali sono i suoi riferimenti culturali, la sua originalità e i suoi progetti? A ottobre 2016, in occasione della freestyle battle Ready to Spit 4.0 presso lo Spazio pubblico autogestito Squola di Pergola, prima di lasciare spazio al “contrasto” sul palco abbiamo raccolto un’intervista collettiva con alcuni di questi moderni poeti in ottava rima. Tra loro Edoardo, Federico e Matthijs di Ready to Spit, Edoardo, Marco e Tommaso dei Lyrical Mass, Simone dei Freak Family e Luca Coccione. Auguriamo ai gruppi di continuare la loro collaborazione e di pubblicare il primo mixtape collettivo, ma anche di coinvolgere qualche voce femminile, di cui si avverte la mancanza.
Come avete cominciato a fare musica e come si è formato il vostro gruppo?
Federico: Io ho sempre suonato la chitarra e mi sono sempre piaciuti anche il rock e il metal. Poi una sera, era agosto dell’anno scorso, i Lyrical Mass avevano organizzato qui a Squola un concerto con i K-Maiuscola, un gruppo abbastanza grosso e io, un po’ per scherzo, ho fatto da dj. Lo scratch l’avevo già mezzo imparato da mio cugino e mi piaceva parecchio, però fino ad allora non mi ero mai messo alla consolle. Da quella sera è partito un po’ il tutto e piano piano mi sono sempre più interessato a quello che facevano i Lyrical Mass, anche se non sono nel loro gruppo il loro stile mi piace molto. Sempre da lì è nato il progetto Ready to Spit, che è stata una bella svolta nella zona per noi e per parecchi ragazzi. Io faccio l’università, ma per metà dell’anno scorso non sono andato a lezione perché c’era Ready to Spit da organizzare, è una cosa che mi ha preso anima e corpo.
Matthijs: Ready to Spit non è solo l’evento di freestyle, come questa sera, è un progetto più vasto che comprende diverse cose. Noi facciamo video, produciamo basi, organizziamo eventi, adesso stiamo costruendo uno studio di registrazione dove vorremmo produrre anche il primo Marche Nord mixtape. Insomma, ci stiamo dando da fare per qualcosa che ci piace, ovvero la musica.
Tommaso: Lyrical Mass nasce il 25 aprile del 2013. Qui a Squola, nel pomeriggio, avevamo il palco a disposizione e da lì è cominciata. Con Marco ed Edoardo avevamo già un gruppo dove io suonavo la batteria, loro il basso e la chitarra, però era arrivata una fase di stanca in cui ci stavamo accorgendo che in realtà anche se continuavamo a suonare, quello che però ascoltavamo e ci piaceva non era il rock, ma il rap. Quindi abbiamo cominciato a scrivere pezzi e qualche mese dopo abbiamo fatto un primo mixtape, con le basi americane prese da youtube, diciamo pure “ladrate”… Nel 2014 ne abbiamo fatto un altro, ISDC, ci siamo messi a organizzare qualche concertino e così s’è un po’ mossa la situazione. Lyrical Mass eravamo comunque solo noi tre che rappavamo, niente di più, niente di meno, poi è stato importante l’incontro con loro [Ready to Spit] che ci hanno messo un bell’impegno a radunare anche gli esponenti delle zone vicine. Abbiamo cominciato a beccarci tutti insieme ed è nata la prima gara di freestyle, che è venuta fuori una figata e allora ci siamo detti: bene continuiamo su questa strada!
Edoardo: Ora abbiamo iniziato a prendere le basi e scrivere per un nuovo disco, il terzo mixtape di Lyrical Mass. E intanto abbiamo anche finito di girare un video, manca solo il montaggio.
Potete descrivere una geografia del rap a livello locale? Dalla costa all’entroterra quali situazioni e gruppi sono presenti e in che relazioni siete tra voi?
Federico: Sulla costa queste cose ci sono un po’ di più, mentre qui a Pergola e un po’ in tutto l’entroterra non è che ci sia tantissimo giro, anche se qualcosa si muove e qualcosa stiamo cercando di costruire. A Cantiano c’è Coccione, che ha qualche anno più di noi altri ed è stato il primo a partire col rap da queste parti; a Fermignano c’è la Strani elementi crew, a Fossombrone c’è il Puma. E ancora gente ad Acqualagna, a Fabriano. Ci conosciamo un po’ tutti, certo la rivalità c’è ma è una rivalità positiva anche perché la maggior parte di noi tiene molto al proprio stile personale, a far qualcosa che esprima il proprio modo di essere. Poi a guardare in giro c’è però un po’ di tutto, magari trovi anche chi lo fa con l’idea di farci i soldi e su questo gli insulti piovono!
Simone: A Pesaro quella dell’hip hop è una cultura abbastanza viva, c’è proprio una “scuola”. Soprattutto ci sono i K-maiuscola che sono dei giganti in questa cultura. E anche il writing è parecchio diffuso, su una parte delle fogne che escono a cielo aperto vengono a disegnare writer di livello nazionale. Quindi posso dire che è parecchio sentita questa cosa. Come gruppi ci siamo noi [i Freak Family] e almeno altri due e per una città come Pesaro avere tre gruppi attivi, con già qualche anno e dei cd alle spalle non è da poco.
Questa cultura nasce dalla strada, dai ghetti metropolitani, come la vivete qui nella periferia diffusa del “ghetto sub-appenninico”?
Marco: Qui è più difficile. Qui ci devi avere più passione. Una grande città è piena di eventi, basta dare un’occhiata in giro e trovi dove andare, trovi l’artista internazionale che ti fa il concerto. Nella provincia ci devi mettere più sbattimento perché non hai tutto sotto casa. Devi avere più “fame” se vuoi andare avanti. Ma è proprio quella “fame” della provincia che ti spinge di più.
Come scrivete i vostri pezzi?
Marco: Noi in genere partiamo da un mood. Se trovi una base che ti piace, senti l’andamento che ha e vedi che pezzo ci puoi fare. Per quanto mi riguarda, quando scrivo lo faccio perché è una cosa mia, per dire quello che ho dentro, non penso alla persona che ascolterà. Se poi avviene l’incontro tra quello che esprimo e quello che anche gli altri sentono come cosa propria allora è fatta, ma io scrivo perché mi piace e mi va di farlo. L’attitudine nostra è questa: non facciamo pezzi perché poi ci possono portare in discoteca o queste robe qua…
Simone: A me a volte capita anche di scrivere senza avere fin dall’inizio un’idea troppo chiara di quello di cui sto parlando, solo andando avanti mi si forma una visione d’insieme e allora riesco a capire da dove mi sono venute certe cose. È una specie di flusso di coscienza, tipo lo stream of consciousness di Joyce. Ci può essere all’inizio una sola frase e a partire da lì esce fuori tutto.
Federico: Io non scrivo testi. Nell’hip hop oltre a chi scrive testi c’è anche chi fa le basi, chi fa la campionatura. Io e Matthijs siamo due chitarristi (anzi lui non è solo chitarrista è un polistrumentista, ha fatto pure il Conservatorio), quando troviamo un buon giro di accordi lo campioniamo, lo registriamo e da lì creiamo qualcosa. Inoltre ho tirato fuori parecchi campioni presi da vecchi cd, da cose che mi piaceva ascoltare, anche da musiche dei Police, per dire. Bastano solo un paio di secondi, che puoi trasformare in un loop continuo aggiungendoci qualcosa. Puoi “rubare” ovunque!
Marco: La cosa bella è che in qualsiasi altro genere musicale se si sente un giro di accordi che assomiglia a un’altra canzone, subito tutti a dire: “gliel’hai rubata”! Invece nell’hip hop rubi dove ti pare!
E per quanto riguarda i contenuti? Il rap è antifascista e antirazzista per definizione?
Marco: Certo. L’hip hop è nato così. È nato come una cosa che deve unire. C’è anche qualcuno che fa rap razzista, ma sta relegato in un angolino.
Simone: Il presupposto da cui si parte è quello dell’espressione libera. Il rapporto è tra te e il foglio e puoi scrivere di tutto, ma è anche vero che la cultura che muove le basi è una cultura di unione e di aggregazione, non una cultura razzista, di esclusione.
Sul maschilismo e il sessismo (penso a certi video e a certi contenuti di rapper nordamericani), come la pensate?
Federico: Quello è un altro mondo. Nel nostro ambiente queste cose non hanno proprio senso.
Che musica ascoltate di solito e quali altri artisti italiani e internazionali vi sono di ispirazione?
Edoardo: Posso dire che non siamo i tipi che ascoltano solo rap, io tuttora ascolto anche metal. Noi siamo partiti con un gruppo in cui suonavamo rock, sul palco più o meno siamo sempre stati insieme e abbiamo ascoltato insieme tanta musica di diversi generi. A partire anche dai gruppi più classici come Doors o Black Sabbath, siamo poi andati avanti con tanto rock, fino a che a un certo punto è arrivato l’hip hop, con Neffa e altri artisti.
Gruppi della prima scena hip hop italiana, come Onda Rossa Posse, Lou X, Isola Posse All Stars e tanti altri che spesso nascevano in centri sociali come questo di Pergola dove voi in qualche modo siete arrivati dopo (anche per un fatto banalmente anagrafico), sono ancora dei riferimenti per il vostro mondo?
Edoardo: Sì, certo, quella è la base.
Simone: Se non conosci quello sei proprio denigrato anche dal resto del nostro giro, certi riferimenti li devi conoscere.
Marco: Secondo me fino a qualche anno fa quando partivi ad ascoltare hip hop magari iniziavi dai Sangue Misto dei primi anni Novanta, adesso con tutta la roba che c’è in giro chi si affaccia a questa musica è difficile che parta proprio dalle origini.
Simone: Però puoi fare il viaggio a ritroso. Io per esempio sono partito ascoltando Fabri Fibra nel 2006 e quello che c’era stato prima di lui l’ho scoperto in un secondo momento. Fino ad arrivare a Batti il tuo tempo. Oggi in fondo non è difficile farsi una cultura in questo ambiente, anche solo girando su youtube, non è più come prima quando la gente doveva andarsi a cercare i dischi nelle fiere o nei negozietti. Altra cosa che ho fatto all’inizio è stato ascoltare e tradurre i pezzi rap americani, mi è servito molto per capire le pause e gli schemi metrici.
Vi piacerebbe essere scritturati da una major, avere successo e vendere tanti dischi?
Federico: Sì. Io ti parlo spontaneamente. Come tanti altri qui dentro, siamo cresciuti da bambini senza soldi e con tanti sogni, penso che chiunque abbia il desiderio di svoltare e di diventare qualcuno un giorno. Vorrebbe dire che quello che fai, che quello che ti piace fare, ti riesce bene e viene apprezzato.
Per avere successo partecipereste anche alle selezioni di programmi televisivi come The Voice o X Factor?
Federico: No. Zero. Ci devi mettere il sangue, poi se diventi famoso è solo perché te lo sei guadagnato un pezzo alla volta.
Simone: Per noi conta il successo che hai strappato con le tue forze, il fatto di essere sempre in contatto con altri rapper, di andare ai live, alle battles: il riconoscimento più prezioso te lo danno le altre persone che fanno le stesse cose che fai tu. Quando uno che spacca ti fa i complimenti, quelli sì che valgono qualcosa, non quelli di Álvaro Soler a X Factor!
L’obiettivo del vostro fare musica è solo per una soddisfazione individuale, per il successo personale, oppure sperate che la vostra musica possa contribuire a una trasformazione collettiva?
Federico: Penso che oggi il rap si sia un pochino allontanato da un contesto puramente politicizzato, forse perché è proprio la mia generazione ad essere distaccata dalla politica, o almeno da certa politica. Se ne parla di meno nei termini in cui ne potevano parlare i gruppi degli anni Novanta e, se questa è la situazione, il rap in fondo racconta quello che viviamo. Ma è anche vero che raccontare la vita quotidiana, raccontare le storie che viviamo è fare naturalmente “politica”. E poi anche solo il fatto che noi frequentiamo e ci sentiamo a casa in un posto come questo [lo spazio Squola], che non è solo un palco su cui rappare ma in cui entra in gioco tutta un’altra serie di discorsi, è indicativo di come la vediamo. Questo è un contesto che da subito ci ha saputo ascoltare, come noi abbiamo da subito condiviso il concetto di base, che è l’autogestione.
Marco: Il rap di adesso, come genere, è forse meno impegnato socialmente. Ma con l’attitudine che abbiamo tutti noi, sicuramente non andiamo sul foglio a scrivere cazzate. Nessuno di noi usa contenuti stupidi: questo è certo.
Edoardo: Anche il fatto di aver qualcosa da dire e di poterlo dire senza freni, senza nessuno che ti impone niente, è una forma di libertà che possiamo anche considerare, tra virgolette, una forma di ribellione a tutto quello che invece ci viene imposto fuori.
[Arriva Luca Coccione, special guest della serata]
Luca, puoi raccontare come e quando hai cominciato a fare rap?
Luca: Il primo gruppo che ho avuto, nel 2009, è stata la Cantiano Bastard Sound. Eravamo proprio dei bastardi di Cantiano, non ci calcolava nessuno, ma eravamo quello che ancora non c’era. Gli altri due erano dei chitarristi metal, mentre io sono partito subito col rap. Anzi, a dire la verità, la prima cosa che ho fatto è stata con la banda del paese: mancavano degli strumenti e allora io ho preso il clarinetto di quando babbo era piccolo e mi ci sono messo, la metà delle note le steccavo ma è stata anche quella un’esperienza, perché la musica mi ha sempre preso bene.
Con la Cantiano Bastard Sound si era creata una bella situazione, abbiamo fatto il primo disco nel 2011, abbiamo cantato in giro dappertutto e venduto un migliaio di copie. Io conoscevo un discografico da cui prendevo delle cover band per degli eventi che organizzavo con un’associazione benefica e un giorno, un po’ per scherzo, gli ho chiesto se poteva far girare un po’ anche noi. Mamma mia! Da lì ci siamo fatti almeno un’ottantina di serate, alcune, le più grosse, organizzate proprio da questo tipo, siamo andati anche alla notte rosa di Porto Recanati. Dopo però la devi portare avanti ed è difficile ragionare con tre teste su un progetto comune. Alla fine gli altri due ragazzi hanno preso altre strade, ora uno fa il tatuatore a Barcellona, l’altro non so che fine abbia fatto.
Quindi come gruppo abbiamo smesso. Dopo tre anni io ho rifatto un disco da solo e per fortuna ho incontrato loro [gli altri rapper presenti]. In una realtà piccola, dove siamo in pochi, è importante spalleggiarsi un po’. Diversi ragazzi più giovani, che hanno incominciato dopo di me, avranno visto la faccia mia sul palco e si saranno detti: “io che ho meno di lui?”. E hanno ragione! Perché fanno davvero delle robe bellissime e conta molto anche il modo in cui le sanno fanno. Perché l’importante è il modo in cui uno la storia sua te la viene a raccontare: se il narratore non ha l’impatto giusto non lo stai ad ascoltare nemmeno due minuti.
Quali modelli di riferimento avevi quando hai iniziato?
Luca: Io non avevo proprio niente. A Cantiano non avevo neanche internet, l’America non sapevo nemmeno che era, a parte Eminem o i pezzi che ti dava Mtv. Di rap italiano ascoltavo quello che passava, principalmente gli Articolo 31. Poi quando sono andato a scuola a Gubbio mi s’è aperto qualche spiraglio perché lì arrivava l’influenza da Perugia, che musicalmente era un po’ più avanti. Quello che mi spingeva era la voglia di dire la mia, sapere che su quel palco ci potevo anche stare e mettermi in gioco per primo con me stesso.
Con la mia tigna a un certo punto mi sono presentato da Mezzolani di Cagli, in arte Mesh, lui è stato il pioniere dell’hip hop in questa zona. Ai suoi tempi girava con Fibra; Fibra gli ha insegnato a far le rime e lui gli ha insegnato a fare i murales. Erano due ragazzetti di quindici anni, dopo Fibra ha preso la sua strada. Mezzolani andava a registrare a Urbino da Michele Angelini, in arte Lamadama, che aveva lavorato con gli Articolo 31 a Milano. Una sera l’ho incontrato e gli ho proposto se cantava i miei testi, perché io scrivevo ma ancora non cantavo. Lui giustamente mi ha detto: “no, te li devi cantare te”. Da lì è cominciata…
Andresti alle selezioni di X Factor?
Luca: Guarda, stavo proprio in questi giorni riragionando su questa cosa, perché la segretaria dell’ufficio mio è più volte che mi dice che mi vuole iscrivere. Cioè, fino a qualche anno fa il rap lo tenevi solo col rap, adesso invece il rap, sdoganato da tutti questi programmi, lo vedi anche fatto dal ragazzino alla sagra della polenta. Per me è giusto mantenere il rap nel contesto suo, non lo puoi far ascoltare a duecento persone che stanno facendo cena e manco gliene frega niente! Non mi convince il successo ottenuto passando per un programma come X Factor, ma sto cercando di capire le ragioni di chi ci va, di gente che magari ha anni di esperienza e pensa di usare quel canale per farsi ascoltare da migliaia di persone.
Marco: Però se vai lì sei costretto a rendere il tuo rap più elementare, oltre che probabilmente a piegarti a certe esigenze commerciali che non sono tue. Se quelle migliaia di persone sono quelle che di solito ascoltano Álvaro Soler e tutte queste stronzate, è un pubblico che non ha un orecchio che ti può ascoltare e capire. Io, per dire, mi impegnerei molto di più a rappare qui che sul palco di X Factor, perché so che qui ad ascoltare ci stanno almeno venti persone che il rap lo fanno, lo scrivono, sarei più spronato a dare il massimo. Il rap è fatto di gavetta, se non l’hai fatta, se non hai un background solido ti si sgama subito, vedi Moreno, quello di Amici, è piaciuto alle ragazzine ma l’anno dopo ne arriva un altro e lui chi se lo ricorda più?!
Edoardo: E poi, quando io sono qui, la gente se vuole mi viene a sentire, se vado a X Factor sono io che mi propino alle persone e la cosa è ben diversa.
Quali progetti avete per il futuro? All’inizio avete accennato a un Marche Nord mixtape: esiste quindi una scena Marche Nord con una sua identità, un’originalità, qualcosa che vi accomuna e vi distingue da altre scene hip hop?
Matthijs: Una scena Marche Nord esiste e per certi versi è anche forte. Il progetto non è però semplice perché si tratta di mettere insieme e coordinare tante persone, beatmaker, mc e rapper della zona in un lavoro collettivo e orizzontale.
Federico: La potenzialità sicuramente c’è. Quando abbiamo creato Ready to Spit la nostra idea era proprio quella. Abbiamo detto: cazzo c’è anche una scena Marche Nord, che può dire qualcosa di diverso nella forma, nei contenuti, nell’appartenenza. Non è facile, ma dobbiamo stimolarla e costruirla insieme questa realtà.