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Lepardi freestyle (#6)

Leopardi freestyle
Di Redazione

Eccoci arrivati al n. 6 di Malamente, dopo un percorso di quasi due anni, con un paio di novità importanti. La prima riguarda il fatto che ci siamo “messi in regola” di fronte alla legge. Siamo entrati e usciti da quel postaccio che è il tribunale, abbiamo consegnato a un grigio funzionario qualche carta firmata e così da questo numero la rivista è ufficialmente registrata. Tanto dovevamo per non incorrere nel reato di “stampa clandestina” con tutti i guai che avrebbe comportato (eventuali denunce, multe, sequestri), perché così prevede la legge sulla stampa del 1948, ancora in vigore. La repubblica democratica non ha infatti cambiato la sostanza di molte leggi fasciste, comprese quelle sulla stampa che risalgono allo Statuto albertino del 1848, dove con sfacciata perentorietà un principio veniva affermato e negato nel giro di due battute: “la stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi”. Pubblicare un giornale, da allora, non è più un privilegio concesso dal sovrano, quello che il potere concede è la libertà di espressione, salvo poi reprimere quanti a suo dire ne abusano. Sempre del 1848 è la prima legge speciale sulla stampa, che introduce la figura del “gerente responsabile”, chiamato a rispondere di tutte le incriminazioni che avessero colpito il giornale. Oggi quel “gerente” è chiamato “direttore” e deve essere iscritto all’ordine dei giornalisti. Pur senza voler generalizzare possiamo dire di non provare particolare simpatia per questa categoria, ma abbiamo incontrato la disponibilità di un compagno, giornalista per caso, e lo ringraziamo per essersi assunto l’onere di registrarsi come “direttore” di Malamente.

La seconda novità è che siamo sempre più social. Malamente è una rivista di carta. L’avete sfogliata, letta e riletta, presa in prestito, regalata. Ce ne avete ordinate tante copie, magari l’avete trovata in qualche posto che frequentate. Il percorso che trasforma ogni numero dall’idea a qualcosa che si può tenere tra le mani è complesso e prezioso. Non potremmo desiderare niente di diverso: articoli, letture, approfondimenti vengono condivisi, discussi, elaborati e soprattutto vissuti, fino a trovare la loro forma di espressione sulla carta. Un materiale concreto e non volatile come vuole essere lo spazio di critica e di intervento della nostra rivista. Al tempo stesso però Malamente vuole essere più di un oggetto, da scaffale o da strada che sia. Vuole essere un luogo di incontro, condivisione e confronto; un terreno dove l’informazione può diventare azione e viceversa. Ma soprattutto uno spazio che superi i limiti della geografia per innescare nuove connessioni e complicità. Per questo, dopo un lungo confronto e – non nascondiamo – un po’ a malincuore, abbiamo scelto di dotarci di uno strumento in più. Un territorio immateriale, appunto, che con tutti i suoi limiti ci può dare la possibilità di entrare in contatto con i lettori in uno spazio virtuale che serva per organizzare incontri reali, per rilanciare più in là le storie delle lotte che raccontiamo e alle quali partecipiamo. Da qualche mese potete quindi leggerci anche su Facebook. Qui, nei mesi che separano l’uscita di un numero dall’altro, cerchiamo di mantenere acceso e vivace il dibattito intorno agli argomenti che ci stanno a cuore. Se da un lato il canale Twitter ci aiuta nella condivisione e nella copertura di notizie nel contingente, abbiamo immaginato la pagina Facebook come un luogo dove riflessioni e approfondimenti possano continuare a crescere e trovare nuovi stimoli aggregativi da trasportare poi dentro la rivista e soprattutto fuori. Immaginiamo la nostra pagina non come un punto d’approdo dove esaurire la potenza del dibattito che Malamente può offrire, ma come un luogo di passaggio dove ritrovarci in attesa del prossimo numero.

In questo numero partiamo dai territori colpiti dal terremoto. La storia è nota, anche a tanti nostri lettori e lettrici, ed è stato già detto molto. È tempo piuttosto di agire. Siamo tornati a leggere Giacomo Leopardi, più sovversivo di quanto le gabbie della critica vogliano far credere, per ricordarci che non è da poco che le cosiddette catastrofi scuotono prima ancora che gli edifici, le fondamenta della vita sociale. La storia che raccontiamo è iniziata a Bolognola, un piccolo paese dei Monti Sibillini e vorremmo che non si fermasse lì. Sempre muovendoci sulla schiena montuosa della nostra regione torniamo a Pergola dove si sono riuniti giovani artisti della scena hip hop locale, ascoltandoli capiamo che i provinciali hanno “tigna”, cioè tenacia da vendere e nessuna inferiorità rispetto ai cugini di città, anzi possono sorprendere con inediti freestyle. Centrale in questo numero è poi la riflessione sui diritti delle donne, sulle loro lotte e su quanto le istituzioni mediche siano il riflesso dei rapporti di forza tra i sessi e dentro la società. Alleghiamo alla rivista una pratica guida all’interruzione volontaria della gravidanza perché sentiamo che c’è nuovamente bisogno di fare anche informazione di base su questo diritto. Una veloce intervista presenta la realtà bolognese dello Spaccio popolare autogestito e poi il nostro chiodo fisso per le pagine rimosse della storia sociale ci porta sul terreno della diserzione e dell’antimilitarismo nel cruciale anno 1917 in provincia di Pesaro. Il rifiuto della servitù militare è una virtù da coltivare proprio oggi che troppi sedicenti compagni tifano per i bombardamenti russi su Aleppo o non comprendono il peso che l’apparato militare e industriale ha nelle scelte politiche del governo italiano. Infine una preziosa traduzione di un testo di Bertrand Louart sulla falegnameria ci propone di riflettere su quanto il lavoro manuale e creativo, con la libertà che ne è alla base, sia fondamentale per la società umana. Completa questo numero una recensione che speriamo piacerà ai nostri amici che abitano sulle Alpi occidentali, ma che può ispirare tante altre periferie geografiche e sociali. Si tratta della riedizione per i tipi delle edizioni Tabor di una storia delle rivolte occitane, eresie potenti che ancora risuonano nella pancia dell’Europa tecnocratica di oggi.

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